Leonardo Sciascia - Gli zii di Sicilia

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LEONARDO SCIASCIA GLI ZII DI SICILIA Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio. Mi affacciai alla finestra. Gridò "arrivano". Di corsa infilai le scale, mia madre mi gridò dietro qualcosa. Nella strada che abbagliava di sole non c'era un cane. Filippo stava mezzo nascosto nel portone della casa di fronte. Mi raccontò che in piazza stavano il podestà l'arciprete e il maresciallo, aspettavano gli americani, un contadino aveva portato la notizia che arrivavano, erano al ponte del Canalotto. In piazza c'erano invece due tedeschi: avevano spiegata per terra una carta e uno di loro vi segnava con la matita una strada, pronunciava un nome e alzava gli occhi verso il maresciallo che diceva "sì, va bene". Poi ripiegarono la carta e andarono verso la chiesa, sotto il portico stava un'automobile coperta di rami di mandorlo. Tirarono fuori una forma di pane, del prosciutto. Chiesero vino. Il maresciallo mandò un carabiniere a prenderne un fiasco dalla casa dell'arciprete. Stavano sulle spine con quei due tedeschi che mangiavano tranquilli, avevano in corpo paura e impazienza: tanta da decidere l'arciprete a mollare un fiasco di vino. I tedeschi mangiarono, scolarono il fiasco, accesero i sigari. Partirono senza un cenno di saluto. Il maresciallO si accorse allora di noi due, ci gridò di andar via minacciando un calcio. Niente americani, dunque. Erano tedeschi, gli americani chi sa quando sarebbero arrivati. Per consolarci, ce ne andammo verso 1l clmltero; era un punto alto, si vedevano gli aeroplani a due code rovesciarsi sullo stradale di Montedoro, risalire nel cielo mentre lungo lo stradale si gonfiavano nere nuvole, poi sentivamo un rumore come di quartare che si rompessero. Restavano gli autocarri neri sulla strada, il silenzio si dilatava; e quelli a due code tornavano a pungerlo di scoppi. Era bello vedere come piombavano sulla strada, e subito alti nel cielo. A volte giravano bassi sopra di noi, e agitavamo le mani a salutare l'americano che credevamo stesse a guardarci. Ma quella sera stessa portarono in paese un carrettlere col ventre squarciato e un bambino dell'età nostra ferito a una coscia: avevano agitato le mani, e quello a due code giù a sventagliare mitraglia. Facevano del tiro a bcrsaglio, quelli a due code, sparavano anche sul grano abbicato, sui buoi che pascolavano tra le stoppie. L'indomani Filippo ed io andammo nella campagna dove il carret~lere era stato colpito, c'erano intorno bossoli grossi come quelli del calibro dodici di mio padre. Ce ne riempimmo le tasche. Tutta la campagna era nostra, silenzlosa e splendente. I contadmi non potevano uscire dal paese, c'erano i militi a bloccare le strade, noi prendevamo un vlottolo da capre, Cl portava a una cava di pletre e poi nella campagna aperta. Di frutti c'erano le mandorle dalla scorza verde e aspra, dentro bianche come latte, mandorle cagliate qui si chiamano; e le prugne maggioline che allappavano la bocca, verdi ancora e agre. Ne coglievamo quanto potevamo portarne, le commerciavamo poi con i soldati, ci davano in cambio le milit. Le milit erano la nostra grande risorsa, per tutto un anno furono una grande risorsa. Gli uomini fumavano di tutto in quel tempo; mio zio aveva provato i pampini di


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