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materiali contemporanei per il consolidamento delle strutture moderne

Silvio Van Riel Università degli Studi di Firenze

Abstract

Questo contributo si inserisce in maniera organica nei temi trattati nel Laboratorio di Restauro tenuto dal Prof. Giuseppe Centauro su una problematica sempre a margine degli argomenti affrontati nel corso istituzionale, per ovvie ragioni di tempo, cioè quello del consolidamento delle strutture che caratterizzano l’architettura moderna. Lo spunto è stato offerto dal seminario sul “Fabbricone” di Prato che ha invitato gli studenti ed i docenti ad affrontare, per la prima volta, una ricognizione puntuale degli edifici che caratterizzano l’importante e storico insediamento produttivo e che, oggi, rappresenta un significativo nodo urbanistico e funzionale della comunità pratese.

All’interno degli edifici sono presenti tipologie strutturali del tutto innovative al momento della costruzione, basti pensare alle strutture in cemento armato che caratterizzano uno dei primi esempi nella storia della città, un sistema di copertura che utilizza shed, realizzati con materiali tradizionali come il legno massiccio abbinati all’acciaio ed alla ghisa e orientati in maniera di fornire agli operatori tessili una luce sempre omogenea.

Dalla sua costruzione l’insediamento ha avuto tutta una serie di addizioni edilizie funzionali, le cui tecniche realizzative documentano l’evolversi e l’ammodernamento dei materiali utilizzati nelle strutture, fino alla realizzazione delle volte il laterizio armato a spinta frenata delle coperture dei teatri Fabbricone e Fabbrichino. Da menzionare, inoltre, l’esistenza nella struttura di copertura di un fabbricato, oggi utilizzato come uffici, di un sistema di cavalletti lignei che testimoniano l’origine austro-ungarica dei committenti, del tutto simile agli esempi riportati nel manuale del Breymann e che rappresenta un episodio unico nel territorio toscano.

Allo stato attuale e alla luce dell’attuale normativa tecnica sono richieste prestazioni strutturali totalmente diverse e molto più gravose, ai fini della sicurezza statica e sismica, di quelle attive al momento della loro realizzazione.

Quindi al fine di una corretta e funzionale conservazione potranno e dovranno essere utilizzati materiali e sistemi di consolidamento che garantiscano quei miglioramenti nelle prestazioni strutturali al fine di una loro corretta valutazione in sicurezza. Deputati a questo sono i materiali di ultima generazione che nel contributo proposto, forniscono una prima ricognizione conoscitiva sicuramente utile per gli studenti del corso ed anche per gli addetti ai lavori.

pagina precedente Prospetto del complesso produttivo al termine dei lavori 1933 - 1938 e un’immagine fotografica del periodo. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

Le strutture in cemento armato ed in acciaio della copertura. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

Le strutture del capannoni in sommità con pilastri e capriate in cemento armato. (Fonte: Archivio Storico del Comune di Predappio)

L’uso di strutture miste e tradizionali nel complesso allo stato attuale.

Premessa

L’occasione offerta dal seminario sul “Fabbricone” di Prato permette di ampliare i temi trattati nel Laboratorio di Restauro tenuto dal Prof. Giuseppe Centauro su un argomento sempre a margine dei temi affrontati nel corso istituzionale, per ovvie ragioni di tempo, cioè quello del consolidamento delle strutture che caratterizzano l’architettura moderna. Si fa riferimento, quindi, all’uso del cemento armato e del ferro che distinguono il periodo di costruzione del “Fabbricone” e che, in Italia, assumono declinazioni costruttive estremamente variegate e desunte dalla tradizione costruttiva storica e dalla disponibilità di materiali facilmente disponibili al di fuori di quelli importati.

Singolare è stato il tentativo di utilizzare per capannoni e aviorimesse strutture portanti in tavolette di legno chiodate, tra gli esempi più rilevanti è il ricovero idrovolanti realizzato nel porto militare di Taranto e alcuni piccoli fabbricati nel Valdarno, da tempo demoliti.

Quindi le costruzioni del periodo utilizzavano strutture tradizionali, come murature in laterizi e pietrame per realizzare setti portanti in elevato assieme alla ghisa per montati sottili e cemento armato quando questo era possibile.

Più articolato e complesso risultava il tentativo di realizzare gli impalcati e le strutture di copertura, dove venivano utilizzati l’acciaio, ancora il legno e il cemento armato con elaborazioni costruttive molto complesse e articolate dove la sperimentazione, resa possibile dalle Norme Tecniche del periodo, rende oggi particolarmente complesso e delicato il progetto di riabilitazione strutturale.

L’uso di impiegare tecniche costruttive miste ha caratterizzato anche quasi tutta la ricostruzione post bellica e quella del bum economico degli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, fino a quando le Norme antisismiche da metà anni ‘80 hanno vietato queste tipologie costruttive.

Oggi, le attuali Norme Tecniche per le costruzioni (2008 - 2018) prevedono per l’intervento su gli edifici esistenti la definizione del “Percorso conoscitivo” al fine di identificare, in maniera più accurata possibile, le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e le relazioni di interazione fra gli stessi attraverso calcoli di verifica statica e sismica per definire le loro prestazioni.

Inoltre, ed è bene ricordarlo, le norme dell’attuale SismaBonus per la sua corretta applicazione implicano l’intervento su moltissime strutture realizzate nel periodo citato, per cui acquista particolare importanza la conoscenza di queste tematiche.

Si riportano alcune immagini dell’ex Fabbrica Caproni a Predappio, complesso architettonico per la produzione di aerei militari che, per le sue dimensioni e difficoltà costruttive dovute all’orografia del sito, ha rappresentato uno degli episodi più controversi di tutta l’attività edificatoria bellica fascista.

Come per il “Fabbricone”, seppur con cronologie diverse e attività produttive totalmente estranee fra loro, i due episodi presentano la stessa volontà edificatoria di realizzare dal nulla grandi complessi edilizi dove le strutture hanno una parte di estrema importanza. La conoscenza e conservazione di queste realtà rappresenta un contributo rilevante per la storia delle tecniche e delle costruzioni che solo negli ultimi decenni sono state validate come patrimonio significativo e culturale della nostra società. Ai futuri architetti sarà quindi affidato questo oneroso e, tante volte disconosciuto, impegno.

Consolidamento delle strutture in cemento armato

Il cemento armato, ritenuto per anni inalterabile e di durata illimitata al punto da essere definito una “pietra artificiale”, è in realtà soggetto a significativi fenomeni di degrado che ne alterano sensibilmente le proprietà meccaniche. Per garantire, quindi, la durabilità delle strutture in cemento armato è fondamentale la conoscenza dei meccanismi di degrado e dei fattori che influenzano tale fenomeno.

Il degrado porta ad una diminuzione del carattere protettivo del calcestruzzo dal punto di vista fisico (aumento della permeabilità, formazione di fessure, distacchi di materiale) favorendo così la penetrazione di sostanze aggressive e promuovendo la corrosione del ferro di armatura.

Nel corso degli ultimi anni sono state impiegate notevoli risorse nel campo dell’ingegneria sismica per sostenere la ricerca volta all’applicazione di nuovi materiali e allo studio di nuove tecnologie utili per il miglioramento delle prestazioni strutturali di edifici e strutture esistenti. I recenti eventi sismici, che hanno colpito il territorio italiano, hanno ancora una volta messo in luce l’elevata vulnerabilità del patrimonio costruito esistente; la messa in sicurezza di tale patrimonio è dunque oggi una priorità di interesse nazionale al fine di migliorare la sicurezza delle nostre abitazioni e ridurre le perdite umane ed economiche a seguito di eventi sismici.

Sono questi i presupposti, a partire dai quali, con la Legge di Bilancio 2017 è stato sancito un cambio radicale in materia di prevenzione sismica del patrimonio edilizio esistente, promuovendo una politica di mitigazione basata sulla messa a punto di uno strumento di incentivo economico, nella forma di detrazione fiscale, per interventi di miglioramento sismico delle strutture, il cosiddetto SismaBonus

Questo significativo contributo ha reso ancor più cogente la necessità di fornire strumenti conoscitivi su tecniche di consolidamento delle strutture moderne, finora riservate agli specialisti, anche in fase formativa universitaria.

Per quanto riguarda il rilievo delle principali forme di alterazione delle superfici e di degrado dei materiali che costituiscono le membrature in cemento armato, si evidenzia come in linea di massima queste forme siano connesse con difetti di costruzione o legate a fenomeni di tipo fisico e a reazioni di tipo chimico tra i materiali da costruzione e l’ambiente in cui una determinata opera è situata.

Sebbene le casistiche di degrado siano innumerevoli, tuttavia esse possono essere raggruppate in tre grandi categorie:

• alterazioni delle superfici dei materiali da costruzione;

• alterazioni delle sezioni degli elementi costruttivi;

• fessurazioni, perdita, distacco ed espulsione di materiale dalla sezione in cemento armato.

In linea di massima, le alterazioni delle superfici e delle sezioni sono di facile diagnosi in quanto sono legate principalmente ad errori durante l’esecuzione dell’opera e/o a difetti dei particolari costruttivi, con particolare riferimento a quelli legati allo smaltimento delle acque piovane.

Più difficoltosa risulta la ricerca delle cause di quelle manifestazioni di degrado che si presentano in forma di fessurazioni, distacchi ed espulsione di materiale. Queste alterazioni, infatti, possono essere riconducibili a cause diverse non direttamente individuabili attraverso l’osservazione visiva, tanto da necessitare di un approfondimento di indagine da condursi mediante prove effettuate generalmente in laboratorio su reperti prelevati in sito.

Ad esempio se il sopralluogo evidenzia la presenza di corrosione delle barre di armatura, accompagnata da macchie di ruggine sulla superficie del calcestruzzo, fessurazione e distacco del copriferro sarà necessario individuare, innanzitutto, se vi sono errori nella raccolta e smaltimento delle acque.

Successivamente, si potrà procedere alla valutazione dello spessore di calcestruzzo contaminato dall’anidride carbonica e/o dal cloruro, mediante metodi colorimetrici oppure ricorrendo all’analisi chimica elementare.

Lo spessore di materiale contaminato, unitamente alla conoscenza dell’età della struttura potrà fornire indirettamente utili indicazioni sulle caratteristiche del calcestruzzo utilizzato in termini sia di resistenza che di rigidità.

Queste informazioni, unitamente alla determinazione della riduzione di sezione dell’armatura per effetto della corrosione, potranno indirizzare l’intervento di consolidamento verso un reintegro dell’armatura corrosa oltre che nella scelta dei sistemi di protezione superficiale.

Lo sviluppo tecnologico offerto dall’industria, negli ultimi vent’anni, con ricerche e studi sui materiali compositi ha permesso di ridurre sensibilmente l’intervento su pilastri e travi che utilizzavano il vecchio metodo dell’integrazione delle armature e rifacimento dei copriferro che finivano per aumentare le sezioni.

Oggi questo intervento è stato, nella quasi totalità, sostituito dall’uso dei rinforzi in materiali compositi, come ad esempio fibre di carbonio, fibre di vetro, fibre di aramide, fibre di basalto, fibre di lino, fibre di canapa, tessuti in fibra di acciaio, da impiegarsi principalmente nei seguenti campi:

1. Miglioramento sismico

2. Adeguamento sismico

3. Messa in sicurezza di edifici terremotati

4. Aumento sovraccarichi

5. Ripristino armature corrose

6. Adeguamento prescrizioni normative

7. Errori progettuali

Per conseguire:

• aumento capacità deformativa della struttura;

• aumento della duttilità e della capacità resistente a pressoflessione e taglio dei pilastri;

• aumento della resistenza a flessione e/o taglio di travi, e/o dei tegoli prefabbricati.

Per il consolidamento di strutture in cemento armato:

• Ripristino delle capacità portanti di elementi strutturali, dovute al degrado o corrosione dei ferri di armatura.

• Rinforzo a flessione e a taglio di travi in c. a. a vista ed a spessore.

• Reintegro della funzione strutturale delle staffe, insufficienti o degradate.

• Cerchiaggio per il rinforzo dei pilastri di tutte le dimensioni e forme.

• Aumento della resistenza a compressione del calcestruzzo nei pilastri.

• Rinforzo di solai in c.a. anche per aumenti di carico imprevisti.

• Collegamenti strutturali dei nodi di trave-pilastro.

• Irrigidimenti di piano su solai in c.a. o in laterizio armato con collegamento alla struttura verticale.

• Ripristino delle capacità portanti di elementi strutturali danneggiati da incendi, urti e infiltrazioni.

• Cambio di destinazione d’uso dell’edificio, ove occorra aumentare la capacità portante di travi, pilastri e solai.

Immagini di interventi con materiali compositi da “CARBOSYSTEM”.

I materiali compositi, costituiti da un rinforzo di fibre ad elevate proprietà meccaniche e da una matrice (epossidica o cementizia) che garantisce l’adesione del tessuto-lamine al supporto e quindi il trasferimento dei carichi, rappresentano un efficace metodo per il rinforzo ed il restauro di opere edili.

L’applicazione dei compositi in edilizia, permessi dall’attuale normativa tecnica, hanno dato una svolta significativa all’impiego delle fibre di carbonio-vetro, ecc.

I rinforzi vengono applicati per laminazione diretta sulla superficie da rinforzare mediante impregnazione con matrici a base di resine di tipo epossidico , e più recentemente con sistemi che prevedono l’utilizzo di malte cementizie o a base di calce.

La conoscenza delle interazioni fibra-matrice, dei fenomeni di adesione all’interfaccia, qualità dei materiali, sperimentazione e verifiche che ne derivano, sono gli unici elementi che possono costituire una buona garanzia di qualità di questi sistemi.

Le principali fibre oggi presenti in commercio:

Fibre di carbonio

Presentano altissime proprietà meccaniche ed una elevata resistenza chimica rispetto a tutti gli agenti chimici ed una garanzia e durata nel tempo significativa; presentano inoltre un altissimo modulo elastico, possono essere del tipo unidirezionale, bidirezionale, quadri assiale, ecc.

Fibre di vetro

Sono più economiche delle fibre di carbonio ma presentano delle proprietà meccaniche nettamente inferiori, con una maggiore deformabilità e resistenza alla compressione.

Fibre di aramide

Queste fibre appartengono alla categoria delle “poliammidi aromatiche”; presentano proprietà meccaniche elevate ed una grande capacità di dissipazione di energia vibrazionale. Rispetto alle fibre di vetro e di carbonio hanno densità più bassa ma presentano maggiore assorbimento di acqua, minore resistenza alle variazioni di PH e maggiore sensibilità alle radiazioni, in particolare ai raggi UV; inoltre, sottoposte a carico costante possono presentare sensibili fenomeni di “Creep”.

Fibre di acciaio

Sono formate da microtrefoli di acciaio galvanizzati, ad altissima resistenza fissati su una microrete in fibra di vetro che ne facilita le fasi d’istallazione, si presentano sul mercato come tessuti unidirezionali e bidirezionali di facile lavorabilità e sagomabilità. I tessuti in fibra di acciaio galvanizzato garantiscono risorse strutturali e meccaniche uniche, assai superiori rispetto ai tradizionali tessuti in fibra di carbonio-vetro-aramide, risultando così particolarmente efficaci nelle diverse applicazioni per rinforzo strutturale e miglioramento o adeguamento sismico, nonché’ nella realizzazione di opportuni sistemi di connessione di placcaggio, in abbinamento a Iniettore&Connettore. Sono tensionabili per la realizzazione di rinforzi strutturali e presidi attivi, mediante particolari sistemi di ancoraggio meccanico, grazie alle particolari caratteristiche del tessuto che non richiedono la preventiva impregnazione dei nastri, e al tempo stesso, permettono l’ancoraggio e afferraggio mediante piastre metalliche senza dover ricorrere a particolari attenzioni come invece risulta necessario con tutte le altre tipologie di fibre e tessuti presenti sul mercato. Sono sagomabili mediante speciale piegatrice che permette di modellare facilmente i tessuti senza alterarne le proprietà meccaniche per realizzare staffe, per la fasciatura di travi e pilastri e altre pieghe necessarie negli interventi di consolidamento strutturale.

Rinforzi poltrusi e laminati

Le lamine pultruse1, generalmente in fibra di carbonio, possono essere prodotte a diversi spessori e larghezze, utilizzando fibre di carbonio ad alta tenacità (HT) o del tipo ad alto modulo elastico (HM). A causa della loro indeformabilità, che non consente alcuna curvatura, trovano impiego solo quando utilizzate in strutture perfettamente rettilinee quali travi e strutture in calcestruzzo.

Lamine ottenute con tecniche di laminazione sotto vuoto , sono prodotte unicamente su richiesta e su specifica del progettista , quando sono necessarie particolari caratteristiche non ottenibili con i procedimenti standard di pultrusione.

1 La pultrusione è un processo automatizzato per la produzione di profili in materiale plastico fibrorinforzato, denominati anche profili pultrusi o in VTR. Nel processo di fabbricazione continuo, un profilo viene prodotto attraverso la combinazione mirata di rinforzi di fibre e sistemi di resina.

Esempi applicativi di profili pultrusi strutturali

Le barre pultruse in fibra di carbonio, fibra di vetro o fibra di aramide , sono prodotte con diametri variabili e lunghezze diverse. Barre continue in rotoli, in fibra di carbonio, possono essere prodotte unicamente con diametri inferiori ad 8 mm. Le barre trovano largo impiego come: connettori, tiranti e collegamenti sia per strutture in calcestruzzo, sia in muratura.

I profili pultrusi strutturali

I profili poltrusi sono invece elementi di materiale composito, ottenuti con la tecnica della pultrusione. Questi particolari materiali compositi sono costituiti da resine organiche di tipo sintetico, solitamente fibre di vetro.

I profili pultrusi in vetroresina sono composti da fibre lunghe e tessuti e vengono denominati anche Fiber Reinforced Polymers o FRP, Glass Fiber Reinforced Polymer (GRFP) nel caso delle fibre di vetro e Carbon Fiber (CF) nel caso di fibre di carbonio.

I profili pultrusi in fibra vengono preferiti ai tradizionali profili di acciaio e alluminio per diversi motivi, tra i quali si segnalano:

• Leggerezza

• Elevata resistenza alla corrosione

• Resistenza dielettrica

• Isolamento termico

I materiali compositi di resine poliestere, infatti, risultano essere più leggeri dell’acciaio di circa il 70%, sono altresì resistenti alla corrosione dovuta ai vari agenti atmosferici e sono totalmente immuni a disturbi elettromagnetici.

Inoltre tra vantaggi dei profili pultrusi costituiti da resine organiche, troviamo anche:

• Bassa conduttività termica

• Resistenti a sollecitazioni termiche e dilatazione

• Ottima resistenza agli urti

• Ottima resistenza meccanica

Da come si può notare, l’utilizzo dei materiali compositi è consigliato soprattutto nell’industria civile/industriale per tutte le problematiche inerenti la corrosione e al disturbo elettroma-gnetico. Inoltre non sono da sottovalutare i benefici in termini di costi di manutenzione decisamente inferiori. Un altro grande vantaggio dei profili pultrusi strutturali si concretizza in fase di assemblaggio del manufatto con un netto risparmio in termini di tempo.

Possono essere forgiati (e ri-forgiati) in qualsiasi forma usando delle tecniche quali lo stampaggio ad iniezione e l’estrusione. Tramite il calore si ottiene la fusione di questi polimeri che, successivamente, a contatto con le pareti dello stampo, solidificano per raffreddamento. Il processo di fusione/solidificazione del materiale può essere ripetuto senza apportare variazioni notevoli alle prestazioni della resina.

Generalmente i polimeri termoplastici non cristallizzano facilmente, a seguito di un raffreddamento, poiché le catene polimeriche sono molto aggrovigliate. Anche quelli che cristallizzano non formano mai dei materiali perfettamente cristallini, bensì semicristallini caratterizzati da zone cristalline e zone amorfe. Le regioni cristalline di questi materiali sono caratterizzate dalla loro temperatura di fusione (Tm, dall’inglese “melting temperature”).

Le resine termoindurenti sono materiali molto rigidi costituiti da polimeri reticolati nei quali il moto delle catene polimeriche è fortemente limitato dall’elevato numero di reticolazioni esistenti.

Durante la fase di trasformazione subiscono una modificazione chimica irreversibile.

Le resine di questo tipo, sotto l’azione del calore nella fase iniziale, fondono (diventano plastiche) e, successivamente, sempre per effetto del calore, solidificano.

Le resine termoindurenti sono intrattabili una volta che siano state formate e degradano invece di fondere a seguito dell’applicazione di calore.

Contrariamente alle resine termoplastiche, quindi, non presentano la possibilità di subire numerosi processi di formatura durante il loro utilizzo.

Nel campo dell’edilizia si è sempre usato l’impiego delle resine termoindurenti per la maggior omogeneità delle catene polimeriche e resistenza dei campi cristallini.

Supporti in materiale inorganico (betoncini) per strutture in c.a.

Sono malte a base di leganti idraulici e calce aeree, inserti selezionati di cava in curva granulometrica pre definita, microfibre di vetro e acciaio, a ritiro compensato e additivi specifici che ne migliorano le prestazioni garantendo ottima adesione e lavorabilità, sia con le armature in acciaio tradizionali sia con i materiali compositi più recenti

Il loro utilizzo rispetto alle resine permette un tempo di posa e lavorabilità più lungo e quindi si preferisce per il consolidamento delle strutture in cemento armato dove sia necessario ricostruire i profili sagomati originali o particolari dettagli costruttivi, inoltre la possibilità di avere composti sempre più compatibili a quelli originali.

Attualmente la produzione industriale ha creato una molteplice e qualificata gamma di offerta che deve rispondere a ben definite certificazioni di qualità per la loro applicazione.

A titolo puramente informativo si riporta l’indicazione specifica di una nota azienda produttrice.

Betoncino strutturale ad alta resistenza a compressione a norma EN 1504-3 a base di speciali leganti idraulici solfato-resistenti, specifico per ambienti acidi, per interno ed esterno, da applicare a proiezione meccanica o a mano per la ricostruzione o il ripristino di strutture in cemento armato o calcestruzzo, come consolidamento strutturale di vecchie murature, per il ripristino e risanamento di condotti, canalizzazioni e gallerie fognarie. Non attacca i metalli ma li protegge se li avvolge completamente. Disponibile fibrorinforzato con una speciale composizione di fibre in polipropilene tipo “FR”.

Disponibile di classe R2 o R3 o R4-CC.

Grazie all’aggiunta di speciali componenti inorganici si forma una micro struttura acido resistente che lo rende specifico per applicazioni in ambienti acidi o da nebbie marine. Da abbinare anche con il sistema di rinforzo strutturale MALVIN NET, che utilizza reti, connettori e accessori preformati in GFRP (Glass Fiber Reinforced Polymer) (FIBRE NET), o reti F.R.P (Fiber Reinforced Polymer) costituite da fibra di vetro AR GLASS (alcalino resistenti) e connettori in acciaio inox AISI 304 trafilato a freddo.

Certificato processo produttivo FPC 0925.

CONFEZIONE: Sfuso in silo - Sacchi da 25 kg - pedane da 70 sacchi - 17,50 ql

UTILIZZO: Interno/Esterno

COLORE: Grigio

GRANULOMETRIA: ≤ 1,3 mm

RESA: 17/18 kg/mq

LEGAME DI ADERENZA EN 1542: R17: > 0,8 MPa • R25/R35: > 1,5 MPa • R40: > 2,0 MPa

MODULO ELASTICO EN 13412: Tipo R25/R35: > 15 GPa • Tipo R40: > 20 Gpa

RESISTENZA A COMPRESSIONE A 28 GG EN 12190:

• R17: ≥ 17 MPa • Classe R2

• R25: ≥ 25 MPa • Classe R3

• R35: ≥ 35 MPa • Classe R3

• R45: ≥ 45 MPa • Classe R4

Passivazione dei ferri ossidati delle armature – procedure applicative

La prima operazione da fare sulle superfici da ripristinare è asportare completamente il calcestruzzo ammalorato mediante scalpello o con altri mezzi idonei quali microsabbiatori, l’idroscarifica e pistole ad ago al fine di rimuovere qualsiasi residuo di vecchie vernici, sporco, disarmante, muschi, materiali friabili in genere, che impedirebbero la perfetta adesione della malta al supporto metallico. Il tutto al fine di ottenere un supporto solido, pulito, privo di parti in distacco e sufficientemente ruvido.

Trattamento protettivo dei ferri di armatura

Il trattamento protettivo dei ferri di armatura a vista consiste nell’applicazione a pennello di malta idraulica mono o bicomponente rialcalinizzante anticorrosiva. In particolare si tratta di paste pronte mono e bicomponenti adesive applicate a pennello, armate con microfibre sintetiche. In generale sono costituite da cemento ad alte prestazioni, sabbie cristalline micronizzate, resine in polvere, pigmenti e inibitori della corrosione. Tra i prodotti del mercato si segnalano la Mapefer della Mapei e la webertec fer della Saint Goben.

È buona norma applicare ad una temperatura maggiore di +5°C e inferiore di +35°C.

Alcune informazioni sul trattamento delle armature con “inibitori di corrosione migranti” da Edoardo Mocco per CONSILEX NO-RUST.

Gli inibitori di corrosione migranti sono sostanze organiche, in forma liquida, a base acquosa, caratterizzate da “migrazione attrattiva e selettiva” che, applicate alle superfici del conglomerato, migrano in profondità, sino a raggiungere selettivamente le superfici metalliche delle armature d’acciaio dalle quali sono attratte, fissandosi e condensando sulle superfici stesse per formare un film monomolecolare di protezione in grado di mantenere o riportare le armature in acciaio significativamente protette.

Esempio di consolidamento di un pilastro in cemento armato con rimozione del calcestruzzo ammalorato tramite pistola a spillo, trattamento con malta passivante anticorrosione mediante pasta bicomponente data a pennello e ripristino con malta cementizia della sezione originaria.

Il nodo di una capriata in cemento armato gravemente danneggiato da fenomeni da carbonatazione dovuto al ridotto spessore del copriferro e di un’armatura molto fitta che ha impedito al calcestruzzo di penetrare in profondità. Il consolidamento di questa struttura prevede: Il puntellamento della struttura prima di ogni intervento, l’asportazione del calcestruzzo ammalorato, Il trattamento con inibitori di corrosione e Il ripristino delle sezioni con malte il più possibili simili all’originale.

Nella normale pratica di cantiere ci si limita alla sola asportazione del conglomerato adiacente all’armatura esposta, lasciando immutata la situazione a tergo dell’armatura per poi ricostruire, a frattazzo, la limitata porzione di conglomerato asportato. La preparazione descritta comporta i possibili rischi connessi con la situazione degenerativa, fisica ed elettrochimica del conglomerato retrostante le armature.

Soltanto il ricorso all’applicazione dell’inibitore di corrosione a “migrazione attrattiva e selettiva” consilex no-rust può quindi consentire la più completa omogeneizzazione dell’interfaccia ferro/calcestruzzo attraverso la creazione di un film monomolecolare a protezione dell’armatura.

Appunti sul consolidamento delle strutture metalliche

Più articolato e complesso si presenta il problema del consolidamento e della riabilitazione delle costruzioni e parti strutturali metalliche che caratterizza l’architettura del periodo preso in considerazione.

Agli studenti frequentanti il corso è già stata data una prima informazione sui principali materiali metallici utilizzati in architettura, in particolare sul ferro fucinato, la ghisa e l’acciaio per cui, in questa occasione, è importante segnalare che in Italia, soprattutto in periodo autarchico, si è preferito adottare strutture in cemento armato con declinazioni di particolare arditezza e complessità (Pier Luigi Nervi) per coprire luci molto significative. In alternativa vengono realizzate sistemi di capriate in cemento armate estremamente articolati assimilabili alle reticolari in acciaio; basta osservare quelli dell’ex Fabbrica Caproni a Predappio o di simili strutture presenti ancora sul territorio italiano.

Dopo l’unificazione del Regno d’Italia l’acciaio e la ghisa vengono utilizzati per coprire ampi spazi, in particolari edifici specialistici: le stazioni ferroviarie e le gallerie urbane nelle città più importanti; molte delle quali oggi coperte da tutela del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Basta citare la Stazione di Milano (1931) e la Galleria Vittorio Emanuele II (1878), dove l’acciaio è stato utilizzato per la grande volta dell’arrivo dei binari e per la cupola e per le volte dei bracci della galleria.

Comunque anche nel dopoguerra alle strutture in acciaio è stato preferito, per le costruzioni industriali e per i palazzetti sportivi e per congressi l’uso del cemento armato; con l’affermarsi, a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, l’uso delle strutture in cemento armato prefabbricato che con costi molto inferiori monopolizzarono le costruzioni industriali. Solo con la prima grande riclassificazione sismica del 1982 e, in particolare con quella del 2004, in queste zone le costruzioni in acciaio si presentarono competitive sia sotto il profilo delle prestazioni sismiche sia economicamente alle strutture in cemento armato prefabbricato. Comunque, seppur minoritarie le strutture in acciaio sono esistenti nel nostro territorio in particolare in complessi industriali o, in minor numero, nei palazzetti dello sport e, alla luce dell’attuale Normativa tecnica 2008, 2018, qualora dovessero essere oggetto di interventi, anche di straordinaria manutenzione o di cambi di destinazione d’uso anche parziali, è richiesta la verifica sismica di sicurezza che implica, come per tutti i fabbricati esistenti tutelati e non, l’attivazione del “Percorso conoscitivo” fra cui il “dettagliato rilievo strutturale”. Quest’ultimo, data la grande difficoltà, ha sempre limitato gli studi esaustivi sulle grandi strutture, in particolare quelle dell’archeologia industriale e dei grandi complessi del dopoguerra, oggi o sotto utilizzati o del tutto inutilizzati.

Comunque attualmente questo problema è molto facilitato dall’uso, diventato molto più corrente ed economico, del rilievo con il laserscan e i droni che permette di rilevare, in dettagli, elementi strutturali a distanze una volta impossibili da rilevare con i metodi tradizionali. Ecco infatti quello che prevede la normativa per la messa in sicurezza degli edifici con strutture in acciaio.

Una delle novità delle NTC2018 riguardante le costruzioni esistenti è l’introduzione dell’analisi preliminare della sicurezza statica e della vulnerabilità sismica a seguito del rilievo geometrico della struttura.

Tale analisi è propedeutica alla corretta pianificazione del numero e della localizzazione delle indagini in sito e delle prove da eseguire.

Dai risultati ottenuti dall’analisi preliminare si dovrà valutare il livello di impegno statico dei singoli elementi strutturali e decidere per quale tipologia di elemento incrementare il numero di indagini necessarie e dove localizzarle.

Disegno esecutivo di una reticolare in acciaio costruita negli anni ‘70 del ‘900 in zona non sismica. Identificazione delle principali criticità sismiche.

Disegno esecutivo di una traliccio in acciaio a consolidamento sismico di una capriata lignea.

Prima dell’analisi preliminare dovrà essere eseguito il rilievo geometrico strutturale per individuare:

• posizione di travi, pilastri, scale e setti e loro dimensioni;

• identificazione dell’organizzazione strutturale;

• identificazione dei solai e loro tipologia, orditura e sezione;

• identificazione della tipologia e dimensione degli elementi non strutturali;

• forma dei profili in acciaio utilizzati e loro dimensioni geometriche;

• tipologia e morfologia delle unioni.

Particolare importanza riveste nel “Percorso conoscitivo” l’indagine storico - documentale in quanto il reperimento del progetto strutturale facilita molto la fase diagnostica, in particolare la costruzione del modello strutturale e la rispondenza dell’opera realizzata al progetto.

Nel caso in cui non siano disponibili i grafici originali di progetto, le informazioni relative ai dettagli costruttivi, di fondamentale importanza per analizzare il comportamento della struttura sotto sisma, andranno valutate eseguendo un progetto simulato ai sensi della normativa tecnica in vigore all’epoca di costruzione del fabbricato e tenendo conto delle pratiche costruttive del periodo.

La corrispondenza fra i dettagli costruttivi ottenuti dal progetto simulato con la struttura realizzata andranno verificati a campione tramite le indagini in sito.

La Normativa Tecnica pone una distinzione fra indagini e prove.

Le indagini sono finalizzate ad ispezionare la tipologia di giunti (saldati o bullonati) fra le membrature, i particolari degli appoggi dei solai, le modalità di collegamento degli elementi strutturali alle fondazioni.

Le prove hanno lo scopo di identificare le proprietà meccaniche dei materiali. Nel caso delle strutture in acciaio, le prove forniranno informazioni sulla resistenza a snervamento, la resistenza a rottura e l’allungamento a rottura dell’acciaio.

Sia le prove che le indagini sono classificate secondo tre livelli crescenti di approfondimento:

• limitate;

• estese;

• esaustive.

Si evidenzia quindi l’importanza della fase di rilievo e delle prove sui materiali poiché anche per le strutture esistenti in acciaio la Normativa Tecnica definisce tre livelli di conoscenza:

• LC1; conoscenza limitata

• LC2; conoscenza adeguata

• LC3. conoscenza accurata

Al crescere del livello di conoscenza (da LC1 a LC3) aumenteranno le informazioni disponibili sulla struttura, relativamente alle proprietà dei materiali e ai dettagli costruttivi.

A ciascun Livello di Conoscenza è associato un Fattore di Confidenza FC che sarà utilizzato per ridurre la resistenza dell’acciaio. Al crescere del livello di conoscenza, diminuirà il valore del Fattore di Confidenza FC per la riduzione dei parametri meccanici del materiale come riportato di seguito:

• LC1 ⇒ FC = 1.35

• LC2 ⇒ FC = 1.20

• LC3 ⇒ FC = 1.00 Rd = R / FC

• Rd = resistenza di progetto da utilizzare nelle verifiche;

• R = resistenza ottenuta da prove in sito o dalle specifiche originali di progetto;

• FC = Fattore di Confidenza.

Ex Zuccherificio di Granaiolo, cortina nord con l’identificazione dei materiali.

Abstract

Lo studio dell’ex zuccherificio di Granaiolo, condotto sulla base di un approccio metodologico analitico, basato su tecniche di rilievo avanzate e su attente osservazioni dirette, ha permesso di giungere a risultati conoscitivi consoni a sviluppare ulteriormente il tema per percorsi di recupero e futuri riutilizzi, da attuare nella consapevolezza delle nuove sfide della sostenibilità enunciate dell’Agenda Onu 2030.

Gli elaborati prodotti, uniti ad una costante ricerca storica basata su fonti scritte e orali, hanno dato la possibilità di documentare lo stato di fatto di un cantiere posto tra tradizione e innovazione, dell’articolato sistema di canalizzazioni per l’adduzione idrica dal vicino corso d’acqua, delle finiture e delle soluzioni strutturali d’avanguardia, tutti elementi che mettono in evidenza l’importanza storica del complesso industriale e la qualità architettonica e strutturale del fabbricato produttivo.

Le indagini evidenziano anche le modalità operative di assemblaggio degli elementi metallici, il modo di coniugare la secolare tradizione costruttiva del passato, espressa in particolare nelle cospicue murature laterizie perimetrali, coniugate ad ardite capriate metalliche Polonceau di circa ventisei metri di luce e altrettanto interessanti tralicci di controventatura; non meno interessanti sono i grandi finestroni e i lucernari realizzati con telai metallici e dotati talvolta di complessi sistemi di apertura. Sorprende anche il buono stato di conservazione dell’edificio nel suo complesso, condizione questa che racconta molto dell’’intrinseca qualità del costruire che connota l’ex zuccherificio di Granaiolo.

Introduzione

L’archeologia industriale è un tema che, fin dagli anni ‘50 del XX secolo comincia a delinearsi all’interno di alcune pubblicazioni finalizzate a dare una definizione del nuovo campo di studio e a definirne l’ambito di applicazione. Col passare degli anni l’interesse verso il nuovo campo di studio diviene sempre più crescente e diversificato. Talvolta si affronta esaltando la dimensione di utilizzo pubblico e l’ardita componente ingegneristica di alcune categorie di costruzioni, come i ponti, canali, porti, ferrovie (Gies 1964; Pannell 1977). Negli anni ‘70 testi di carattere generale - tra i quali si rammentano le opere di Buchanam (1972),

Bracegirdle (1974), Major (1975) e Hudson (1976) - delineano l’archeologia industriale anche in rapporto ai differenti ambiti produttivi, tracciando talvolta affreschi nazionali e tracciano metodiche e ambiti di indagine. Emerge anche la forte e diffusa dimensione paesaggistica delle costruzioni industriali (Le paysage 1975). Si individuano anche temi specialistici come le costruzioni in ferro e vetro (Hix 1974), e alcuni esempi salienti si introducono nella narrazione della storia moderna (Schild 1971), declinata a volte in studi monografici (Saddy 1977), o come soggetto di studio generale che spazia dal singolo edificio alla scala territoriale, con riferimenti anche ai problemi legati alla conservazione e valorizzazione di tali manufatti (Negri 1977; Borsi 1978); tra gli altri, Kenneth Major (1975, p. 9) non ha mancato di lamentare l’urgenza di documentare l’archeologia industriale, di cui fin da allora, nell’indifferenza, si stavano perdendo preziose testimonianze. Dagli anni ‘70 ad oggi l’interesse per il tema si è talmente esteso da sollevare il problema della delimitazione di campo, per evitare una dimensione patrimoniale incontrollabile nell’alveo della conservazione e valorizzazione; è necessario, inoltre, che le azioni del documentare e del valutare le strategie di tutela vengano strettamente connesse alle peculiarità dei manufatti oggetti di studio, al fine di evitare un approccio al riutilizzo non avvertito delle specificità dei contesti, con i propri significati culturali. Lo studio condotto sull’ex zuccherificio di Granaiolo è finalizzato a fornire alcuni primi strumenti conoscitivi su cui sviluppare gli ulteriori approfondimenti che si renderebbero necessari per giungere a proposte di riutilizzo consapevoli e coerenti con le differenti declinazioni della sostenibilità.

La costruzione dell’impianto dello zuccherificio di Granaiolo si colloca all’interno di un ben più ampio quadro nazionale italiano: sul finire dell’800 gli agricoltori, stimolati anche dalle spinte provenienti dal mercato internazionale, hanno cominciato ad interessarsi alla versatilità della barbabietola da zucchero la cui lavorazione, oltre al prodotto finito destinato al commercio, generava sottoprodotti come foglie e polpe esauste, utili per l’alimentazione del bestiame.

L’industria saccarifera è diventata così uno dei maggiori campi di investimento di imprenditori interessati ad indirizzare i propri capitali verso un settore in rapida crescita: tra questi Erasmo Piaggio che, già inseritosi da anni nel prolifero settore della raffineria, intendeva allargare i propri orizzonti economici e dedicarsi all’intero processo di produzione dello zucchero, privilegiando la materia prima locale piuttosto che il prodotto d’importazione.

Gli stabilimenti saccariferi, così come i mulini nella fase di sviluppo pre-industriale, vedevano, nella vicinanza ai corsi d’acqua, una condizione essenziale per l’avvio del processo produttivo; la bassa pianura padana e le aree circostanti divennero, perciò, luogo privilegiato per l’impianto degli zuccherifici, sia per la ricchezza di approvvigionamento idrico, sia per il clima favorevole alla coltivazione della materia prima. Soltanto in Toscana, intorno agli inizi del ‘900, furono costruiti tre zuccherifici: a Cecina, a Montepulciano e a Granaiolo (Tonizzi 2001; Faben 2012).

L’impresa architettonica e imprenditoriale dello zuccherificio di Granaiolo fu resa possibile grazie ai capitali investiti dalla Società Italiana per l’Industria degli Zuccheri e la localizzazione dell’impianto dipese in gran parte da fattori tecnici: il luogo designato alla costruzione coincideva con un lotto molto esteso e particolarmente vantaggioso, poiché da un lato l’area era facilmente raggiungibile, soprattutto attraverso la strada ferrata che la costeggiava, dall’altro vi era una sufficiente disponibilità d’acqua, grazie alla presenza del vicino fiume Elsa (Mori 1957; Secchi 2014).

Per l’intero processo produttivo, infatti, era necessaria un’ingente quantità d’acqua: la materia prima, dopo essere stata pesata e successivamente stoccata in silos, veniva trasportata per galleggiamento, attraverso un sistema di canalizzazioni, fino alla zona di lavaggio all’interno della fabbrica.

Poiché l’acqua era necessaria per tutte le fasi di lavorazione, la distribuzione all’interno delle diverse aree produttive della fabbrica avveniva tramite canali, alcuni di essi conservati ancora oggi e visibili nei punti in cui la pavimentazione si interrompe. Partendo dall’esterno dello zuccherificio, i canali percorrevano longitudinalmente il corpo di fabbrica principale attraversando i reparti di lavaggio, diffusione ed estrusione. Insieme alle tracce lasciate dalla rimozione dei macchinari a seguito dalla chiusura dello stabilimento, il sistema di canali e vasche rappresenta un’importante testimonianza della memoria del passato produttivo dell’edificio, ricostruito, insieme all’architettura che lo ospitava, con un rilievo accurato.

Rilievo con tecniche avanzate e processazione dei dati

Per poter rappresentare lo stato di fatto del manufatto architettonico oggetto di studio, è stato necessario, data l’articolazione e le imponenti dimensioni dello zuccherificio, ricorrere ad una metodologia di rilevamento indiretta, tramite l’utilizzo di un Laser Scanner 3D, integrata da misurazioni dirette, ove necessario.

In due giornate di operazioni sono state realizzate 280 scansioni, effettuate con il Laser Scanner 3D Z+F (Zoller+Fröhlich) IMAGER® 5016; lo strumento ha una portata massima di 180 m, un campo visivo pari a 360° in orizzontale e 320° in verticale, con una velocità di misurazione che può arrivare a oltre 1.000.000 di punti al secondo ed è dotato di un sistema di posizionamento integrato GPS, che permette di perfezionare la registrazione automatica in campo, con o senza l’impegno di target di supporto all’allineamento1. Per la particolarità dell’ambiente e per il significativo numero di scansioni da effettuare si è scelto di optare per delle scansioni basate sul rilevamento del solo valore di riflettanza del materiale, capace di restituire i punti secondo una scala cromatica o di grigi, ed evitando la ripresa fotografica che, seppur effettuata con la specifica fotocamera integrata dello strumento, avrebbe all’incirca raddoppiato i tempi complessivi delle operazioni. Le scansioni sono state inoltre, diversificate nella qualità: in ambienti liberi da ingombri, di piccole e medie dimensioni, sono state eseguite poche scansioni con un livello di accuratezza maggiore; per gli ambienti scanditi da pilastri, invece, si è scelto di realizzare un numero molto più elevato di scansioni, ravvicinate tra loro, ad una qualità inferiore; la logica nella pianificazione delle posizioni di scansione si è basata sulla massima riduzione possibile degli spazi di occlusione.

A maggior densità corrisponde un aumento del tempo di acquisizione e della dimensione del file-scansione: le scansioni di densità minore hanno una durata di 5-6 minuti, per quelle di densità maggiore la durata è di 13-14 minuti.

Le scansioni ottenute sono state memorizzate in singole nuvole di punti, con estensione .ZFS, processate e allineate per dar luogo a un modello unitario del fabbricato.

L’allineamento (detto anche messa a registro) delle nuvole di punti, è stata effettuata mediante il software Autodesk Recap, ed è risultata subito ben agevole alle procedure automatiche di restituzione, questo grazie al buon livello di sovrapposizione dei dati tra una scansione e la sua successiva: il risultato ottenuto, un modello tridimensionale molto accurato con completamento composto da milioni di punti con diversi valori RGB, è stato ulteriormente processato per poter avere una rispondenza grafica secondo classici elaborati bidimensionali; il passaggio successivo, infatti, ha previsto l’inserimento della nuvola di punti complessiva all’interno del software Autodesk Autocad: il modello 3D è stato posizionato secondo l’orientamento dell’UCS e lo strumento slice ha permesso di creare piani di sezione orizzontali e verticali con uno spessore variabile tra 1 e 10 cm, in base alla densità di punti dell’area sezionata; ritracciando tale spessore e tutte le aree circostanti in proiezione è stato possibile ricavare gli elaborati grafici di piante, sezioni e prospetti. Se per l’insieme degli interni principali dell’impianto industriale l’ausilio dei dati raccolti dal Laser Scanner 3D si è mostrato ampiamente efficace, per la rappresentazione e lo studio a una scala di maggiore dettaglio delle murature perimetrali è stato necessario integrare il rilievo 3D con la fotogrammetria digitale: il rilievo fotogrammetrico è stato eseguito con una macchina fotografica reflex Canon 550D e con una macchina fotografica reflex Nikon D3200. La campagna fotografica è stata realizzata in più giornate, scelte in base alle condizioni meteorologiche che permettessero di realizzare foto con assenza di zone d’ombra significative.

Oggetto del rilevamento sono stati i fronti esterni della fabbrica e, per ciascuno di essi, sono state realizzate dalle 200 alle 500 foto: per ottenere una mappatura completa e particolareggiata delle superfici, le foto sono state scattate con un margine di sovrapposizione del 50/60% e con una focale variabile 18-55mm, a seconda della distanza dal fronte. Le foto, divise per fronte, sono state inserite nel software Agisoft Metashape in cui, tramite le operazioni di allineamento, è stata costruita una nuvola di punti densa (dense cloud); quindi una superficie poligonale mesh, prodotta sulla base della dense cloud, è successivamente elaborata in Raindrop Geomagic Design X, software di reverse engineering 3D capace di offrire specifiche ed efficaci procedure di trattamento e ottimizzazione delle superfici poligonali. Una volta completato questo processo , la superficie poligonale è stata nuovamente importata nel progetto Metashape, è stata quindi generata la texture associata da esportare in immagini ortografiche, salvate in formato .TIF; questi sono stati poi sottoposti ad un processo di post-produzione su Adobe Photoshop, per il miglioramento dell’aspetto formale e cromatico.

Caratteri, materiali e tecniche costruttive

Il fabbricato produttivo dell’ex zuccherificio presenta una struttura portante perimetrale in laterizi pieni e una struttura interna in acciaio. L’impianto, costruito tra il XIX e il XX secolo, ricalca da un lato il tradizionale cantiere caratterizzato da murature piene e, dall’altro, l’innovazione tecnologica dell’impiego di strutture metalliche, in atto già da più di un secolo in Inghilterra e nelle grandi città del nord Europa. La parte dell’impianto in cui avveniva la produzione è costituita da cinque corpi di fabbrica connessi tra loro; le diverse volumetrie, pur accomunate dalla ripetizione di alcuni caratteri architettonici lungo tutti i fronti esterni, presentano alcune differenze di caratteri e materiche che delineano con sufficiente precisione gli ampliamenti che sono stati apportati dalla prima metà del secolo scorso fino alla chiusura e abbandono dell’impianto.

L’ambiente principale, facente parte dell’impianto originario insieme alla parte di fabbricato dove sono ancora visibili gli antichi forni, si sviluppa per 107 metri e con un’altezza di 25 metri parallelamente alla linea ferroviaria Empoli-Siena.

I due edifici presentano elementi architettonici del tutto analoghi: le facciate sono scandite dalla presenza di paraste che delimitano idealmente la suddivisione interna dei reparti produttivi e da due cornici marcapiano che, a causa delle modifiche interne successive alla

Ex Zuccherificio di Granaiolo, cortina ovest con l’identificazione dei materiali chiusura della fabbrica, non sempre trovano una corrispondenza nella suddivisione interna dei solai.

Le aperture, di dimensioni variabili a seconda del fronte, sono coronate da cornici in finta pietra. Parte del fronte nord è tripartito orizzontalmente da tre ordini di aperture di differenti altezze, inframezzate da due cornici marcapiano rispettivamente di 90 e 50 cm. Nel particolare esaminato, il paramento murario è in laterizi pieni, posti di testa e di costa; particolarmente significativa è la finitura del paramento, di cui restano tracce di intonachino di calce e cocciopesto, con giunti stilati a uniformare visivamente la disposizione dei laterizi; il legante dei mattoni è una malta, probabilmente cementizia, confezionata con sabbia caratterizzata da clasti di piccole dimensioni. Ai lati della porzione analizzata sono presenti delle paraste, anch’esse costituite da un corpo laterizio. Nella parte sommitale delle fronti, si impiegarono pianelle per l’ossatura di cornici, poi rifinite con malta. Le finestre sono sormontate da archi a sesto ribassato e falcati.

Gli elementi decorativi, quali paraste, cornici marcapiano e bugnati delle aperture, hanno la finitura in malta.

Il fronte ovest, differisce da quello nord solo per la perdita dell’intonaco di finitura, del quale sopravvivono poche tracce in cui si osservano frammenti di laterizi frantumati, con inerti lapidei di irregolare. È singolare la variazione dimensionale delle aperture del terzo livello, con quelle laterali di minore altezza per il poso spazio lasciato dai displuvi del timpano di coronamento.

Sul fronte opposto alla ferrovia, verso il fiume Elsa, svetta la ciminiera, simbolo riconoscibile anche a lunga distanza dell’impianto industriale: essa è caratterizzata da un basamento su cui è posto l’ingresso per l’ispezione del vano, da un corpo cilindrico rastremato con l’altezza e da un cappello sommitale.

Il basamento è a pianta quadrata di 6,80 metri di lato, con un’altezza di 5,50 metri, ed è sormontato da un elemento di raccordo ottagonale alto 2,65 metri; la canna fumaria, che si eleva per 45 metri, ha alla base un diametro di 5,45 metri e, alla sommità, di 3,40 metri. La ciminiera, nel corso degli anni, è stata sicuramente oggetto di restauri poiché è possibile osservare risarciture delle fratture murarie e cerchiature metalliche poste ad un interasse sempre più ravvicinato con l’aumentare dell’altezza.

Gli altri annessi al fabbricato principale, che si affacciano sul lato dell’Elsa, sono stati aggiunti rispetto all’originale impianto. Il fabbricato maggiore ha finestre all’incirca alte 7,50 metri. L’ultimo edificio, quello più recente, differisce totalmente poiché è l’unico edificio del complesso a presentare ampie finestre quadrate, di impronta razionalista, ed una copertura piana calpestabile.

All’interno, la quasi totale assenza di partizioni enfatizza gli ampi vani di tutti gli edifici maggiori, offrendo una chiara lettura della distribuzione e della percorribilità tra grandi spazi interrotti, tutt’al più, da pilastri metallici, che non ne compromettono la percezione complessiva e la versatilità di utilizzo.

Il corpo di fabbrica maggiore era originariamente il cuore pulsante della produzione. Con un approccio quasi archeologico, è oggi possibile leggere le tracce del passato produttivo del luogo: i canali per il trasporto delle barbabietole e gli scavi realizzati dopo la chiusura della fabbrica, contestualmente allo smantellamento dei macchinari, permangono come impronte e testimonianze della precedente attività industriale.

Ex Zuccherificio di Granaiolo; particolari della connessione tra pilastri metallici sfalsati.

L’ambiente è suddiviso orizzontalmente solo in una piccola area, in cui avvenivano le lavorazioni preliminari di lavaggio, pesa e riduzione in fettucce della materia prima. È proprio all’interno di questo spazio che si percepisce l’affascinante contrasto tra le masse murarie perimetrali riconducibili al cantiere tradizionale e la nuova frontiera del costruire con l’utilizzo di carpenterie metalliche per i pilastri e le coperture di grande luce, estese fino alla larghezza di 26 m.

Qui, la maggior parte dei pilastri presenti è formata da quattro profilati angolari metallici, saldati tra loro tramite traversini di ferro piatti, a formare uno scatolare traforato; essi reggono solai orditi con putrelle e voltine o tavelle in laterizio.

Nonostante l’idea di serialità che un edificio industriale porta con sé, all’interno dell’ex zuccherificio è possibile osservare soluzioni costruttive particolari che rispondono a specifiche esigenze funzionali; è visibile, ad esempio, un pilastro posto non in asse con quello sottostante per permettere, tramite varie orditure sovrapposte, un adattamento dello spazio al processo produttivo.

Nell’ex Reparto Cottura del prodotto raffinato, i pilastri a cassone servono per il sostegno di carichi rilevanti e sono formati da quattro profili angolari, saldati tra loro tramite calastrelli 2; in tale maniera si generano una sorta di profili tubolari a sezione quadrata.

Il nodo esemplificativo pilastro-pilastro mostra il collegamento tra due tratti di pilastri a sezione differente, uniti tra loro tramite piastre imbullonate sui quattro lati. Il giunto pilastro-trave si ottiene con l’ausilio di piastre angolari che fissano, mediante bullonatura, l’anima della trave al pilastro; la rigidità strutturale è implementata dal sostegno di mensole angolari rinforzate, posizionate sotto l’ala inferiore delle travi a doppio T.

Un ulteriore nodo strutturale analizzato si trova nell’ex Reparto Cottura del secondo prodotto: il nodo trave-colonna è realizzato con la sovrapposizione verticale di due colonne in ghisa che lascia passare, tra la base della colonna superiore e il capitello della colonna inferiore, una coppia di travi con sezione a doppio T. La colonna di sezione maggiore presenta un capitello metallico quadrangolare, con nervature di rinforzo ed elementi verticali laterali, sui quali si imbullona la base, anch’essa nervata, della colonna di sezione minore. Il profilo scatolare che si viene a creare è dimensionato sulla larghezza delle travi passanti.

Ex Zuccherificio di Granaiolo, rilievo di dettaglio ed esploso di pilastri metallici composti.

Ex Zuccherificio di Granaiolo, particolari del nodo costituita da travi metalliche inserite tra pilastri cilindrici in ghisa sovrapposti.

Topografica

Laniera

1918 (Fonte: Gurrieri et al. 2001)

il patrimonio della produzione come infrastruttura territoriale. l’ecomuseo del tessile per il territorio di prato

David Fanfani Università degli Studi di Firenze

Abstract

Fin dalle sue origini il territorio pratese, individuato come sub-bacino idrografico del Bisenzio, in analogia con molti altri territori, è stato oggetto di un denso processo insediativo che ha incluso a pieno titolo le categorie del produrre all’interno della più generale categoria dell’abitare. Abitare e (ri)produrre le condizioni per una comunità, tendenzialmente stabile, rappresentano dunque due aspetti difficilmente scindibili che nel loro insieme hanno prodotto un’“opera territoriale” (Clementi et al. 1996) di lunga durata, un “sistema vivente ad alta complessità” (Magnaghi 2020) giunti a noi fino alle soglie della modernità. Solo con l’avvento della rivoluzione energetica e meccanica -e del capitalismo sua forma economica omologa- questa unione co-evolutiva si spezza e territorio, lavoro, ambiente (natura) si trovano coinvolti come fattori con ragioni e finalità opposte in un generale processo di “distacco” fra insediamento e “milieu” circostante. Un progressivo disembedding, nei termini polanyiani, tra economia, società ed ambiente, basato sulla pressoché totale mobilizzazione di natura, lavoro umano e capitale (Polanyi 1974), che si è progressivamente sviluppato secondo una specializzazione e divisione globale del lavoro. Un processo che, ha in definitiva interessato anche alcune economie distrettuali “territorializzate” molto specializzate, e tuttavia inserite in quella dinamica di flussi di lunga portata di beni e capitali, ulteriormente accentuata dai più recenti fattori finanziari facenti leva sulla rendita immobiliare (Romagnoli 2020) che hanno finito con l’indebolire gli stessi fattori (ri)generativi dei sistemi produttivi locali.

Seppure posti in un punto della curva dell’arco di sviluppo appena descritto, le cui coordinate non possono esserci pienamente note, abbiamo però importanti segni che iniziano a porsi le condizioni, così come l’ineludibile necessità, di ripensare, recuperare e rigenerare la composita dotazione territoriale costituita dal patrimonio materiale ed immateriale del produrre, come una vera e propria “infrastruttura territoriale” la cui dimensione patrimoniale, in quanto tale, possa esplicarsi come fattore attivo per la (ri)produzione di condizioni dell’abitare che passano attraverso la cura dei luoghi .

Questo contributo intende esplorare -in forma del tutto iniziale e di scenario- proprio la possibilità ed utilità, insieme con i possibili e principali caratteri progettuali, del recupero del sistema e delle opere per la produzione, come opportunità e strumenti per innescare processi di sviluppo locale in riferimento al caso di studio di Prato. Processi dove la “territorialità” stessa divenga elemento distintivo, valore aggiunto per “rivelare” (MacKaye 1928) potenzialità endogene, forme di innovazione produttiva e nuove economie di carattere “patrimoniale”. Prodotti e processi la cui competitività ed innovazione sta proprio nell’essere esito della messa in valore del patrimonio territoriale e delle risorse locali in forme uniche e di elevata complessità. Prato appare appunto un territorio esemplare per svolgere questo “esperimento” rivelativo e progettuale, a partire dalle dotazioni produttive legate in particolare alle acque e alle forme ed opere di regolazione delle relazioni tra questo elemento ed attività umane. Una relazione che si dipana nello spazio –dall’alta valle verso la piana- e nel tempo – dall’età del bronzo al primo novecento- che deposita i segni di un’operosità molecolare, di un “genio economico” che si coniuga, almeno fino alla prima metà del ‘900 con le forme di un “capitalismo societario” (Magatti 2009) che vede nelle strutture della produzione non solo strumenti a servizio dell’utilità, ma anche un banco di prova per l’innovazione e per la celebrazione personale dell’imprenditorialità, attraverso la ricerca di un decoro civile delle forme e degli oggetti che rasenta talvolta la bellezza. Una tensione che si allenta con l’avvento del distretto con il prevalere quantitativo e diffuso dei flussi delle utilità, solo in parte finalizzati a qualità ed innovazione produttiva, e si concretizza nella più recente ed irriflessa miseria delle forme e predazione, non solo immobiliare ma anche ambientale, del territorio. In questo quadro il ragionamento che si intende sviluppare cerca di ritessere le relazioni fra abitare, produrre e riprodurre luoghi, attingendo alla categoria interpretativa/progettuale dell’Ecomuseo (Maggi, 2002). Ciò assumendo tale categoria non tanto come strumento per la riattivazione di una memoria della cultura materiale di ciò che, per quanto importante per l’identità, è comunque stato; quanto, piuttosto come strumento progettuale e gestionale per la costituzione di una “piattaforma territoriale” (Bonomi 2021) adeguata a trasformare gli spazi di una economia individuale e de-territorializzata nei luoghi di un territorio “corale” di una economia per il “buon vivere” (Becattini 2009).

Introduzione

Fin dalle sue origini il territorio pratese, individuato come sub-bacino idrografico del Bisenzio, in analogia con molti altri territori, è stato oggetto di un denso processo insediativo che ha incluso a pieno titolo le categorie del produrre all’interno della più generale categoria dell’abitare. Abitare e (ri)produrre le condizioni per una comunità, tendenzialmente stabile, rappresentano dunque due aspetti difficilmente scindibili che nel loro insieme hanno prodotto un’“opera territoriale” (Clementi et al. 1996) di lunga durata, un “sistema vivente ad alta complessità” (Magnaghi 2020) giunti a noi fino alle soglie della modernità. Solo con l’avvento della rivoluzione energetica e meccanica -e del capitalismo sua forma economica omologa- questa unione co-evolutiva si spezza e territorio, lavoro, ambiente (natura) si trovano coinvolti come fattori con ragioni e finalità opposte in un generale processo di “distacco” fra insediamento e “milieu” circostante.

Un progressivo disembedding, nei termini polanyiani, tra economia, società ed ambiente, basato su di un modello di pressoché totale mobilizzazione di natura, lavoro umano e capitale (Polanyi 1974), che si è progressivamente sviluppato secondo una specializzazione e divisione globale del lavoro. Un processo che, ha in definitiva interessato anche alcune economie distrettuali “territorializzate” molto specializzate come quella pratese, e tuttavia inserite in quella dinamica di flussi di lunga portata di beni e capitali -ulteriormente accentuata dai più recenti fattori finanziari facenti leva sulla rendita immobiliare (Romagnoli 2020)- che hanno finito con l’indebolire gli stessi fattori (ri)generativi dei sistemi produttivi locali.

Seppure posti in un punto della curva dell’arco di sviluppo appena descritto, le cui coordinate non possono esserci pienamente note, abbiamo però importanti segni che iniziano a porsi le condizioni, così come l’ineludibile necessità, di ripensare, recuperare e rigenerare la composita dotazione territoriale costituita dal patrimonio materiale e immateriale del produrre, come una vera e propria “infrastruttura territoriale”, dotazione di “fondo”, in termini Roegeniani, la cui dimensione patrimoniale, in quanto tale, possa esplicarsi come fattore attivo per la (ri)produzione di condizioni dell’abitare che passano attraverso la cura dei luoghi . Questo contributo intende esplorare -in forma del tutto iniziale e di scenario- proprio la possibilità ed utilità, insieme con i possibili e principali caratteri progettuali, del recupero del sistema e delle opere per la produzione, come opportunità e strumenti per innescare processi di sviluppo locale in riferimento al caso di studio di Prato. Processi dove la “territorialità” stessa divenga elemento distintivo, valore aggiunto per “rivelare” (MacKaye 1928) potenzialità endogene, forme di innovazione produttiva e nuove economie di carattere “patrimoniale”. Prodotti e processi la cui competitività ed innovazione sta proprio nell’essere esito della messa in valore del patrimonio territoriale e delle risorse locali in forme uniche e di elevata complessità.

Prato appare appunto un territorio esemplare per svolgere questo “esperimento” rivelativo e progettuale, a partire dalle dotazioni produttive legate in particolare alle acque e alle forme ed opere di regolazione delle relazioni tra questo elemento ed attività umane. Una relazione che si dipana nello spazio –dall’alta valle verso la piana- e nel tempo – dall’età del bronzo al primo novecento- che deposita i segni di un’operosità molecolare, di un “genio economico” che si coniuga, almeno fino alla prima metà del ‘900 con le forme di un “capitalismo societario” (Magatti 2009) che vede nelle strutture della produzione non solo strumenti a servizio dell’utilità, ma anche un banco di prova per l’innovazione e per la celebrazione personale e sociale dell’imprenditorialità, attraverso la ricerca di un decoro civile delle forme e degli oggetti che rasenta talvolta la bellezza. Una tensione che si allenta con l’avvento del distretto con il prevalere quantitativo e diffuso dei flussi delle utilità, solo in parte finalizzati a qualità ed innovazione produttiva, e si concretizza nella più recente ed irriflessa miseria delle forme e della predazione, non solo immobiliare ma anche ambientale, del territorio. In questo quadro il ragionamento che si intende sviluppare cerca di ritessere le relazioni fra abitare, produrre e riprodurre luoghi, attingendo alla categoria interpretativa/ progettuale dell’Ecomuseo (Maggi, 2002). Ciò assumendo tale categoria non tanto come strumento per la riattivazione di una memoria della cultura materiale di ciò che, per quanto importante per l’identità, è comunque stato; quanto, piuttosto come strumento progettuale e gestionale per la costituzione di una “piattaforma territoriale” (Bonomi 2021) adeguata a trasformare gli spazi di una economia individuale e de-territorializzata nei luoghi di un territorio “corale” di una economia per il “buon vivere” (Becattini 2009).

Struttura insediativa della colonizzazione etrusco-romana in area pratese (Fonte: Poli D. 2002, Studio di quadro conoscitivo PTCP di Prato).

Un territorio storicamente “al lavoro”

La strutturazione di lunga durata e le forme territoriali della co-evoluzione

Fin dalle origini l’insediamento umano nell’area di quella che denominiamo area pratese, si costituisce come una progressiva opera di modificazione, “reificazione” direbbe Raffestin (Raffestin 1984), dell’ambiente originario e costruzione di una “seconda natura” a servizio di un “progetto economico” in senso etimologico pieno che oggi definiremmo di carattere sovraregionale.

In un lungo e complesso divenire, agli originari insediamenti dell’età de bronzo “di promontorio” e “controcrinale” (Caniggia e Maffei 1979) delle genti liguri, posti sulle pendici settentrionali che circondavano un’area di piana per lo più palustre, si sostituisce la successiva colonizzazione etrusca che avvia una più intensa e raffinata attività di colonizzazione anche della pianura. Dal VI secolo a.C. in poi, infatti, gli etruschi sviluppano un insediamento che all’incrocio tra le reti commerciali dall’Etruria meridionale verso l’area padana insieme a l’utilizzazione delle risorse minerarie locali (Monteferrato) avvia una raffinata opera di organizzazione idraulica e viaria del territorio finalizzata sia alle esigenze di trasporto e, diremmo oggi, logistiche, che di adeguato sostentamento derivante dall’agricoltura. Un’opera che, attraverso le recenti e straordinarie scoperte della città etrusca di Camars (presso Gonfienti) ha rivelato il suo ruolo ordinatore e generativo del territorio, rivoluzionando anche la acquisita cronologia della genesi insediativa del sub-bacino dell’Arno ed Ombrone pistoiese.

L’impronta insediativa “genetica” etrusca così come il correlato carattere economico trans-scalare dell’insediamento si confermano e si espandono nell’età romana dove, in particolare, la colonizzazione della piana e della Val di Bisenzio sviluppano la antropizzazione del territorio e le forme durevoli delle sua struttura insediativa che saranno di fatto la base per le successive stratificazioni ed accrescimento della “massa territoriale” sia nel medioevo che nella lunga fase mediceo-lorenese, dal XV al XIX secolo. È in questo ampio periodo che si completa in particolare l’opera territoriale di costruzione idraulica della complessa “gronda” Val di Bisenzio-piana-Ombrone pistoiese, con la creazione di un importante rete di regimazione/bonifica che costituisce il supporto indispensabile per fondamentali attività produttive. Molini, ramiere, poi i primi opifici tessili in Val di Bisenzio, molini e gualchiere nella piana pratese si sviluppano proprio grazie a questo ben congegnato sistema che distribuisce la forza e la risorsa idraulica in maniera capillare sul territorio e che formerà la base non solo materiale ma anche cognitiva per lo sviluppo tessile del XX secolo. Un processo territoriale e produttivo “ordinatore” che genera anche innovazione tecnologica e produttiva che si coniuga con la qualità delle stesse opere e del paesaggio e che trova nella Fattoria Laurenziana di Cascine di Tavola e nel suo valore produttivo ed “ordinatore”, probabilmente il punto di maggior rilevanza e, in una certa misura, il suo compimento (Centauro, Fanfani 2022).

Idrografia e sistema delle gore nel territorio pratese sec.

XIV. (Fonte: Guarducci, Melani 1993)

Tra produrre ed abitare: forme ibride dello spazio urbano nella città (foto di G.A. Centauro, 2002)

La strutturazione tipica “molecolare” nell’ambiente costruito: le forme ibride ed uniche dello spazio urbano

È questo genere di co-evoluzione che produce – almeno fino alla seconda metà del XX secolo- una densa ma porosa struttura “molecolare” dell’insediamento, incentrata sulla presenza di alcuni nodi produttivi come “Fabbriche pioniere” (Magnaghi et. al 2004, Guanci 2009). Manufatti espressione di un capitalismo fortemente radicato nel territorio, che si celebra talvolta anche attraverso i valori estetici dei manufatti. Forma materiale di una cultura contestuale e comunitaria, non solo pragmatica che la rende “dotazione patrimoniale”.

Una struttura produttiva, fortemente influenzata dal regime mezzadrile della organizzazione economica agricola, dove dominio urbano e rurale interagiscono secondo forme e modi che permettono ancora un “metabolismo” di uso e rigenerazione delle risorse ma che costituiranno il trampolino di lancio per la “rivoluzione quantitativa” del distretto tessile nel secondo dopoguerra.

Proprio in questa seconda fase, seppure con la consistente coesistenza di modi produttivi artigianali, finalizzati alla cosiddetta “specializzazione flessibile” (Piore & Sabel 1984), la “fabbrica urbana” si sviluppa secondo una dinamica duale volta da un lato al “riuso” dell’infrastruttura territoriale e dall’altro di ulteriore espansione spaziale resa necessaria dalla crescita della domanda produttiva. L’ambiente costruito si sviluppa secondo un progressivo processo di erosione delle condizioni della co-evoluzione indicate in precedenza e di cancellazione delle sue tracce più rilevanti determinato dalle accresciute esigenze produttive.

Ciò in particolare in riferimento al complesso sistema idraulico gorile trasformato progressivamente, per lo più, in fognatura.

Mostra/evento presso l’ex Lanificio Lucchesi. (Fonte: foto M. Chiocchetti, http://www. pratoalfuturo.it/ temi/patrimonioda-rigenerare/#jpcarousel-816)

La Biblioteca comunale Lazzerini nel recupero dell’ex fabbrica Campolmi. (Fonte: http://www. pratoalfuturo.it/ temi/patrimonioda-rigenerare/#jpcarousel-1043)

Una crescita priva di un “disegno” territoriale ed insediativo che fa leva su di una razionalità minimale basata sul riuso del preesistente. Tuttavia ciò si concretizza anche con forme spaziali originali in riferimento alle tipologie distributive e con la ricerca di innovazione nelle tecniche costruttive degli opifici (Guanci 2008). Una ricerca di innovazione che ovviamente si manifesta, prevalentemente in forma incrementale, anche dal punto di vista delle tecniche produttive, del processo e del prodotto. La convergenza, infine, di forme spaziali della durata e di crescita urbana senza disegno si concretizza anche nello sviluppo di spazialità ibride uniche, soprattutto nella relazione spazio pubblico-spazio privato (Secchi 1996).

L’erosione della dotazione patrimoniale dell’insediamento

Come abbiamo visto la più recente evoluzione del sistema distrettuale manifatturiero, basata come altrove sull’amplificazione energetica e, conseguentemente, dei mercati nei cosiddetti “gloriosi trenta” (1950-1980), ha nel suo insieme prodotto un disconnessione territoriale significativa tra sistema economico e territorio, ove quest’ultimo è messo al lavoro solo come fattore di produzione con i vari tipi di capitale che può fornire (materiale, ambientale, sociale) ma rispetto al quale il sistema economico genera solo un parziale ritorno. In particolare le stesse forme spaziali, gli esiti del già ricordato “capitalismo societario” e di una condivisa cultura contestuale costruitasi nei secoli – così come il sistema ambientale stesso- vengono sottoposti alle regole costruttive/urbane minimali della utilità, che non tengono conto delle negative esternalità ambientali e della multidimensionalità del benessere che i soli indici di fatturato o reddito non sono in grado di rispecchiare. In termini più concreti il territorio e l’ambiente di Prato vengono sottoposti al quasi esclusivo criterio del produrre merci e alla crescente pressione di “consumo” anche di beni pubblici e “comuni”. Ciò, in termini di effetti pratici, pone in secondo piano la qualità dell’abitare non solo in termini ecologici ma anche culturali, civici e percettivi. Lo stesso modo di affrontare lo sviluppo e rigenerazione della fabbrica urbana e territoriale -la città fabbrica- anche quando ispirato a profondi studi e migliori principi come nel caso del Piano Secchi a metà degli anni ’90, si scontra con il mandato utilitario e, in particolare, con le leggi della rendita immobiliare che -cosa nota fin dai “classici” dell’economia- pregiudicano la stessa evoluzione ed innovazione del sistema produttivo e, nel caso di Prato, distretto manifatturiero (Romagnoli 2020).

Riattivare l’eredità del moderno per un nuovo processi di patrimonalizzazione e sviluppo locale

Una domanda di svolta qualitativa per le nostre economie, a valle del processo descritto, appare non solo opportuna, ma forse l’unica via di uscita rispetto a modelli di economia settoriali e quantitativi non più percorribili. Di questa nuova e necessaria rotta fa parte l’avvio di un processo di recupero e rigenerazione delle forme spaziali del “moderno” -siano esse urbane o architettoniche- . Un processo che anche a Prato si è concretizzato già in alcune significative iniziative. Queste vanno dal recupero di alcune importanti strutture “pioniere” per funzioni pubbliche o aperte al pubblico ad eventi di “artializzazione” di questi spazi per esaltarne il valore simbolico, relazionale e culturale.

Inoltre, sovente, dietro a queste iniziative stanno anche soggetti promotori di studi e ricerche che consolidano non solo la conoscenza sul repertorio ma anche le differenti caratteristiche e stato d’uso dei beni diffondendo una rilevante cultura dell’archeologia industriale.

Tuttavia l’azione “puntuale” e “memoriale”, così come il gesto estetico “effimero” per quanto necessari alla crescita di una coscienza “patrimoniale” condivisa più ampia, non può essere sufficiente per una azione di carattere sistemico. Essa deve costituire il presupposto per una progettualità alla scala territoriale ed urbana, per avviare una rigenerazione e risignificazione del patrimonio costruito del moderno non solo come veicolo ostensivo e narrativo della biografia di un territorio ma anche per un nuovo processo di messa in valore del patrimonio che leghi insieme, fruizione, produzione e consumo come cifra di una territorialità attiva (Dematteis 2001) e di nuovi percorsi di sviluppo durevole.

Riconnettere valori territoriali e sviluppo locale: l’Ecomuseo del Tessile come strumento sistemico per la messa in valore del Moderno razione di un sistema economico/produttivo locale incontra la sfida della sua qualificazione come fattore di sviluppo integrale del territorio, in una prospettiva che definisce lo sviluppo come basato sulla biodiversità, sia essa ecosistemica, sociale e produttiva (Jacobs, 1985, 2001). È in questo passaggio che si segna la transizione, come ben evidenziato da Becattini, dalla forma del Distretto Industriale allo sviluppo locale concepito come esito di un processo ed attivazione “corale” del territorio e delle sue eccellenze concepito come bene comune (Becattini, 2000, 2015). In questo senso assumiamo la metafora di Bonomi (Bonomi 2021) di una produzione che si proietta “oltre l’impresa” sul territorio, inteso questo come dotazione e come “piattaforma” integrata ove le forme di un nuovo “capitalismo molecolare” si intrecciano, e si alimentano, con il recupero di nuove economie – turistiche, agro-alimentari, culturali – legate a dotazioni patrimoniali generatesi nella lunga durata.

In questo senso appare interessante esplorare la possibilità di attivare, con uno sforzo innovativo anche rispetto ad altri casi nazionali ed esteri, lo strumento dell’Ecomuseo come strumento idoneo a:

• definire una strategia ed una visione d’insieme “connettiva” dei diversi elementi patrimoniali e delle relazioni spaziali ed ambientali con il territorio;

• valorizzare i nodi e la rete di questa struttura come fattori induttivi non solo del senso materiale e funzionale di questi elementi ma anche come fattori generativi di consapevolezza culturale e del territorio;

• agganciare alla dimensione materiale/spaziale e a quella culturale/identitaria iniziative e processi di sviluppo locale, per economie di prossimità ed endogene.

I caratteri principali dello strumento Ecomuseo come strumento di Policy

L’Ecomuseo come strumento integratore di politiche nasce all’inizio degli anni ‘70 in Francia per la salvaguardia attiva dei patrimoni culturali legati in particolare alla cultura materiale e contestuale dei luoghi (Maggi 2002). La sua possibilità applicativa nel contesto pratese si pone in quanto dispositivo adatto a valorizzare, attraverso l’esperienza fruitiva, patrimoni materiali ed immateriali esito -ma anche luogo attuale- di attività e processi che hanno segnato lo spazio fisico, cultura e senso di appartenenza degli abitanti di un territorio. Si tratta dunque di uno strumento applicato ad una cultura ancora viva, seppure in trasformazione ed ai suoi documenti, che permette una “transizione” verso il nuovo in forma evolutiva e non di rottura, che genera anche economie “presenziali” non solo turistiche ma anche di progetto e retro-innovazione, sostenibili, che si sviluppa ed articola non nel chiuso di un ambiente ma nel territorio e nelle pratiche ancora attive o riattivabili della ordinarietà.

Dal punto di vista operativo l’Ecomuseo è peraltro uno strumento supportato anche dalla normativa regionale Toscana (art.16 L.21/2010) mentre adotta un approccio di carattere interscalare ed interdisciplinare, che sviluppa un disegno unitario e coerente. Un approccio che va dunque dalla vision strategica al progetto urbano e alla rigenerazione ecologica basato, su una governance pattizia tra i vari attori pubblici e privati e su una struttura partenariale pubblico/privato.

Una prima mappa di articolazione dello scenario progettuale per l’Ecomuseo del Tessile La applicazione dell’Ecomuseo nel territorio pratese si coniuga naturalmente nella figura dell’Ecomuseo del Tessile. Esso, in riferimento all’intero ambito provinciale, è finalizzato ad integrare le forme e strutture del “moderno” anche con iniziative di recupero ed innovazione che evolvono la tradizione e che presentano non solo un valore testimoniale ma anche e soprattutto forme attive di re-interpretazione della dotazione produttiva. Ciò primariamente tramite il recupero delle connessioni longitudinali collina/piana e trasversali che si espandono sul territorio come fattore di risignificazione e “presenzialità” sistemica del territorio. Questo tipo di approccio permette di individuare alcuni “transetti” di questo ideale percorso “di bacino” che possiamo pensare articolato secondo i seguenti “blocchi” geografico/tematici:

La Val di Bisenzio: tra economie ambientali, turismo e i “caposaldi” dell’industria tessile

In questa prima sezione gli itinerari delle antiche produzioni della montagna e dei suoi opifici – legno, castanicoltura, cannicciaie e molini per la farina di castagne- si intreccia con la stratificazione dei diversi manufatti industriali che nel tempo si sono succeduti nel fondovalle – molini, ramiere, opifici tessili- e con le opere idrauliche necessarie per tali attività. I “presìdi” delle fabbriche pioniere in Val di Bisenzio ed il fiume rappresentano la testimonianza di una tradizione ancora viva e vitale che si esprime anche attraverso la messa in valore della “territorialità” di quelle produzioni non solo come merce ma come “capitale sociale”. Qui imprenditori “restanti” ed innovativi, legano la qualità del produrre a quella dei valori del territorio creando non solo posti di lavoro ma anche una cultura condivisa del produrre. Una progettualità che si concretizza per esempio nel progetto della “Cittadella del Tessile” a Carmignanello, da visitare e fruire come caposaldo e “porta” verso l’alta valle, che lega, non solo fisicamente, industria, natura e cultura. Il percorso ciclabile di fondovalle da Vernio fino a Prato e il sistema di una ricca e curata sentieristica -anche “a tema”- innervano questo progetto sul territorio e ne permettono il dispiegarsi attraverso un rafforzato sistema dell’ospitalità sia ambientale che culturale.

Museo del Tessile nella sede del Gruppo

Tessile Colle (foto A. Regoli)

Nuovo stabilimento

Azienda Beste (foto A. Regoli)

(in alto e a destra)

Ipotesi di master plan per il recupero del gorone da S.Lucia a Piazza del mercato Nuovo: veduta generale e dettaglio (fonte. Frassini, Giallorenzo, Romeo, Rossi, 2015, CdL Magistrale in PianificazioneUniv. di Firenze, laboratorio di Progettazione del Territorio, docenti M. Agnoletti, D. Fanfani, A. Falorni e D'Ambrosi 2023, Tesi di Laurea Magistrale in Pianificazione del Territorio)

(in basso a sinistra) Il gorone nella zona di S.Lucia.

Dal Cavalciotto al centro antico per una nuova struttura ambientale e fruitiva del paesaggio urbano

Dopo la “stretta” della Madonna della Tosse, la val di Bisenzio si apre alla piana pratese e, a S.Lucia, alla presa del Cavalciotto, dal Bisenzio si diparte il “Gorone” che ha storicamente strutturato la parte “maestra” della minuta opera di regimazione idraulica a fini produttivi costituita dalla gore di Prato. Questa principale opera idraulica è fortuitamente sfuggita, almeno in parte, alla cancellazione subita da altri tratti della rete gorile e, attraverso interventi di “daylighitng” (scoperchiamento) e “liberazione” di ambiti spondali e connessioni trasversali per migliorarne fruizione e qualità ambientali, appare in grado di costituire una fondamentale struttura ambientale e di accesso da Nord al centro urbano, integrativa della rete meccanizzata e ordinatrice dello stesso tessuto urbano e degli spazi pubblici.

In questo senso il percorso ambientale del Cavalciotto, anche attraverso la pista ciclabile che lo affianca in gran parte, riesce a rilegare la memoria dei resti di molini ed opifici appena leggibili con quelli ancora ben visibili e recuperabili costituiti in particolare dallo stesso manufatto del Cavalciotto e dalla Gualchiera di Coiano. Una traccia, dunque, memoriale, ambientale, fruitiva ed urbana che riesce così anche a dare una forza e senso ulteriore, nel suo tratto terminale, al recente progetto promosso dalla Amministrazione Comunale di recupero dell’area del Fabbricone ed alla previsione di un grande parco urbano nella sua prossimità1. Ma può anche costituire la sollecitazione, nell’ipotesi piena del su daylighting, per un ripensamento progettuale del fin troppo funzionalistico, e

1 Vedi, ultra, la relazione di Valerio Barberis cionondimeno confuso, assetto delle enormi “quadre” pavimentate del mercato nuovo, infelice “porta” nord della città.

Il centro antico ed urbano, fulcro dell’Ecomuseo del tessile

Pur celando la trama delle acque che ha costituito il motore primo dell’arte tessile , il centro antico rappresenta il punto focale, con il Museo del Tessuto, e il recupero dell’ex tintoria Campolmi, dell’operazione di risignificazione territoriale delle tracce materiali della storia tessile pratese. Un punto focale che, grazie alla creazione dell’asse della cultura da via Cambioni verso l’area conventuale di S. Niccolò e S, Caterina, superando il recuperato nodo di piazza degli Spedalinghi, va ad incrociare la nuova porta ovest della città di Porta Leone e Bastione di S. Giusto. Qui il recupero di questa interfaccia urbana, liberata da funzioni inappropriate, può restituire non solo adeguata dignità al significato memoriale del cimitero della Misericordia, ma costituisce anche la piena realizzazione dello snodo ciclabile e pedonale, per la fruizione lenta verso sud, nel progressivo aprirsi di spazi agricoli periurbani e rurali. Naturalmente la fruizione può estendersi alle molte realtà di archeologia industriale che popolano il tessuto urbano più centrale, ciò in particolare in direzione del Macrolotto 0 dove i più recenti interventi di valorizzazione culturale -come il media center- insieme alle peculiarità spaziali e tipologiche del tessuto ed opifici produttivi rappresentano anch’essi significative dotazioni patrimoniali.

Il sistema degli interventi previsti per la rigenerazione dell’area

Marcolotto ZeroVia Galcianese.

(Fonte: Comune di Prato)

Oltre il centro urbano, verso Cascine di Tavola

Oltre il centro urbano, nel settore ovest, si apre, dicevamo, un importante tracciato fruitivo che può restituire comunque, malgrado l’erosione pressoché totale di manufatti come i mulini e gualchiere ed il parziale intubamento del reticolo delle gore, alcuni punti ed ambiti salienti di rilettura della evoluzione manifatturiera e dei suoi legami con l’ambiente naturale e costruito. In particolare è possibile individuare un “transetto” che dalla menzionata Porta Leone o Bastione di S. Giusto, conduce, attraverso la mobilità ciclabile, verso l’apertura del grande “golfo agricolo” di S. Giusto e Cafaggio dove è possibile ancora individuare un edifico sede di un antico molino, adeguato a illustrare la stretta e storica interazione fra attività mezzadrile e attività tessili e, più in generale, manifatturiere.

Rigenerazione del Macrolotto Zero: Vista del progetto per la Media Library. (Fonte: Comune di Prato 2019)

Più a sud, infine oltre la via Cava, il percorso si compie nell’attraversamento del Macrolotto 1 rivisitato come ambito del tessile moda, caratterizzato dalla presenza pervasiva ed unica della nuova imprenditoria cinese, ma anche ringenerato come possibile APEA (Area Produttiva Ecologicamente Attrezzata). Ciò non solo tramite l’uso sostenibile e circolare delle risorse e con il ridisegno di via de’ Fossi e via Toscana ma anche grazie alla riapertura della gora su via del Molinuzzo. Integrale a questo disegno è la creazione -in continuità con l’area di S.Giusto-Cafaggio- del collegamento ciclabile con il Parco di Cascine di Tavola e, di conseguenza, con la più vasta area del compendio mediceo che arriva poi fino a Bonistallo e Poggio a Caiano.

Rigenerazione del macrolotto 0: Vista del progetto per la Media Library (Fonte: Comune di Prato 2019)

Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S.Giusto. (Fonte: Agostini, Bott, D’Ambrosi 2020, Laboratorio di Pianificazione Bioregionale, doc. prof. D.Fanfani)

Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S. Giusto: dettaglio dell’area dell’ex Molino. (Font:. Neri, Qin, Ruggiero, Tommasino, 2020, Laboratorio di Progettazione del Territori , Docenti: Proff. D.Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi. A.A. 2019/2020)

Rigenerazione della centralità agro-ambientale tra Cafaggio e S.Giusto: dettaglio dell’area dell’ex Molino. (Fonte. Neri, Qin, Ruggiero, Tommasino, 2020, Laboratorio di Progettazione del Territori , Docenti: Proff. D.Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi. A.A. 2019/2020)

Breve nota conclusiva: la “messa a terra” di un’idea ed il ruolo delle politiche L’idea che è stata sinteticamente presentata in questo contributo rappresenta ovviamente un primo abbozzo di un disegno generale, che data la complessità del territorio e delle risorse che interessa, necessita di essere ampiamente specificato, arricchito ed approfondito attraverso una adeguata indagine delle risorse ed idee in campo mobilitabili. Ciò, tuttavia, non rende meno rilevante l’obiettivo principale del progetto che è quello di riconnettere valori cognitivi e materiali del dominio della produzione alla loro “territorialità”, rafforzando principi e meccanismi dello sviluppo endogeno. Ciò appare tanto più rilevante in un momento in cui la necessità di recuperare forme e modelli di resilienza insediativa a fronte delle instabilità -non solo climatiche- globali passa con evidenza attraverso forme di sviluppo locale ispirate a principi di co-operazione, circolarità e co-evoluzione tra dimensione antropica ed ecosistemica. Un principio che “mette al lavoro” il territorio non come bruto “supporto” o “stock” di risorse ma, in riferimento al principio bioeconomico- roegeniano, come “fondo”

Studio per la riqualificazione idraulica, paesaggistica e fruitiva del sistema

Macrolotto1-

Cascine di tavolaBonistallo. (Fonte: Agostini, Botti, D’Ambrosi, Scuola di Architettura

CdL Magistrale in Pianificazione e progettazione della città e del territorio

Laboratorio di progettazione del territorio. Docenti: Proff. D. Fanfani, G. Chirici, M. Bellandi . A.A. 2019/2020)

(Georgescu Roegen 1982), cioè come insieme di dotazioni materiali, ecosistemiche ed intelligenza collettiva che può riprodurre ed alimentare il processo economico/produttivo solo attraverso l’interazione complessa e rigenerativa tra dominio antropico ed ecologico.

Un progetto strategico dunque, come già detto, non “ostensivo”, ma discorsivo ed esplicativo di un processo vivente di sviluppo locale che però richiede la convergenza e cooperazione non solo tra attori pubblici e privati ma anche tra i diversi ambiti delle politiche pubbliche. Forse la maggior difficoltà risiede infatti in questo caso non tanto nella carenza di risorse per la costruzione di questo progetto, quanto nella messa a punto di meccanismi di coordinamento, collaborazione e sinergia tra attori, risorse, programmi, piani e progetti già in campo che attraverso una paziente opera di coordinamento possono tessere la trama territoriale del progetto, del suo montaggio e messa in opera. Si tratta certamente di una sfida non facile da raccogliere e superare ma, d’altra parte, i dilemmi che la nostra epoca ci pone, non sembrano forieri in generale di compiti semplici, e non solo per chi deve assolvere uffici che implicano il governo della cosa pubblica e dei beni comuni.

Mnemòsine (Fonte: Museo Nazionale Archeologico di Tarragona, Spagna. Mosaico romano, II secolo a.C.)