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pre… La speculazione estetica nella poesia di Vincenzo Rossi, di Imperia Tognacci, pag

pesare il senso della sofferenza. Forse nemmeno lui ci crede, così che preferisce affidare il suo pensiero totalmente in inglese, non a tutti comprensibile (Poesia 23, Drawing the end). La mente, si sa, corre veloce, annulla tempi e distanze, decostruisce e ricostruisce a proprio desiderio, fin quando non si prenda consapevolezza delle proprie illusioni e poi riprende a sognare.

Il Poeta dentro di sé tiene a freno i suoi “demoni”, vuole cantare della vita degli altri. Così, dopo la prima metà del percorso poetico, aggiunge sapore in versione parzialmente romanesca, alla maniera del mordente Trilussa, con le frecciatine al Potere e al malcostume, per esempio nel “fammi grattare” (Poesia 43). Ma è molto tenero nell’abbandono ai sentimenti intimi, così: “Quando le mani tremano, / senti ogni battito del cuore, / i pensieri non si sentono. / Ecco, quello è amore.” (Poesia 54). Ricorda il genitore per dirgli “ancora, ti voglio bene, papà.” (Poesia 55); volge un pensiero ai caduti in guerra; eleva un inno all’arte nelle sue molteplici espressioni; e riesce a spogliare il tragico dei fatti di cronaca nera con toni leggeri.

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Carlo Trimarchi lo vediamo crescere sotto i nostri occhi attraverso la lettura. Usa frequente la ripetizione nelle diverse forme retoriche; a volte usa la rima (baciata, alternata, interna); generalmente scrive poesie di ampio respiro, metrica a organetto. Spiega: “Leggendo capirai, caro lettore, / che col passare del tempo, / v’è stata un’evoluzione. / Nella scrittura… In quella che sento.” (Poesia 72, eponima). Così sperimenta la composizione geometrica con la forma piramidale di un albero (Poesia 69); e, congedandosi, compone un tautogramma, consistente in parole che iniziano tutte con la stessa lettera. In chiusura abbiamo pagine destinate a quattro indirizzi del web che invitano ad alcune sue riflessioni, basti prendere a caso un titolo qualunque.

Tito Cauchi

IMPERIA TOGNACCI

VOLLI, E VOLLI SEMPRE… La speculazione estetica e simbolica nella poesia di Vincenzo Rossi

Postfazione di Francesco D’Episcopo; Genesi Editrice, 2021, pagg. 84, € 15,00

Un saggio agile, incentrato solo su alcune delle tante opere poetiche di Vincenzo Rossi (Cerro al Volturno, 7 giugno 1924 – ivi, 6 novembre 2013), limitato, in particolare, a I giorni dell’anima (1995) e Respiro dell’Erba/Voce delle Rocce (2001). I giorni dell’anima, è vero, racchiude ben cinque precedenti lavori del poeta molisano, ma l’investigazione risulta sempre parziale, sia perché non abbraccia tutta la poesia, sia perché ignora completamente la prosa. Vincenzo Rossi è poeta narrativo ed egli stesso riconosceva che nei suoi romanzi esiste più poesia che nei suoi stessi versi: “sono convinto che in molte pagine della mia narrativa c’è poesia più alta di quella che ho espresso nei versi”, confessava, in una intervista, ad Amerigo Iannacone.

Molti i temi cantati da Rossi, anche se tutti ancorati al mondo agricolo-pastorale e ai monti del suo Molise, sicché potremmo definirlo un poeta e uno scrittore fermentato dalla ecologia. ”Nelle sue sillogi non c’è un filo conduttore – afferma la Tognacci -, ma una unità tematica divisa in nuclei: la memoria, l’amore per la terra e per tutte le creature, l’amore per la donna, il senso del mistero della vita e della morte, il tema del distacco”; e la “unità tematica” è proprio l’intimo trasporto verso la Natura.

Per Vincenzo Rossi la poesia è libertà e non soltanto dello spirito e gli esseri più vicini alla vera libertà sono gli animali; da ciò la loro difesa nel lottare contro tutti coloro che gli animali oltraggiano e uccidono (“detesto – scrive rivolgendosi a Garcia Lorca – il clamore delle tue corride”) e il circondarsi di loro, il considerarli come figli; i suoi cani Lola, Ercole, Garibaldi, per esempio, vengono assunti a veri protagonisti dei suoi romanzi, dando a essi la parola, gli atteggiamenti, i pensieri, le meditazioni che sono prerogativa dell’uomo. Siamo in presenza, cioè, di ciò che la Tognacci definisce giustamente antropomorfismo.

Negli ultimi anni, Vincenzo Rossi s’era praticamente asserragliato nella sua casa di Cerro al Volturno, quasi ritornando all’origine, a quando, fanciullo, aveva vissuto portando al pascolo gli animali; ma poi ha studiato, è stato per anni a contatto con gli allievi, ha frequentato città, ha partecipato alle lotte per rendere più giusto e civile il consorzio umano, con gli scritti e l’azione, “convinto che la poesia e l’arte debbano orientare positivamente l’uomo nel magma degli attuali eventi e nei rapidi cambiamenti della vita sociale” .

Sebbene, come afferma la Tognacci, Rossi non sia “ascrivibile a nessuna corrente letteraria”, innegabile in lui è l’ascendenza dannunziana: “Quale fiume/mi porta stasera belati/tra macchie di giunchi/muggiti…”; “Ho risentito le tortore/nel bosco di tigli colorato/dai venti dell’aurora/e un’altra pietra scendere/sulle mie curve spalle” . Inutile nasconderlo: è lo stesso virente canto, quasi lo steso panico, anche se la Tognacci non è d’accordo.

Quello del Rossi è un invito continuo “a rallentare i ritmi frenetici causati anche dal progresso

tecnologico, che offre rapidamente cose nuove ” quanto effimere e “con la sua vita -conclude la Tognacci – e coi suoi scritti, ci ha dimostrato che è necessario crearsi momenti di silenzio per mettersi in ascolto della nostra storia personale”, e, in ciò, lontano certamente dal D’Annunzio, il quale ha sempre cercato di vivere sopra le righe.

Domenico Defelice

CARLO TRIMARCHI

UN TITOLO QUALUNQUE

Grafica di copertina e Nota introduttiva dello stesso Autore. Il Convivio Editore, 2021, pagg. 96, € 12,00

Una raccolta di versi, o di prosa? Tutti e due gli aspetti, diremmo.

Abbiamo avuto il piacere di conoscere il giovane Carlo Trimarchi, di chiacchierare un po’ con lui e con lui anche discutere via e-mail su temi e aspetti presenti in questa silloge. In più: sulle pagine di Pomezia-Notizie gli abbiamo pubblicato qualche elaborato – presenti, in questa raccolta: “Aspettando”, “Auguri mamma”, “Muri di cemento”, “Disperso”; espunta, invece, “La banda de cojoni” e non ne sappiamo il motivo, forse perché, per ben sei volte, vi appare, oltre che nel titolo, il termine efficace quanto schietto per indicare un gruppo di cretini. Noi, la poesia, l’avremmo accolta come specchio del suo carattere deciso e solare, che non si lascia irretire e abbindolare, e perché la voce è entrata ormai da tempo nel linguaggio corrente, colorita ed efficace per indicare l’irritazione, l’esasperazione e la voglia irrefrenabile di allontanare qualcuno, toglierselo dai piedi, perché persona imbecille, minchione, coglionazzo (Dizionario di Italiano, La Biblioteca di Repubblica). Carattere, quello di Carlo Trimarchi che, in fin dei conti, apprezziamo, perché è giusto che si rimanga rigidi e inossidabili finché non ci sia una vera e inconfutabile ragione a farlo mutare. Per adesso, egli è talmente sicuro del suo pensiero da non seguire consigli, come la nostra correzione di “per dirle” – il riferimento è a donna - al verso decimo di “Aspettando”, al posto del “per dirgli”, da lui confermato a pagina 26 di questa raccolta; o come “Ello” – inizio verso nono di “Muri di cemento”, da noi corretto con “Egli”, ma da lui confermato a pagina 23, con l’idea – come egli stesso afferma nella Nota introduttiva - che “Ello” e simili “sono lussi che l’autore (…) si possa concedere per aggiungere sfumature e suoni che rendano tutta l’opera più confortevole”. “Purtroppo – egli ci confessava il 9 maggio 2016 – sono cocciuto, lo ammetto. Normalmente faccio le cose a modo mio, mettendoci cuore e anima, sperando che piacciano.” “…la forma va curata, ed io non sono abbastanza disposto”.

Insomma, un libro casino - che, si sa, significa caos -, specchio, emblema del mondo specialmente attuale: “ed in mezzo a tutto sto casino ci sei tu – ci avverte il poeta -, che vieni sovrastato dalla folla e che vieni schiacciato dal peso dell’ignoranza” .

Né ci son metri che egli rispetti e non sembra neppure che vada alla ricerca della rima; il suo essendo un ritmo cantante, spontaneo, da canzone leggera e di protesta, ma fluido, sciolto, orecchiabile, alla Fabrizio De André più che alla Bob Dylan. Già, la musica, che pur non avendo parole, più della parola parla e dice; “la musica ti capisce senza farti domande – scrive Trimarchi -, la musica non ha bisogno di niente, se non che tu chiuda gli occhi e la stia a sentire” .

Tanti i temi e, a volte, mettono i brividi per la crudezza con la quale vengono raccontati.

C’è, prima di tutti, l’amore, una vera sorpresa, perché narrato senza neppure una volgarità; c’è il miscuglio della lingua e del dialetto; c’è la solitudine in cui son costretti a vivere coloro che vogliono primeggiare, destinati a non avere mai alcuno che li affianchi nel loro difficile cammino; ci sono i fantasmi che assillano la nostra era tecnologica e che hanno “origine nella nostra mente” incapace a star dietro ai tanti e repentini cambiamenti; c’è il desiderio di un mondo che viva nell’onestà e nella chiarezza: un autentico sogno, ma è nel rincorrere una tale utopia che, pur sapendoli frutto solo dell’inconscio, il poeta guarda con ammirazione ai Titani ed ad altre figure del genere, “esseri perfetti” del mondo dei miti, della fantasia, della fantascienza, dei cartoni animati e dei fumetti, ai quali si richiamano molti degli elaborati; c’è l’incomprensione, c’è l’incomunicabilità, sebbene si viva, ormai tutti connessi, e ce la falsa libertà.

Un libro che si apprezza solo se non si sta dietro alla grammatica, all’analisi logica, alla sintassi, alla metrica, alle tante regole che incatenano e imbrigliano. Se non è Futurismo – e non lo è -, un poco gli somiglia; Filippo Tommaso Marinetti, infatti, affermava che il poeta “ha il dovere di esprimere se stesso e di rappresentare la realtà come la vede e la sente, con tutta sincerità, con il calore ed il valore dell’anima sua”.

Trimarchi afferma che, a suo parere, “La poesia più importante”, anzi la più “stupenda”, sia “Le ombre nel buio”. Sarà; il brano, però, che noi ap-

prezziamo di più è “Aspettando”, per intensità, pathos, ritmo, racconto e con un finale che può avere più sbocchi: una vera e propria canzone (se già non lo sia) e con tanto di ritornello (“È triste e non può farne a meno,/si è fatta male dopo ogni caduta” .

Domenico Defelice

GIANNICOLA CECCAROSSI

A MANCARE È IL TUO CANTO

Ibiskos Ulivieri Editore, 2021, Pagg 43, € 12,00

“Uno splendido canto dell’Assenza è questo breve fascio di liriche di Giannicola Ceccarossi. Un dolcissimo inno intriso di mestizia e di nostalgia. Elevato a una figura venerata e rimpianta quant’altre mai: la madre”. Così introduce il florilegio di poesie Marina Caracciolo.

Quanto è importante una madre e quanto peso ha la sua assenza nella vita di un figlio?

La risposta è tra i delicati versi del poeta torinese, la cui sensibilità risulta particolarmente profonda in questo suo ultimo lavoro.

Alda Merini scriveva: “La sensibilità non è donna, la sensibilità è umana. Quando la trovi in un uomo diventa poesia”. E questo è il caso di Giannicola, che abbiamo imparato ad apprezzare per la sua sincerità appassionata verso l’arte, verso la donna e verso la poesia. È un uomo che è stato amato dai suoi genitori, in particolare dalla mamma Giovanna, dalla moglie Patrizia e questo sentimento trasferito nella poesia diviene simbolo positivo di ciò che deve essere un compagno e un figlio. In questo momento così particolarmente negativo per le relazioni affettive, in cui le donne divengono oggetti da schiavizzare o uccidere, i suoi versi risuonano come un grido delicato: “Eri tu quel cielo immacolato/che azzurrava il cuore! […] Tu sei fumido ruscello/che nello sguardo mi coglie”

Grande è il vuoto che la mamma ha lasciato nella sua vita, tanto che il poeta aspetta di poterla rincontrare ed è nel silenzio che attende. Il silenzio che tutto placa, che tutto smorza e che riveste di sacralità: “Nell’aria ho lasciato i rimpianti/e nessuno riaprirà il silenzio […] A darmi risposte/ è solo il silenzio/ La tua voce/ s’è dispersa nelle pietraie”.

Lo stile è elegante, la punteggiatura è assente, non vi sono titoli a introdurre le liriche; il ritmo delle parole crea un verso sfumato dalla nostalgia, nella quale il Ceccarossi si abbandona.

Ascoltavo le tue favole ma tanto m’ha preso la morte che nulla più è nel cuore, purtroppo la morte ha portato via per sempre Giovanna e al poeta non rimane altro che vivere l’illusione di ritrovarla ancora.

Manuela Mazzola

MARIA TERESA INFANTE

EXTREMA RATIO

Genesi Editice, 2021, Pagg 105, € 11,00

Extrema Ratio, espressione latina che vuol dire ultima soluzione, estremo rimedio a cui si ricorre quando non vi sono altre vie d’uscita. È forse l’ultima soluzione, la più dolorosa.

La dedica iniziale è alla vita che fugge senza sapere dove andare. Sembra essere un colloquio con la vita che non è sempre stata all’altezza delle aspettative. La cosa certa, per l’autrice, è che la poesia è la sua verità: “Questa sera non scriverò poesie mentirò per lasciarvi gioire. […] Le maschere non hanno volto/ quando scomponi gli occhi/ e più non sai dell’abito che indosso […] Il nostro inferno è dentro/fuori è festa”.

Appare chiaro che Maria Teresa rimproveri alla vita tante mancanze, tante assenze: “Pensavi che le spalle-mie/ potessero sopportare più del dovuto/ e non mi vedevi quando ero nuda/ davvero”.

Dubbi e domande poste a una compagna silenziosa: “Nel pieno delle mie facoltà/ barattai la mente/ con una spremuta di cuore/ al limone. […] Ci sono stata in quella casa in cui le geografie cambiavano direzione e il giorno non sapeva da che parte entrare. Io che sedevo ogni volta su quella sedia rimasta vuota fino al mio ritorno”.

La poetessa propone una visione destrutturata della realtà che lei stessa ha vissuto e che vive tuttora. Discorsi che paiono illogici, ma che hanno una loro linearità poetica, un dialogo con la vita, con se stessa, con quella che era e non è più, con quella che è oggi e non sarà più domani. Un gioco affascinante di versi che vibrano nell’unicità di un atto poetico.

“La poesia di Maria Teresa Infante consiste in una ricognizione di carattere sostanzialmente psicologico delle possibilità denotative e interpretative della parola poetica. Tra i versi affiorano principalmente paesaggi mentali, percorsi logici e ancora di più camminamenti impervi e analogici, arditi collegamenti e scontate rime, con inopinate assonanze e calamitate armonie”, precisa, infatti, Sandro Gros-Pietro nella prefazione.

Il florilegio ha vinto il premio I Murazzi per l’inedito 2020, Dignità di Stampa Poesia e nella motivazione la giuria ha scritto che è un tentativo

pienamente riuscito di dimostrazione delle possibilità esplorative della poesia borderline lungo una rotta di interpretazione delle connessioni tra la psicologia della mente umana e la realtà delle cose.

Manuela Mazzola

l’atto poetico, I fili della rete digitale si intrecciano nella molteplice comunicazione, convergendo verso la luce della poesia, che è al centro dell’immagine di copertina, opera di Beatrice Squeglia.

Manuela Mazzola

A cura di VANNA CORVESE

INVISIBILI FILI

L’Aperia Società Editrice, 2021, Pagg. 79

Il volume nasce da un laboratorio di lettura e scrittura creativa, iniziato nel 2006 nella sezione casertana della Associazione AUSER, da un’idea di Vanna Corvese, la quale ha curato anche questa raccolta. Gli autori che ne fanno parte sono: Silvana Cefarelli, Anna Cimicata, Vanna Corvese, Salvatore D’Ambrosio, Maria Luisa De Camillis, Anna Maria Guarriello, Pasquale Lombardi, Tiberio Madonna, Rosanna Marina Russo e Marina Sirianni.

Le poesie sono state composte durante la pandemia, infatti, nella premessa la Corvese scrive: “I fili invisibili della poesia si sono intrecciati negli incontri virtuali. I messaggi online hanno formato una rete che ci ha protetti dallo sconforto e dalla paura, rinsaldando la nostra amicizia e nello stesso tempo rispecchiando, con varietà di registri e di temi, la gioia, la tristezza e l’attesa delle lunghe giornate di clausura”.

Durante la prima chiusura, la Corvese componeva Incontri virtuali: “Nel silenzio/ ho per compagna la malinconia./ Poi riprendo la vita/ e lentamente leggo una poesia,/ mentre il gatto di casa/ sta in grembo, addormentato./ Forse sogna felici inseguimenti/ e un incontro sul prato”.

Mentre Salvatore D’Ambrosio scriveva la poesia Senza titolo 2: “Che farò/ Quando tutti i semi della terra/saranno inariditi/ E nessun albero/ Tenderà più rami/verso l’alto/ E il grembo della terra freddo/Partorirà solo pietre?/ Si ricomincerà/ Forse”.

I versi raccontano di una solitudine costretta dalle circostanze e il conseguente sconforto dovuto dalle impressionanti notizie e immagini che arrivavano nelle case per le innumerevoli morti. Vite che cadevano come foglie dagli alberi, senza conforto, senza l’abbraccio di un familiare; la perdita del ritmo tra il sonno e la veglia; stati di ansia dovuti all’impossibilità di uscire, ma anche il senso di precarietà, l’attesa di un cambiamento che si prorogava nel tempo e la preoccupazione per il futuro di tutto il mondo.

E, così, i poeti dell’associazione AUSER si sono stretti nella loro amicizia e hanno reagito attraverso

REGALATEVI E REGALATE PER NATALE

È in libreria, ma può essere acquistato anche su internet: “…Nell’immediato si potrebbe pensare ad un catalogo d’arte. Ed in parte lo è! Ma, sfogliandone le patinate pagine ci s’imbatte, invece, in qualcosa di completamente diverso. (…) possiamo leggere uno studio approfondito che il Defelice ha, semplicemente, chiamato: “Pittore dell’anima”. Ripercorrendo la formazione dello stesso (…) giunge ad avocarne le trame più intime di un “concreto artista del pennello” che lascerà il segno nel mondo dell’arte pittorica italiana ed oltre”

Marcello Falletti di Villafalletto

Su: L’Eracliano, aprile-giugno 2021

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