Rivista Diffidare dalle Imitazioni nr.4

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IL LAVORO Credo che una riflessione vada fatta in modo attento. Una piccola ricostruzione storica, prima di tutto, che veda coinvolte le passate generazioni. Penso di non sbagliare nel definire quella nostra, la prima tra tutte, che osserva, vede, analizza il futuro in modo negativo e preoccupato. Intendo dire che vede il crescere, giorno dopo giorno, dei nostri figli che osserviamo vivere la loro vita convinti dell'incertezza e della precarietà che li sta colpendo e li colpirà, inevitabilmente, nel prossimo futuro. Allora questa riflessione merita di essere fatta partendo da un analisi storica delle generazioni passate. Asserendo che proprio le generazioni passate, in primo luogo quelle contadine, mettevano al mondo tanti figli con la convinzione concreta e determinata che proprio i loro figli, un giorno, avrebbero mantenuto, accudito i loro padri continuando nel lavoro della terra, nel portare avanti l'agricoltura e trovare, cosi, il sostentamento per tante persone, per tutti i familiari. Per cui più erano i figli e più questo futuro era garantito. Oggi, noi siamo una delle prime generazioni a non vedere un futuro per i nostri figli, figuriamoci se roseo. E questa penso sia la netta, enorme differenza con la quale dobbiamo inevitabilmente convivere ma credere in un cambiamento. Anzi dobbiamo necessariamente studiare alternative, cercare strade nuove, percorsi sempre più architettonicamente complessi. Ed i risultati fin ora ottenuti sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti. Tutto ciò genera stress, stati d'ansia, forti preoccupazioni. Lo vediamo giornalmente. Non vogliamo la sofferenza dei nostri figli, nessuno vorrebbe una strada facile ma nemmeno patire sofferenze indicibili. Al contrario vorremmo una società dove, almeno il lavoro, non fosse un problema. E rimanendo ancorati ad un discorso storico mi piacerebbe sottolineare come la rivoluzione industriale spostò grandi, numerose masse contadine dal sud verso il nord prospettando, proprio a queste, una sorta di Eldorado, di felicità assoluta, di benessere. Sperando in una vita più agiata si trasferirono famiglie, paesi interi abbandonando le campagne per affollare quelle che sarebbero diventate, di li a poco, le città, quegli agglomerati urbani dove ambientarsi risultò difficile ed a volte impossibile.


Vorrei sottolineare: è certo che le masse contadine vengono spostate e convinte alle migrazioni come fa piacere alla politica. Se pensiamo che adesso si vorrebbero, con la forte crisi dell'agricoltura corrispondente ad una crisi sistemica spaventosa, svuotare le città e rimandare la gente bisognosa di lavoro ed affamata di nuovo a riempire le campagne abbiamo chiara l'idea di come la malafede politica raggiunga livelli insopportabili. Continuando vorrei, inoltre, fare una riflessione sulla tecnologia, il progresso tecnologico che ha portato grandi vantaggi agli imprenditori nella velocità, nel compiersi del ciclo industriale dimezzato nella tempistica, nell'impiego di risorse. Ma tutto questo non ha portato benefici sostanziali, economici nei lavoratori. Sicuramente no. Fatto 100 il guadagno da trarre per il progresso tecnologico, cosa, quanto è stato ricollocato a favore dei lavoratori? Poco o nulla. Mentre credo di poter sostenere che la tecnologia che avanza sia una vittoria sociale, sociale davvero non solo appartenente ad una classe. Una sola classe. E' vero, dobbiamo riconoscere di aver passato un momento storico ed economico di benessere che, se da un lato ha migliorato le nostre possibilità ed aspettative di vita, da un altro, probabilmente, ha smorzato, offuscato, annebbiato le nostre iniziative, le nostra idee, la nostra voglia di guardare avanti. Una sorta di periodo dove la vita facile ci ha spento. Accade, storicamente accade. Adesso è difficile, in momenti di crisi economica e sociale, tornare indietro per ricollocarci a ridosso del confine di difficoltà. Sacrificio, dovere, parole che oggi sembrano lontane quando le pronunciamo davanti ai nostri figli. Ma loro, i ragazzi non ne hanno colpa e non gradisco nemmeno che, con superficialità ed approssimazione qualcuno possa etichettarli come “bamboccioni”. Dobbiamo riconoscere che alcuni lavori, anche i più umili, non raccolgono il favore e la disponibilità di ragazzi laureati che hanno, ovviamente, impegnato la propria vita nello studio e nel realizzare qualcosa che li possa collocare nella completezza vera e personale. Adesso gli stessi dovrebbero sentirsi dire: “... vai a coltivare la terra, vai a lavare i piatti, vai a fare un lavoro per il quale non hai studiano e non hai passione...”. Ci vuole, poi, a sostenere... “... vabbè ma in tempi di magra!!!...” per poi sostenere che la colpa è la loro..... E' difficile inutile negarlo. E' molto difficile. E poi come dimenticare l'invasione di genti straniere che credevano di trovare nel nostro paese un paradiso dove riproporre le proprie radici. Mentre al contrario vanno a riempire quella sacca di disoccupazione o sotto occupazione quando non si parla, addirittura, di sfruttamento vero e proprio. E la fuga all'estero dei ragazzi, dei cervelli più meritevoli che non trovano spazio a causa dei tagli continui dei fondi nel settore dello sviluppo sociale che non attua politiche volte ad individuare una spinta forte verso la ricerca tecnologica. Questa cosiddetta fuga dei cervelli all'estero è sintomo di grande sconfitta per il nostro paese che viene privato di quelle potenzialità, oggi più che mai da intercettare, al fine di garantire un percorso tecnologico di alta definizione per tutti noi. Spendere risorse in modo sbagliato penso sia stato un atteggiamento, se non una volontà, dei governi passati e ribadito da quelli attuali.


Vorrei chiedere ma come si fa a concepire di costruire della fabbriche al sud?... facciamo un esempio a caso: le fabbriche di automobili per fare un ragionamento semplice ed ordinario. Fare macchine al sud significa: prendere il materiale, comprare la materia prima nel nord Europa, trasportarla a costi elevatissimi nel sud, costruire macchine per poi, alla fine della festa, riportarle al nord dove esiste un mercato, perchè al sud non c'è, perchè non sono vendibili per cui, riportarle al nord dove possano essere vendute. Tutto ciò non mi sembra ne logico ne conveniente. E poi, fatto da non dimenticare: se tutto ciò non funziona, cioè se tutto ciò provoca negatività di bilancio paga lo stato, interviene lo stato con salvataggi economici, con cassa integrazione. Cioè paghiamo noi, solo noi. Ma tutto questo può davvero sembrare conveniente? Pùò davvero sembrare una logica, seguire una logica economica? O, al contrario, diventa un contorsionismo antieconomico e sgradevole, stridente anche sotto l'aspetto umano e filosofico. Ma perchè, al contrario, non si può investire im modo serio, programmatico nell'agricoltura, perchè non investire nelle metodologie moderne, altamente moderne e tecnologiche nel settore dell'agricoltura, sfruttando l'area, il territorio altamente produttivo del nostro paese. Il clima che consente colture diverse ed uniche, invidiate in tutto il mondo. Rilanciare l'export che significherebbe dare nuova linfa, lanciarsi sui mercati emergenti o quelli più tradizionali per ricreare uno spiraglio economico dove inserirsi dopo aver perso troppo tempo ed essere rimasti indietro nel confronto con altri paesi. Per ritentare un coinvolgimento dei giovani in questo settore per creare degli agricoltori – manager in giacca e cravatta come avviene ormai da diversi anni in america. E così far lievitare e rigenerare una cultura ormai sull'orlo del collasso per lo svuotamento fisico delle campagne e il conseguente allontanamento dei valori di una storia contadina che è sempre stata fiore all'occhiello per il nostro paese. Ed ancora il settore del turismo. Organizzare una politica seria che invogli i giovani ad investire su se stessi come sulle proprie risorse al fine di sfruttare in senso buono, ovviamente, tutte le possibilità enormi di un paese che per tre quarti è bagnato dal mare. Come non vedere in questo vantaggio geografico opportunità di sviluppo e di crescita per il mezzogiorno? Come si fa a nascondersi, a celarsi dietro paraventi creati ad arte per non vedere nel nostro mare, nelle nostre coste, nelle nostre bellezze naturali una fonte inesauribile di opportunità. Non lo so. Ma sinceramente tutto questo mi sembra assurdo. Considerando anche che ci sono paesi del mediterraneo come la Grecia, la Tunisia che valorizzano siti archeologici importanti senz'altro ma che non raggiungono mai, mai il livello architettonico e culturale dei nostri. E lo dico per esperienza diretta, personale, aver visitato queste regioni dove si riescono a valorizzare


delle colonne, delle singole colonne o al contrario alcuni ritrovamenti direi insignificanti mentre noi lasciamo marcire posti talmente importanti che sono invidiati da tutto il mondo. Ed anche questo potrebbe fornire posti di lavoro, sinergie, contatti di rilevanza internazionale, rafforzare il turismo, che per antonomasia rappresenta un volano determinante per l'economia di un paese, specialmente il nostro. Ma, infine e concludendo, è triste, sarebbe triste pensare che si possa verificare il contrario di ciò che si è verificato nel secolo scorso dove i figli mantenevano i padri. Chissà saremo noi a mantenere i nostri figli, impossibilitati nel trovare un lavoro e semmai lo trovassero non avere le potenzialità e le caratteristiche economiche per diventare indipendenti. Comprarsi una casa, costituirsi una famiglia, costruirsi un futuro.


Il lavoro in una smart economy

Uno dei temi maggiormente dibattuto è quello del rilancio dell’economia anche attraverso la creazione di occupazione. Creare occupazione significa valorizzare le competenze ed impiegarle nel sistema economico che ha subito negli ultimi decenni una mutazione genetica importante, che divide e divarica. Professioni iperspecializzate da un lato e mansioni minime dall’altro sono lo specchio della disuguaglianza sempre più radicata tra chi detiene la cultura digitale e chi ne rimane ai margini. Tutte le grandi innovazioni hanno trasformato le professioni: i ferrovieri hanno preso il posto degli stallieri, i contadini sono diventati trasformatori, la classe media è stata incrementata dai tecnici, riducendo i lavori manuali. L’impostazione digitale , invece, elimina senza sostituire, senza creare lavori alternativi se non nei servizi alla persona, settore, tra l’altro, già in crisi. Fa riflettere la dichiarazione resa dal consigliere economico di Obama, Larry Summers il quale sostiene che la piena occupazione sarà raggiunta con posti di lavoro la cui specializzazione dipenderà dalla profondità della piscina dei ricchi che si è chiamati a pulire. L’affermazione riecheggia il tema della fine del lavoro di cui parlava Jeremy Rifkin già nel 1995 nel suo noto saggio La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-­‐mercato. Distribuire il reddito prodotto dall’economia dei robot non solo a poche persone rappresenta un problema di difficile soluzione. Mentre scrivo il mio pensiero va ai 140.000 lavoratori della Kodak soppiantati dai 13 dipendenti iniziali della Istagram nella gestione delle immagini. Questo scenario dovrebbe indurre a superare l’autoreferenzialità dell’università che tende a riprodurre le proprie cattedre, i propri indirizzi, i propri insegnamenti per orientarsi a un futuro di grande divaricazione professionale dove, però, con una nota di speranza, possono trovare spazio nuove professioni impiegate nei servizi (culturali, turistici, di assistenza) in paio con la ricerca dell’innovazione. E’ necessario ipotizzare e tentare una nuova formazione affinchè la fabbrica dei disoccupati non sia l’unica ad essere in attivo nell’economia nazionale. Occorre, inoltre, fare anche un salto culturale e rivedere


il concetto tradizionale di gerarchia nella dignità del lavoro. Non esiste una gerarchia nella dignità del lavoro: ogni occupazione è nobile, se assistita da impegno , serietà e senso di responsabilità. Non tutti debbono/possono trovare occupazione nel terziario, avanzato e non. Senza settore primario e manifattura non esiste benessere economico.

La smart economy non può essere programmata adottando misure assistenziali che sembrano creare occupazione solo per motivi elettorali (la nostra storia, anche non recente, dovrebbe dimostrare quanti disastri ha prodotto tale politica di governo). Il buonismo serve solo a creare disillusioni maggiori delle aspettative.

Antonella Giordano


10 Cose da non perdere a Parigi

1.Fotografare la Tour Eiffel dal Trocadero E’ sicuramente questo il punto migliore per godersi la vista della torre simbolo di Parigi. Tra una foto e l’altra, si può assistere alle performance degli artisti di strada che spesso scelgono questo luogo come palcoscenico per le loro esibizioni. Dopo il tramonto e fino all 1 di notte, la torre brilla a intermittenza per 5 minuti ogni ora: uno spettacolo da non perdere.

2.Salire a piedi la scalinata del Sacro Cuore

Una volta arrivati a Montmatre, è possibile prendere una funivia che porta in cima alla collina sulla quale sorge la basilica del Sacro Cuore. Il consiglio, però, è di salire a piedi la scalinata: sarà un po’ faticoso, ma la vista della città che diventa più nitida ad ogni gradino sarà impagabile.


3.Assaggiare la cucina francese

La Francia è famosa, tra le altre cose, per la sua cucina, amata e apprezzata in tutto il mondo. Se si capita a Parigi non si può non cenare in qualche ristorante tipicamente francese in cui si può assaggiare foie gras, escargot, creme brulee, l’anatra all’arancia e tante altre pietanze. Segnalo due ristoranti molto buoni: “Le petit chatelet” (si trova accanto alla famosa libreria Shakespeare&Co, nel quartiere Latino) e “Ribouldingue” (consigliato soprattutto a chi ama i piatti a base di interiora di animali, una delle specialità della cucina francese).


4.Fare shopping Parigi è una delle capitali della moda: non si può visitare Parigi senza fare qualche compera! I luoghi più famosi dove fare shopping sono gli Champs Elysees e le gallerie La Fayette. Se siete alla ricerca di affari, potete visitare il quartiere di Saint Denis, pieno di negozi che vendono all’ingrosso (e all’occorrenza anche al dettaglio) a prezzi stracciati. Se cercate, invece, beni di lusso potete visitare Rue de la Paix (nei dintorni de l’ Operà).

5.Fare un picnic ai Giardini di Lussemburgo Questo è uno dei posti più belli di Parigi, soprattutto in primavera e in estate, quando le aiuole del parco di ricoprono di fiori colorati. E’ l’ ideale per fare una bella passeggiata rilassante, fare jogging oppure un bel picnic.


6.Visitare il Louvre E’ uno dei musei più famosi del mondo. Contiene oltre 380.000 opere d’arte e per visitarlo bene il tempo minimo della visita deve essere di 3 ore. Sarà sicuramente stancante, ma l’emozione di essere a pochi centimetri dalle più celebri opere d’arte del mondo vi ripagherà di tutta la fatica.


7.Prendere il sole a Les Tuileries Il giardino de Les Tuileries è uno dei parchi più famosi di Parigi. Si estende dal Louvre fino a Place de la Concorde. All’interno del giardino c’è uno stagno artificiale nel quale i bambini si divertono a far navigare dei modellini di barche a vela. Tutto intorno è possibile rilassarsi e prendere il sole su delle sedie in ferro battuto sparpagliate in tutto il parco.

8.Vedere la città dalla torre di Montparnasse Se volete avere la vista migliore della città dall’alto, salite sulla torre di Monparnasse e non sulla torre Eiffel. La vista da Montparnasse, infatti, sarà a 360 gradi e includerà anche la torre Eiffel stessa che è il simbolo indiscusso di Parigi.


9. Visitare Notre Dame E’ una delle cattedrali gotiche più celebri del mondo. Da visitare anche l’interno, con le sue vetrate e rosoni meravigliosi. E’ possibile anche salire sulla torre campanaria per avere una splendida vista della città dall’alto in compagnia dei famosi gargoiles.


10. Passeggiare sulle rive della Senna di sera Parigi è sempre bellissima, ma di sera, con tutte le luci accese, è ancora più emozionante. Passeggiare lungo la Senna quando è buio è una delle cose più romantiche che esista. Merita anche un giro sui famosi “bateau mouche”, i battelli che portano i turisti lungo il fiume: potrebbe sembrare una trovata esclusivamente turistica e di poco valore, ma offrono una bellissima vista della città da una prospettiva diversa.


La vita in sintesi Il termine “biologia” deriva dal greco e significa “studio della vita”, ovvero si occupa di studiare ciò che riguarda la vita in tutte le sue forme. Oggi nel mondo scientifico inizia a farsi strada la “biologia sintetica”: la prima volta che ne sentii parlare mi chiesi cosa potesse accumunare qualcosa di sintetico con la vita. Eppure questo nuovo ramo della scienza esiste, è in continua espansione e non è così irreale come può sembrare. Il termine fu introdotto per la prima volta nel 1974 dal genetista polacco Waclaw Szybalski ed attualmente è una disciplina che si pone a cavallo tra la scienza e l’ingegneria con l’obiettivo di sfruttare a nostro vantaggio i sistemi biologici, semplificandoli proprio tramite tecniche ingegneristiche. Mario Andrea Marchisio, post-doc presso l’ETH di Basilea, afferma che “la biologia sintetica vuole trasformare la biologia in una scienza ingegneristica […]. Prendiamo spunto dall’ingegneria elettronica e cerchiamo di replicare nelle cellule viventi lo stesso meccanismo di azione dei circuiti elettrici, con l’obiettivo di costruire dispositivi che consentano di ottenere un certo output a partire da un dato segnale di input”. Tutto ciò sembra tanto facile a dirsi, ma è molto complesso da realizzare: ci sono evidenti limitazioni tecniche, ma anche etiche nonché prevedibili polemiche sui possibili rischi cui si potrebbe andare incontro. Prima di mettere il cosiddetto carro davanti ai buoi, però, è opportuno analizzare le potenzialità della disciplina, i “pro” che potrebbe conferire alla società per poi metterli sulla bilancia con gli


svantaggi e trarne le dovute conclusioni. Le potenziali applicazioni della biologia sintetica nel campo medico sono notevoli. Si potrebbe cominciare dalla prevenzione delle malattie infettive: un gruppo di ricerca americano ha modificato il virus della poliomielite rendendolo meno aggressivo, risultato che potrebbe aprire la strada allo sviluppo di vaccini più sicuri (giusto per riallacciarmi al dibattito italiano tra MPR ed autismo del mese scorso). Ci sono moltissimi studi anche in campo oncologico: l’obiettivo è la creazione di sistemi di “Drug Delivery” intelligenti, ovvero sistemi di trasporto di farmaci all’interno dell’organismo in grado di neutralizzare in modo specifico le cellule tumorali, senza danneggiare quelle sane. Questo sarebbe un vero traguardo nel trattamento dei pazienti oncologici che sono attualmente sottoposti a cure debilitanti ed altamente tossiche che spesso devono essere necessariamente rinviate. Questi sistemi prevedono l’utilizzo di batteri modificati che percepiscono la presenza di tumori e tendono naturalmente a spostarsi verso di essi dove rilasciano le molecole che trasportano. Esistono diverse varianti di questa tecnica: alcuni batteri portano farmaci, altri attivano delle molecole rendendole tossiche per il tumore, mentre altri segnalano con marcatori fluorescenti le cellule cancerose per monitorarne l’evoluzione. Le prospettive appaiono quantomeno sono entusiasmanti, ma gli scienziati stessi frenano l’entusiasmo a favore della cautela: “Molti cercano di vendere la biologia sintetica come un mezzo per trovare la cura del cancro o altre malattie, ma ci vorranno ancora molti anni prima di vedere dei risultati in questa direzione”, avverte Marchisio. “Quando c’è di mezzo la salute, è bene non diffondere false speranze”. Teoricamente l’idea appare assolutamente geniale ed i limiti tecnologici potenzialmente superabili nei prossimi anni. Il problema principale sarà l’accettazione sociale: tutto ciò che Madre Natura crea è considerato inviolabile e la sua manipolazione fa insorgere timori e perplessità. Tuttavia, nonostante l’iniziale ostruzionismo, la storia insegna che il progresso scientifico e tecnologico è sempre riuscito ad affermarsi. Non ci resta che stare a vedere.


LA PROTEZIONE CIVILE

QUESTA SCONOSCIUTA

Sul bollettino ufficiale della Regione Lazio n. 17 del 27.2. 2014 è stata pubblicata la legge regionale n. 2 del 26 febbraio 2014 “Sistema Integrato regionale di Protezione Civile, istituzione dell’Agenzia Regionale di Protezione Civile”

Prendendo spunto da questo importante atto amministrativo, che aggiorna una legislazione regionale vecchia di trenta anni e che illustreremo più avanti, vogliamo parlare della Protezione Civile, vitale organo istituzionale dell’emergenza e dei soccorsi. Credo che per molti il termine Protezione Civile evochi solamente immagini di uomini e donne in divisa blu o gialla o arancione impegnati in attività durante eventi sismici o alluvioni o nevicate. Ma cosa c’è dietro questo vero e proprio “esercito “, quale sia il colossale sforzo organizzativo, quale sia la struttura preposta , sono convinto che sfugga ai più. E’ opportuno quindi iniziare con un po’ di storia. Possiamo definire la Protezione Civile come quel complesso delle attività svolte per preservare vita, beni, insediamenti ed ambienti dagli effetti nocivi delle calamità, sia naturali che di altra origine.


La prima cosa da sapere è che non è una struttura verticistica, espressione di una struttura governativa come potrebbe essere un qualunque Ministero bensì fu ideata come una organizzazione dipartimentale, il che ha permesso che ad essa accedessero una pluralità di soggetti, che nel tempo hanno poi creato la rete del volontariato associativo. Norme sulla Protezione Civile sono indicate genericamente già in Costituzione: gli articoli 117 e 118 citano la Protezione Civile e il “Principio di sussidarietà” con cui deve operare. Ma solo la legge nazionale n.225 del 1992 creava il servizio di Protezione Civile e ne affidava il coordinamento al “ Dipartimento della Protezione Civile”, alla cui guida è attualmente il prefetto Gabrielli ( sicuramente conosciuto da molti per il recente intervento sulla nave “Concordia” ). Ne stabiliva i compiti di Previsione, Prevenzione, Soccorso ed Assistenza nelle emergenze e superamento delle emergenze . Nel 2001 la modifica al titolo V della Costituzione attuava il decentramento amministrativo e stabiliva che la Protezione civile era materia di legislazione concorrente ove la competenza è delle regioni ( da cui le leggi regionali sulla materia) fatti salvi i principi generali dello Stato.


La legge 100/2002 classificava gli eventi in circoscritti, intensi, straordinari e stabiliva le relative competenze degli enti locali, delle Province e dello Stato nonché introduceva un importante adempimento affidato ai Comuni, il “Piano Comunale di Protezione Civile”, atto indispensabile per regolamentare l’emergenza nei territori comunali. Su questo dobbiamo constatare che in molti comuni ancora oggi questo piano è rimasto sulla carta, vuoi per una certa indifferenza delle amministrazioni sulle attività di prevenzione, vuoi per la complessità di redazione del piano che comporta anche impegni di spesa rilevanti per le esigue casse comunali. Per la popolazione, rilevanti in questo “Piano” sono le cosiddette “Aree di emergenza” dove devono essere raccolti non solo gli abitanti ma anche i mezzi di soccorso e i soccorritori. La stessa legge stabiliva inoltre che, a livello locale, il responsabile della protezione civile fosse il Sindaco. Si elencavano anche tutte le forze che avrebbero dovuto concorrere alla Protezione Civile -­‐ ben 24 -­‐ tra le quali la Croce Rossa, Vigili del fuoco e il Volontariato organizzato. Quest’ultimo è la vera risorsa aggiuntiva del Dipartimento. E’ appunto un volontariato organizzato, quindi non lasciato alla libera iniziativa del singolo. Il volontario deve essere formato, per essere veramente utile in emergenza e per farlo bisogna che sia associato ad una delle innumerevoli Associazioni del territorio nazionale. Si pensi che solo nel Lazio sono attive più di 700 associazioni di volontariato. Con la direttiva PCM del 2013 viene steso il Regolamento di partecipazione delle associazioni di volontariato. Una cosa da sottolineare -­‐ che è bene sia di dominio pubblico -­‐ è la assoluta gratuità degli interventi dei volontari, che sacrificano ore, a volte giorni o mesi della loro tempo, spesso consumando ferie se soggetti lavorativi, nel principio della solidarietà e della mutua assistenza.

Vediamo ora le innovazioni della nuova legge regionale del Lazio.

Dopo aver dettagliato le attività, le funzioni e i compiti del sistema integrato di protezione civile si prosegue con l’organizzazione delle associazioni di volontariato e si istituisce la Consulta del Volontariato, organo importante che introduce il volontariato nella cabina di regia della organizzazione delle emergenze. Di enorme rilevanza l’istituzione della Agenzia Regionale di Protezione Civile a cui sono affidati i compiti di adottare gli atti amministrativi, predisporre il


Programma regionale, dichiarare lo stato di calamità, emanare avvisi di allarme, gestire le attività del volontariato, istituire il Centro Funzionale Multirischio con annessa Sala Operativa, impostare studi del territorio ed organizzare la formazione permanente. Vengono inoltre istituiti altri Centri Regionali come il COR e il COREM a cui sono affidati specifici compiti.

In definitiva una ottima legge bipartisan che, speriamo non rimanga, come purtroppo accaduto in altre occasioni, una cornice vuota e che le forse eccessive strutture di nuova istituzione non siano di impaccio ad interventi di emergenza che, come tali, devono essere i più snelli e d efficaci possibili. Con la speranza che queste poche righe contribuiscano ad una novellata percezione, da parte del cittadino, del volontario di protezione civile a cui rivolgersi in caso di richiesta di aiuto nelle calamità o eventi avversi. Giovanni Melogli


“Dietro il Sipario”

GIANLUCA SERRATORE: IL FUMETTISTA CLANDESTINO NELLA TERRA DEI NARRANTI

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Ho sempre creduto che ogni uomo, ogni essere vivente abbia una diversa percezione del mondo, delle persone e della vita. Così come abbiamo una diversa percezione dell’arte. Proprio quest’ultima può avere diverse collocazioni, diverse espressioni, diverse sfaccettature che non sempre sono omologate da chi dovrebbe occuparsene. Personalmente reputo arte qualsiasi espressione che riesca a darmi emozione. L’emozione è data da impulsi che corrono sottopelle e un impulso emotivo non è classificabile. L’arte è l’emozione che si proietta e si concretizza nelle piccole cose di ogni giorno, nei gesti quotidiani, nel lavoro e anche nelle grandi passioni. Quindi il fumetto, per me, è un’arte. L’uomo che Vi presento oggi, è un uomo che vive di passioni. Un uomo, un artista che con i suoi disegni, con il suo tratto profondo ci racconta storie romantiche, nostalgiche e di un amore antico. Gianluca Serratore. Gianluca è un talento puro. I suoi disegni e le sue storie posseggono un carattere distintivo. Sono pieni di sfumature e dettagli che si fondono dando un taglio profondo ai suoi lavori. Le immagini che illustra, si intersecano magicamente fino a fondersi in storie personali che affascinano il lettore. Il fumetto spesso è considerato un surrogato dell'arte. Molta gente storce il naso quanto si accosta un fumetto ad un quadro. Alcuni critici vorrebbero catechizzarci col classico refrain che etichetta il mondo delle nuvole come uno svago per bambini. Credo invece che stiamo parlando di arte in entrambi i casi. Gianluca Serratore è proprio l’eccezione che conferma la regola. Nasce a Roma dove vive e lavora. Ha frequentato la Scuola Romana dei Fumetti e ha partecipato al corso di illustrazione del maestro Svjetlan Junakovic. Ha all’attivo diversi lavori tra cui ha sceneggiato e disegnato la vita a fumetti di San Francesco d’Assisi per la rivista “San Francesco Patrono d’Italia”. È il papà fumettistico di Zeto, pagliaccio di strada antieroe, pubblicato dalla Creazioni Printamente Edizioni. A gennaio del 2014 ha partecipato al cortometraggio “Raccontami una favola”, di Ettore Farrauto e Victor Daniel, disegnando le illustrazioni che danno corpo al racconto di una fiaba da parte di un padre alla figlia. Personalmente lo conosco da quando eravamo bambini, da quando le nostre famiglie si frequentavano e noi giocavamo a pallone nella cameretta mentre nel salone si cenava. Lo conosco da quando si scherzava in modo spensierato e da quando incominciava a disegnare sulla carta i primi fumetti che parlavano di calcio. All’epoca avevamo due caratteri sensibili, eravamo due ragazzini che sognavamo un mondo diverso che implodeva per troppa fantasia. Ora che siamo diventati uomini e padri, ho potuto constatare che siamo diventati più sognatori di quando lo eravamo allora. Il caso ha voluto che quando ci siamo rivisti, abbiamo scoperto di lavorare per la stessa azienda. È stato quindi inevitabile riallacciare i contatti e provare ad incastrare i nostri concetti artistici. Lui disegnatore, Illustratore e ritrattista, io narratore e poeta. Abbiamo creato qualche fumetto assieme e collaborato ad un progetto che ancora sta andando avanti. L’amicizia che ho con Gianluca è una di quelle poche cose di cui vado fiero.

Gianluca, ti conosco da tantissimo tempo e so che persona sei sia a livello artistico che personale. Tu non sei solo un disegnatore di fumetti sei qualcosa di più. Come ti definiresti? Non è facile dare una risposta ma credo che la definizione più giusta è che io mi vedo come un “Cantastoriedisegnate”. Forse la sensazione che ti do, di non essere solo un fumettista, dipende dal fatto che per me, il motore di tutto è il racconto delle emozioni. Il fumetto è solo un mezzo che ho a disposizione per farlo.

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Quando hai scoperto di avere l’ispirazione giusta che ha fatto di te oggi un artista completo e di livello? Ammesso che si possa parlare di arte, la scoperta dell’ispirazione, nel mio caso è avvenuta in maniera progressiva. Ho cominciato a disegnare da piccolo, seguendo l’impronta di mia madre molto brava nel disegno artistico, e ampliando successivamente il mio campo con la passione per la scrittura. Ho fatto un passo dopo l’altro fino a quando è stato inevitabile ammettere che quella intrapresa, era la mia strada. La strada giusta! Che importanza ha avuto frequentare la Scuola Romana dei Fumetti? Fondamentale. È stato un percorso di tre anni. È stato come entrare in una bottega d’arte e imparare dai grandi maestri del fumetto italiano e confrontandomi costantemente con gli altri allievi del corso. Ho scoperto un mondo sconosciuto. Ho imparato le tecniche di disegno, l’inchiostrazione e la narrazione. In pratica tutti i trucchi del mestiere. Un apprendistato favoloso a stretto contatto con i professionisti un po’ come succede quando devi imparare un mestiere.

Qual è il significato profondo che tu dai all’arte del fumetto? Per me arte significa introspezione. È il luogo dove tento di arrivare in ogni mia storia. Il fumetto mi da la possibilità di arrivarci facendo leva sull’ascolto e sulla vista del lettore. Questi due modi di interloquire con chi legge, fanno sì che nel momento della narrazione posso scegliere se far passare un concetto con un’immagine o con il testo.

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Quali sono le tecniche che prediligi e come si è evoluto il tuo tratto nel tempo? Le tecniche principali sono due: la matita e l’acquerello. La prima è malleabile, si adatta molto alla mia ricerca di dettagli ed è molto gestibile davanti ad errori o ripensamenti. La seconda è molto pittorica e mi affascina per la sua freschezza. L’evoluzione del tratto è passata attraverso molti cambiamenti (e molti ne attraverserà ancora) cominciando dall’inchiostrazione classica con i pennelli e i pennarelli. È una tecnica imparata alla scuola del fumetto, ma che in verità non ho mai sentito mia. È troppo rigida per il mio carattere, tanto che con il tempo sono passato alla mezzatinta (inchiostro diluito) e poi all’acquerello.

Come ti collochi all’interno del mondo dell’arte? Che importanza dai a ciò che produci? La sensazione che provo è strana, è una sensazione che devo mettere ancora ben a fuoco. È come entrare con il biglietto pagato in un teatro e scoprire che sulla mia poltrona qualcuno ha messo già il suo cappello per occupare il posto. Sto studiando questa sensazione per capire se effettivamente quello è il mio posto e nel frattempo tutto il mio impegno è speso a migliorare la mia tecnica sia nel disegno che nella narrazione. Tutto quello che disegno, che racconto, ha per me un’importanza totale, perché tra quei segni a matita e in quelle parole metto tutto me stesso. E così proseguo una ricerca interiore iniziata molti anni fa e che non è ancora terminata. Le tue storie sono spesso improntate sul tema sociale e religioso. Quanto pensi sia importante veicolare questi messaggi nella società attuale che appare sempre più lontana da queste tematiche? Più che sociale e religioso, direi che nelle mie storie racconto il rapporto che ho con gli altri. In particolare quel rapporto speciale che mi lega agli indifesi. Ma soprattutto il rapporto che ho con me stesso, la parte più profonda, quella che sto imparando a conoscere vivendo la mia vita. Due mondi, quello esteriore e quello interiore, che provo a capire e a proteggere. Diciamo che certi messaggi, più che veicolarli nella società attuale, li racconto a me. Se riesco a strappare una riflessione o un sorriso non posso che esserne orgoglioso. Come disse un personaggio famoso duemila anni fa, sono i malati che hanno più bisogno di un medico (sorride).

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Come fumettista hai firmato diversi lavori. Sbaglio se dico che quello su San Francesco ha rappresentato un’esperienza diversa, importante? È proprio così. La biografia di San Francesco a fumetti ha segnato un momento importante per la mia vita, sia come disegnatore che come uomo. In campo professionale è stato il mio primo serio impegno nei confronti di un “cliente” che ha deciso di pubblicare il mio lavoro. Puoi immaginare la responsabilità e la soddisfazione che ho vissuto in quei mesi anche perché la rivista che lo ha pubblicato è di Assisi. Tutto questo è successo in un periodo buio della mia vita e, con la realizzazione di questa storia, ho mosso i primi passi verso una luce nuova. In quel lavoro ho messo quanto appreso fino allora su quel mondo interiore di cui ti ho parlato poco fa. Come nasce una storia a fumetti? Nasce dall’osservazione di ciò che mi circonda. Dall’esigenza di raccontare qualcosa che mi ha colpito, che mi ha emozionato, che mi ha fatto stare male o che mi ha fatto ridere. Nasce dal bisogno di condividere qualche mia piccola vittoria e di dare libero sfogo al mio umore. Tecnicamente succede che, dopo l’input primitivo del tutto mentale, spesso onirico, metto nero su bianco l’idea dando una forma logica al sogno che ho in testa. Infine, dopo aver definito con la sceneggiatura ogni tavola che comporrà il fumetto, comincio a disegnare. Prima si esegue lo studio dei personaggi e poi passo alle tavole vere e proprie. “Zeto” è la tua splendida creatura e non rappresenta solo un Alter Ego artistico ma è qualcosa di più. È un progetto che in passato ha visto anche a me coinvolto nelle vesti di sceneggiatore. E’ un progetto che lentamente si sta sviluppando e che mi ha appassionato sin dall’inizio. Ti va di parlarcene in maniera più approfondita? Zeto è un personaggio nato nel 2005, dopo una lunga gestazione mentale della quale non sono stato subito cosciente. Ha preso corpo nel 2007 quando l’attuale editore ha letto una mia storia a fumetti e mi ha proposto di creare un progetto insieme che raccontasse storie a un pubblico adulto. Abbiamo così iniziato a buttare le basi, io quelle grafiche, lui quelle burocratiche e di redazione. Il personaggio è un pagliaccio di strada. Ho scelto lui per il suo aspetto, perché proprio quando cade, quando sembra stupido, quando è smarrito, proprio in quel momento lui è presente a se stesso è dietro quell’irrazionalità, progetta il modo di far ridere gli altri, spostandogli più in là i pensieri di ogni giorno. L’ho scelto perché la sua è una fragilità che nasconde il coraggio di essere se stesso. A lui ho affidato la pazzia di essere leggero, di voltarsi e andarsene, di affrontare quello che a me spaventa. L’ho scelto perché lui, come me, sa piangere davanti alla bellezza, davanti a quei momenti in cui per un istante intuiamo la verità. Zeto vuole raccontare un mondo-uomo sotto ogni punto di vista, per questo viene raccontato da diversi sceneggiatori e disegnato da vari fumettisti, per dirci che nella vita possiamo fare cose belle e cose di cui ci vergogniamo un po’, che ci sono giorni in cui arretriamo davanti ad una responsabilità e giorni in cui siamo pronti a tutto pur di difendere qualcuno che ne ha bisogno. Nei 13 numeri finora pubblicati e nel 14° in uscita a giugno, abbiamo fatto raccontare al nostro personaggio storie su Birkenau, sulle morti bianche, sull’amore per una prostituta, sulla violenza sui minori, sul rapporto difficile tra uomini e donne e sull’amore sacro di una coppia, su un romanzo famosissimo, sulla guerra e sul cinema. Abbiamo raccontato sempre con serietà e ironia, divertendoci come in “Guantanamera”, storia di sogni e di tradimenti di coppia, realizzata assieme, te lo ricordi? Io e te, dove alla passione abbiamo mescolato la nostra amicizia.

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So che sei impegnato su vari fronti artistici. Quali sono i progetti futuri più importanti in scadenza? Il 12 e il 13 maggio, alla presenza del sindaco di Roma, Ignazio Marino, sarà presentato e proiettato il mio cortometraggio IL PAESE DELLE BETULLE (primo numero di Zeto del quale ho curato la sceneggiatura e i disegni) e della mostra delle tavole originali alla Sala Santa Rita vicino il Tetro di Marcello. L’evento è promosso da Roma Capitale in collaborazione con la Comunità Ebraica di Roma, Aned Roma e Progetto Dreyfus. Sempre a maggio comincerò a lavorare allo storyboard del film IO ESCO della stARTup. Mentre a giugno uscirà il numero 14 di Zeto, scritto da Fabio Bogliotti e il sottoscritto. Ho disegnato insieme a due bravissimi fumettisti, Biagio Leone e Giuseppe Latanza. Una storia che racconta l’epopea del cinema mondiale girato nella città di Ladispoli, dal 1937 ad oggi. Capolavori come IL SORPASSO di Dino Risi, LA BIBBIA di John Houston, LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, UMBERTO D. di Vittorio De Sica e molti altri. Alla pubblicazione del fumetto seguiranno la presentazione del numero 14 alla mostra del fumetto e del cinema di Ladispoli e alcuni incontri con le scuole della cittadina balneare. E…Nel frattempo continua con la mia attività di ritrattista. Ti aspetti ancora che, un giorno, questa passione possa diventare una professione? Sì, certo! Non so se mai ci riuscirò, non dipende solo da me. Ma sono convinto che farò tutto il possibile perché questo sogno si realizzi.

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Io non posso che farti il mio in bocca al lupo. Tu sai quanto ti stimo e quanto creda che la tua passione si trasformi in arte ogni volta che poggi la tua matita sul foglio. Grazie Gianluca! Grazie a te per l’opportunità e in un saluto a tutti i lettori di Diffidare Dalle Imitazioni.

Tutto quello che riguarda i fumetti, i ritratti, le curiosità e le nuove iniziative in cui sarà coinvolto Gianluca Serratore, le potete trovare cliccando i link riportati qui sotto.

A cura di Alessandro Nobili Gianluca Serratore Email: gianlucaserratore@yahoo.it Web: www.giallogianluca.it COME NASCE UN BACIO… http://youtu.be/fz8zTt6owpQ

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