Agorà- primavera 2021

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Anche tu fai parte di Agorà 6 La redazione di Agorà Il nostro dialogo 6 Prof.ssa Bruna Mozzi Intervista al Dirigente scolastico 8 di Redazione di Agorà ...e voi cosa ne pensate? 16 di Elena Giuriati, Emma Destro, III A

Inclusione, obiettivo o traguardo? 60

di Zoe Banzato, Alma Carraro, Giacomo Pulliero, Aurora Zaramella, II E

Affari Interni

Sulla (s)correttezza del 63 politicamente corretto di Niccolò Tavian, Matteo Milanesi, Riccardo Iazzolino, Alessandro Fogarollo, II E

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67 Sul politicamente corretto di Nicola Francia, V D

78 Il daltonismo di Bridgerton

di Nicola Francia, V D

Cinema

86 Di che cinema abbiamo bisogno? di Giulia Baretta, III A

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Jesse Owens 92 di Ludovica Agostini, III F

Inclusione e sport 97 di Matteo Danieli, III C

Sport

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Pensieri

102 Dire la diversità

di Claudia Crivellaro, I E

106 Un obiettivo in comune di Anna Agnello, V G

109 L’ignota lingua dei segni di Maria Zamberlan, II G

113 Non scordiamoci delle malattie mentali di Francesca Macali, II F

118 L’arte dell’includere

di Elisabetta Contin, IV E

La tenda porpora 121 di Miriam Segala Negrini, II A Insonnia da favola 124 di Zoe Cecchinato, I A

126 Gadgets

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Poesie

126 Perle dei professori 128 Che personaggio di Friends sei?

di Luca Franchetti, Elena Giuriati, III A

134 Cruciverba

di Elena Giuriati, III A

136 Oroscopo della maga Artemisia

Anche tu fai parte di Agorà

Un bentornato a chi continua a seguire il nostro Agorà! Questa volta, come da tradizione, abbiamo preparato un numero a tema. La nostra redazione ha preparato articoli, interviste giochi, poesie e altro ancora tutto incentrato sul concetto di inclusione e integrazione, due parole difficili da definire e assimilare, ma che speriamo vi siano più vicine grazie a questo numero! Nella prima parte del giornale, abbiamo provato a dare un senso alle nostre idee ancora astratte attraverso numerose interviste, per cui dobbiamo ringraziare innanzitutto il dirigente scolastico e tutti coloro che con la loro voce hanno aiutato a dare forma al nostro libretto, anche se impropriamente visto che si tratta del numero più lungo della storia di Agorà molto probabilmente.

Nonostante la difficoltà iniziale di definire il tema, infatti, ci siamo tutti impegnati e sono venuti fuori argomenti molto importanti e interessanti spunti di riflessioni, che all’interno troverete sviluppati nei modi più svariati. Ora lasciamo la parola alla professoressa Mozzi, referente del processo, per una trattazione più nello specifico dei contenuti. Speriamo vivamente che leggere queste pagine vi aiuterà a riflettere sulle vostre relazioni con gli altri e sul come migliorarle!

La redazione di Agorà

Il nostro dialogo

Per questo numero di “Agorà”, il secondo, la redazione ha voluto attuare due scelte, la prima di dare un unico tema agli articoli e fare un cosiddetto numero “monografico”, la seconda di scegliere come filo conduttore un tema con il quale oggi più che mai noi tutti sentiamo il dovere di confrontarci. E’ il tema dell’inclusione. All’inizio ha creato un po’ di apprensione perché è parso difficile e forse troppo ampio da trattare, ma poi ha coinvolto con impegno e passione i nostri “piccoli giornalisti e scrittori” sin dai primi incontri di redazione. Ne è stata subito compresa la portata e l’impegno profuso è stato proporzionale.

Per questo motivo, dai primi giorni del nuovo anno 2021, le ragazze e i ragazzi della redazione si sono messe/i al lavoro con entusiasmo, superando gli ostacoli della DDI, le numerose ore giornaliere al PC e gli impegni di studio della fine del primo quadrimestre e inizio del secondo.

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Siamo grati ai lettori vecchi e nuovi di “Agorà” perché il primo numero ha ricevuto vari apprezzamenti sia per la grafica accattivante (per questo rinnovo il mio grazie anche al collega Arcangelo Di Donato) sia per qualche novità rispetto alla passata edizione.

Per questo secondo numero i più piccoli, gli studenti del ginnasio hanno confermato il loro contributo, sentendosi più fortemente partecipi della comunità scolastica; i più grandi, compresi quelli dell’ultimo anno di liceo e vicini all’esame di “maturità” (ci piace chiamarlo ancora così) hanno dimostrato la loro competenza redazionale, conquistata in vari anni di esperienza nel giornalino della scuola.

Nelle prossime pagine si potranno trovare degli articoli in lingua – secondo le scelte “multilingue” della redazione - le rubriche di tradizione del giornalino relative al cinema, al teatro, allo sport, alla letteratura. Immancabili poi l’oroscopo, i giochi enigmistici e i disegni così da alleggerire e rinfrancare il lettore che voglia trascorrere una mezzoretta in sano relax. Notevole il contributo fotografico che spicca per colore e originalità espressiva nella versione digitale – oramai l’unica – del nostro “Agorà”.

Un grazie particolare al Dirigente Scolastico del nostro liceo, il dottor Rocco Bello, che ha rilasciato alla redazione una generosa intervista sul tema di questo numero.

Sono certa che la comunità scolastica degli studenti e degli adulti - docenti, genitori e tutti gli operatori dell’istituto - saprà accogliere questo numero del giornalino d’istituto con la sensibilità e l’attenzione che essa ha sempre dimostrato. Del resto è proprio della cultura classica trasmettere i fondamenti dei diritti, dell’inclusione, dell’emancipazione così da consentire l’abbattimento di ogni ostacolo e permettere che ciascun individuo possa godere della piena ed effettiva partecipazione alla vita.

ὅστις γα ̀ ς ἢ φρονεῖν µόνος δοκεῖ, ̀ ρ αὐτο ἢ γλῶσσαν ἣν οὐκ ἄλλος ἢ ψυχη ̀ ν ἔχειν, οὗτοι διαπτυχθέντες ὤφθησαν κενοί

Chi crede di avere senno, egli solo, ed anima e parola come nessun altro, se lo cerchi dentro, lo trovi vuoto Antigone, 707-709 Prof.ssa Bruna Mozzi

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L’inclusione nella nostra scuola

Intervista al Dirigente scolastico

di Redazione di Agorà

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Foto: Carolina Zanon

Per cogliere a pieno il concetto di inclusione, come redazione abbiamo deciso di declinarlo in relazione a uno dei luoghi protagonista delle nostre viste: la scuola. A seguire troverete un’intervista che il dirigente scolastico - che vogliamo ringraziare - ha gentilmente rilasciato in cui percorriamo l’inclusione, dal suo significato alla sua fondamentale importanza per il nostro istituto.

Partendo dal termine in sé, cosa significa per lei inclusione?

Il primo aspetto che mi sento di sottolineare nella risposta è che l'inclusione pretende rispetto. Si include solo se si rispetta l’altro, chiunque sia la persona che si ha davanti. L'inclusione, per essere tale, porta ad un dialogo tra le parti, il quale a sua volta porta ad un cambiamento reciproco, per esempio, del modo di porsi e atteggiarsi: non è solo chi viene incluso che deve modellarsi e cambiare, ma anche chi include si trasforma, interfacciandosi con una realtà nuova. È importante parlare di cambiamento reciproco e lo è altrettanto estendere il concetto non solo ad alcune categorie specifiche ma a ognuno di noi, a ognuno di voi. Soffermandoci in particolare sull’ambiente scolastico, ogni studente deve sentirsi a casa, la scuola dev'essere un ambiente amichevole ed accogliente. È proprio questa la sfida: includere significa stare attenti ad ogni singola persona, ad ogni studente, partendo certamente da chi è più fragile, ma senza nulla togliere agli altri.

Secondo lei che differenza c'è tra "inclusione" e "tolleranza"?

Penso che la risposta sia molto semplice.

La tolleranza non implica alcuno sforzo comunicativo: chi tollera non compie una scelta, chi è tollerato deve adattarsi alla situazione. Al contrario, come dicevo prima, inclusione è partire anche dalla propria percezione di fragilità per riconoscere la fragilità dell'altro: è un movimento reciproco. Nessuno di noi può ergersi ad autorità in grado di giudicare gli altri; è necessario, invece, partire dalla

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propria mancanza e incompletezza: non potrebbe che essere così. Io stesso, prima ancora di includere, ho bisogno di essere incluso. Per me sono concetti fondamentali, si tratta dell'abbiccì per costruire una base solida a scuola e poi nella vita. Ci ho sempre creduto e mi sono sempre battuto, anche nel lavoro con i docenti, affinché fosse sottolineata l’importanza di questi concetti.

Come è possibile favorire l’inclusività nell’ambito scolastico?

Ci sono secondo lei degli ostacoli che non permettono alla scuola di essere totalmente inclusiva?

Ognuno è responsabile dell’ambiente in cui vive, che per me è proprio la scuola.

Passi concreti, anche applicati all'interno del nostro istituto, sono la formazione, fondamentale per raggiungere consapevolezza e lavorare sulla propria sensibilità, lo spirito di squadra e il dialogo. Io includo quando non sono solista ma quando so agire come coro, come gruppo. È un messaggio che cerco di trasmettere fin da subito anche a voi studenti quando, all'inizio dell'anno scolastico o addirittura del vostro percorso in questo liceo, vi raccomando di rimanere uniti e di pensare di star scalando ogni giorno una montagna: se uno scivola, gli altri sono pronti a sostenerlo e ad aiutarlo a rialzarsi. Si cammina sempre insieme. Il secondo aspetto è quindi l’importanza di essere in cordata: ciò vale non solo per voi studenti, ma anche per i docenti e chiunque costituisca il corpo della scuola.

Se in un consiglio di classe ci sono divisioni e manca la giusta sintonia, a

pagare le spese sono soprattutto gli studenti, che si sentono disorientati ed esclusi. Ecco come il termine "inclusione" sia così aperto e generale, che non si riferisce solo ad alcune categorie specifiche. L'inclusione riguarda tutti: a scuola, dunque, è fondamentale il costante dialogo tra studenti e docenti.

Un altro aspetto degno di nota, in termini generali, all'interno degli ambienti scolastici, è la modalità di valutazione e di far didattica, altro mezzo per favorire l’inclusione: il modo in cui si trasmette conoscenza e in cui si valuta è una forma di comunicazione, ulteriore dimostrazione di come si possa includere o escludere anche nell’attività didattica.

Un ostacolo, invece, è il pretendere di essere protagonisti unici: quando ci si chiude in se stessi, si pretende di poter fare un lavoro da soli, ci si autoesclude, automaticamente escludendo gli altri. Si può chiamare isolamento, qualche volta superbia, invidia, i vecchi vizi capitali che sempre ci sono stati e sempre ci saranno, in quanto sono le fragilità che ognuno di noi sperimenta nel momento in cui siamo certi di poter fare a meno dell'altro. Sono consapevole che nel nostro liceo la competitività che talvolta si crea costituisca il maggior ostacolo sia tra gli adulti sia tra voi studenti.

Partendo dal presupposto che la pandemia ha rivoluzionato la realtà della scuola e quindi anche la normale concezione di didattica, secondo lei questo ha portato degli aspetti negativi in merito all'inclusione?

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Io rovescerei la prospettiva: grazie alla pandemia abbiamo scoperto o riscoperto cosa significa inclusione. Con questo non escludo e cancello certamente tutto ciò che di negativo la pandemia ha portato, nella scuola in particolare a livello di rapporti umani, ma rispetto ai rischi sono state maggiori le opportunità positive. Gli studenti hanno saputo far proprio il secondo punto a cui facevo riferimento prima, il lavoro di squadra, mantenendo e incentivando i rapporti all’interno delle classi e con gli stessi docenti, attraverso i rappresentanti di classe. I docenti, per necessità, hanno dovuto rafforzare la comunicazione a livello di consiglio, perché in una situazione di DAD e di conseguente allentamento del rapporto con gli altri, questo era l'unico modo di agire e di far andare avanti il nostro sistema scolastico. Trovo che la pandemia, con le difficoltà che ci ha posto davanti, abbia incentivato comportamenti virtuosi e solidarietà tra componenti. In una lettera che ho scritto l’anno scorso, dopo gli ultimi consigli di classe aperti, ricordo di aver messo in luce i guadagni positivi che avevo potuto notare nelle parole dei vostri professori, che sottolineavano la forza che avete dimostrato nell’affrontare un periodo tanto difficile.

Secondo lei nella nostra scuola c'è una scarsa rappresentazione delle minoranze, come ad esempio studenti stranieri o con disabilità?

Se sì, pensa ci sia un motivo preciso?

Questa è una scuola indubbiamente dura, nel senso positivo del termine, è una

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scuola che prepara, è esigente. In ogni caso, le situazioni di fragilità presenti al Tito Livio vengono valorizzate con la maggiore attenzione possibile da parte dei docenti e di tutta la scuola. Non potremmo essere più orgogliosi di questi ragazzi, che hanno dimostrato nel tempo un atteggiamento attivo e sereno.

Cerchiamo sempre di fare in modo che nessuno sia lasciato indietro, che sia per difficoltà di profitto scolastico o altro. È importante insegnare ai bambini, fin dalla giovane età, a praticare l’inclusione?

Sì, io credo che l'insegnamento sia alla base di tutto, soprattutto in un tempo come il nostro in cui le chiacchiere stanno a zero. Insegnare deve voler dire, prima di tutto, dare l’esempio, portare testimonianza concreta di ciò di cui si parla.

Secondo lei i giovani oggi si sentono più liberi di essere se stessi perché più facilmente accettati?

Sì e no. C'è una maggior tolleranza ed accettazione della diversità rispetto a un tempo; d’altra parte, però, i giovani mi sembra che in questo momento siano meno protagonisti, meno soggetti attivi dentro la società rispetto a quando ero giovane io. Ai giorni d'oggi tutta questa attenzione ai giovani non la vedo: mi sembrate come una “riserva indiana”.

Inoltre, mi sembra che voi facciate più fatica a trovare un senso e un vostro percorso nella vita, probabilmente perché più bombardati di quello che siamo stati noi da una gran quantità di proposte, anche allettanti, però poco aiutati e guidati a trovare la vostra strada. Siete

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più accettati, più accolti ma avete senza dubbio qualche difficoltà in più.

Secondo lei in che modo la scuola potrebbe includere la politica?

Penso che l'educazione e la formazione siano la forma più alta della politica.

Quando la scuola fornisce agli studenti gli strumenti per essere cittadini, gli studenti hanno in mano tutto. Come diceva Don Milani: “la parola come strumento per diventare cittadini”. Questo è il ruolo politico della scuola: preparare cittadini di serie A, maturi, adulti, forti, consapevoli. Il Tito Livio si pone come obiettivo proprio questo: creare persone con la testa sulle spalle, che pensino con la propria testa senza seguire la massa, senza essere gregge, dimostrando un forte pensiero critico. Questa è una forma politica potente. La scuola non è solo il luogo deputato a formare professionisti, ma soprattutto a creare cittadini consapevoli.

Ha notato un'evoluzione nel modo in cui la società si rapporta a questa problematica nel corso della sua vita?

Senza dubbio. Oggi c'è un'apertura maggiore e senza dubbio gli strumenti si sono evoluti. Per strumenti intendiamo strumenti amministrativi, leggi o forme di tutela che prima non esistevano. Facendo un esempio concreto, parliamo dei disturbi specifici dell'apprendimento: una volta la persona che faceva fatica a leggere, scrivere, memorizzare veniva considerata l'asino della classe, oggi questa persona ha una legge che lo tutela e la scuola è obbligata a prevedere dei

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percorsi di sostegno. Questo è un passo di civiltà notevole.

Lei si è mai sentito escluso?

Ah sì, assolutamente. Finiamo con una nota più leggera e di sorriso… frequentavo il patronato e quando si formavano le squadre per giocare a calcio, mi sceglievano sempre per ultimo. Devo ammettere che non ero un granché in campo, ma quello era lo sport popolare e quindi andavo a giocare come tutti gli altri bambini. Sul momento non era bellissimo ma poi mi divertivo comunque.

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Punti di vista

...e voi cosa ne pensate?

di Elena Giuriati e Emma Destro, IIIA

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Foto: Ginevra Costiniti

Inclusione è una parola che può avere i significati più diversi, a seconda della persona, dell’ideologia e dell’epoca. Abbiamo cercato di ricreare una linea del tempo di questo concetto, oggi molto discusso e per questo abbiamo intervistato persone appartenenti a diversi contesti sociali e di varie età. Vi trovate con qualcuna delle idee che sono state esposte qui di seguito?

Noi speriamo di sì.

25 anni, Chioggia Facoltà di ingegneria a Padova Cosa significa per te il termine inclusione?

Come prima cosa partirei da una negazione: è bello non essere esclusi. Se qualcuno ti include in qualcosa vuol dire che una persona esterna ha pensato a te e ha pensato di renderti partecipe di qualcosa di cui non avresti fatto parte altrimenti. Secondo me essere inclusi quindi significa essere resi partecipi di qualcosa, ed è un’azione che parte dall’esterno per poi raggiungerti e farti sentire appunto incluso.

Hai mai visto un film o letto un libro che trattasse questo tema?

Credo che uno dei film che più mi ha fatto pensare a questa tematica sia “Scoprendo Forrester”. Sono rimasto colpito dal fatto che uno scrittore che aveva vissuto per anni come un eremita nel suo appartamento del Bronx, riesca ad accogliere nella sua vita un ragazzo con la passione per il basket e con uno stile di vita assolutamente diverso dal suo.

L’intreccio delle vite di queste due persone fa cambiare entrambi nel loro modo di pensare e soprattutto nel modo di vedere l’altro. Per l’anziano scrittore il ragazzo diventa, da scocciatore che era, intimo amico; mentre per Jamal il signore inquietante della finestra diventa un maestro, un mentore da cui imparare. Si può dire che entrambi sono stati inclusi l’uno nel mondo dell’altro e così facendo si sono ritrovati arricchiti di qualcosa di più, quasi di inaspettato. Per concludere direi che questo tipo di inclusione non si percepisce fin dall’inizio ma è un percorso lento e oserei dire tortuoso, perché infatti tra i due inizialmente i rapporti non sono dei migliori e i litigi sicuramente non mancano per tutta la durata del film; ma il “bello” di tutto questo è il fatto che nonostante tutto entrambi alla fine tornino

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dove sono stati meglio, uno immerso nelle parole e nei pensieri in quella stanza polverosa piena di libri e l’altro chiuso nella stanza accanto a scoprire una persona del tutto nuova in se stesso e a riscoprire un lato della vita che per molto tempo era stato sopito.

Ne sei stato influenzato?

Direi di sì, anche perché questo film mi è davvero piaciuto molto. La cosa che più mi ha influenzato è il fatto che sia così “facile” cambiare la propria vita in un modo quasi drastico a partire da decisioni che vengono da noi stessi. Con questo non voglio dire che la scelta in sé sia facile, che prendere decisioni diventi semplice, ma semplicemente che una volta che la scelta è stata fatta ci sono molte più possibilità rispetto a prima e, se si è fatta la scelta “giusta”, ci si ritrova ad avere un nuovo mondo da esplorare e capire di fronte. Con scelta giusta io intendo un sì generico, ovvero un aprirsi alle possibilità, e non un obbligo morale a dove propendere per una cosa piuttosto che per un’altra.

Ti sei mai sentito escluso?

In linea di massima direi di sì, anche se in realtà mi definirei un ragazzo abbastanza menefreghista e di solito non sono toccato dall’essere incluso o meno nelle cose. Sarei decisamente più preoccupato per me stesso e per gli altri se l’esclusione partisse da me, se mi risultasse quasi naturale il fatto di eliminare o dimenticare qualcuno di importante per me, e anche se sembra difficile e quasi impossibile devo ammettere che mi è capitato qualche volta e spero non si ripeta in futuro.

L’ambito scolastico, universitario e/o lavorativo è considerato da te come un posto inclusivo?

Per quanto riguarda le superiori direi che era un ambito relativamente inclusivo,

relativamente perché ho trovato dei professori molto qualificati e che facevano sentire gli studenti sempre coinvolti, mentre per quanto riguarda i compagni di classe alcune volte mi sono trovato letteralmente fuori dal cerchio: all’intervallo noi eravamo abituati a trovarci, anche con ragazzi di altre classi, e fare un cerchio nel quale si chiacchierava per tutta la durata della ricreazione. In molti casi devo dire che mi sono trovato fuori da questo ritrovo assieme a mio fratello gemello e a una nostra amica.

Io e mio fratello non eravamo molto toccati da questo ma la nostra amica sentiva molto più questa situazione e ad un certo punto ha smesso di presentarsi a queste cosiddette riunioni perché appunto non si sentiva inclusa per la maggior parte del tempo.

Per l’università mi sento di iniziare con una considerazione tecnica, infatti non tutti vengono ammessi in tutte le facoltà perché sono presenti dei test d’ingresso che possono permetterti l’ingresso oppure precluderlo.

Quando si frequenta l’università c’è sempre e comunque la possibilità di essere inclusi come c’è quella di essere esclusi e dipende da molti fattori. Dipende da te, dai tuoi compagni di corso e anche direi dal tipo di facoltà scelta, per esempio nel mio caso nella facoltà di ingegneria ho trovato persone molto chiuse in se stesse e che parlano meno; un altro esempio che mi sento di poter fare è il confronto con la facoltà di farmacia, che frequenta mio fratello, e che è un ambiente più aperto e in cui c’è un clima migliore in cui sembrano essere tutti molto più amici.

Nonostante tutto sono riuscito a farmi degli amici e a trovare persone fantastiche anche nel mio ambiente universitario e a creare legami.

Per quanto riguarda l’ambiente universitario in generale è da considerarsi un posto inclusivo perché, almeno prima dell’arrivo

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del coronavirus, c’era la possibilità di assistere alle lezioni anche se non iscritti di fatto ad alcuna facoltà e di approfondire argomenti di interesse anche senza sostenere poi gli esami.

Nel mondo di oggi ti sembra che il tema dell’inclusione sia ancora molto vivo?

In un primo momento sentendo la parola inclusione ho pensato si trattasse di qualcosa di molto insolito di cui parlare, ma in realtà mi sono dovuto ricredere quasi subito infatti anche rispondendo alle domande oggi mi sono accorto che quella che io considero come inclusione è in realtà una tematica molto presente nella società. Sono convinto del fatto che questo argomento sia vivo nel mondo anche perché l’uomo è, per citare un filosofo, “un animale sociale” ed è fatto per il rapporto non per auto isolarsi, cadendo poi conseguentemente nella non inclusione. A mio parere ci dovrebbero essere molte iniziative che cercano di porre rimedio a situazioni non inclusive e sicuramente ci sono, ma devo ammettere che io non sono molto informato e che non sono a conoscenza di interventi concreti che sono stati messi in atto in questo momento. Forse per il fatto che io non sono a conoscenza di iniziative o non ho sentito notizie incentrate su questo e so che neanche alle persone che frequento questa particolare parola non è molto familiare, credo che si potrebbe sicuramente migliorare e incentivare la diffusione, magari, di conferenze su questo tema oppure servizi specifici in alcuni momenti dei telegiornali.

Secondo te i giovani, rispetto a una volta, si sento più liberi di essere loro stessi?

Secondo me sì, parlando anche per esperienza personale credo fermamente che i giovani siano di fatto più liberi, anche per quanto riguarda scelte importanti. Con il

passare del tempo c’è stato un cambiamento abbastanza radicale nel modo di rapportarsi anche in un ambiente domestico: prendiamo banalmente il rapporto che può esserci ora tra figli e genitori rispetto a quello che c’era una volta, una differenza lampante può essere proprio l’atteggiamento che i ragazzi tengono ma più che altro possono tenere perché questi adulti glielo permettono. I giovani sono sicuramente più liberi di esprimersi e di essere loro stessi, anche perché oggi non sono più presenti determinati codici di condotta e non c’è più quella rigidità che una volta contraddistingueva le varie famiglie e le varie ideologie. Nonostante tutte queste conquiste sul fronte delle libertà, nella società moderna c’è un rischio ancora più grande ovvero non riuscire mai ad essere effettivamente se stessi perché succubi di un’influenza esterna che può andare da video presi da youtube a tutto il mondo dello streaming, cose che sicuramente offrono moltissimi modelli imitativi. Questo rischio nasce anche dal fatto che la tecnologia ormai fa parte di noi e alcuni ragazzi/bambini sono introdotti al cellulare o al computer fin da piccolissimi, cosa con cui io non mi trovo assolutamente d’accordo.

Secondo me la vera libertà non è il poter fare tutto ciò che si vuole, ma il fare tutto ciò che è bene per se stessi e per gli altri, quindi in poche parole fare quello che è il vero bene e fare le cose con amore. La vera libertà non è tale perché è senza limiti, anzi il limite è necessario per non infrangere la libertà degli altri e anche per mantenere la propria, rispettando tutto e tutti.

I social media sono un mezzo solo negativo o hanno anche dei lati positivi per quanto riguarda questo preciso ambito?

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Secondo me i social media sono senz’altro un mezzo positivo, ma il fatto che possano essere considerati negativi dipende moltissimo dall’uso che ne viene fatto, infatti la colpa nella maggior parte dei casi non è del cellulare o del computer ma di chi si nasconde dietro di essi. La tecnologia in sé, infatti, è uno strumento utilissimo che permette una comunicazione immediata di notizie di ogni genere, il problema di fondo secondo me non sta nell’ipotetico cellulare o computer ma del fatto che le libertà connesse a questi dispositivi sono sicuramente anche troppe.

Perché l’uomo sente il bisogno di creare differenziazioni, magari anche dove non necessarie, per poi cercare di rimediare ai suoi cosiddetti errori parlando di inclusione?

Inizierei dicendo che il mondo è bello perché è vario. Secondo me in primis non si deve assolutamente condannare la diversità, anche se ci sarà comunque sempre qualcuno di opinione contraria, anche perché un processo alle intenzioni come può essere quello di trovare tratti differenti in vari individui e per questo condannarli, è una prerogativa delle persone ignorati a mio parere e di quelle che vogliono tanto fare credere di sapere ma in realtà la sostanza si trova ad essere molto poca. Per arginare questo fenomeno si deve cercare di condannare questo tipo di atteggiamento e credo che i social media o internet in generale stia già procedendo in questo senso.

L’uomo vede le differenze come una minaccia perché spaventato da quelle, infatti tutto ciò che non si conosce non viene accettato così facilmente come si potrebbe fare con una cosa nota e a noi familiare. La paura secondo me è in generale una cosa negativa perché fa sempre sbagliare, o prendere decisioni sbagliate. L’importante in questi casi è non

farsi governare da sentimenti del genere ma piuttosto accettarli perché è inevitabile che ci siano e andare avanti senza esserne influenzati più di tanto, ovviamente questa è una situazione ideale a cui ognuno aspira. La diversità non è una cosa da condannare, ma anzi dovrebbe essere apprezzata perché sono le piccole cose diverse che ognuno di noi ha che ci rendono realmente noi stessi, purtroppo ho notato che nella società moderna si tende a cercare la simmetria e l’omologazione, e per far notare qualcosa a qualcuno sono necessarie l’asimmetria e appunto l’essere diversi da quella che può considerarsi la massa.

Ritieni la città dove sei cresciuto un luogo sicuro e lontano da ogni genere di discriminazione?

Non mi spingo a dire che fosse libera da ogni genere di discriminazione, ma la considero un luogo sicuro e dove è stato, almeno per me, piacevole crescere. Devo dire però che Borgo San Giovanni, dove sono nato e cresciuto, sia un luogo più protetto rispetto a Chioggia, la città vicina, dove anche solo il dialetto è considerato uno dei più scurrili.

Secondo me emerge questo non rispetto degli altri soprattutto dal fatto che lì si parli questo dialetto, che può “mortificare” e sfociare in un respingere generale le persone a cui ci si rivolge.

Sentendo la parola inclusione ti viene in mente una canzone in particolare?

Me against the world, Simple Plan.

23 anni, Venezia Facoltà di Biologia a Padova Cosa significa per te il termine inclusione?

Wow, partiamo subito così.. guarda mi piacerebbe poterci riflettere perché non è così semplice come sembra, probabilmente la primissima cosa che penso se parlo di

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inclusione è un qualcosa, non facilmente identificabile, che faccia sentire tutti parte di un grande contesto.

Secondo te l’ambito scolastico e/o lavorativo è considerato da te un posto inclusivo?

Personalmente considero la maggior parte degli ambienti a loro modo inclusivi. Da universitaria mi sento molto vicina a questo mondo ancora di studentessa e secondo per me sentirsi inclusi in un ambiente grande e complesso come quello universitario devi metterci molto di tuo. Ciò che intendo dire è che tutti possono sentirsene parte ma devono essere predisposti: l'università ti da i presupposti ma tu devi essere parte attiva, altrimenti non vai da nessuna parte, non è inclusiva come si penserebbe anche se c'è posto per tutti.

Hai mai visto un film o letto un libro che trattasse questo tema?

Prima cosa che mi viene in mente è Green Book, un film in cui questo tema è trattato attraverso un'amicizia fortissima tra un uomo bianco e un uomo che, nel dopoguerra, veniva etichettato come di “razza nera”. In un'America attraversata da continue lotte per i diritti ed esclusione di queste persone considerate diverse, ricordo di essere stata particolarmente colpita da quanto l'amicizia tra queste due persone fosse forte, così tanto da far sentire il ragazzo di colore addirittura incluso.

Nel mondo di oggi ti sembra una tematica ancora molto viva? Se ne parla abbastanza?

Nonostante sia effettivamente una tematica alquanto viva, anche a causa di episodi alla George Floyd, a mio parere se ne potrebbe parlare di più. O forse il problema non è la quantità ma la qualità, ci potrebbero essere modalità più incisive di affrontarla . Ci dovrebbe essere molto di più dietro non solo

una definizione fine a se stessa, cosa che ricordo essere la via più gettonata al liceo per discutere di inclusione o xenofobia, sarebbe invece interessante aprire lo spettro su più campi possibili perché è ovvio che spesso si sceglie di cosa è più comodo parlare e si sceglie su cosa è più importante discutere.

Siamo molto limitati in generale, forse con il tempo impareremo.

Hai notato un’evoluzione nuova nel modo in cui la società si rapporta a questa “problematica”?

Si, per fortuna mi sento di dire che ho notato un'evoluzione nel modo in cui la società si rapporta a ciò che riguarda l'inclusione ma non abbastanza: c'è ancora gente che sta cercando di capire chi è o cosa vuole ma ha paura di buttarsi e crederci per paura di non sentirsi accettato.

D'altronde come biasimarli, per molte cose è evidente che la nostra società non è pronta, non è abbastanza aperta. L'evoluzione l'ho vista a distanza di pochissimi anni cioè guardando indietro all'inizio della mia adolescenza e ad oggi, nel rapportarmi con voi liceali del 2021: voi giovani di oggi siete in qualche modo privilegiati perché avendo la possibilità di entrare in contatto con moltissime idee differenti, avete l'occasione di crearvi una vostra idea da molto giovani. Inoltre questa discrepanza è data anche dall'educazione, ai miei tempi già molto più chiusa e all'antica.

Nonostante la minima differenza di età, posso assicurarvi che voi, generazione z, avete delle idee già formate molto presto e siete di mentalità molto aperta anche rispetto a cinque anni fa. Poi, sicuramente triste da pensare ,ma io sono praticamente certa che invece persone come i nostri nonni, ormai già formate, si trovino particolarmente disorientati nel mondo di oggi ed è praticamente impossibile cercare di fargli

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cambiare idee o valori essendo uomini già ben plasmati.

Secondo te i giovani di oggi si sentono più liberi di essere loro stessi perché più facilmente accettati?

I giovani oggi si sentono senza dubbio più accettati e di conseguenza più liberi di esprimere se stessi in tutti i modi possibili.

Faccio un esempio molto attuale: nel mio liceo non ho mai saputo di nessuno coming out, per carità magari non c'era davvero nessuno appartenente alla comunità LGBTQ+ ma visto i dati di oggi mi sembra alquanto strano. Questo però non elimina o protegge dal fenomeno del bullismo, cioè maggior libertà e bullismo non sono direttamente proporzionali. Sono invece cambiate, e anche qui c'è stata un'evoluzione, le modalità con cui il bullismo viene effettuato. Ed è qui che entrano in gioco i social. Questi infatti sono sicuramente un'arma a doppio taglio.

Sicuramente accettati di più però sentirci liberi per star bene con noi stessi senza oltraggiare la sensibilità dell'altro. La vita è una, perciò finché non oltraggi l'altra persona bisogna tentare in tutti i modi di tenere fede a chi sono e a chi voglio essere senza sentirmi giudicata. Quindi libertà, ma con criterio.

Ritieni la città dove sei cresciuta un luogo sicuro e lontano da ogni genere di discriminazione?

No, non posso dire che Venezia, più precisamente al Lido, sia un luogo lontano da discriminazioni. Purtroppo è un ambiente molto chiuso, e le persone, forse per il mito degli isolani, sono decisamente grezze, bigotte. O sei tu che attivamente scegli e prendi delle posizioni fisse per mantenere fede ai tuoi valori, oppure ti scontri con un muro ed è difficile uscirne. Io personalmente posso dirmi fortunata per essere cresciuta in

una famiglia rispettosa e con sani principi per quanto riguarda un tema così delicato.

Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni magari anche dove non necessarie, per poi cercare di rimediare ai suoi cosiddetti errori parlando di inclusione? È una domanda che mi pongo spesso anche io: perché dobbiamo categorizzare ed etichettare : non so dare risposta ma mi piacerebbe senza dubbio saperlo. È tipico dell'uomo chiamare le cose con nomi diversi: questo è un divano perché noi abbiamo deciso di chiamarlo così, ma potrebbe benissimo essere una lampada. Scusa l'esempio non molto colto ma alla fine è proprio così. Non c'è molta logica però nel fare prima molte differenze e poi cercare unione tra le cose: c'è anche un doppio male per chi si rende conto di essere diverso. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo anche nonostante le differenze con le quali inevitabilmente la società ci cresce?

Assolutamente sì e non ci vedo pericolo.

L'educazione non può essere mai fonte di problemi, non può essere rischiosa ma anzi è lo strumento probabilmente necessario e giusto al fine di salvaguardare tutti. Faccio un esempio che potrebbe essere visto come unpopular opinion, ma qui in Italia l'erba non è legale ma quanta gente ne fa utilizzo?

Credo che se venisse legalizzata sono certa che molta meno gente sentirebbe il bisogno di provare, perché si sa che molti lo fanno per il semplice desiderio di ribellarsi ad una regola che non da loro la libertà di scegliere se è giusto o sbagliato. Dare più libertà crea senza dubbio paura che le cose vadano male, ma non darla genera nelle persone il desiderio irrazionale di rompere schemi e barriere. E' sicuramente difficile.

Ti sei mai sentita esclusa?

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Sì, mi sono sentita esclusa in diversi momenti della mia vita, a diverse età e per motivi tra i più disparati. L'ultima volta probabilmente è stato proprio all'università: io sto finendo la triennale, e sono in ritardo.

Mi sento esclusa perché la società ti impone che questo corso di studi deve essere per forza completato in tre anni, ma ogni vita e giornata e persona è diversa, e non si sa minimamente cosa può accadere durante il percorso.

I social media sono un mezzo solo negativo o anche positivo per quanto riguarda questo preciso ambito?

I social media sono un'arma a doppio taglio perché ti permettono di esprimere te stesso quanto vuoi e nelle modalità che desideri, ma il fenomeno bullismo è assolutamente presente ed essere dietro ad uno schermo può rendere le persone ancora più cattive e violente. Come tutte le cose, penso dipenda dal modo in cui si utilizzano.

65 anni, Abano Cosa significa per te il termine inclusione?

Io vedo l'inclusione quando due entità che possono essere persone mature, bambini, persone che lavorano insieme, a prescindere da ciò che le rende diverse, possono convivere insieme riuscendo a trovare qualcosa che condividono entrambi.

L’ambito scolastico e/o lavorativo è considerato da te un posto inclusivo?

Secondo la mia personale esperienza ho trovato sempre ambienti tutto sommato inclusivi: ogni individuo ha valore appartiene a proprio modo alla comunità.

Tutti possiamo includere ogni giorno, accettando nella nostra vita le persone che ci entrano. Descriverei questo concetto in

tre parole chiave: formazione, partecipazione e parità.

Hai mai visto un film o letto un libro che trattasse questo tema? Ne sei stato influenzato?

Così di primo acchito mi vengono due titoli.

Il primo film che mi sento di proporre e con il quale sono molto legata è "La mia Africa".

Com'è facilmente deducibile dal titolo è ambientato in Africa in un periodo, non molto lontano, in cui la persona di colore viene ancora trattata come essere inferiore, da sottomettere, insomma come uno schiavo.

Il secondo titolo è invece "Indovina chi viene a cena", storia di una famiglia benestante, di alta società, ben educata ed istruita. La vicenda ruota attorno alla figlia femmina, la quale decide di portare a casa per le feste il suo nuovo fidanzato per presentarlo ai suoi familiari.

Particolare da non trascurare: il ragazzo è di colore. Nonostante il disordine iniziale, il tutto si sistema nel momento in cui, per amore della figlia, il giovane di cui è innamorata viene accolto all'interno della famiglia.

Sono film come questi che mi fanno capire che oggi la discriminazione esiste ma c'è sempre margine di miglioramento: rispetto a quando io ero più giovane, oggi si comincia finalmente ad accettare, accogliere e convivere con realtà diverse, piuttosto che innalzare un muro che fermi la comunicazione e il dialogo tra queste ultime.

Ti sei mai sentita esclusa?

No, e so che può sembrare assurdo che non mi sia successo nemmeno una volta nella vita, eppure da ciò che mi ricordo è proprio così ed è solo merito mio: ho sempre cercato di capire il contesto in cui mi

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trovavo in modo da inserirmi al meglio.

Conoscere i propri limiti e adeguarsi un po' alle persone che ti circondano e che incontri è fondamentale. Anche in occasioni di più acceso dibattito, il mio inserimento è sempre secondario: ascolto, capisco e poi cerco di spiegare le mie idee senza essere leader. Si arriva comunque a raggiungere i propri obiettivi.

Nel mondo di oggi ti sembra che il tema dell’inclusione sia ancora molto vivo?

Certamente, è ancora molto viva. C'è molta "non inclusione" attorno a noi, nella vita di tutti i giorni. Senza andare troppo lontano, tu che stai leggendo aiuti un anziano che deve attraversare la strada? Cosa pensi di una persona di colore che entra in un negozio a chiedere l'elemosina? Al supermercato aiuti chi è in difficoltà, per esempio, a raggiungere uno scaffale troppo alto o fatica a spingere il carrello?

Sappiamo tutti qual è la risposta della maggior parte di voi, se siete sinceri con voi stessi.

Se ne parla abbastanza?

Sì, se ne parla ma molti nascondono la testa sotto la sabbia. E' indubbio che molti lottino per porre rimedio a queste problematiche, ma, quando si tratta di fare una scelta, la maggioranza cerca ancora molto i propri interessi e si ricade nell'egoismo. Per questo si tratta di un'evoluzione molto lenta.

Secondo te i giovani si sentono più liberi di essere loro stessi?

Oggi rispetto ad una volta si da molta attenzione e fiducia ai giovani, quindi si sentono più liberi, ma anche complici ad un sistema di miglioramento per il

I giovani di oggi rispetto a quelli di una volta si, ma proprio recentemente ho sentito alla televisione una storia che mi ha lasciato senza parole. Un ragazzo di 30 anni, nonostante sapesse fin da adolescenti di essere omosessuale, non è mai riuscito a comunicarlo alla sua famiglia per paura della loro reazione. Finalmente, all'età di 30 anni, dopo aver vissuto anni ed anni nella menzogna, è riuscito a mostrarsi per ciò che è davvero ed è stato allontanato dai familiari, a partire dai suoi genitori.

Sentendosi abbandonato anche da coloro che l'hanno generato, il ragazzo è entrato nel buco nero della depressione. Con l'aiuto di amici e di un consulto psicologico i genitori non solo l'hanno ricercato ma hanno raccontato di sentirsi profondamente in colpa per la reazione che hanno avuto nei suoi confronti e che non lo abbandoneranno mai più. Questa storia mi ha profondamente colpito, e chissà quante situazioni come questa ci sono nel mondo.

Quindi sì, rispetto ad un tempo abbiamo fatto grandi passi, ma non sono mai abbastanza. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo nonostante le differenze con cui inevitabilmente la società ci cresce?

E' molto più che importante, è fondamentale. E' dalla base che si deve costruire, per questo è giusto seminare fin dall'inizio amore, comprensione, partecipazione, accettazione... Inoltre, personalmente, non serve proteggere un bambino allontanandolo da realtà che invece esistono, per esempio non cambiando strada quando si incrocia un bambino con disabilità ma anzi spiegare che non esistono solo bambini fortunati.

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Questo a mio parere aiuterà tanto il bambino nella relazione con l'altro, inevitabilmente diverso per qualche motivo.

Se pensi al termine inclusione ti viene in mente un’opera d’arte?

Quale?

Porto di Giardini Naxos: l'opera di Bucchi per l'integrazione

Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni magari anche non necessarie per poi rimediare ai suoi errori parlando di inclusione?

Probabilmente le differenziazioni vengono create per emergere in un gruppo di persone, per creare delle situazioni che rendano un individuo superiore.

I social media sono un mezzo solo negativo o hanno anche lati positivi?

Parlarne fa sempre bene, negativo o positivo che sia ciò che viene detto... l'importante è poter avere occasioni di discuterne e creare dialogo sull'argomento, poi ognuno elabora e crea così una visione personale dell'argomento.

Ritieni la città in cui sei cresciuta un luogo sicuro e libero da ogni genere di discriminazioni?

Io sono nata e cresciuta ad Abano Terme, e la risposta è NO. Questa zona non è integrata ed io vedo la strada ancora lunga. Categorie come persone povere, bisognose o gli anziani,

sono esclusi e non protetti. Certo, ho notato un cambiamento in meglio rispetto a quando io ero piccola: la mia famiglia aveva un hotel qui in città e sono cresciuta in un ambiente in cui un ragazzo di colore non sarebbe mai stato assunto con leggerezza, oggi invece sì.

77 anni, Padova Ingegnere Cosa significa per te il termine inclusione?

L’inclusione nel mio mondo e nel mio lavoro è qualcosa che non appartiene all’insieme nel quale si trova. Nell’acciaio, per esempio, quando si parla di questo si intende un’imperfezione, una parte non omogenea col resto del materiale, ed è quindi da considerare un difetto. Un ingranaggio con un’inclusione su un dente ha probabilità di rottura molto alta nel caso di uso prolungato e questo è un limite all’utilizzazione: il pezzo con una inclusione infatti facilmente non sarà in grado di sopportare il carico per cui era stato progettato; peraltro c’è anche da dire che se l’inclusione si trova all’esterno, in superficie, la rottura facilmente potrà verificarsi in tempi molto brevi, mentre se si trova in profondità, in punti dove la sollecitazione è minore, c’è una discreta probabilità che non si verifichi un cedimento e il difetto possa non essere mai rilevato.

Inclusione sociale sinceramente mi dice molto poco, secondo me può essere considerata un qualcosa che non appartiene al resto dello strato sociale e tale da provocare discontinuità. Questa non omogeneità potrebbe essere causa di tensioni: in certi casi risulterebbe non essere un arricchimento aggiungere qualcuno di diverso a un gruppo; peraltro potrebbe anche essere positivo un apporto di novità alla “monotonia”: dipende dal suo modo di inserimento.

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Hai mai visto un film o letto un libro che secondo te tratta questo tema?

Sinceramente no.

Ti sei mai sentito escluso?

In un certo senso sì, infatti quando l’azienda per cui lavoravo cambiò configurazione, al tempo in cui io ero già direttore tecnico.

Alcuni miei colleghi, furono “promossi” a livello di direttori generali mentre io mantenni la mia posizione precedente. Per certi versi mi sentii escluso, ma concretamente non mi diede troppo fastidio: personalmente non subii alcun trauma e non ne soffrii più di tanto, ma mi rendo conto che un’altra persona avrebbe potuto interpretare questa situazione in modo diverso nel sentirsi scavalcato o messo da parte.

Secondo te i giovani si sentono più liberi rispetto a una volta di essere loro stessi?

Ho paura di no. Secondo me una persona è se stessa se cresce, se si pone degli obiettivi e riesce quindi a perseguirli in maniera progressiva. Mi sento di dire questo più che altro per il fatto che credo esista una differenza sostanziale tra l’essere liberi e il sentirsi effettivamente tali. Penso che oggi i giovani siano liberi e mediamente non “oppressi” da decisioni prese da altri come poteva succedere in passato; ma questo possedere un livello elevato di libertà li porta nel concreto a sentirsi effettivamente liberi?

Qui sorge il mio dubbio, perché i giovani d’oggi secondo me hanno addirittura troppe libertà, a causa delle quali può capitare di perdere se stessi e non riuscire ad esprimersi al meglio. Io nel corso degli anni mi sono reso conto del fatto di avere un’ideologia completamente diversa da quella che la società moderna instilla oggi nei giovani: per fare un esempio concreto che sottolinei questo, dico che io non ho mai neanche pensato di poter chiedere ai miei genitori di

andare a fare un viaggio solamente con i miei amici a 16 anni, cosa che oggi mi sembra anche troppo scontata: infatti molti giovani viaggiano da soli anche prima di quell’età.

Secondo me un’altra cosa che è necessario sottolineare è il fatto che i genitori oggi sembrano quasi non avere più alcuna voce in capitolo: l’ottenere un determinato permesso è dato praticamente per scontato. Troppo spesso sembra che gli adulti siano gli ultimi a venire a conoscenza di molte cose che riguardano i propri figli. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo anche nonostante le differenze con cui inevitabilmente la società ci cresce?

Certamente, fa parte della formazione di ognuno e secondo me questo è compito fondamentale dell’educazione impartita dalle famiglie all’interno dell’ambiente domestico.

Uno dei fattori basilari in questo caso è il dialogo: è necessario che si discuta, che si parli all’interno della propria famiglia per analizzare le differenze e cercare di non etichettarle semplicemente come tali. Io sono convinto che ci siano molti genitori che non creano un luogo in cui ci si senta liberi di parlare e un esempio lampante di questo non dialogo in casa è emerso dal recente lockdown: questo ha obbligato intere famiglie ad restare tutti nella stessa casa ed è stato in alcuni casi fonte di moltissimi litigi.

I social media o la televisione sono un mezzo solo negativo o hanno anche lati positivi per quanto riguarda questo preciso ambito?

Non mi sbilancerei troppo, secondo me in parte si e in parte no. La tecnologia in sé dovrebbe essere usata in modo giusto: c’è un’offerta molto varia ma un’esagerazione di base può essere causa degli effetti negativi dei social media che oggi sembrano essere alcuni dei mali del mondo più insidiosi. A

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parer mio la televisione in particolare, ma probabilmente anche i social media, vengono spesso usati per diffondere stupidaggini e non quello che può essere utile. Ci sono moltissimi programmi che trasmettono alla televisione contenuti altamente diseducativi.

Per fare un esempio concreto penso ad alcuni reality, che ininterrottamente mostrano cosa fanno e come vivono persone in situazioni anomale o addirittura violente; a me questo fa poco effetto e non me ne sento coinvolto, ma chiunque altro prendesse ciò come modello non riuscirebbe a trarne vantaggio a livello personale al fine di creare positivamente un proprio corretto modo di vivere. Questa cosa mi rattrista molto, perché mi sto rendendo conto ogni giorno di più come troppi si stiano omologando con esempi di scarsa validità, rinunciando ad una propria personalità ed una equilibrata cultura. Sembra prevalere la disponibilità a rinunciare a distinguersi nel modo di vestire, nel modo anche solo di rapportarsi con le altre persone, cosa che era molto importante quando ero giovane io.

Ritieni la città dove sei cresciuto un luogo sicuro e lontano da ogni genere di discriminazione?

Si, penso proprio di si. Io vivendo nel centro della città posso dire di non aver assistito a nessun tipo di discriminazione sociale negli anni della mia giovinezza e di non aver risentito di nulla; ovviamente l’ambiente della città è completamente diverso rispetto a quello che la vita era tradizionalmente in un paese di campagna, dove ci si conosce più o meno tutti e c’è più contatto umano. Rispetto a una volta credo che anche questo sia in buona parte cambiato, infatti l’avere un rapporto di amicizia o quanto meno conoscenza con i propri vicini si è un po’ perso nel corso degli anni fino a ritrovarsi spesso a vivere circondati da estranei.

46 anni, Padova Cosa significa per te il termine inclusione?

Questo termine secondo me sta ad indicare una sorta di accettazione completa, a 360 gradi nel mondo del lavoro, in quello scolastico e in ambito sociale. Includere è accettare un elemento all'interno di un gruppo.

Più precisamente significa appartenere a qualcosa, sentirsi accolti.

L’ambito scolastico e/o lavorativo è considerato da te come un posto inclusivo?

Talvolta si talvolta no; infatti ci sono spesso licenziamenti senza apparenti motivi semplicemente a causa di disabilità, genere, "razza", sessualità e religione: tutte cose che io personalmente non considero scuse plausibili.

Hai mai visto un film o letto un libro che trattasse questo tema? Ne sei stata influenzata?

Mi vengono in mente molti film: "Figli di un Dio minore " del 1986 che già dal titolo da l'idea di non essere inclusivo, infatti parla di un dio diverso e tratta del recupero di ragazzi sordomuti. Del 1990 “Edward mani di forbice”, in cui il protagonista è inizialmente amato da tutti i vicini di casa che gli iniziano a chiedere favori, per poi venire discriminato a causa della forma delle sue mani e visto come un mostro. In questo film è esposta in modo chiaro la tematica dell’allontanamento del diverso proprio per il fatto che sia diverso. Un altro film che mi riporta a questa tematica è Forrest Gump, che parla di questo ragazzo un po’ tonto, buono ma con una vena ottimistica che lo aiuterà ad essere mille persone. D’altra parte affronta anche il tema del diverso e della fatica che si fa per essere inclusi: a volte la troppa bontà ti porta ad essere penalizzato e a sentirsi esclusi dalla

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società. Sì, ne sono stata influenzata essendo una persona molto empatica, sensibile e dalla commozione facile, mi immergo nelle storie dei protagonisti e soffro con loro quando vengono esclusi e gioisco quando escono da queste situazioni e ce la fanno, quindi si quando guardo un film mi lascia una scia, uno spunto di riflessione per me stessa su chi e cosa voglio e non voglio essere.

Ti sei mai sentita esclusa?

Forse più oggi che un tempo. Da ragazza no, mai, anche grazie al mio carattere solare e compagnone. Oggi posso aver avvertito questo senso nel mondo lavorativo di mio marito, dove talvolta vorrei dare un aiuto più concreto ma non lo sento il mio ambiente e non sento di avere le competenze necessarie, quindi direi che non sono gli altri ad escludermi ma lo faccio io.

Hai notato un’evoluzione nel modo in cui la società si rapporta a questa problematica?

Assolutamente sì, in molti settori se non tutti. Se ne parla sicuramente di più di un tempo ma nonostante ciò è un tema ancora molto spinoso, dove si fa poco di veramente concreto per combattere questa problematica.

Se ne parla abbastanza?

Sì, ma ripeto e sottolineo in modo discordante e spesso porta a riflessioni inconcludenti: c'è ancora troppo bigottismo, individualismo ed egoismo, c'è poco coraggio di ribellarsi e di essere se stessi sempre e comunque.

Secondo te i giovani oggi si sentono più liberi di essere loro stessi perché più facilmente accettati?

Forse più liberi sì, ma non perché più facilmente accettati, ma semplicemente per il fatto che oggi va di moda “liberarsi”, fare coming out, essere protagonisti di qualcosa, far parlare di sé, insomma essere in vetrina

anche con il rischio di attirarsi critiche, bullismo e cattiverie. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo anche nonostante le differenze con cui la società inevitabilmente ci cresce?

Importantissimo!!! La società deve cambiare nella sostanza, nel concreto, nei fatti e non solo nelle parole, ma non dall’adolescenza ma sin dalle prime esperienze scolastiche e sociali, in tenera età. Quindi più sostanza ed essenza e meno apparenza frivola ed inutile: questo porterebbe a più libertà e serenità, a più amore e meno odio, a più parità ed uguaglianza, e infine ad una maggior empatia e sensibilità verso il prossimo. La gentilezza apre tutte le porte, ed insieme alla gratitudine è la chiave di tutto.

Se pensi all’inclusione ti viene in mente un’opera d’arte? Quale?

La prima cosa che mi salta alla mente è Matisse, che è riuscito a esprimere in molte opere un'autentica gioia di vivere: “bisogna guardare tutta la vita con gli occhi di un bambino”. Una sua opera in particolare che mi da l'idea di inclusione è “La Danza”, in cui i protagonisti del dipinto ballano tenendosi per mano come in un enorme giro tondo.

Un'altra che mi ha particolarmente colpito è “Gioia di Vivere”, dove uomo e natura convivono in un rapporto di assoluta armonia, quindi in un senso più ampio riesco a vedere sviluppata l’idea di inclusione.

Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni magari anche dove non necessarie per poi rimediare ai suoi cosiddetti errori parlando di inclusione?

Perché vince quasi sempre il voler primeggiare sugli altri, il voler dominare, sovrastare ed imporsi su chi ci sta attorno, tendendo così a svilire e a svalutare per riuscire a emergere. Si guardano fin troppo le

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proprie esigenze (individualismo ed egoismo sopra citato). Un’altra cosa che reputo importante è il fatto che ci sia una grande mancanza di dialogo, attenzione e ascolto: non si sa più ascoltare.

I social media sono solo un mezzo negativo o hanno anche lati positivi per quanto riguarda questo preciso ambito?

Naturalmente entrambe le cose. Se utilizzati nella maniera corretta sono certamente un mezzo utile e positivo. Di primo acchito mi viene quasi spontaneo giudicarli negativamente, soprattutto nell’età adolescenziale, un età in cui si è più facilmente influenzabili. In età adulta potrebbe essere diverso, se anche loro fossero in grado di usarli nella maniera corretta, facendo rete e così aiutando i più fragili.

Ritieni la città dove sei cresciuta un luogo sicuro e libero da ogni genere di discriminazione?

La risposta è no, non penso esista un luogo con queste caratteristiche.

48 anni, Padova Architetto Cosa significa per te il termine inclusione?

Io penso che sia un modo come un altro per fare qualcosa che non vuoi fare, un modo per convincerti a fare cose che normalmente non faresti cercando di spiegarti le argomentazioni in maniera tale da avere un atteggiamento suadente ed accomodante.

Come se volessero farti prendere una medicina amara spacciandola per una pillola dolce.

Secondo te l’ambito scolastico e/o lavorativo è considerato da te un posto inclusivo?

Non necessariamente, dipende. Secondo me in determinati ambiti l’inclusione è quasi

intrinseca: molto in profondità nelle situazioni in cui è presente per forza, mentre ci sono altri ambienti in cui si arriva a una sorta di compromesso solo grazie all’applicazione di imposizioni, ma ci sono anche settori in cui questo genere di cose non sono assolutamente contemplate e non ha ragione di esistere un’inclusione.

Hai mai visto un film o letto un libro che trattasse questo tema? Ne sei stato influenzato?

Direi proprio di sì. Ho letto alcuni libri e visto film che trattavano questo tema, però non mi sento di dire che mi hanno influenzato. Un esempio può essere “Arancia Meccanica”, il libro di Anthony Burgess, perché ci si ritrova in un contesto talmente alienato che per essere in qualche modo accettati dalla cosiddetta società civile è necessario seguire un condizionamento estremo attraverso il mezzo del lavaggio del cervello. Quest’ultima cosa avviene, a mio parere, anche nel mondo di oggi attraverso un’influenza sempre maggiore che sta a poco a poco invadendo tutti i pensieri, ovvero quella prodotta dai mass media, che stanno cercando di creare una sorta di omologazione attraverso messaggi che non siamo in grado di cogliere del tutto.

Nel mondo di oggi ti pare che il tema dell’inclusione sia ancora molto vivo?

Il problema è vivo senz’altro. Per quanto riguarda il parlarne direi che siamo un po’ incastrati in una sorta di limbo: ne parla chi è interessato e chi vuole la diffusione di determinate cose a livello di substrato sociale, mentre quelli che non ne parlano sono coloro che non si rendono conto dell’esistenza di questo fenomeno e sono gli stessi a cui le persone interessate cercano di arrivare diffondendo i propri messaggi. I mass media e gli altri strumenti di diffusione del pensiero portano sicuramente avanti

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questo discorso, anche se in modi diversi.

Ogni sorgente di notizie spinge per diffondere la sua versione, suddivisa e adattata a seconda del pubblico a cui si rivolge.

Secondo te i giovani rispetto a una volta si sentono più liberi di essere loro stessi perché accettati?

Secondo me dipende dal periodo storico in cui ci troviamo. In particolare dopo il ’68 è cambiato molto di questo tipo di mentalità, perché si è innestato a livello sociale un tentativo di scardinare quello che era l’ordine precostituito. Per tutti gli anni ’70 c’è stata una liberalizzazione generale diffusa in tutti gli ambiti. Non per niente, in tali anni, sono state promulgate anche leggi molto importanti, come la legge sull’aborto, quella sul divorzio, che trattavano argomenti che prima erano considerati “tabù” in Italia.

Tutto questo ha portato a una liberalizzazione generalizzata. A seguito di queste cose posso dire che oggi ci sia decisamente più libertà rispetto a una volta e vorrei sottolineare il fatto che solo 60 anni fa in Inghilterra essere omosessuali veniva considerato un reato e se scoperti, si rischiava il carcere. Sono stati fatti decisamente molti passi in avanti, rispetto a quei tempi. Un’altra questione importante è quella del pregiudizio, che mette in luce i concetti radicati nella società civile odierna, difficili ad essere sostituiti. Questo è inficiato anche dal fatto che determinate persone siano unicamente interessate al mantenimento del proprio status quo solo perché fa loro comodo. In una situazione completamente opposta si trovano, invece, quelli che fanno di tutto per mettersi in mostra e ostentare esageratamente la loro diversità. Un esempio pratico si può ritrovare nel cosiddetto “gay pride”, manifestazione che secondo me non aiuta a superare le

diversità ma anzi le mette ancora più in risalto e non aiuta a metterle da parte.

Secondo me se queste persone cercassero di comportarsi come persone “normali”, avrebbero di certo più successo nella loro lotta. Mi rendo conto che la parola “normale” non sia molto adatta a questo contesto, perché effettivamente cosa può considerarsi “normale”? Ovviamente una cosa che è normale per me può non essere considerata tale da altri e viceversa. Per concludere, direi che se coloro che si sentono diversi e non capiti si comportassero in modo meno eccessivo, sarebbero capiti molto di più e in modo meno faticoso di come avviene oggi, perché, non mettendo in luce in quel modo ostentato le loro diversità, non farebbero sorgere quel sentimento di paura verso ciò che non è l’abitudine al conformismo, sentimento intrinseco dell’uomo. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo nonostante le differenze con le quali inevitabilmente la società ci cresce?

Sì, certamente. Basta che non li si porti, però, a credere che ogni pensiero sia sempre e comunque corretto. Potrebbe essere preferibile dare ai più piccoli un esempio comportamentale concreto e non un insieme di regole che magari l’adulto stesso in diverse situazioni non segue. Secondo me è molto diverso spiegare a parole come comportarsi piuttosto che dare un esempio al bambino con le proprie azioni, una traccia da seguire, una sorta di imprinting per cui il modo di vivere del genitore o della persona più grande in generale diventi di assoluto richiamo.

Ovviamente se emergono diversità oggettive è necessario accettarle e magari affiancare la persona nelle proprie scelte di vita senza esprimere giudizi magari non necessari alla formazione della sua personalità. Imporre libertà ad ogni costo e su ogni cosa potrebbe

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avere più effetti negativi che positivi. Uno studio fatto negli anni 50 e 60 da alcuni pedagoghi, in cui si lasciava massima libertà al bambino, ha portato alla creazione di una generazione di disadattati, che facevano quello che gli passava per la testa senza fermarsi troppo a pensare. Le regole sono necessarie ed è giusto che ci siano, ma dovrebbero essere improntate al modus vivendi della persona che le propone, altrimenti, si rischierebbe di sfociare in un’ipocrisia di fondo.

Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni, magari anche dove non necessarie, per poi cercare di rimediare ai suoi cosiddetti errori parlando di inclusione?

Vorrei cominciare dicendo che le differenziazioni non sono propriamente create dal’uomo, ma esistono inevitabilmente nella società e nascono dal fatto che l’uomo in se è diverso, nel senso che noi esseri umani siamo differenti l’uno dall’altro, in quanto esseri senzienti. Secondo me anche in questo caso dipende dal contesto in cui ci si trova, infatti alcune differenziazioni possono essere anche in parte dovute a un retaggio di alcune culture che in diversi luoghi del mondo considerano il modo di vivere quotidiano in modo diverso. Mi sento di fare un esempio citando i giapponesi, famosi per essere tradizionalisti e molto legati alla cultura del loro paese: se uno di noi entrasse in una casa giapponese e si togliesse le scarpe lasciandole con le punte rivolte verso l’interno, risulterebbe offensivo verso i padroni di casa, perché starebbe a significare che non si è intenzionati a lasciare quel luogo molto presto; il modo corretto di porre le proprie scarpe è con le punte verso l’esterno, per far capire che siamo solamente ospiti e che lasceremo presto quella casa.

Ti sei mai sentito escluso?

Sì, è capitato qualche volta. A chi non è capitato? Ci si può sentire così quando ci si trova in una situazione in cui è difficile inserirsi perché non ci si sente di appartenere a quel determinato gruppo di persone o al loro modo di pensare. L’esclusione può essere politica, oltre che sociale, ed è possibile ritrovarsi magari a dover dialogare con persone appartenenti ad una fazione diversa dalla tua e questo sicuramente può causare non poco disagio e senso di esclusione in particolare per quanto riguarda quelle che sono le idee e gli orientamenti.

Ritieni la città dove sei cresciuto un luogo sicuro e lontano da ogni genere di discriminazione?

Direi che in linea di massima Padova può considerarsi un luogo sicuro, anche perché nella mia vita ho visitato molte altre città e devo dire che molte mi sono sembrate più pericolose. Al di là di questo non credo Padova abbia molti problemi da questo punto di vista, anzi penso che ci sia una grande tolleranza. Bisogna però ammettere che in realtà il padovano, come individuo, è per natura molto diffidente nei confronti di tutto e di tutti: è una caratteristica propria nella “patavinitas” l’essere un po’ scontrosi.

Questo però non porta assolutamente a una mancanza di sensibilità, anzi, come sottolineato nella commedia dell’arte dal personaggio di Pantalone, magari alla fine sono quelli più burberi a nascondere sotto la maschera una gentilezza che non ci si aspetterebbe e che non vogliono che sia messa in mostra per una forma di protezione personale.

Vedi differenze nel mondo in cui sei cresciuto tu da ragazzo e quello dove vedi crescere i tuoi figli?

Sinceramente, credo sia un periodo molto diverso: il periodo in cui sono cresciuto io era considerato la fine degli anni di piombo e la

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città era abbastanza pericolosa, vigeva addirittura una specie di tacito coprifuoco perché la sera non c’era una grande illuminazione per le strade e perfino i negozi chiudevano le luci. La sera e la notte bande eversive e tossicodipendenti la facevano da padroni. Un ambiente che non consiglierei a nessuno di frequentare. Negli anni ’80 c’è stato un cambiamento netto, quasi a voler dimenticare il periodo precedente. Questo ha portato a uno scemare graduale della situazione precedente con una conseguente riduzione dell’impegno politico delle masse: si è passati a un modus vivendi completamente opposto, di leggerezza quasi eccessiva. In linea di massima posso dire che non è stata una brutta infanzia, anche se vissuta con qualche attenzione.

Oggi ci sono pericoli diversi che si manifestano in svariate forme. Strumenti che una volta non esistevano come per esempio internet e gli smartphone, possono risultare dannosi se utilizzati male. Al di là di questo penso che anche il periodo in cui stanno crescendo i miei figli non sia tanto male, certo dipende tutto da come una persona interpreta determinate situazioni e oggi come allora ci sono le cattive compagnie e dipende tutto dalle persone di cui ci si circonda.

A livello di inclusione secondo me una volta era peggiore la situazione, perché le differenze erano più marcate, perché meno pubblicizzate e meno evidenti e quell’unica volta in cui magari capitava di imbattersi in differenziazioni era più facile, anche secondo le abitudini dell’epoca, saltare alle conclusioni sbagliate.

I social media sono un mezzo solo negativo o hanno anche dei lati positivi per quanto riguarda questo preciso ambito?

Credo che i social media siano una cosa fondamentalmente positiva anche se in ogni

caso dipende anche in questo caso da come vengono utilizzati. Per esempio, se si diffama consapevolmente una persona o si comunicano notizie sbagliate per raggiungere un determinato risultato. Se, invece, fossero utilizzati per creare aggregazione o scambi di idee, invece di diventare un’inutile fonte di pettegolezzi che vengono portati avanti come fine a se stessi o per autoincensarsi e quindi sminuire il prossimo, ci sarebbe una chiara rivalutazione.

Ti viene in mente un’opera d’arte che possa ricondurre a questa tematica?

Pensando a questo tema non mi viene in mente un’opera specifica, ma più che altro un artista omosessuale che si è fatto conoscere per i suoi graffiti nella metropolitana di New York: Keith Haring. Questo ragazzo è diventato famoso per i suoi elementi stilizzati, che ritraevano non solo uomini ma anche animali. Utilizzava queste sue opere come messaggio per esprimere il suo desiderio di inclusione nonostante sia morto molto giovane di AIDS, è riuscito a fare in modo di essere ascoltato o, quanto meno, notato. Molti di questi murales sono stati recuperati dalla loro sede originaria per essere esposti in musei e gallerie.

19 anni, Padova Studente del liceo Tito Livio Cosa significa per te il termine inclusione?

Credo che l’inclusione più alta a cui l’uomo può arrivare sia quella politica, quindi la partecipazione alla vita sociale e politica con determinati mezzi culturali che lo facciano sentire incluso e che lo aiutino ad includere a sua volta grazie ai mezzi dello stato coloro che devono essere inclusi.

L’ambito scolastico è considerato da te come un posto inclusivo?

No, direi di no. In realtà credo che sia particolarmente difficile trovare un luogo

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completamente inclusivo, perché un’istituzione come può essere quella di uno stato si basa principalmente sull’esclusività ovvero su un certo gruppo di persone egemoni che è più potente rispetto agli altri.

E il Tito Livio nello specifico?

Credo che il Tito Livio sia quasi in assoluto l’esempio peggiore che potessimo portare a galla. È una scuola antiquata che indirizza un certo tipo di persone a frequentare questo ambiente scolastico, anche se in realtà la scuola in generale richiede un certo tipo di comportamento, consono al luogo in cui ci dicono siamo. In qualche modo quindi possiamo dire che esclude e tarpa le ali a un modo diverso di vivere la socialità.

Nel mondo di oggi ti sembra che il tema dell’inclusione sia ancora molto vivo? Hai notato un’evoluzione in come la società si rapporta con questa problematica?

La mia esperienza di vita fino ad ora è abbastanza limitata e per questo motivo non sono sicuro di riuscire a individuare una vera e propria evoluzione nella società. In ogni caso, oggi è più presente un’attenzione mirata nei confronti di certe categorie sociali e molte persone che una volta avevano meno possibilità di far valere i propri diritti, oggi sono in grado di esprimersi sicuramente più liberamente. Penso comunque che questo processo stia andando molto lentamente, almeno in Italia, infatti il mio paese mi sembra abbastanza fermo e stantio, quasi retrogrado per quanto riguarda certi tipi di cambiamenti. Anche le istituzioni secondo me sono un problema, infatti non sembrano capire totalmente il problema o non riescono a trovare un modo adeguato di porlo. Un altro “lato” negativo per quanto riguarda le istituzioni può essere il loro non fornire una risposta, spingendo l’estremizzazione di alcuni caratteri di certi gruppi che vogliono

farsi includere, facendo diventare inutile il lavoro di quelle persone che cercano o di eliminare o di far capire questa problematica: in un certo senso è come se si stessero remando contro da soli.

Secondo te il fatto che se ne parli tanto,troppo, poco, troppo poco potrebbe essere in qualche modo controproducente o far passare il messaggio sbagliato?

Sicuramente dipende da come se ne parla, però in ogni caso il non parlarne risulterebbe essere ancora più dannoso. Se c’è la libertà di esprimersi è inevitabile che soprattutto nelle ricorrenze se ne parli, e secondo me è chiaro che sia così. Il fatto di essere indotti al discutere determinati argomenti, non solo quello dell’inclusione, solo in occasioni diverse dall’ordinarietà di tutti i giorni può essere considerato un limite, ma dopotutto siamo umani e anche se si cerca di educare non è quasi mai possibile un cambiamento radicale nel modo di pensare. Il silenzio è deleterio per una democrazia, andrebbe evitato assolutamente o quasi.

Secondo te i giovani rispetto ad una volta si sentono più liberi di essere loro stessi perché accettati?

No, secondo me una persona non si sente libera di esprimersi perché se accade ciò vuol dire che c’è una pressione sociale sull’individuo e la presenza di un pensiero dominante che evidentemente mina la libertà di espressione altrui. Per quanto riguarda i giovani, oggi la situazione è completamente diversa da quella che c’era quando i nonni per esempio erano più giovani, e ora siamo consapevoli del fatto che noi come “futuro del mondo del lavoro” saremo costretti praticamente a non poter andare mai in pensione.

I social media sono un mezzo solo negativo o hanno anche dei lati positivi

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per quanto riguarda questo specifico ambito?

Personalmente credo che i social media e internet in generale siano abbastanza positivi, perché danno una grande libertà di espressione a qualsiasi persona, anche se sono comunque anche negativi; infatti questo tipo di diffusione dell’informazione è sicuramente molto potente e può essere positivo come può essere negativo. Un modo che secondo me è molto efficace per riuscire ad avere un maggiore controllo è una specifica educazione che però non tutti hanno e che secondo me dovrebbe essere parte integrante della vita delle persone. In questo modo potrebbe essere possibile soppesare maggiormente le proprie parole prima di usarle con la leggerezza che contraddistingue i social media e nel caso di notizie di cronaca e di attualità verificare l’attendibilità delle fonti in modo tale da essere sicuri di quello che si sta leggendo.

Anche se indubbiamente il fatto che ci sia la possibilità di aprire una propria pagina su un social media, come può essere instagram, ed essere consapevoli di poter pubblicare quasi tutto quello che si vuole è indice di grande libertà.

Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni anche dove non necessarie per poi parlare di inclusione?

Sinceramente penso che questa domanda potrebbe portare ad una risposta migliore e forse più completa se fosse incentrata non sull’uomo ma sullo stato, inteso come gruppo di persone.

In ogni caso questo è un meccanismo di difesa che senza dubbio esiste, che può scattare al seguito di una sorta di senso di colpa sociale oppure per un compromesso necessario tra le parti sociali, credo sia normale e connaturato in come dovrebbero

andare le cose in una democrazia: una tensione a cui le parti sociali rispondono in modi diversi. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo anche nonostante le differenze con le quali inevitabilmente la società cresce oppure è pericoloso?

Secondo me educare all’inclusione non è pericoloso anzi, però più che una cosa del genere si dovrebbe cercare di aiutare a far attecchire nella mente di un bambino o una persona comunque giovane. Dovremmo cercare di far loro capire che non solo noi, ma anche gli altri sono portatori di un certo retaggio culturale; anche in questo caso spiccherà la persona che di fronte a una certa maggioranza è considerata differente. Credo si debba abituare all’incontro con l’altro, alla definizione di cosa sia l’altro. In ogni caso penso che debba essere imposta, o meglio credo sia difficile far capire a un bambino termini come inclusione e quello che è il significato che noi diamo a questo termine senza avere esempi pratici. Secondo me rimanere bambini sotto certi punti di vista, può essere un bene lo stupirsi di fronte alla diversità, davanti all’altro e avere delle reazioni umane che può causare un iniziale allontanamento ma che poi sfocia in una curiosità che aiuta a superare le differenze.

Non si dovrebbe fermare la curiosità perché è una continua inclusione, un continuo trovare la ricchezza nel diverso.

Ritieni il luogo in cui sei cresciuto sicuro e libero da ogni genere di discriminazione? È una città mediamente grande che non ha dinamiche da paese che possono essere tipiche di altre città del Veneto. Secondo me c’è una discreta quantità di persone differenti, anche se non è presente un grande

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coesione ma sono principalmente singole unità.

Ti sei mai sentito escluso?

Mi sono sentito escluso, ma non discriminato, che è qualcosa di molto più serio e problematico. Credo che una buona risposta alla propria esclusione, sia attribuirsi come qualità le cose che ti "differenziano" esteriormente. È una soluzione di chiusura certamente, ma è molto romantica.

Ti viene in mente il titolo di un film o di un libro in cui viene trattato questo tema? Ne sei stato influenzato?

Sì, mi viene in mente un film che parla di un evento di cronaca reale negli Stati Uniti: Bomb City, 2017. Questo film parla di un ragazzo punk che viveva in una cittadina provinciale del sud degli USA, in un clima molto retrogrado ed era stato ucciso a seguito di una rappresaglia effettuata da un gruppo di footballers che avevano distrutto il suo locale. Nella storia questo ragazzo cerca di vendicare l’atto compiuto da questi intoccabili giocatori di football americano, ma mentre cerca di farlo viene investito, e quello che effettivamente lo uccide viene completamente assolto da ogni possibile colpa. Durante la difesa “l’omicida” ha dichiarato che il ragazzo punk fosse violento e quasi uno che andava a cercarsi i guai per gioco piuttosto che evitarli; quindi si vede che è stato scambiato il suo modo di vestirsi e quindi di porsi nei confronti della società con quello che lui era davvero sotto quello strato di vestiti neri e accessori iperbolici. In questo modo c’è stata una mistificazione del suo modo di presentarsi e per esempio le borchie erano state viste come uno strumento di offesa per fare del male agli altri piuttosto che come un voler mettere in risalto la propria personalità.

Secondo me questo fa riflettere su come escludere certe categorie di persone a un certo punto diventi naturale, connaturato nelle istituzioni e venga accettato per mantenere la solidità di uno stato o in questo caso la quiete in una cittadina.

Riesci a pensare ad un’opera d’arte che tratti questo tema?

Basquiat è un bell’esempio di inclusione e il fatto che alla fine si ripieghi su se stesso in questa società che nell’ambiente dell’arte newyorkese molto elitaria ha fatto in modo che collassasse su se stesso. È un personaggio comunque molto forte, tossicodipendente e di colore, che non si sottrae ma anzi si “butta” sulla protesta.

18 anni, Pianiga Studentessa del liceo Tito Livio Cosa significa per te il termine inclusione?

Secondo me si tratta di una tematica molto discussa soprattutto ultimamente e pensando a questo specifico ambito possono venire in mente anche molti spunti cinematografici e letterari che hanno aiutato a spiegare e a diffondere questo concetto. Il fatto che ci si stia concentrando particolarmente su questo tema dimostra che sono stati fatti dei passi avanti nonostante tutto, anche se c’è ancora molta strada da fare. Credo sia importante però che sempre più persone si rendano conto che è necessario prestare attenzione anche ad argomenti che magari non sono all’ordine del giorno.

Considerando che l’inclusione è un tema davvero molto ampio, per spiegarlo al meglio credo sia necessario concentrarsi su un preciso ambito come può essere quello scolastico o di un gruppo di amici, ma anche quello lavorativo. Prendo come esempio la situazione del gruppo di persone che si conoscono da tempo e che hanno stretto un

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legame di amicizia, in quel frangente si tende a vedere il diverso in ciò che è esterno al gruppo. Quello che vorrei sottolineare però è il fatto che si dovrebbe ricercare negli altri la diversità per fare in modo di uscirne con qualcosa in più, un arricchimento sociale e culturale.

L’ambito scolastico è considerato da te un posto inclusivo?

Idealmente si, anche se in realtà nella pratica questo fenomeno mi sembra più unico che raro. Devo dire però che sono presenti o che stanno per essere creati gruppi di inclusione, specificamente formati per cercare di sfavorire l’esclusività o quanto meno far capire al mondo l’importanza di questa tematica. Si stanno facendo inoltre, nelle scuole, molti progetti sul rispetto per cercare di sensibilizzare gli adolescenti e gli studenti a determinati temi di discussione. Sono convinta che comunque siano stati apportati dei miglioramenti anche se in ogni caso la strada per il “successo” è ancora molto lunga.

E il Tito Livio nello specifico?

Sono del parere che la mia scuola, come sicuramente molte altre, sia ancora ancorata ad un impianto antiquato e rigoroso, che porta in ogni caso ad un limitare la libertà di espressione e ad una successiva non inclusione.

Nel mondo di oggi ti sembra che il tema dell’inclusione sia ancora molto vivo? Hai notato un’evoluzione in come la società si rapporta con questa problematica?

Sì, sono convinta che sia una cosa molto sentita anche se in ogni caso non sono in grado di dare una visione così ampia della situazione, essendo io ancora molto giovane.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale posso dire di essere abbastanza informata su questa tematica e di averci ragionato molto anche in ambiente

scolastico. Quando frequentavo la scuola media ci hanno fatto leggere un libro sul bullismo e ci è stato chiesto di creare dei testi rap che poi sono andati a confluire in un musical. Penso che sia una cosa molto trattata anche per quanto riguarda l’ambito scolastico.

Secondo te il fatto che se ne parli tanto,troppo, poco, troppo poco potrebbe essere in qualche modo controproducente o far passare il messaggio sbagliato?

Secondo me dipende molto da come viene declinato il momento dedicato a questo specifico ambito o ad altri argomenti “delicati”, ovviamente se si cerca di fare sempre la stessa cosa allo stesso modo può trasformarsi in una cosa ripetitiva e quindi riduttiva. Invece è strettamente necessario ampliare, presentare in modo diverso ma soprattutto ampliare e toccare nuovi ambiti su cui di solito non ci si focalizza molto, anche se possono di primo acchito sembrare scomodi.

Secondo te i giovani rispetto ad una volta si sentono più liberi di essere loro stessi perché accettati?

Sì, però il comportamento di alcune persone nei confronti di chi è oppure si sente diverso si è inasprito nel tempo e, nonostante ci siano stati tanti cambiamenti che hanno portato ad una maggiore apertura, secondo me le persone non si sentono realmente libere di esprimersi.

I social media sono un mezzo solo negativo o hanno anche dei lati positivi per quanto riguarda questo specifico ambito?

Io penso che i social abbiano una grande potenzialità, anche se ovviamente dipende molto anche da come vengono utilizzati. La libertà di espressione va bene, però secondo me è necessario che ci siano anche delle

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regole che facciano in modo che non venga superato un certo limite. Mi sembra sia davvero un ottimo strumento quello di internet per la diffusione rapida e diretta di moltissimi messaggi, il punto sta nel fatto che è necessario che siano costruttivi e che aiutino la società e non la demoliscano con false credenze e ideologie sbagliate Perché l’uomo ha bisogno di creare differenziazioni anche dove non necessarie per poi parlare di inclusione?

Io penso che ci sia il bisogno di crearsi dei gruppi per cercare di trovare individui simili, di trovare una nostra identità e sono convinta del fatto che ognuno abbia le proprie caratteristiche, le proprie antipatie e simpatie e che questo porti quindi alla creazione delle differenziazioni sociali. Il problema vero però sussiste quando queste differenze vengono portate all’estremo e quando qualcosa che si ritiene possa rendere speciale una persona e differenziarla appunto da altri, ti viene rivoltato contro. Secondo me siamo quasi noi stessi a metterci delle etichette e a limitarci, perché in questo modo ci sentiamo di appartenere veramente a qualcosa e di fare parte di un gruppo. Questo avviene perché la grandezza di quello che può essere un mondo totalmente inclusivo spaventa e abbiamo bisogno di avere un posto sicuro in cui tornare “etichettato”. In ogni caso di sicuro sarebbe un’utopia pensare di poter stare tutti insieme, però è possibile cercare di ampliare gli orizzonti. Comunque il problema non sussiste se ci si ferma alla formazione dei gruppi in se, ma quando sono portate all’estremo le differenze. È importante insegnare ai più piccoli ad accettare il prossimo anche nonostante le differenze con le quali inevitabilmente la società cresce oppure è pericoloso?

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Non credo sia pericoloso, anzi l’educazione a questo genere di cose è necessaria per creare e formare persone consapevoli del fatto che loro stesse hanno più possibilità, possono ampliare i loro orizzonti e cercare di essere chi vogliono al meglio senza autolimitarsi.

Ovviamente dipende tutto da come avviene questa educazione, sensibilizzazione all’inclusione. Secondo me non deve essere comunque una cosa imposta, ma dovrebbe derivare dall’esperienza per permetterci di comprendere davvero quanto sia importante questo tema.

Ritieni il luogo in cui sei cresciuta sicuro e libero da ogni genere di discriminazione?

Nonostante io viva a Pianiga, un paese in provincia di Venezia relativamente isolato, ho passato la maggior parte della mia infanzia e adolescenza a Dolo, un centro leggermente più grande. Questo comune organizza molti eventi che si focalizzano su vari temi, sono stati organizzati incontri e momenti di riflessione sull’inclusione ma anche su molti altri argomenti vivi che sono stati portati più in superficie in questi anni; per esempio la biblioteca è sempre pronta ad organizzare rassegne letterarie su ogni argomento o autore. Una delle peculiarità secondo me è il fatto che si interfacciano anche molto con i più piccoli, vengono organizzate attività, laboratori a cui i bambini possono partecipare: ad esempio hanno fatto un’attività sulla figura di pinocchio -che comunque in un certo senso si può collegare con la disuguaglianza e quindi con il tema dell’inclusione- realizzando poi dei disegni.

In seguito il comune ha scelto di far realizzare dei murales ispirati a Pinocchio nell’area verde di Piazzale Collodi, anche per coinvolgere magari un pubblico più adulto o altri ragazzi che non avevano partecipato in prima persona al progetto; in modo tale che

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anche loro potessero apprezzare ciò che era stato fatto e capirne il significato.

Ti sei mai sentita esclusa?

Si, però penso che sia inevitabile prima o poi sentirsi esclusi in qualche modo. Io per esempio durante gli anni delle medie ho assistito a veri e propri atti di bullismo, anche se non direttamente nei miei confronti, che mi hanno fatto capire l’importanza della trattazione di queste tematiche. Secondo me comunque è normale sentirsi esclusi o semplicemente non capiti dall’altro, perché tutti pensiamo in modo diverso e ognuno ha le proprie idee alle quali resta ancorato. Io non credo che si arriverà ad un’inclusione completa perché secondo me va anche contro la natura umana un appianare completamente le differenze.

Ti viene in mente il titolo di un film o di un libro in cui viene trattato questo tema? Ne sei stata influenzata?

A me viene in mente un film ambientato in India e che è stato proprio prodotto da Bollywood, cinema popolare in lingua hindi: Stelle sulla terra,2007. Questo è incentrato su un bambino che è dislessico e che non viene capito nella sua scuola e per questo considerato uno stupido, uno che non capisce niente. A seguito di questo viene messo in un collegio dove un suo maestro riesce a capire che il vero talento di questo ragazzo era il disegno e cerca di aiutarlo ad esprimersi tramite il disegno appunto. La storia è incentrata quindi sul fatto che il maestro sia riuscito a far fruttare le sue capacità senza pregiudicarlo a causa della sua dislessia e sul fatto che nonostante avesse difficoltà con le parole sia riuscito a trovare un’alternativa valida al semplice leggere o scrivere per esprimere quello che pensava. Non credo mi abbia influenzato più di tanto, anche perché mi considero una persona con la mente abbastanza aperta e gli orizzonti sempre

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pronti ad ampliarsi, però credo sia sempre bene vedere film o leggere libri su questo argomento per aumentarne la consapevolezza.

Riesci a pensare ad un’opera d’arte che tratti questo tema?

Avevo pensato a Basquiat, anche se la sua è più una denuncia che un modo per diffondere l’idea di inclusione. Però è comunque centrale nelle sue opere il fatto che sia il primo a dedicarne alcune a persone colore, come Cassius Clay e Louis Armstrong, che non erano prese in considerazione dall’arte e dalla società. Basquiat rivendica quindi il fatto che si debba parlare anche di queste persone e soprattutto che sia necessario dar loro una voce.

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Una parola magica

Inclusione, obiettivo o traguardo?

di Zoe Banzato, Alma Carraro, Giacomo Pulliero, Aurora Zaramella, IIE

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Foto: Pietro Zelco

A che punto siamo nel percorso storico che porta al pieno realizzarsi di una società in tutto e per tutto inclusiva? La strada è ancora lunga, certo, ma non bisogna dimenticare i progressi fatti finora.

“Inclusione” è ormai una delle tante parole magiche del grande dibattito moderno. Inclusione di persone da altri paesi, in condizioni tra le più diverse.

Inclusione di nuove culture e nuove tradizioni. Inclusione di nuove parole, di nuovi modi di fare, di nuovi modi di essere. C’è chi ne è più favorevole e chi meno, chi più entusiasta e chi più maldisposto, ma anche coloro che ne sono più avversi non possono negare che, in questo mondo così “globalizzato” e interconnesso, l’Inclusione sia parte fattuale della nostra quotidianità.

L’Inclusione è stata infatti portata avanti come obiettivo sociale nel secolo scorso, baluardo di cambiamento e progresso, ed è diventata da comune sentire a, effettiva, Legge. È una conquista che, tuttavia, non dobbiamo dare per scontata, in quanto figlia di una storia di soprusi e violenze inimmaginabili, indicibili, di vere e proprie eclissi di ogni tipo di sentimento di umanità o pietà nei confronti delle quali i nodi attuali ancora da sciogliere sembrano quasi problemi quasi irrisori o motivi per i quali si sciopera…

Siamo passati infatti da società che ritenevano degni di essere considerati esseri umani solo gli uomini, adulti, benestanti, sani di mente, non stranieri e non schiavi, ad un’altra dove la Legge impone di non fare distinzioni di genere, età, reddito, nazionalità; dove c’è libertà di professare il proprio credo, libertà di avere e proporre le proprie idee, libertà di poter esprimere sé stessi; dove la schiavitù è, nella stragrande maggioranza un cupo e lontano ricordo. Certo, come in tutte le cose, si può sempre fare di meglio, ma non per questo dobbiamo dimenticare delle incredibili vittorie nel corso della storia che ci permettono, oggi, di vivere in un mondo probabilmente migliore. Un mondo che, pur sempre in fieri, viene molto spesso dipinto come un tripudio di

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disuguaglianze e ingiustizie, dove non vigono né Giustizia né Pace. La verità è che abbiamo la fortuna di vivere, nonostante il dramma di questa pandemia, in un grande momento storico di sviluppo sotto tutti i punti di vista, dove i diritti sociali si stanno affermando, dove si stanno piano piano realizzando grandi obiettivi come la riduzione dell’impatto ambientale e la promozione di sviluppo sostenibile e dove siamo tutti in ammirazione del progresso scientifico e tecnico e delle loro mille opportunità. È, davvero, “un bel momento per essere al mondo” e se, purtroppo, non per tutti, per sempre più persone da Oriente ad Occidente. Inclusione, dunque, obiettivo o traguardo? Il fatto che l’Inclusione, nelle sue forme più fondamentali e inalienabili, sia stata raggiunta e garantita è appurato nelle costituzioni degli Stati dell’Unione Europea e delle altre grandi democrazie moderne del mondo.

Non possiamo inoltre ignorare che la strada per il raggiungimento di un mondo giusto e buono è non solo ancora lunga e, per certi versi, forse irta, ma anche probabilmente travagliata quanto l‘obiettivo che si pone alla propria fine.

Non che questo debba scoraggiare a provare a percorrerla, o quantomeno a intraprenderla. Ma piuttosto che serva come monito, come messaggio di speranza, per ricordare che come grandi cose sono state fatte, altrettanto grandi cose saranno fatte; e che ne infonda al patire virtù!

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Il moralismo della società che vuole rinascere sconvolge il mondo dello spettacolo: rivoluzione o rovina?

Sulla (s)correttezza del politicamente corretto

di Niccolò Tavian, Matteo Milanesi, Riccardo Iazzolino, Alessandro Fogarollo, IIE

Foto: Pietro Zelco

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Siamo sicuri che i freni posti alla creatività odierna abbiano una qualche consistenza morale e non siano solo un’innaturale convenzione? Il rischio è che il politicamente corretto sfoci nella cancel culture, perdendo in tal modo il focus della questione.

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È meglio difendere l’accuratezza storica e lo spessore artistico o stravolgere la verità dei fatti istituendo confronti inconciliabili con la realtà? È un dilemma che sorge spontaneo dopo aver visto l’acclamata, ma anche criticata, serie Netflix Bridgerton. Il lavoro realizzato dalla celebre piattaforma per lo streaming online e incentrato sulle vicende dell’aristocrazia londinese dell’Ottocento rischia di sfociare in un banale e forzato buonismo: nonostante l’evidente incompatibilità con il soggetto storico trattato, figurano nel cast volti impossibili che rimodellano secondo il molle, frivolo pensiero di oggi un contesto storico in realtà irrevocabile. Si chiama politicamente corretto, e sta sconvolgendo il mondo dello spettacolo: è un atteggiamento che si propone di risolvere i divari sociali della nostra cultura, a partire dall’industria dell’intrattenimento.

Moda, rivoluzione o rovina? Cos’è in realtà il politicamente corretto? Figlio delle spinte anti(?)-convenzionali della sinistra americana, è paladino di un sogno a occhi aperti, speranza di pochi, tiranno di molti, guardiano di una correttezza intransigente, oppure promotore di un’aderenza a principi irreprensibili e fondamento di un futuro più incline all’inclusione? Non solo lo spettacolo: il moralismo che ha investito il panorama politico-sociale di questi anni ha finito per contrarre anche il ventaglio artistico attuale, estrema propaggine del finora solido canone europeo, che ha dato i natali anche a capolavori come la Divina Commedia. Con questo non si intenda che la letteratura e il cinema, i più colpiti da queste coccole ideologiche, abbiano conservato la stessa linea di azione nel tempo. Sono realtà queste che non

necessitano di correggere il loro spirito in base all’epoca e al luogo in cui arrivano: sono spazi che contemplano solo lo sfrenato rigore di Dante, i fantasiosi slanci di Walt Disney o l’ansioso idealismo di Dostoevskij, e che fondano la loro esperienza sì sull’innovazione, ma non su un cieco e improduttivo conformismo linguistico.

Questo processo è stato accelerato nell’ultimo anno da un avvenimento in particolare: la morte di George Floyd, che ha scatenato legittime proteste negli Stati Uniti, ma che poi si è tradotta all’interno dell’ambito culturale nella cosiddetta “cancel culture”, moderna emulazione della damnatio memoriae romana, un movimento così minaccioso che vi si è opposta una coalizione di intellettuali (tra cui J. K. Rowling e Margaret Atwood), in una lettera del 7 luglio 2020.

Siamo sicuri che i freni posti alla creatività odierna abbiano una qualche consistenza morale e non siano solo un’innaturale convenzione? Forse la società, scossa dalle tempeste rivoluzionarie del secolo scorso che ne hanno ridisegnato lo scheletro, si sente bambina e chiede a gran voce nuovi, vigorosi cardini che le permettano di rinascere. Ma se la società preme per una nuova gestazione, l’arte non fa altrettanto: la letteratura non è necessariamente specchio della società, magari solo una storpiatura, una parodia, ma non ne incarna certo gli impulsi primi; semmai, ne sfoga solo i più indicibili.

La letteratura, così come il cinema, non deve per forza edificare, anzi spesso deve svolgere il ruolo contrario. Alla luce di queste considerazioni, muovere una crociata di paglia contro vari aspetti di

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letteratura e cinema svincolati dal momento in cui sono stati concepiti fa riaffiorare alla memoria il ricordo dei roghi nazisti. Un’arte corretta, raddrizzata da misure che dovrebbero fermarsi alla società, finisce solo per essere scialba e troppo morbida.

Se da una parte il moralismo nasce con giusti intenti, dall’altra si tradisce verso gli stadi finali del suo sviluppo e promuove l’atteggiamento opposto rispetto a quello che in origine ricercava. È un meccanismo, questo, che se prima doveva curare e prevenire i sintomi discriminatori della civiltà emancipata di oggi, ora si limita a ricercare le streghe e gli untori di questo modo di pensare in epoche che non ne hanno diretta responsabilità. Forse è proprio a causa della colpa che il nostro tempo si trascina nei confronti degli errori del passato che cerchiamo di rimarginare vecchie ferite censurando film della Disney con cui siamo cresciuti tutti (si è arrivati a criticare la presenza del gatto siamese nel film “Aristogatti”, a detta di alcuni un modo di stereotipare in maniera discriminatoria la cultura cinese), oppure tacciando “Via col vento” di razzismo — per la sola colpa di rappresentare i pregiudizi razziali che, purtroppo, erano parte fondante della società del tempo — e intanto lasciando che quello contro cui combattiamo rimanga un’irrisolta piaga della nostra società.

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La crociata contro il politically correct

Sul politicamente corretto

di Nicola Francia, IID

Foto: Zoe Cecchinato

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Il cosiddetto “politicamente corretto”, spesso oggetto di lamentele e critiche da parte di chi sostiene di non poter più dire niente, rappresenta invece un freno che impone di riflettere sulle parole che pronunciamo.

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In Italia, l’espressione politicamente corretto è da anni sulla bocca di tutti: politici, giornalisti, scrittori, personaggi televisivi. In qualsiasi discorso pubblico, a prescindere dal contesto, non manca mai una battuta, un commento ironico o un’accalorata invettiva contro il politically correct; non passa un giorno senza che le colonne di giornali e riviste si popolino di proteste contro la “neolingua” corretta importata da oltreoceano, di analisi indignate dell’ennesimo caso di “eccesso di correttezza” e di inni alla libertà d’espressione e al pluralismo di opinioni. Si potrebbe affermare che nel nostro paese menzionare il politicamente corretto sia diventato non solo un luogo comune, ma anche un vero e proprio rito che si ripete, anche se in forme diverse, in qualsiasi occasione di dialogo. A volte vi si fa riferimento con un inciso, in una precisazione apparentemente insensata ma, parrebbe, necessaria a qualsiasi argomentazione: “per dirla in modo più politicamente corretto…”, “per correttezza politica…”, “anche se non è molto politically correct…”. Molto più frequentemente, invece, lo si connota in modo negativo con espressioni quali “stupidità del politicamente corretto”, “follia del politicamente corretto”, “ideologia del politicamente corretto”, “bavaglio (ideologico) del politicamente corretto”, “dittatura del politicamente corretto”, “pensiero unico del politicamente corretto”. È naturale, di fronte a questo suo utilizzo incessante, domandarsi: a cosa

si deve tanta attenzione per queste parole? E, soprattutto, perché tanto risentimento nei loro confronti?

Definizione e origini del politicamente corretto Il concetto di politicamente corretto è nato negli anni ’60 e si è sviluppato durante la seconda metà del XX secolo. In questo periodo di grandi cambiamenti sociali e politici si è diffusa la convinzione che all’affermazione di nuovi diritti e all’emancipazione di minoranze e gruppi precedentemente discriminati dovessero corrispondere anche dei cambiamenti nel linguaggio. Infatti, proprio perché attraverso le lotte e le riforme si sono affermati nuovi valori morali che regolano il funzionamento della società civile, alcuni comportamenti e parole diventano inaccettabili, in quanto considerati lesivi della dignità umana.

La consapevolezza che “negro”, “giudeo”, “frocio”, “finocchio” e “puttana” sono parole offensive che evocano una lunga tradizione di odio, e dunque scorrette per i valori politici cui facciamo riferimento, ci impedisce di usarle. Ma anche moltissimi luoghi comuni, frasi fatte e convinzioni “di buon senso”, se esaminati con logica e spirito critico, hanno un’intrinseca carica negativa e discriminatoria.

Proprio perché nel linguaggio esistono tanti modi per ferire l’altro, il politicamente corretto, più che come una soffocante mano sulla bocca ai liberi pensatori, si comporta come un freno, un segno che impone al parlante comune di riflettere sulle parole che sta per pronunciare e lo porti a

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immedesimarsi in coloro che potrebbe offendere.

In virtù del grande progresso che esso rappresenta, l’utilizzo di un lessico e di un linguaggio politicamente corretto dovrebbe essere sempre accompagnato dalla consapevolezza che, se i princìpi alla base della nostra civiltà, delle costituzioni e degli statuti internazionali sono oggi considerati universali e devono per questo essere difesi, non erano universali in passato, e con ogni probabilità non lo saranno del tutto neanche in futuro.

Italia e Stati Uniti Negli ambienti liberal americani (scuole, università, grandi giornali), dove l’uguaglianza razziale e quella di genere sono saldamente affermate, si sono manifestati diversi fenomeni che spesso, nel discorso pubblico, sono interpretati come conseguenze del politicamente corretto o come sue derive estreme, rigide applicazioni dei suoi princìpi. Tra questi c’è ad esempio l’ormai nota cancel culture, la “cancellazione” di personaggi pubblici le cui idee o azioni sono considerate discriminatorie, e la sua estensione ad artisti, politici e altre figure del passato i cui comportamenti sono giudicati contrari agli odierni valori civili. Ma sono emersi anche una forte intransigenza, ritenuta da molti estrema, nei confronti dell’uso della parola “nigger”, la cosiddetta n-word, e il concetto di appropriazione culturale, secondo cui fare uso di oggetti o simboli di una cultura diversa dalla propria corrisponderebbe a un atto di razzismo.

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In realtà, sebbene il diffondersi di queste pratiche sia reso possibile dall’esistenza del politicamente corretto, non sempre esiste una correlazione diretta o un rapporto di causa-effetto, ma intervengono invece una serie di fattori storici, sociali e culturali che renderebbero necessaria un’analisi approfondita di ciascuno di questi fenomeni (se non di ogni specifico caso) considerato singolarmente. Tuttavia, il sempre più comune rifiuto, da parte di politici e giornalisti, del politicamente corretto nel suo insieme è di fatto privo di senso, sia dal punto di vista etimologico e semantico, sia da quello politico: poiché l’espressione politicamente corretto racchiude in sé i valori fondamentali della democrazia per come la intendiamo oggi, opporsi a esso in toto significa negare i princìpi su cui si basa il cosiddetto mondo civile.

Proprio perché, seppur correlati, politicamente corretto e cancel culture (così come tutti gli altri fenomeni già citati) sono concetti distinti, si può tracciare una linea di demarcazione tra opinioni personali e basilari norme di rispetto: mentre è lecito non essere d’accordo con chi, come la storica Marlene Daut1, considera Napoleone un’icona del suprematismo bianco, rivendicare il proprio diritto a utilizzare insulti razzisti non è una posizione ammissibile. D’altro canto, se è del tutto legittimo muovere critiche a queste interpretazioni, occorre, nel fare ciò, considerare innanzitutto il contesto da cui ci si sta esprimendo e preoccuparsi

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di non generalizzare le proprie affermazioni.

Il politicamente corretto in Italia Il frequente uso mediatico del termine politicamente corretto in Italia nell’ultimo quinquennio potrebbe far pensare che la correttezza politica, in tutte le sue forme, sia radicata nella nostra società. Tuttavia, confrontando gli episodi che spaccano in due i media americani e quelli che dividono l’Italia, la situazione si presenta molto diversa.

Negli Stati Uniti, il giornalista scientifico del New York Times Donald McNeil, famoso per la sua analisi dell’epidemia di Covid-19 negli Stati Uniti, si è dimesso lo scorso 5 febbraio e si è scusato pubblicamente per aver utilizzato la n-word nel 2019, all’interno di una conversazione proprio sull’uso della stessa parola con degli studenti di un liceo. All’Università della Southern California il professor Greg Patton, durante una lezione di mandarino, ha pronunciato più volte la parola “nei-gè” (那个), equivalente dell’intercalare uh o ehm il cui suono, nay-guh, ha ricordato agli studenti quello della n-word: in seguito a una lettera degli studenti il docente ha dovuto scusarsi e sospendere l’insegnamento di quel corso per un breve periodo.

In Italia, il dibattito più acceso su come adeguare la lingua alla società odierna ha riguardato l’uso delle forme femminili, morfologicamente corrette ma dalla sfumatura semantica diversa, di alcuni mestieri e professioni e di termini gender neutral, come le dizioni genitore 1 e genitore 2. A queste ultime,

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introdotte nei documenti d’identità per includere anche famiglie monoparentali, o formate da una coppia non etero o in cui le veci dei genitori sono fatte da altri, sono state sostituite nel 2019 dal ministro Salvini da padre e madre, e oggi, nonostante la ministra Lamorgese ne abbia annunciato l’intenzione più volte, non sono ancora state ripristinate.

Negli Stati Uniti da anni numerosi gruppi di attivisti hanno chiesto la rimozione delle statue di Cristoforo Colombo, uomo del XV secolo accusato di aver inaugurato lo schiavismo nel nuovo continente, e nelle proteste della scorsa estate molti di questi monumenti sono stati abbattuti.

In Italia, l’atto più eclatante della cultura della cancellazione è stato l’imbrattamento, con vernice lavabile, della statua di Indro Montanelli, famoso giornalista che fino alla morte avvenuta nel 2001 rivendicò lo stupro di una bambina eritrea ascrivendolo al costume del cosiddetto “madamato”.

All’università di Princeton, a partire dal 2019, Dan-el Padilla Peralta, docente di letteratura greca e latina, di origine dominicana, sostiene che lo studio dei classici per come lo conosciamo debba scomparire in quanto troppo legato, storicamente e in epoca contemporanea, al suprematismo bianco2.

Nel contesto scolastico italiano, l’attività informativa di associazioni come Arcigay è da sempre sotto attacco anche da parte di alcuni dei maggiori partiti, come Lega e Fratelli d’Italia, e la sensibilizzazione degli studenti sull’esistenza di orientamenti sessuali

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diversi da quello eterosessuale e di identità di genere diverse da quella cisgender è stata definita in innumerevoli occasioni “propaganda ideologica”3.

Si potrebbe dire che la diffusione e l’affermazione del politicamente corretto in una società siano misurabile in funzione dei casi intorno ai quali l’opinione pubblica si divide: quanto più questi sono vicini a semplici applicazioni dei diritti fondamentali dell’essere umano, tanto più il paese è socialmente e culturalmente arretrato. Se su questa premessa si mette a confronto la situazione italiana con quella statunitense, come dimostrano gli esempi citati, il divario che emerge è abissale.

Nonostante ciò, nel dibattito pubblico italiano si tende a non contestualizzare fenomeni come la cancel culture, che pure si sono manifestati solo negli Stati Uniti, e, dunque, a trattare la presunta “dittatura del politicamente corretto” come una delle maggiori minacce alla libertà d’espressione nel nostro paese e la lotta ad essa come una priorità nazionale.

Inoltre, il costante riferimento al politicamente corretto, anche qualora sia privo di una connotazione negativa, ha contribuito tanto quanto i drammatici appelli alla libertà d’espressione a creare una realtà in cui, a prescindere dalla situazione, tutto ciò che riguarda l’uso di un linguaggio rispettoso e civile è bollato come follia estremista e accantonato. E se da un lato si considerano controverse misure anti-discriminatorie, come il

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DDL Zan, simili a norme già da tempo applicate in quei paesi che ci piace considerare più civili, dall’altro non fanno più tanta notizia le vere scorrettezze politiche.

“Orango”, “culattone”, “adescatori di bambini” (riferito agli attivisti di Arcigay), “zingaraccia” e “bambola gonfiabile” sono tutte parole pronunciate o scritte sui social network da esponenti4 del partito che, da due anni a questa parte, rappresenta secondo i sondaggi la maggioranza relativa del paese.

Dichiarazioni del genere non sono opinioni personali, ma offese discriminatorie contro minoranze e categorie i cui diritti dovrebbero essere tutelati dalla politica: affermazioni, dunque, contrarie allo spirito di uguaglianza enunciato dalla Costituzione. Eppure, quando sono stati interpellati circa queste prese di posizione, ognuno di loro ha rivendicato la propria libertà d’espressione respingendo qualsiasi critica come un tentativo di tappargli la bocca. D’altra parte, rivendicazioni del genere non sono casi isolati in Italia: basti pensare alla schiera di giornalisti e intellettuali che si fregiano della propria scorrettezza politica e che, in effetti, la esercitano quotidianamente. Si tratta ad esempio di Vittorio Sgarbi, che ha rivendicato il proprio diritto di chiamare una donna che tradisce il compagno “puttana”, del professor Marco Gervasoni, noto per aver commentato una foto di una europarlamentare in copertina dell’Espresso con la frase: “Ma che è, n’omo?”, e dell’ex direttore di Libero

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Vittorio Feltri, il cui giornale è famoso per i titoli apertamente razzisti, misogini e omofobi. Ma se personaggi del genere non solo non si scusano per le proprie affermazioni, ma si ergono invece a paladini della libertà d’espressione (con il plauso degli stessi politici scorretti), il quadro generale non è dei più confortanti. La critica a tutti i costi dei moderati, la derisione continua dei media di qualsiasi schieramento e la guerra giurata dei conservatori hanno reso il politicamente corretto in Italia un’ombra, un capro espiatorio su cui riversare la propria frustrazione verso un mondo in cambiamento che non si comprende, e allo stesso tempo hanno permesso che si instaurasse, nel vuoto lasciato dall’assenza di dialogo civile, la tendenza opposta. Oggi il nostro paese è abituato alla violenza verbale, assuefatto all’offesa ed educato a ridicolizzare qualsiasi tentativo, anche il più timido, di inclusione verso il prossimo. Il “benaltrismo”, l’amore per il quieto vivere e la semplice forza di abitudine prendono il sopravvento su qualsiasi vento riformatore, permettendo a “vere” discriminazioni di essere perpetrate quotidianamente. Certo, a mancare sono anche i cosiddetti progressi concreti, ma la società versa in una condizione di arretratezza tale che, oggi, abbiamo un disperato bisogno di politicamente corretto, in qualsiasi forma esso arrivi.

Per questo, per un italiano, guardare alle università americane e gridare al liberticidio, invocando la ribellione al controllo del pensiero, non è solo terribilmente fuori luogo, ma

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contribuisce a mantenere invariato un sistema di diseguaglianza che di democratico ha ben poco.

1. “Napoleon isn’t a hero to celebrate” - Marlene L. Daut, The New York Times, 18.03.2021

2. “He wants to save the classics from Whiteness. Can the eld survive?” - Rachel Poser, The New York Times Magazine, 02.02.2021 3. Family Day - Appello ai parlamentari: no a ddl Zan giudicato inutile e liberticida da cattolici, femministe e liberali 4. Per la precisione, le prime due dal senatore Calderoli, la terza dal senatore Pillon (riferita agli attivisti di Arcigay) e le restanti da Matteo Salvini.

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Il dibattito sulla serie Netflix di successo

Il daltonismo di Bridgerton

di Nicola Francia, VD

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Foto: Tesser Maria Vittoria

La nuova serie Netflix “Bridgerton”, che ha riscosso un notevole successo fin da subito, ha però scatenato un acceso dibattito in merito alle scelte di casting prese dai produttori: è l’occasione per affrontare il tema dell’inclusione di attori di colore nel mondo del cinema.

Nel dibattito sorto su Bridgerton, serie di Netflix ambientata nella nobiltà inglese di inizio Ottocento, è stato spesso utilizzato, per riferirsi alla presenza di attori non bianchi nel cast, il termine colour-blind casting. Pratica già diffusa nel teatro da decenni, il blind casting consiste nel non tenere conto, nella messa in scena di un soggetto, del colore della pelle degli attori, ma di sceglierli solo in base alle loro capacità recitative e a quanto queste soddisfino il ruolo loro assegnato. Questa pratica è nata come reazione a un teatro e a un cinema precedentemente discriminatori e con l’intento di mettere davanti agli spettatori un panorama di volti meno bianchi di quelli cui erano abituati. Essa inoltre riflette la posizione di coloro che lottano per la parità razziale: se essi auspicano che nella società si smetta di trattare le persone in base alla loro etnia, ritengono che anche nel cinema e nel teatro sia possibile ignorare le differenze fisiche fra gli attori.

Ovviamente, una scelta di questo tipo non si presta a realizzare una ricostruzione del tutto fedele di un particolare contesto sociale ed etnico, ma al contrario si adatta alle rivisitazioni dei classici, di cui solitamente si sceglie di mantenere le caratteristiche generali ma cambiando l’ambientazione. Anche in opere cinematografiche o teatrali ambientate nel passato è possibile non tenere conto della pelle degli attori, a patto che la narrazione non abbia come punto di forza la somiglianza delle sue immagini con la realtà: mentre in un film semi-documentaristico a contare è l’attinenza della trama e dei personaggi ai

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loro corrispettivi reali, un musical come Hamilton, fedele ai fatti ma tutt’altro che filologico, funziona ugualmente anche se interpretato da attori di etnia diversa da quella dei personaggi. Per questo, in Bridgerton, che si presenta come una reinterpretazione pop dei romanzi di Jane Austen, una scelta del genere troverebbe in effetti una sua logica.

Ma la situazione è molto più complessa di così, per il semplice motivo che quello presente in Bridgerton è tutt’altro che blind casting. Già nei primi episodi è possibile notare che i figli di personaggi interpretati da attori neri sono anch’essi neri: un particolare che mette in dubbio la presunta indifferenza degli sceneggiatori al colore della pelle. Poi, nella quarta puntata, la prospettiva dello spettatore si ribalta: l’anziana lady Danbury, in un breve dialogo, rimprovera al figlio adottivo Simon di non credere alla forza dell’amore, che a suo parere può vincere qualsiasi ostacolo, e a sostegno della sua tesi porta l’esempio del re.

Secondo la nobildonna con il suo matrimonio con una donna di colore il re avrebbe permesso la fusione di quelle che prima erano “due società separate” e la creazione di un’Inghilterra multiculturale.

Questo passaggio, trascurato da molti di quelli che hanno scritto di Bridgerton, da solo getta una luce completamente diversa sul mondo ritratto dalla serie: più che una rappresentazione colour-blind e un po’ edulcorata del periodo della Reggenza inglese, essa diventa una vera e propria ucronia5.

Sorgono allora spontanei diversi dubbi circa la ragione di tale scelta. Ci si chiede

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soprattutto perché gli autori della serie non si siano concentrati di più sull’aspetto ucronico spiegando le origini di questa (improbabile) realtà alternativa e descrivendola più in profondità, invece che dedicarvi due minuti scarsi in tutta la serie. Ci si potrebbe poi domandare come mai tale scelta, che in realtà trova una spiegazione logica (per quanto poco credibile) nella trama, sia, secondo gli stessi produttori, volta soltanto a impiegare anche attori non bianchi e a riflettere la multiculturalità della società odierna. In realtà, non esiste a quanto pare una risposta sensata a nessuna di queste domande, proprio perché né la serie stessa né tanto meno i suoi produttori riescono a giustificare in modo coerente la presenza di nobili inglesi neri.

Blind casting e ucronia sono due scelte stilistiche distinte e legittime, ma in Bridgerton non è operata nessuna delle due: da un lato, il colore della pelle degli attori ha un effetto, seppur marginale, sulla trama; dall’altro, alla descrizione del modo in cui il corso della storia si è alterato non sono dedicate che poche battute.

Tuttavia, considerando la serie nel suo insieme, un errore logico del genere non sorprende più di tanto. Tralasciando per un momento la questione del blind-casting, infatti, ogni aspetto di Bridgerton denota scarsa cura e attenzione ai dettagli: regia, costumi, recitazione e sceneggiatura sembrano avere come unico elemento caratterizzante una completa incoerenza rispetto allo spirito della serie. È poi particolarmente confuso il rapporto

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con la storia, ovvero con le caratteristiche e i problemi della (reale) società ottocentesca. Sebbene la condizione delle donne di buona famiglia e in particolare il funzionamento del mercato matrimoniale siano raffigurati generalmente in modo accurato, altri aspetti - da semplici questioni di etichetta a intere dinamiche e meccanismi sociali - vengono trattati in modo anacronistico e semplicistico.

Ancora una volta, a determinare un errore da parte dei creatori di Bridgerton non è tanto la mancanza di realismo, quanto piuttosto quella di logica: le opere letterarie o cinematografiche ambientate nel passato non devono essere necessariamente fedeli alla realtà storica, ma le inaccuratezze devono avere uno scopo ben definito e, soprattutto, devono essere dettate da un preciso disegno.

Tuttavia il fatto che la protagonista, ad esempio, alterni momenti di totale asservimento al sistema matrimoniale, a cui sembra partecipare addirittura con entusiasmo, a sporadici “risvegli” in cui critica stupita il sessismo della società ottocentesca mette in dubbio l’esistenza di tale schema.

Sono comunque poco razionali gli argomenti di chi, a prescindere dall’efficacia e della coerenza della serie, le rimprovera di ignorare i veri problemi dell’Inghilterra del XIX secolo per confortare invece gli spettatori con un ritratto troppo edulcorato6. Critiche di questo tipo non sono una novità: sono state mosse anche, fra le tante, alla serie di Amazon Prime The Marvelous Mrs Maisel, accusata di dipingere gli anni ’60 in modo troppo ottimistico e di essere

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insensibile alle discriminazioni razziali e contro gli omosessuali attuate all’epoca, e paragonata per questo alla più realistica e cupa Mad Men. A queste rimostranze i produttori di The Marvelous Mrs Maisel hanno risposto che la serie non vuole essere una rappresentazione fedele del periodo in cui è ambientata ma, al contrario, rifletterne l’entusiasmo e lo spirito di euforia trasmessi dai media: guardando dunque ai primi anni ’60 come si sarebbe fatto nei primi anni ’60, e non con un atteggiamento critico a posteriori.

Questa decisione, sebbene indubbiamente ne pregiudichi la fedeltà storica, è stata presa coscientemente, e dunque dev’essere considerata come una scelta stilistica. Allo stesso modo, se Bridgerton si limitasse a trattare solo gli intrighi amorosi e la vita mondana della corte della regina Carlotta senza indagare la condizione dei lavoratori, le atrocità della guerra o qualsiasi altro aspetto “crudo” del periodo della Reggenza inglese, le accuse di inaccuratezza storica sarebbero prive di senso.

Ma è anche vero che, se da un lato si è del tutto liberi di rappresentare solo alcuni aspetti di un periodo storico e di farlo nel modo che si preferisce, dall’altro trascurare realtà storiche su cui solo ora si può fare luce in favore di un confuso compromesso fra realtà e finzione è, se non una colpa, quantomeno uno spreco.

Specialmente se ciò avviene in un momento in cui la storia, e in particolare quella che riguarda la razza, è sempre più strumentalizzata in favore di facili retoriche.

Basti pensare che, ancora nel 2017, Paul

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Joseph Watson, editore del sito di estrema destra Infowars di Alex Jones, accusò su Twitter la BBC di fare revisionismo in nome del politicamente corretto in quanto, in un breve cartone animato ambientato nella Britannia del II secolo, compariva un funzionario romano nero. Il dibattito, sorto a pochi giorni dal tweet del giornalista, vide sì schierarsi decine di studiosi in difesa dell’emittente televisiva, ma anche molti appoggiare Watson: un numero sorprendente, considerato che la multietnicità dell’Impero Romano è un dato attestato da numerosissime fonti e conosciuto anche dal pubblico da decenni.

L’operazione in bilico tra colour-blind casting e ucronia presente in Bridgerton è di per sé legittima; ma perché, di fronte a sempre più frequenti manipolazioni dei fatti e narrazioni distorte, non raccontare vere storie di società non bianche? È una domanda che si è posta la storica Marlene Daut7, che ricorda come, nello stesso periodo in cui si svolgono gli eventi della serie, fosse all’apice del suo potere il Regno di Haiti, uno stato monarchico a maggioranza nera i cui sfarzi sarebbero stati un’ambientazione perfetta per romantici (e multietnici) intrighi amorosi alla Bridgerton. Del resto, anche la stessa Inghilterra regency, sostengono i creatori della serie, non era così bianca come si pensa; eppure, non c’è traccia di questa diversità nel prodotto finale. Al contrario, essi hanno preferito affermare, attraverso la loro confusa ucronia, che il potere dell’amore possa (e avrebbe potuto anche in passato) riconciliare due società ancora profondamente divise: una dichiarazione

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che, fatta in uno dei momenti di maggior tensione razziale dell’ultimo ventennio, suona come una leggerezza quantomeno di pessimo gusto.

5. Realtà alternativa in cui il corso della storia è stato alterato da un evento, detto punto di divergenza, che è avvenuto in modo diverso da come è andato veramente: ne sono un esempio il romanzo di Philip Dick “La svastica sul sole”, in cui si immagina che l’Asse abbia vinto la Seconda Guerra Mondiale, e “Il complotto contro l’America” di Philip Roth, che si svolge in un’America dove Charles Lindbergh ha battuto Franklin Delano Roosevelt alle elezioni del 1940.

6. Sorry, But 'The Marvelous Mrs. Maisel' Has a History Problem 7. “Why did Bridgerton erase Haiti?” - Marlene L. Daut, Humanities and social sciences online, 21.01.2021

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Cinema e inclusione

Di che cinema abbiamo bisogno?

di Giulia Baretta, IIIA

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Foto: Tesser Maria Vittoria

La rappresentazione delle minoranze del mondo del cinema e delle serie tv è una questione che apre diversi dibattiti, fatto che dimostra quanto sia importante prenderla in analisi, per comprendere meglio le disuguaglianze che affliggono la nostra società.

Come tutti, a marzo 2020 mi sono trovata con un’inaspettata quantità di tempo libero da impiegare davanti a me, unica condizione: rimanere nelle quattro mura di casa. Nel fare binge watching di qualche serie Netflix non troppo impegnata, mi sono imbattuta in Atypical, il cui protagonista, Sam, è un adolescente americano, che ha a che fare con i problemi comuni di un teenager, affetto da autismo. Seppur con leggerezza, questa serie pone al suo centro una situazione fuori dalla normalità che si è soliti veder rappresentata, raccontando con delicatezza una realtà che c’è, esiste, e ha la dignità di essere mostrata. Poche persone hanno l’opportunità, nel corso della loro vita, di incontrare la diversità in modo così intimo e diretto, come può avvenire in famiglia o a scuola, e non bisogna sottovalutare l’importanza che il mezzo cinematografico ha nel veicolare storie di vita quotidiana che altrimenti rimarrebbero taciute, permettendo in questo modo al grande pubblico di sviluppare una sensibilità comune sul tema. Il rischio, però, è quello di rappresentarle nel modo sbagliato, andando a danneggiare le persone che effettivamente si trovano a vivere in determinate realtà. È la critica mossa ad Atypical da parte di Mickey Rowe, un giovane attore americano affetto da autismo. Rowe, in un articolo scritto per Teen Vogue1, ha espresso la propria delusione nel vedere com’era stata rappresentata la comunità, in particolare lamentando lo scarso coinvolgimento di persone realmente autistiche nella scrittura e nella realizzazione della serie.

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Al di là della situazione particolare, quest’osservazione pone davanti a una questione più ampia: a rappresentare una minoranza, in un prodotto cinematografico o televisivo, è necessario che sia un membro della minoranza stessa? Oppure, dal momento che un attore interpreta un personaggio diverso da sé stesso, chiunque può recitare qualsiasi ruolo? Pietro Turano, attore – famoso per aver interpretato Filippo, ragazzo omosessuale, in Skam Italia - e consigliere nazionale di Arcigay, ha tentato di rispondere a questa domanda in un video uscito su Venti2, canale youtube aperto da Sofia Viscardi, dove si raccolgono diverse voci, di giovani, attivisti o esperti, che trattano tematiche attuali e problematiche comuni nella vita dei ventenni di oggi. Nel trattare la questione, prendendo in analisi le diverse parti che animano il dibattito, ha spostato lo sguardo su un ulteriore interrogativo, che precede il primo: nel settore cinematografico, ci sono abbastanza persone, appartenenti alle diverse minoranze, per coprirne i ruoli, o ad esse non vengono date le stesse opportunità di lavoro?

Quando si parla di rappresentazione, prima di esporsi e scegliere quale tesi abbracciare, è necessario capire se a tutti gli attori sia permesso di cimentarsi in ogni ruolo, indipendentemente dalle loro condizioni, dal loro orientamento sessuale, ecc. La discriminazione e il razzismo sistemico, nonostante i grandi passi in avanti compiuti negli ultimi anni, sono ancora all’ordine del giorno. Si tratta di un problema complesso e stratificato, che è

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importante analizzare per avere uno sguardo a 360° sulla percezione collettiva che si ha su un determinato tema. Una scarsa rappresentanza, sia per quanto riguarda la recitazione sia per la scrittura, soprattutto in prodotti mainstream fruiti e distribuiti su piattaforme di dimensioni globali, come possono essere Netflix e Prime Video, alimenta i pregiudizi e, per di più, aumenta ulteriormente la pressione in chi, in quel mondo, non ha ancora il coraggio di manifestare apertamente la propria diversità. Inoltre, più una minoranza è rappresentata – in personaggi tridimensionali, che non siano definiti esclusivamente dalla loro diversità, come spesso capita in ruoli che trovano in essa l’unica funzione narrativa, che sembra quella di essere diverso -, maggiore è la probabilità che un membro di tale minoranza si senta incoraggiato a inseguire un sogno in cui sembrava difficile anche solo poter sperare. Il minority stress, definizione coniata nel 1995 dallo psicologo Ilan Meyer per indicare l’insieme degli effetti psicologici e fisiologici associato alle condizioni sociali avverse in cui vivono le persone che fanno parte di minoranze etniche, sessuali e religiose, potrebbe vedere ridotto il proprio impatto negativo, così da aiutare la società a prendere consapevolezza di differenze strutturali che, se rimangono, come spesso accade, inconsapevoli, risultano ancor più difficili da estirpare. Certo, questa riflessione non deve portare a puntare il dito contro chi interpreta ora quei ruoli, senza appartenere alla minoranza in questione, quanto piuttosto accendere un faro su un

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sistema che non è, ancora, accessibile a tutti. Sono esagerate le critiche mosse a “Chiamami col tuo nome”, che racconta una storia omosessuale, impersonata però da due attori eterosessuali. In un’intervista rilasciata al The 3 Indipendent , Luca Guadagnino, regista del film, ha espresso la sua posizione: “If I have to cast what people think is the real thing for a role, I wouldn’t be able to cast. I cannot cast a gay man to play Oliver. I have to cast Oliver to play Oliver because the identities of gay men are as multiple as the flowers in the realm of earth. So, there is not a gay identity. One person who is gay is completely different to another person who is gay.” Questa risposta riprende il discorso sulla tridimensionalità necessaria nella costruzione di un personaggio, che non può e non deve essere caratterizzato solo dall’appartenenza a una minoranza. Ciò non vuol dire che non si debba mettere in luce la problematicità dell’inclusione nel mondo del cinema. Secondo una ricerca condotta nel 2013 dal Williams Institute, reparto di ricerca dell’UCLA specializzato nel campo LGBTQ+, più della metà degli attori omosessuali ha sentito produttori o registi pronunciare insulti di tipo omofobico durante le riprese sul set, mentre il 16% dichiara di aver subito discriminazioni a causa del proprio orientamento sessuale. Il 9% di loro afferma, inoltre, di aver perso occasioni professionali per questo motivo. Perciò, gesti come il coming out di massa di 185 attrici e attori tedeschi sulla prima pagina del giornale tedesco Süddeutsche Zeitung,

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a febbraio 2021, sono fondamentali per mettere in luce e sottolineare ancora una volta che le discriminazioni subite dalle minoranze sono ancora molto forti.

«Siamo attori. Non dobbiamo essere ciò che recitiamo. Ci comportiamo come se fossimo quel personaggio, questo è il nostro lavoro». «La realtà dovrebbe essere tanto diversa sullo schermo quanto lo è nella vita reale. La società è molto più ampia e diversificata rispetto a quel che pensa chi prende certe decisioni», queste alcune delle dichiarazioni.

Dunque, in un mondo ideale probabilmente tutti potrebbero recitare qualsiasi ruolo, ma in un mondo ancora vessato da profonde differenze sociali, ripensare il linguaggio comunicativo, prestando cura a colmare il divario fra rappresentazioni e rappresentanti, e alle conseguenze che esso comporta, è di vitale importanza per stimolare il dibattito, denunciare tali disuguaglianze e aprire innumerevoli parentesi sui problemi che affliggono la nostra società.

1. Netflix's "Atypical" Was a Major Disappointment for Autism Representation 2. Venti, COME CI RAPPRESENTIAMO?

3. Luca Guadagnino: ‘I don’t have the right to decide whether an actor is straight or not’

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The African-American athlete that broke racial barriers

Jesse Owens

di Ludovica Agostini, IIIF

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Foto: Carolina Zanon

Jesse Owens, the sprinter who amazed the whole world by breaking Olympic records and winning four medals in Berlin (at that time the Capital of Hitler’s Nazi regime), is a symbol of the struggle of black people in order to be accepted in every social environment.

Jesse’s full name was James Cleveland Owens. He was the youngest of ten children. His story is a story of discrimination and sacrifices, but with his talent he defeated every prejudice.

Before he became a successful athlete, he did different jobs in his spare time. He delivered groceries, loaded freight cars and worked in a shoe repair shop.

Throughout his life Owens attributed the success of his athletic career to the encouragement given to him by Larry Snyder, his junior high track coach at Fairmount Junior High School, because, while he was working in the shoe repair shop after school, Snyder allowed him to practise before school instead.

Owens first became a national phenomenon when he was a student at the East Technical High School in Cleveland. He was able to equal the world record of 9.4 seconds in the 100-yard (91 m) dash and long-jumped 24 feet 9 1⁄2 inches (7.56 metres) at the 1933 National High School Championship in Chicago.

Even if Jesse had a lot of success in sport,

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he had to live off campus with other African-American athletes. When he travelled with the athletic team, he was always forced to eat at “blacks-only” restaurants and stay at “blacks-only” hotels. Owens did not receive a scholarship for his efforts, in fact, he continued to work part-time to pay for his own education. His dark complexion was, without doubt, an obstacle that made his life much more difficult.

In 1936 Owens competed for the United States in the Olympic Games in Berlin.

Adolf Hitler was using the games to show the world his concept of “Aryan racial superiority”, depicting ethnic Africans as inferior also in sport. Needless to say, Jesse Owens won four gold medals: on August 3rd 1936 he won the 100m sprint; on August 4th the long jump; on August 5th the 200m sprint. Following a request by the Germans to replace a Jewish-American sprinter, Jesse was added to the 4 x 100 m relay team and won his fourth medal on August 9th.

During an interview Owens said, “Hitler didn’t snub me – it was FDR who snubbed me. The president didn’t even send me a telegram.” On the other hand, Hitler sent Owens a commemorative inscribed cabinet photograph of himself.

Despite his success, Jesse Owens was never invited to the White House by President Franklin D. Roosevelt (FDR) or his successor Harry S. Truman during their terms. Only in 1955 did President Dwight D. Eisenhower honour Owens by naming him “Ambassador of Sports.”

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When people asked him what the secret behind his success was, he always said “I let my feet spend as little time on the ground as possible. From the air, fast down, and from the ground, fast up.”

Even if the German athletes won a lot of medals, the 1936 Olympic Games went down in history as the games in which Jesse Owens left everyone speechless with his talent. He was able to rise above racial divisions and create a true friendship with the German athlete Luz Long, the competitor he ultimately defeated. Luz asked his friend Jesse to take care of his daughter in case something bad had happened to him. Unfortunately the athlete died during the war and Jesse fulfilled his promise by taking care of his friend’s daughter and paying for her education.

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As I said at the beginning of the article, Jesse Owens became history incarnate not only as one of the greatest athletes of his time, but his success also allowed the black community to be less discriminated.

What made Owen different was not the colour of his skin, but his amazing talent.

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Il Black Lives Matter nell’Nba e nel calcio europeo

Inclusione e sport

di Matteo Danieli, IIIC

Foto: Ginevra Costiniti

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Il mondo dello sport si è dimostrato fin da subito vicino al movimento “Black Lives Matter”, che in seguito alla morte di George Floyd è tornato farsi sentire con forza, in particolare l’ambiente NBA e diversi calciatori.

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Il 25 maggio dello scorso anno è tristemente ricordato come il giorno dell’omicidio di George Floyd Jr., afroamericano originario di Fayetteville, North Carolina, ucciso a Minneapolis, Minnesota, da un poliziotto che lo ammanettò, lo fece stendere con il volto contro l’asfalto e si inginocchiò sul suo collo per 8 minuti e 46 secondi. La successiva autopsia confermò che la morte fu causata da un arresto cardiopolmonare avvenuto durante l’inginocchiamento dell’agente. Dopo numerosi episodi di abuso di potere da parte delle forze dell’ordine contro gli afroamericani, quello di Floyd è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

L’uccisione fu ripresa con un cellulare e, poche ore dopo la pubblicazione, il video diventò virale sui social. Martedì 2 giugno ci fu il Blackout Tuesday, un’azione mediatica durante la quale milioni e milioni di persone, tra cui migliaia di personaggi di spicco, hanno pubblicato un post su Instagram, Facebook o Twitter, con solo uno sfondo di colore nero, per protestare contro il razzismo e l’abuso di potere perpetrato dalla polizia americana. Nacque così il “Black Lives Matter”, un movimento non solo limitato alla rete, ma socialmente attivo: in tutti gli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, ci furono marce di protesta, alle quali parteciparono anche molti musicisti, artisti e attori.

Inoltre numerosi atleti fecero sentire la loro voce. Lebron James, uno dei più grandi giocatori dell’NBA, la lega di basket statunitense, fu tra i primi a

esprimersi sulla vicenda, pubblicando la foto dell’omicidio di George Floyd e scrivendo: “Capite ora? O siete ancora offuscati?”, riferendosi al razzismo contro gli afroamericani, che è ancora molto presente in America. Quanto profondo sia il problema lo ha raccontato Kareem Abdul-Jabbar, leggenda dei Lakers, in un editoriale per il Los Angeles Times. “Il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile - anche se ti soffoca - finché non lasci entrare il sole.

Poi ti rendi conto che è ovunque. Fino a quando lasceremo entrare la luce, avremo una chance di pulire ovunque si posi”. Doc Rivers, allenatore dei Clippers, altra squadra di Los Angeles, si pronuncia sull’impossibilità di stare fermi a guardare: “Abbiamo permesso che troppe tragedie passassero invano. Questo non è un problema degli afroamericani. Questo è un problema umano. La nostra società deve abituarsi ad avere quella conversazione che non vuole avere e fare la cosa giusta. Il silenzio non è più accettabile”. Anche Michael Jordan, probabilmente il più forte ad aver mai giocato con la palla a spicchi, solitamente restio a dichiarazioni di ambito politico, affida a Twitter il suo commento: “Mi sento molto triste ma anche decisamente arrabbiato, vedo ovunque dolore e frustrazione. Sono con coloro che stanno protestando contro il razzismo insensato che c’è nel nostro paese nei confronti della gente di colore. Ma ora ne abbiamo avuto abbastanza”.

In questo clima di dissenso, moltissimi giocatori della NBA iniziarono a indossare, durante il riscaldamento,

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magliette con scritto “Black Lives Matter” e “I can’t breathe” (le ultime parole di Floyd). Inoltre tutte le franchigie emisero comunicati di supporto verso i propri giocatori e di condanna al razzismo.

Anche la lega prese una posizione forte e istituì l’obbligo di inginocchiarsi prima delle partite, azione svolta già dalla maggior parte degli atleti, spesso accompagnata dal braccio alzato col pugno chiuso, in ricordo di Tommie Smith e John Carlos, ex velocisti, icone della lotta per i diritti civili dei neri nel Novecento. Questo gesto fu utilizzato anche dai giocatori della NFL, lega di football degli USA. Contemporaneamente in Europa molti calciatori seguirono le orme dei giocatori NBA, sia attraverso i social, che con veri e propri gesti. Uno dei primi fu Weston Mckennie, centrocampista afroamericano, ai tempi in forza allo Schalke 04, ora militante nella Juventus, che indossò al braccio sinistro una fascia che recava la scritta "Justice for George Floyd" durante tutta la partita contro il Werder Brema. Marcus Thuram, attaccante del Borussia Mönchengladbach, dopo aver realizzato una rete, si inginocchiò e chinò il capo per qualche secondo: un segno di rispetto per la vittima, ma anche di protesta contro le discriminazioni razziali di cui suo padre, Lilian, ex campione del mondo con la Francia, adesso si occupa in qualità di ambasciatore dell'Unicef. Jadon Sancho, giovane stella del Borussia Dortmund, durante l’esultanza per un suo gol si tolse la maglietta del club per farne vedere una con scritto “Justice for George Floyd”.

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Moltissime squadre di rilievo pubblicarono sui loro profili mediatici le foto della squadra in ginocchio, simbolicamente contro il razzismo.

Concludo citando le parole di Steve Nash, ex giocatore di basket, oggi allenatore dei Brooklyn Nets: “Questo è un problema dei bianchi. Come possiamo noi creare uguaglianza? Ascoltando. Leggendo.

Mettendoci nei panni degli altri.

Organizzando.

Cambiando”.

Per eliminare il razzismo dobbiamo estirparlo fin dalla radice ed educare gli uomini, fin da bambini, prima alla tolleranza e poi all’uguaglianza.

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L’inclusione secondo Salvatore Foresi

Dire la diversità

di Claudia Crivellaro, IE

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Foto: Alessandro Poggi

In “Dire la diversità”, il professore Salvatore Foresi si occupa del tema dell’inclusione, interessandosi in particolare alle condizioni di vita degli individui.

Nel suo trattato Salvatore Foresi, ex professore ordinario di psicologia delle disabilità e dell’inclusione all’Università di Padova e fondatore del Centro d’ateneo per la disabilità e l’inclusione e il Laboratorio Larios, per l’orientamento, afferma che l’inclusione va oltre all’inserimento e all’integrazione di persone o gruppi per attuare la cosiddetta “normalizzazione” ed è infatti interessata alle condizioni di vita che gli individui ottengono, che devono essere ottimali in quanto ognuno ha diritto ad avere una vita che rispecchi tutti i canoni di conformità e di adeguatezza. “L’inclusione è ciò che avviene quando ognuno sente di essere apprezzato e che la sua partecipazione è gradita”; questa sua ulteriore definizione rispecchia il pensiero degli appartenenti alle varie “diversità” (ad esempio i migranti o le persone affette da patologie) che desiderano solo essere di aiuto come possono alla società senza essere discriminati, additati, denigrati, isolati. Procedendo afferma anche che l’inclusione oltre a sostenere il diritto all’inserimento, secondo l’articolo 13 della “Dichiarazione dei diritti universali del 1948” sollecita il cambiamento evolutivo degli atteggiamenti, degli insulti e delle critiche, dei criteri grossolani di valutazione, dei luoghi comuni. Parla anche dell’utopia della personalizzazione (personalizzare significa per l’appunto valutare le persone, per attribuire loro dei valori non valutazioni e numeri che non possono rappresentare l’individuo nei suoi valori, nel suo credo o nelle proprie opinioni, ma solo indicare la preparazione della persona in quel determinato momento); solo se “essa apparirà sostenibile e perseguibile”, “l’idea di

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inclusione si trasformerà in utopia sostenibile dell’agire in favore del benessere di tutti e per tutti, rifiutando di intraprendere scorciatoie a un ben agire, a un ben educare, curare, assistere”; con queste parole esplicita il messaggio di un'inclusione concreta non solo immaginaria o auspicata ma realizzabile attraverso un cambiamento collettivo che sia finalizzato ad ottenerla nel modo migliore possibile, riconoscendo le propensioni proprie e uniche di ciascun individuo così come le loro originalità e libertà. “L’inclusione è infatti per natura pluralista, non solo perché è portata a riconoscere e possibilmente ad accettare le culture, ma perché valorizza l’eterogeneità, anche all’ interno di una medesima cultura invitando a non rinchiudersi in proprie e presunte identità”; qui lo scrittore si sofferma sulla nostra società interculturale affermando che ci possono essere punti di incontro che vadano oltre le singole culture. L’inclusione può portare a valori fondamentali quali “libertà” “uguaglianza”, “fraternità”, “solidarietà” che creano una concezione etico-morale di questo importante concetto e lo rendono colmo di significato, conferendogli un importanza simbolicamente notevole e completa, basata su principi basilari che dovrebbero essere accolti da ognuno di noi e accettati come colonne portanti di una società come la nostra, sempre in continuo mutamento, al fine di raggiungere l’evoluzione ultima e perfetta di comunità inclusiva e non costretta a una semplice e banale idea di “tolleranza”. Proprio per arrivare a tutto ciò, ogni individuo deve imparare ad accettare l’altro senza esservi forzato anzi

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con la piena consapevolezza di trovarsi dinanzi ad un altro essere umano che non ha bisogno di falsa e inutile compassione, o di fredda indifferenza celata da un’ostentata tolleranza, ma di vivo calore umano, di amore fraterno e di piena fiducia nella sua capacità di portare un cambiamento costruttivo nella vita di tutti giorni. Per questo il nostro vocabolario civile si deve modernizzare e non perseverare nell’utilizzare termini che limitano l’individuo relegandolo ad un’identità che non rispecchia la sua persona ma solo un ulteriore brutale discriminazione; infatti termini come: handicappato, ritardato, imbecille, immigrato, straniero, prostituta, schiava del sesso, badante e molti altri, portano alla comune convinzione di poter considerare inferiore chi viene così etichettato, condannandolo ad essere insultato, disprezzato e addirittura respinto e privato della propria condizione di essere umano, il persistere di questa ripugnante linguistica scatena una vile e inumana violenza che dimostra che l’uomo possa essere un parassita velenoso e mortale. Per cambiare in meglio questo clima oltraggioso basterebbe sensibilizzare la gente, non limitandosi a concetti basilari ma coinvolgendo in maniera incisiva l’interesse pubblico per avviarlo alla vera concezione di inclusione, un’idea che va oltre alla tolleranza e all’integrazione, un qualcosa di complesso e illuminante.

Solo perfezionando il pensiero critico di ognuno di noi, guidandolo ad un’assoluta fusione con la visione empatica delle individualità riusciremo a raggiungere il nostro ideale di piena inclusione.

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A spasso tra i girasoli...

Un obiettivo in comune

di Anna Agnello, VG

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Foto: Zoe Cecchinato

Ecco come l’idea dell’inclusione è affrontata in diversi ristoranti di tutta Italia.

“Tutti dovrebbero avere le stesse opportunità di costruirsi il proprio posto nel mondo”. Queste sono le parole riportate durante l’inaugurazione del ristorante “La Locanda dei Girasoli”, situato nel centro di Roma. Purtroppo questa locanda, anche a seguito delle restrizioni dettate dai molteplici D.P.C.M. del 2020, ha dovuto chiudere l’attività, per un breve periodo, a dicembre dello scorso anno. Questa locanda è sempre stata davvero, un grande esempio di buona cucina e soprattutto di “inclusione” a Roma. Si tratta di uno dei numerosi ristoranti d’Italia incentrati sulla partecipazione di ragazzi che hanno varie tipologie di disabilità, quali la sindrome di Down e la sindrome di Williams. Basti pensare che il numero di dipendenti disabili assunti, sui 19 totali, è pari a 12!

L’idea della “Locanda dei Girasoli” è nata, come molti altri ristoranti di questo tipo, dal pensiero di una coppia di genitori, che avevano un figlio con la sindrome di Down e volevano offrirgli, per il futuro, una buona prospettiva di vita oltreché di lavoro. Dalla nascita del ristorante avvenuta nel 1999, lo scopo dei gestori è stato sempre quello di concedere una REALE pari opportunità ai ragazzi con varie disabilità, nel mondo del lavoro. Grazie a questa iniziativa i responsabili, non solo sono riusciti a fornire un’eccellente e nuova esperienza ai clienti e a sensibilizzarli riguardo al tema dell’inclusione sociale, ma sono riusciti a formare una “famiglia allargata” tra tutti i lavoratori. Ultimamente questo nobile progetto di inclusione delle persone affette da disabilità si è diffuso sempre di più nel nostro Paese. Alcuni tra i ristoranti più noti sono: il Ristorante “Gusto” a Milano, e il “Bar Senza Nome” a Bologna. La disabilità

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che, normalmente viene definita come una sorta di mera condizione di svantaggio per il singolo, in questo caso, dimostra come si possano abbattere le barriere dei pregiudizi e ampliare il livello di vera solidarietà tra il personale. Anche i semplici avventori della locanda respirano un'aria di reale fratellanza che passa attraverso... ogni portata.

Ma cosa ne pensano i ragazzi dello staff che lavorano presso la “Locanda dei Girasoli”?

Ecco, la loro opinione al riguardo è più che positiva! Si augurano, giustamente, che attività come questa continuino a fiorire in tutta Italia! Un altro esempio di vera inclusione, relativa alle persone affette da disabilità, è il ristorante “ Cena al buio” di Bergamo. Qui l’inclusione consiste in un'esperienza sensoriale davvero unica, oltre che interessante, in quanto permette al cliente di vivere - in prima persona- il modo in cui i non-vedenti consumano i pasti ogni giorno. Ai clienti si dona, infatti, una benda che servirà loro per poter capire cosa si prova a mangiare “al buio”, senza vedere il contenuto delle portate. Durante una cena, che si può definire davvero “avventura”, si percepisce lo sforzo a cui ciascun ipovedente è sottoposto ogni giorno! Da qui si evince il supporto che ogni persona affetta da disabilità di questo genere è in grado di ricevere, e come questo si possa fare anche semplicemente prenotando una cena in uno di questi ristoranti. Io spero proprio che il desiderio dei ragazzi de “La Locanda dei Girasoli” possa avverarsi il più presto possibile, e mi auguro che la sensibilità di ciascuna persona “normale” possa tenere conto del grande valore dell’inclusione, che è la vera sfida del nostro futuro!

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LIS (acronimo di Lingua dei segni italiana)

L’ignota lingua dei segni

di Maria Zamberlan, IIG

Foto: Zoe Cecchinato

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Vi sono più di 72 milioni di persone nel mondo che comunicano con un linguaggio dei segni. Come per le lingue parlate, anche le lingue dei segni hanno una loro struttura grammaticale definita e ne esistono numerose varianti.

L’alfabeto manuale in LIS

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La comunicazione con l’altro è alla base dell’inclusione. Per questo è importante conoscere, anche solo a grandi linee, il linguaggio usato dalle persone sorde.

Attenzione ai termini “sordomuto” e “non udente”: a partire dal 2006 il primo è considerato obsoleto dalla legge, mentre il secondo ha un sottotesto negativo, poiché indica la persona tramite una mancanza.

Cos’è? Una lingua dei segni è una forma di comunicazione visivo-gestuale che si avvale principalmente di gesti delle mani, chiamati segni, ed espressioni del viso.

I sordi in Italia utilizzano la LIS (acronimo di Lingua dei segni italiana).

La LIS non è una semplice forma “mimata” dell’italiano, nonostante le movenze facciali, la postura e l’articolazione labiale abbiano un’importanza fondamentale. I segni sono classificati in modo preciso per la forma che la mano prende, il movimento che essa compie e il luogo nello spazio in cui si pone. Il linguaggio dei segni non è nemmeno una traslitterazione dall’italiano all’alfabeto manuale (in figura), a cui ci si riferisce con il termine “dattilologia”. Quest’ultimo sistema infatti, è usato solo per i nomi propri, le parole importante da lingue straniere o i vocaboli che non hanno un segno proprio.

Quando ci si presenta invece, si tende a non impiegare la dattilologia che passa per uno “spelling” pesante e difficile da memorizzare. Si usa il segno nome, un

gesto identificativo che ogni segnante adotta per se stesso. Ad esempio il segno nome di una persona che porta sempre gli occhiali può essere proprio una mano

vicino agli occhi che riprende la forma delle lenti.

Una breve parentesi va dedicata alla minuta comunità di Sordociechi italiani,

costituita da poco più di 5000 persone. La

LIST (Lingua tattile dei Sordociechi)

viene impiegata da un individuo sordo

che perde la vista. Egli inizia ad ascoltare

toccando le mani dell’interlocutore e

percependo così il segno comunicato.

Come si è formata? Gli stadi di

evoluzione di una lingua dei segni sono

molto simili a quelli di una lingua creola: Bambine che comunicano con la lingua dalla combinazione di più lingue nascono dei segni, Francia, 3 settembre 2013 gli idiomi detti “pidgin” che in seguito si strutturano come vere e proprie lingue creole. Fino a pochi secoli fa la comunicazione tra sordi era fondamentalmente home signing, ovvero un linguaggio mimico, nato nelle case e diverso da famiglia a famiglia. Era come se migliaia e migliaia di nuove microlingue nascessero e scomparissero insieme al “segnante” e alla sua cerchia ristretta.

Alla fine del Settecento, con la formazione degli Istituti di istruzione per sordi, si è iniziato a standardizzare questi linguaggi.

Oggi questi non operano quasi più con l’eccezione dell’Istituto Statale (REMY GABALDA/AFP/Getty Images) d'Istruzione Specializzata per Sordi - "A.

Magarotto" di Padova Nella pratica, i ragazzi fondevano i loro modi di comunicare, creando dei pattern.

I bambini della classi più piccole, osservando i più grandicelli assimilavano le nuove regole e le cementavano. Questi fenomeni sono ancora oggetto di studio.

Il più importante al momento è condotto in Nicaragua dalla professoressa Ann

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Senghas (docente di psicologia presso la Columbia University).

LIS, scuola e Covid Vanno riconosciute le difficoltà che sono state riscontrate in tempi di pandemia dalla comunità dei sordi, in particolare nelle scuole.

Ho avuto l'occasione di parlare con la professoressa Carmela Bertone del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati all’Università di Venezia, a cui va un ringraziamento per la sua disponibilità, che oggi insegna all’Istituto Magarotto. Racconta che, per i suoi allievi, anche una minima instabilità nella connessione ha causato una comprensione assai più lacunosa che nel discorso orale. Se durante una video lezione in italiano un tremolio della voce permette comunque di afferrare l’idea, la stessa situazione può far emergere problemi più gravi con una lingua visiva.

Nonostante il sesto articolo della Costituzione dichiari che la Repubblica debba tutelare con apposite norme le minoranze linguistiche, LIS e LIST non sono ancora riconosciute dalla legge italiana. Va tristemente considerato che il nostro è l’unico stato europeo, insieme al Lussemburgo, a non aver legittimato una sua lingua dei segni nazionale. Questo riconoscimento sarebbe una conquista augurabile nell’ambito dell’inclusione.

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I malati psichiatrici nella filmografia e in Italia oggi

Non scordiamoci delle malattie mentali

di Francesca Macali, II F

Foto: Zoe Cecchinato

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Una riflessione sul tema delle malattie mentali, a partire dalla visione di una serie TV di Netflix, Ratched, per ricordare che il disagio mentale esistono, e devono essere equiparate alle malattie fisiche.

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Dev’ essere stata la visione di “Ratched”” che mi ha incuriosito sui centri psichiatrici. Nel guardare questa serie TV, prodotta e diffusa da Netflix, sono andata oltre i bellissimi abiti della protagonista e dell'ambientazione in perfetto anni ’50 del Nord America . La trama di “Ratched”, i dialoghi e i suoi personaggi a tutto tondo non mi hanno distratta dalle scene recitate nelle camere e nei sale operatorie dell'ospedale psichiatrico.

In questo ospedale succede di tutto, tranne guarire davvero i malati e riportarli ad una vita normale: otto lunghe puntate con i colori magnifici dell’ arredo ospedaliero e le inappuntabili divise delle infermiere nel ricco edificio che ospita medici e malati. Persi nei loro desideri di vendetta, e nelle ambizioni ben interpretate dai vari attori e dalla protagonista.

In effetti l’estate scorsa aveva dominato un’altra ambientazione di Netflix, di grande successo mondiale chiamata “It’s ok to not be okay”, dove il protagonista è un giovane infermiere impiegato in un ospedale psichiatrico della Corea del Sud. Questa serie TV, delicata ed intima, mostra le difficoltà e gli insuccessi nel recupero socio-sanitario di una persona autistica e mentalmente disturbata da un trauma infantile. Non appena la vita di relazione gli impone un comportamento definito, preciso e purtroppo per lui estraneo, le difficoltà diventano infinite e imprevedibili .

Ma non sempre tutti disagi mentali affiorano in superficie, anzi a volte avviene il contrario. Può succedere che un tentato suicidio, per difficoltà di

adattamento giovanile, esacerbato da incomprensioni, sia la punta di un iceberg chiamato disturbo borderline di personalità, che viene vissuto in totale solitudine .

E’ questo il caso di “Girls interrupted”, un film del 1999, dove la protagonista riceve assistenza e conforto spirituale soprattutto dalle ragazze che lei conosce nel reparto dove ho è stata curata . Ed è soprattutto aprendosi e dando fiducia alle sue nuove conoscenze, oltre che allo psichiatra, che questa ragazza dolce e introversa riesce a maturare un inserimento consapevole nella società.

E’ stato però “Ratched”, la lunga serie TV, a spingermi oltre, a cercare qualcosa di più sui disturbi mentali e sul loro trattamento psichiatrico. Ho così scoperto che in precedenza, nel 1980, veniva proiettato nelle sale cinematografiche un film famosissimo, ambientato in un manicomio, intitolato “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. E in cui la caposala si chiamava proprio Ratched!

Questo film, diretto da Milos Forman, inizia in modo scherzoso e ribaldo, ma ben presto incupisce, la ribellione alla dura vita del manicomio viene punita severamente, un ospite si suicida e ad altri è praticata la lobotomia. Certamente bisogna inquadrare “Qualcuno volò sul nido del cuculo” nell'epoca in cui è stato prodotto, nei premi che ha conquistato, nel fatto che è considerato molto importante, nella scienza dell'epoca che si avvaleva dell’elettroshock abitualmente.

Ma la violenza, la segregazione, gli elettroshock e i casi di autolesionismo

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hanno colpito la mia fantasia e i miei sentimenti.

Così, ho iniziato ad approfondire in che modo in Italia sono trattati i malati mentali, fino a scoprire che la Legge Basaglia, nel 1978, ha abolito gli ospedali psichiatrici. In Italia li ha letteralmente cancellati, sottraendo a queste strutture grandi, spesso simili a piccole città, migliaia di pazienti che venivano trattenuti per decine di anni con poche cure e attenzioni .

I malati, distribuiti in piccoli edifici, in comunità protette, hanno percorso, chi più e chi meno bene, un progetto di inclusione, non lontano dalla vita sociale di tutti i giorni.

Le case-famiglia e la responsabilità affidata in parte ad uno dei malati mentali non risolvono certo tutte le difficoltà né portano automaticamente a un recupero completo del malato. Sono però un aiuto per le persone mentalmente disabili , e anche per le loro famiglie.

In piccole strutture, tra gruppi di pari, una vita con qualche piccolo lavoro e con delle soddisfazioni è possibile.

Per i casi clinici più gravi mi è stato utile un breve colloquio con una persona professionalmente coinvolta all'interno di una clinica privata, strutturata per la cura del disagio mentale. Ho intervistato una psicologa che da molti anni è in attività; questa dottoressa ha premesso che gli psichiatri, nei deliri da persecuzioni, utilizzano gli psicofarmaci di più recente produzione, e che questi medicinali aiutano moltissimo i pazienti. Per i depressi gravi , per i tentati suicidi che guidano in autostrada sulla corsia

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opposta, la prima forma di inclusione dei malati mentali è renderli innocui.

Se la malattia mentale è totalizzante la cura deve avere la medesima forza, e può essere necessario, in qualche raro caso, il ricorso degli psichiatri alla limitazione forzata della mobilità personale.

Riguardo all'inclusione di persone sofferenti di disturbi mentali di media o lieve entità è ormai certificato che rimandare in famiglia una persona adulta può non essere la soluzione migliore. Non è evolutivo il rientro in dinamiche familiari molto litigiose, contrassegnate da eccessi di collera, o con parenti tossicodipendenti gravi.

In sostanza, questa è stata la conclusione di questo scambio di idee: l'inclusione non può negare la malattia mentale, né ridurla a un semplice accidente della società. Va confermato che il disagio mentale esiste, esattamente come le malattie fisiche del corpo.

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Protagonisti delle strade

L’arte dell’includere

di Elisabetta Contin, IV E

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Foto: Pietro Zelco

Anche con l’arte è possibile scegliere la strada dell’inclusione: l’obiettivo è quello di valorizzare vie, quartieri o edifici e al tempo stesso migliorare la vita di chi li vive facendoli sentire protagonisti.

L’arte ha accompagnato l’uomo fin dagli albori della sua esistenza, conducendolo attraverso epoche differenti e trasformandolo nella figura che tutt’oggi abita elevati palazzi sontuosi e che percorre enormi distanze in pochissimo tempo. Ne ha ampliato i sogni, l’immaginazione, e di conseguenza aguzzato l’ingegno. Testimone di ogni suo passo compiuto, del suo pensiero, dei suoi ideali e delle sue insicurezze, l’arte, tramite variegate forme, è stata la più alta espressione umana di creatività e di fantasia. Essa offre all’individuo la possibilità di esternare i propri sentimenti e di esteriorizzare la propria intimità; sappiamo come raccolga sotto la sua ala diverse discipline: il teatro, la danza, la musica, la scrittura... assieme a diversi aspetti della nostra vita. Tuttavia, vorrei soffermarmi soltanto su due tra gli elementi appartenenti a questo vastissimo insieme: l’arte pittorica e l’arte dell’inclusione sociale.

Sì, poiché far sentire il prossimo partecipe e ben accolto in una comunità, offrendogli tutti i mezzi e gli strumenti dei quali necessita: è pur sempre arte, un’arte verso cui fortunatamente la nostra società negli ultimi decenni ha dato sempre più rilevanza. A livello amministrativo, in un agglomerato urbano, vengono prima di

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tutto i quartieri: essi (al di fuori della scuola e del lavoro) sono l’esempio di ‘’un’articolata organizzazione sociale’’ più vicino a noi . Cosa ha a che fare quindi l’arte pittorica, accennata poco prima, con tutto questo ? Bene, ecco… i progetti cittadini che uniscono arte urbana e inclusione sociale stanno aumentando. Si tratta spesso di interventi di grande impatto visivo che vengono realizzati coinvolgendo ragazzi con fragilità e cittadini del quartiere. L’obiettivo è quello di valorizzare vie, quartieri o edifici e al tempo stesso migliorare la vita di chi li vive facendoli sentire protagonisti. L’arte contemporanea scende nelle piazze, nelle strade, incontra le persone, si integra costantemente nel quotidiano, contribuendo alla qualità sociale, favorendo l’inclusione e facilitando la partecipazione attiva della comunità. In questo modo riesce a svilupparsi un’idea precisa di relazione tra arte e spazio pubblico e viene sottolineato il ruolo dell’opera d’arte nella vita di tutti i giorni, nelle comunità e nelle relazioni tra le persone. L’artista di quartiere diventa perciò un elemento importante (se non fondamentale) in questo campo; riunisce i quartieri che ospitano realtà difficili nel loro cambiamento socio-culturale, o semplicemente nelle complessità del vivere insieme. Per quanto riguarda il concetto di arte, si...è relativo, ma proprio per questo non conosce né spazio né frontiere: i messaggi che essa conduce e trasmette non possiedono limiti.

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Parole e inclusione

La tenda porpora

di Miriam Segala Negrini, IIA

Foto: Zoe Cecchinato

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Scostai la tenda porpora che pareva palpebra allungata sui vetri graffiati da linee d’acqua tiepida al tocco della mano che divenne diga in vitrea pianura.

L’acqua penetrava tra l’unghia e la pelle del dito si fece arteria esterna al corpo e al sangue si fece vena che più non si piegava al cuore che s’era prosciugato si fece nervo, che divenne ottico e guidò gli occhi miei al di là della tenda questi videro i lembi della tua ombra che si allontanava trascinando i piedi sui ciottoli come lucide lacrime in cui inciampasti due volte alla luce della luna che aspettava il tuo sguardo su di lei più del mio volto.

Mi immaginai il tuo, sempre più discosto da essa temevi la luna nel cielo, la preferivi sulla laguna, di anfibie sembianze o tra le tue stanze meno distante.

Procedevi in avanti e io imperterrito ascoltatore della tua flora frenai ogni mio cigolio per sentire i tuoi Udii il pianto di un salice mi voltai e il mio scheletro s’era fatto corteccia.

Desiderai essere la tua schiena, per potermi guardare mentre mi allontanavo da te e tu ti allontanavi da me, ma essa cessò di avere quella stessa sembianza e divenne specchio e io mi guardavo allontanarmi da me.

Ho affrontato il tema dell’inclusione in relazione al nostro essere. È necessario includere, al di sopra di ogni cosa, noi stessi all'interno del panorama del nostro sguardo, per non precluderci la vista dell'orizzonte, su cui si posano le aurore e i tramonti. È necessario rendersi conto che rincorriamo gli altri, per paura di rincorrere l'io perpetuamente nascosto dentro noi, per paura poi di trovarlo e di stanarlo. Abbiamo timore di scoprirci dentro un pozzo nero, da cui poi sarà difficile riemergere incolumi.

E desideriamo tutto ciò che è altro, esterno ed estraneo a noi, desideriamo il secchio del pozzo. Lo invochiamo affinché ci salvi dal buio pesto dell'anima in cui brancoliamo.

Affinché ci riporti su, verso il cielo, tirando la corda che a lungo andare si spezza, diventando groviglio di tendini e cordami.

Imploriamo il secchio vuoto di issarci in aria come vele, il più vicini possibile allo spicchio di luna che intravedevamo dal pozzo. E poi ci accorgiamo che la luna s'era sempre specchiata in quell'acqua putrida.

Noi viviamo accanto alla falce specchiata.

Non è forse vero che il riflesso della luna è più luna ancora della stessa luna? Allora desideriamo noi stessi prima degli altri, desideriamo il pozzo,anche se buio, e non il secchio. Desideriamo possedere il nostro essere e ciò che siamo. Includiamoci. Noi dentro noi, in ogni luogo e tempo.

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Un racconto per immagini

Insonnia da favola

di Zoe Cecchinato, I A

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Sogno, o son desto?

Nel buio che tutto avvolge Scrivere con la luce Illuminare per creare una storia Esprimere un pensiero Dare forma ad un’idea Scegliere qualcosa che resti nel cuore Muoversi nello spazio Cercare l’ispirazione e poi Accorgersi di trovarla nelle cose più Semplici Selezionare il modo con cui trasmettere il Significato Liberarsi da ogni Limite Lasciare spazio a punti di vista Nuovi Dove reale e surreale si fondono per danzare insieme.

Mi chiamo Zoe e questo è il lavoro dal titolo “INSONNIA DA FAVOLA” con cui ho partecipato e vinto, nella sezione fotografia, alla 3° edizione del Concorso Nazionale “Sonno… o son desto…” promosso dall’ ASSIREM (associazione Italiana per la Ricerca e l’Educazione del Sonno) e il Ministero dell’Istruzione per sensibilizzare le giovani generazioni sull’importanza del sonno per lo sviluppo psicofisico dei bambini e degli adolescenti. La proposta è arrivata dal mio docente del laboratorio fotografico prof. Arcangelo Di Donato che ha guidato me ed i miei compagni nell’elaborazione di un progetto organico attraverso la creazione di uno storyboard oltre a supportaci poi nell’esecuzione tecnica e nella postproduzione. Questa esperienza ha portato tutto il gruppo del laboratorio di fotografia a cimentarsi con un tema complesso per rendere un’idea originale attraverso il mezzo che stiamo imparando a conoscere: la fotografia.

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Perle dei professori SANDON “Tenete duro ragazzi, mirate a piccoli obiettivi, come arrivare alla domenica.”

“Vorrei conoscere il titolista del Baldi per dargli un bacio in fronte, prima o poi.”

“D’Annunzio, oggi, avrebbe sicuramente partecipato a un reality show.”

“Non so quanto stiate a sentire quando parlo, penso una roba giusta insomma.”

“Sto imparando a stare nei tempi, tra un po’ posso diventare una sciatrice.”

“Sto facendo addormentare un bel po’ di gente, posso rivendermi come melatonina.”

“Scusa se non ti ho sentito, ma sulla porta è arrivata una mega-scopata, proprio in termini di scopa.”

POSSAMAI “Bernini non era il migliore nel campo dell’architettura. Di certo non gli avrei dato da ricostruire il Ponte Morandi.”

GIOVANNELLI P: “Chi vi viene in mente se dico eroe senza macchia?”

A: “Geronimo Stilton”

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ZAGO *parlando di giurie* “E chi era vecchio o non si sapeva bene cosa facesse era chiamato zio ...e sapete come lo salutavano per strada? Bella zio ...”

“Malpelo riusa i vestiti del padre”

Studente:”ma i vestiti di un morto?” “ Erano ben conservati!” “ ‘Or, se le mie parole non son fioche, se la tua audienza è stata attenta, se ciò ch’è detto a la mente revoche’ ... che è quello che dicono i professori prima di un compito” “bene ragazzi e dopo Leopardi e Verga ora approdiamo subito a Dante così senza soluzione di continuità... first reaction: shock”

RIPARELLI “Se Bolt sfida il professor Riparelli sui 100 metri, ha il pregiudizio di pensare che sia lento. E fa bene!”

SANTINI “Se la discontinuità non è eliminabile, la funzione non può rifarsi una nuova vita.” (spiegando le derivate) “Mi sono persa nel deserto, ragazzi.”

“Ragazzi, ma non parlate mai! Siete peggio di Lucia nei Promessi Sposi.”

“La facilità di questa cosa causa stordimento.”

BENETOLLO “Seneca è così: va assunto a piccole dosi.”

“Si sentono comunemente persone che vogliono fare i fighi con citazioni latine ma le sbagliano, è un vorrei ma non posso.”

“In questo passo Seneca dice che si può intrattenere relazioni anche con gli scrittori del passato: è come se Seneca fosse il vostro migliore amico. Meglio di no ecco…”

SORIO “Non voglio fare l’epidemiologo dilettante, quindi non pensiamo al futuro.”

CARDIN 1* parlando di idrogenazione degli oli* “Meglio morire di burro piuttosto che di catalizzatori “ 2 “ma anche la sedia è cambiata? E i braccioli? Mi hanno tolto quel senso di potere...”

ROSSI 1 “Leopardi mi piace pensare sia morto davvero per congestione da gelato… una morte che tutti vorrebbero, molto dolce!”

2 “Hegel è l unico uomo a cui sono stata fedele” 3 “scusami S. non ti sento, se le tue compagne qui che sembrano delle bipedi pennute non stanno zitte... “

MOZZI 1 *esasperata dalla connessione di una studentessa*

“Mi sembra di parlare con la Cristoforetti… mi rispondi dopo anni luce” 2 “in pratica Marziale si chiede se sia meglio essere un avvocato o un uomo di lettere... ragazze voi che dite? Meglio un avvocato o un professore di lettere? Credo che il voto sia unanime” 3 “si il denaro... oggi si dice “riccanza”, mi pare... ah, questi neologismi!”

FACCHIN “F. smettila di importunare il sesso opposto”

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proposto da Giuriati Elena e Franchetti Luca, III A

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Abbiamo pensato di aggiungere al numero una versione simpatica di un test della personalità, così che possiate vedere quale personaggio di friends vi rappresenti meglio! L’ultima parte è strettamente legata alla sitcom e consigliamo di farla solo a chi l’ha finita per evitare spoiler, buon divertimento!

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Sei il tipo di persona che passa le giornate in modalità diversissime, ma sempre produttive. Non ti lasci mai sfuggire un’occasione per conoscere qualcosa di nuovo e se sempre in prima linea quando si tratta di fare importanti passi avanti.

Poiché è difficile inquadrarti in una specifica categoria, l’incomprensione è all’ordine del giorno per te. Ti capita spesso che ti bollino come un personaggio difficile, dalla scarsa collaborazione e attenzione, soprattutto a scuola, e quando si tratta di punti di vista, ti fai valere prontamente.

È difficile non andare d’accordo con te: sei altruista e amichevole senza voler nulla in cambio, apprezzi ogni possibilità di mostrare il tuo impegno e perciò non esiti mai ad aiutare anche chi conosci poco bene. Con le persone a cui tieni di più, invece, hai bisogno di ricevere in abbondanza sia affetto che attenzioni, per cui, se pur i veri amici li conti sulle dita di una mano, sai di poterti fidare ciecamente di loro. In ogni caso, le persone ti stimano molto per le tue doti nei campi più svariati e non è raro che ti prendano come modelli di riferimento.

In una parola sola, sei inarrestabile. Certo, ognuno ha i suoi alti e bassi, ma nessuno è in grado di rialzarsi in fretta quanto te e tornare a correre ancora più veloce di prima. Devi però fare attenzione a non essere troppo prepotente con gli altri ed esigente con la tua persona, anzi è importante che tu riconosca che è proprio chiedendo aiuto agli altri che si riesce ad andare avanti. Quando la sfortuna sembra perseguitarti, un po’ ti scoraggi e molli la presa, ma se rifletti un attimo su tutto quello che hai fatto, vedrai che sarà evidente come proseguire.

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La percezione della tua personalità varia molto a seconda dei punti di vista: per i tuoi amici sei la persona a cui fare affidamento, per chi ti conosce un po’ meno sei superficiale e banale. Nonostante ciò, non dai troppo peso al giudizio degli altri e passi le tue giornate serenamente, coltivando le tue svariate passioni e curando la tua persona. Dai sempre ottimi consigli su come risolvere problemi di coppia, ma hai molte difficoltà ad avere una relazione stabile e ti demoralizzi facilmente.

Sei una persona quieta, che a primo impatto lascia una dolce sensazione di gentilezza. Stringi amicizie facilmente e sei abile nel capire i sentimenti di chi ti sta attorno. Con i tuoi ti riesce più difficile, perciò spesso ti fai trasportare dalle tue emozioni e perdi il controllo; se per alcuni sei una persona passionale e intensa, per altri sei solo una persona esaltata e facilmente irritabile.

Fai attenzione a quel che dici, mi raccomando. Sei una persona per natura molto sarcastica e senza peli sulla lingua, ma il tuo atteggiamento può essere interpretato negativamente anche da chi vorresti avvicinare; a volte è meglio se lasci parlare il tuo cuore, che non mente e non fa giri di parole. Visto quanto tieni al tuo spazio personale e privacy, tendi ad allontanarti inconsapevolmente, ma è proprio questa tua personalità più riflessiva che ti permette di trovare il meglio nello stare in un gruppo e di sorpassare molti ostacoli.

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Cruciverba di Elena Giuriati 3A

ORIZZONTALI: 1 tazza (ing) 5 zucchero semplice monosaccaride 13 la ripetizione di questa sillaba forma una parola che indica una figura che si prende cura dei bambini 14 “rotolò rimbombando” figura retorica 16 la Ora di “Let you love me” 17 nome d’arte di Namjoon, uno dei Bts 19 può essere al limone o alla pesca 20 collezione di elementi facente parte di un raggruppamento secondo criteri oggettivi

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23 il punto si chiama così se all’interno di un indirizzo di posta elettronica o di un sito internet (ing) 25 restrizione che causa multe a coloro che entrano in centro storico senza debito permesso 27 di recente hanno cambiato presidente 28 experimental factor ontology 30 sigla di un movimento politico italiano 32 stato norvegese 34 all’inizio dell’opera 35 università of Delaware 36 processo di gruppi che agiscono per il loro mutuo beneficio

40 parola olofrastica equivalente a una posizione negativa 41 integrarsi in un gruppo comporta un … sociale 44 percorso incurvato dalla gravitazione di un oggetto intorno s un punto nello spazio (ing) 45 I am 46 film di fantascienza del 1984 diretto da David Lynch 48 circa 49 tendenza a giudicare la struttura, la cultura e la storia di gruppi diversi dal solito 56 identità digitale 57 cognome della protagonista di One Day 58 facevano parte dell’iperuranio di Platone (singolare) 61 non epsilon 62 futuro semplice del verbo essere (lat) 63 associazione italiana editori 64 onestà dichiarata e ammirevole

VERTICALI: 1 caring is sharing 2 prefisso negativo inglese o articolo indefinito italiano 3 ….delle spie, film del 2015 con Tom Hanks 4 convenzione, accordo 5 più piccolo stato federato dell’India 6 l’inizio dell’apnea 7 …..Zeppelin 8 famoso inizio di una canzone di Edoardo Vianello 9 esportazione di merci e/o di persone 10 altro nome delo street punk 11 sexually transmitted diseases 12 Somerhalder (nome) 15 Ben che si veste sempre di verde e nero

17 Sentimento e atteggiamento di riguardo, di stima e di deferenza, devota e spesso affettuosa, verso una persona 18 middle east line 21 negozio per flauti traversi a Padova (pl) 22 sinonimo di settimana 24bis ode di Orazio incentrato su un’adolescente oppure erba appena nata (lat) 25 famoso romanzo di Bret Easton Ellis “Meno di …”

26 oggetto usato per la cattura di quadrupedi 29 scappare (ing) 31 credit privacy number 33 trasporto internazionale su gomma (ing) 35 termine usato con riferimento a un ente individuato perfettamente 36 insieme delle tecniche, delle arti e delle attività industriali e distributive che producono come risultato un film 37 ॐ 38 comunità caratterizzata da omogeneità di lingua, cultura e tradizioni 39 grande fiume russo 42 impazzire (going….)

43 suncoast news network 47 all’inizio di Amazon 50 film horror del 2019 diretto da Jordan Peele 51 lo sono i moschettieri 52 reel ai lati 53 Sydney agli estremi 54 canzone di Scooter 55 Brandon morto durante le riprese de “Il Corvo” 59 ai lati del diesel 60 dimensione di una pila standard 61 “...telefono casa…”

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Oroscopo della maga Artemisia Ariete

Toro

Cari Arieti, questo periodo sta duramente mettendo alla prova la vostra pazienza, ma non agite sfidando la sorte: cercate di circondarvi di Toro, Bilancia e Pesci, loro sapranno tenere a bada la vostra impulsività.

Vi vedo leggermente possessivi ultimamente, soprattutto nei confronti dei vostri amici. Fate bene a tenere strette le persone a voi care, però non esagerate, siete pesanti!! Spero solo ci siano degli Arieti nel vostro gruppo di amici per attenuare la vostra gelosia.

Gemelli

Cancro

Gemellini spero che per giugno la situazione migliori, ma non ci spererei molto, quindi mettete da parte le rivalità con Leoni e Sagittari perché tanto ci si becca tutti a Jesolo!

Luglio è ancora lontano e voi ne risentite proprio: so che siete sopraffatti da tutte le restrizioni, ma spero che entro giugno l’unica cosa di soffocante sia il caldo...

Leone

Vergine

Leonii, a dir poco vanitosi, dovreste chiamarvi Narciso. Anche se siete leali e generosi, siete un po’ troppo egocentrici, soprattutto ora che dovete concentrare tutto il vostro bisogno di attenzione nella presenza al 50%, poveri i vostri Scorpioni e Bilance…

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Il vostro altruismo è stato fondamentale per i vostri amici del Toro e vi state distinguendo anche per delle scelte difficili ma necessarie...Con qualche preghiera dovreste avere Atena dalla vostra parte e sarete sicuramente ricompensati!!

Bilancia

Scorpione

Pessimismo cosmico su tutti i fronti scorpioni miei...ve ne capita una dietro l’altra, cosa per Zeus avete combinato? Se proprio non sapete come venirne fuori provate a chiedere aiuto ad un Leone, saprà di sicuro come afferrare un po’ di buona sorte!

Siete finalmente risaliti dall’Ade!! Il rientro a scuola è stato arduo, sommersi dai compiti e da cose da studiare, però ve la siete cavata egregiamente...Cercate di aiutare il vostro amico Toro che si sta trasformando nel toro Ferdinando.

Sagittario

Capricorno

State affrontando questi mesi con energia e spirito di avventura, vi vedo carichi!

Spero vivamente che questo atteggiamento vi accompagni fino a giugno e che vi porti nuove amicizie...(consiglio Arieti e Acquari per voi)

Mie care teste dure, questa situazione così indefinita e sospesa vi manda fuori di senno… so che è difficile ma circondatevi di buoni amici, fatevene di nuovi (Sagittari e Gemelli) e godetevi quel poco che è lecito!!

Acquario

Pesci

La Primavera è accompagnata da Venere: riuscirete a conquistare il vostro amore, anche se avrete un po’ la testa fra le nuvole a scuola...non vi preoccupate ci saranno Capricorno e Ariete a farvi da spalla!

Sguazzate in un mare di guai pesciolini.

Avete perso la bussola e non trovate più la retta via, ma potete sempre contare su Vergine, Cancro e Apollo per un ritorno safe and sound in carreggiata!

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LA REDAZIONE DI AGORÀ

Beatrice Mitrofan, Elena Giuriati, Emma Destro, Zoe Banzato, Alma Carraro, Giacomo Pulliero, Aurora Zaramella, Niccolò Tavian, Matteo Milanesi, Riccardo Iazzolino, Alessandro Fogarollo, Nicola Francia, Giulia Baretta, Luca Franchetti, Ludovica Agostini, Matteo Danieli, Claudia Crivellaro, Anna Agnello, Maria Zamberlan, Francesca Macali, Elisabetta Contin, Miriam Segala Negrini, Zoe Cecchinato, Ludovica Zorzi

grafica

fotografia

Aurora Zaramella Eleonora Bugno Emma Destro Francesca Zara Giulia Baretta Gloria Zamprogna Luca Franchetti

Alessandro Poggi Carolina Zanon Caterina Calzavara Eleonora Bugno Ginevra Costiniti Maria Vittoria Tesser Pietro Zelco Rachele Rossato Zoe Cecchinato

copertina retrocopertina

Caterina Calzavara Ludovica Agostini

caporedattori

professori

Beatrice Mitrofan, Emma Destro, Giulia Baretta, Luca Franchetti

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Bruna Mozzi Arcangelo Di Donato