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dell’archeologia
from Conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna | Giuseppe Alberto Centauro
by DIDA
industriale considerati valore assoluto intralcio delle funzioni urbane compatibile sul territorio
Enunciazione del voto finale del convegno: « Archeologia Industriale. Metodologie di recupero e di fruizione del bene industriale» Prato, 2000
Lulghennet Teklè Presidente Ordine degli Architetti PPC Prato
Restauro e Archeologia Industriale, discipline per Architetti
L’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Prato si è sempre occupato, anche grazie al lavoro di Gruppi di Lavoro appositamente istituiti, del tema del restauro e del riuso del patrimonio industriale del territorio, il che implica non solo il trovare nuove e diverse funzioni agli attuali complessi industriali dismessi, procedendo ad un semplice cambio di destinazione d’uso o adattamento alla normativa vigente, bensì valutare lo spazio urbano che spesso queste trasformazioni mettono in gioco modificandolo.
Così, già nel 1984, la mostra e il catalogo “La Città abbandonata” pubblicato nel 1985 (a cura di Alberto Breschi, Tommaso Caparrotti, Paola Falaschi, Flaviano Lo Russo) offriva lo spunto per aprire un dibattito, non solo in città, sul patrimonio industriale pratese già allora sottoposto a forte rischio.
Nel 1986, con il Piano Regolatore Sozzi e Somigli, che prevedeva un piano operativo d’intervento alla stesura del quale gli Architetti pratesi dettero il loro contributo con la partecipazione a tutti i “laboratori”, veniva favorito il trasferimento delle attività produttive indicando una nuova destinazione per le aree e gli edifici lasciati liberi.
Nel 1988 abbiamo avuto uno studio esemplare condotto dagli architetti Franco Severino e Sergio Tacconi che conteggiava, all’interno delle aree di ristrutturazione urbanistica residenziale, commerciale e direzionale, un nucleo di 144 impianti dismessi.
Nel 1994 gli studi furono poi proseguiti ed aggiornati dall’Iris (Istituto di ricerche e interventi sociali).
Nel 2000 è da menzionare per il rilievo nazionale che ha avuto, anche a seguito dalla pubblicazione degli atti, il convegno del CICOP, tenutosi a Prato, con il quale avviene la svolta che ha segnato la strada sui principi della tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse culturale dato dalle testimonianze dell’industria pratese del ‘900. Un lavoro certosino alimentato da una ricerca condotta per l’Ordine del Architetti PPC di Prato dall’arch. Giuseppe Centauro, che ha offerto una dimensione internazionale al “caso Prato”.
Nei primi anni 2000, inoltre, va ricordato il restauro condotto dall’arch. Marco Mattei, esempio di recupero e riuso di grande rilevanza: l’ex Cimatoria Campolmi che, rigenerata, da lanificio dismesso qual era è divenuta un polo culturale della città: oggi, infatti, è sede del
Museo del Tessuto e dell’Istituto Culturale e di Documentazione – Biblioteca “A. Lazzerini”.
Degli anni 2013-2017 è il laboratorio condotto all’interno dell’Ordine e che vide le colleghe e i colleghi architetti produrre interessantissimi risultati, con soluzioni sull’aera del Macrolotto Zero, area che a tutt’oggi è oggetto di un importante recupero urbanistico. Nelle consiliature successive è proseguito il dibattito all’interno dell’Ordine anche con la creazione di un ulteriore Gruppo di Lavoro che si doveva occupare del censimento dei manufatti moderni presenti sul territorio ed è proprio in quell’occasione che sono iniziati i rapporti con il DIDA e con il corso del prof. arch. Centauro. Nel 2022 il corso curato dal prof. Centauro, che ha visto colleghe e colleghi dell’Ordine dare il loro contributo ed il supporto alle attività del Laboratorio di Restauro, si è concluso con il Seminario interdisciplinare dal titolo “Il restauro del Moderno: il patrimonio dell’Industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni”, seminario che si è svolto al PIN/Polo Universitario Città di Prato e che per il suo alto profilo ha ricevuto il patrocinio della “Società Italiana per il Restauro dell’Architettura” (SIRA).
Come Ordine abbiamo dato il nostro contribuito al seminario attraverso l’individuazione di alcuni progetti realizzati negli ultimi decenni a Prato che rappresentano significativi esempi di progettazione e trasformazione di architetture moderne:
• la Camera di Commercio di Prato, uno fra i primi e più rinomati esempi il recupero di un edificio industriale, risultato di un concorso di architettura bandito nel 2004;
• il Progetto di Innovazione PIU del Comune di Prato iniziato da alcuni anni e che vede già eseguiti il Playground e il Mercato Coperto ed in corso di realizzazione la Medialibrary.
La scelta è avvenuta dopo un’approfondita riflessione sulla storia del processo che ha portato a sviluppare sul territorio pratese una coscienza critica del patrimonio moderno e del recupero degli edifici industriali. Infatti, come sinteticamente sopra riportato, gli architetti pratesi hanno affrontato in tutti questi anni il tema del restauro e del recupero dell’archeologia industriale con grande passione dando il loro massimo contributo.
L’Ordine degli Architetti PPC, infine, è risultato vincitore di un contributo attraverso la partecipazione ad un bando indetto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Prato per la richiesta di un finanziamento che è stato finalizzato a dare alle stampe questa pubblicazione e che permetterà dì mantenere viva la memoria storica della città di Prato attraverso il racconto del recupero e della valorizzazione del patrimonio dell’industria del ‘900 sostenendo la qualità dell’architettura e del progetto.
Città di Prato. Assessorato alla Cultura e al Centro Storico: A. Breschi, T. Caparrotti, P. Falaschi, Flaviano M. Lorusso (a cura di), La città abbandonata. Ricerca documentaria sui luoghi del lavoro nell’area pratese, finalizzata ad un progetto di recupero e di riqualificazione urbana, 1ma ediz., s.d. [1984].
Giuseppe Alberto Centauro Università degli Studi di Firenze
•Teatro Bruno Banchini, ultimazione del montaggio della struttura di copertura (ing. Pier Luigi Nervi, 1925) , (Guanci 2008)
Il progetto oltre il laboratorio didattico, ricerche ed esperienze sul restauro del Moderno
La trattazione degli argomenti che costituiscono l’ossatura di questa pubblicazione, strutturata come un’opera collettanea in riferimento ai contributi presentati in occasione della “Giornata di Studio” svoltasi al Polo Universitario della città di Prato (PIN) il 26 maggio 2022, fa sostanzialmente riferimento a due tematiche dedicate al restauro della moderna architettura industriale, la prima metodologica di carattere generale, la seconda riferita a casi studio riguardanti interventi e ricerche sul patrimonio architettonico dell’industria pratese del’900, rispettivamente indicate:
1) Il restauro del Moderno nell’Archeologia industriale;
2) Metodologie di recupero a confronto e studi sul comparto produttivo del Fabbricone1. Al primo punto, la tematica attiene agli aspetti generali del restauro delle architetture moderne nel percorso di conoscenza che si accompagna allo studio dei valori riconosciuti per quanto concerne i beni dell’archeologia industriale. A questi valori, non solo riferiti alle qualità architettoniche e testimoniali, è stato assegnato un ruolo strategico precipuo come fattori trainanti per la riabilitazione funzionale del patrimonio industriale, ma anche come motori di interesse al fine di promuovere un loro recupero formale, seguendo i principi del restauro per la conservazione e la valorizzazione.
1 L’area urbana presa come campione di studio, comprende lo storico complesso industriale del Fabbricone, fondato nel 1889. Dal 1948, l’area produttiva a ciclo continuo, di proprietà del Lanificio Fratelli Balli S.p.A., occupa oltre 25.000 mq. dello storico complesso. Si tratta di una vera e propria cittadella dell’industria, a sviluppo diacronico, che si contraddistingue per i caratteri costruttivi nell’alternanza di capannoni e magazzini realizzati nel corso del ‘900 in molteplici fasi di accrescimento e di trasformazione. Per queste sue peculiari caratteristiche architettoniche e per l’integrità che si conserva di gran parte delle strutture il complesso è stato individuato come ideale ambito di studio e di rilievo per condurre le esercitazioni seminariali da parte degli studenti del corso di restauro. Il Fabbricone è una testimonianza iconica della manifattura laniera pratese del ‘900, tanto da essere riconosciuta come “la più grande fabbrica di tessuti” della città. Nell’ottica degli studi sul restauro del Moderno l’’esperienza condotta sul Fabbricone ha costituito un caso studio ideale a livello architettonico ed urbanistico per evidenziare i pro e i contro che si registrano nel dualismo restauro/ rifacimento, negli interventi di conservazione/innovazione di strutture e tecnologie. Allo studio del Fabbricone per la messa a punto di idonee metodologie di restauro è interamente dedicata la seconda parte della pubblicazione (v. ultra, caso-studio: il complesso industriale “Il Fabbricone” di Prato).
Lo studio sul restauro del Moderno trova quindi nell’architettura industriale del ‘900 un campo assai fertile per aprire un laboratorio di ricerca che specialmente a Prato trova un campionario straordinario per ampiezza e varietà di tipi costruttivi nelle testimonianze di strutture in c.a. già a partire dagli anni ’20 e ‘30. Sono centinaia le strutture in conglomerato cementizio armato aventi più di 50 anni di vita, di rilevante interesse storico architettonico, che sono in attesa di cure, di revisioni mirate ai fini della prevenzione e del restauro per una riconversione culturale. Ancora troppo poco è stato fatto in questa direzione sia negli studi e sperimentazioni scientifiche sia nelle opere di manutenzione. Si deve tuttavia osservare quanto sia arduo il compito del restauratore specie nella valutazione periziale post evento per il recupero, lo abbiamo verificato dopo gli eventi sismici di questi ultimi anni e purtroppo si sta confermando questa grande difficoltà dopo i recenti avvenimenti disastrosi che hanno interessato grandi infrastrutture soprattutto realizzate in c.a.
Nell’area pratese l’uso del c.a. diviene imponente soprattutto nel dopoguerra, ancora con manufatti di specifico interesse architettonico e culturale per l’archeologia industriale. D’altronde, in un’analisi non superficiale non sarebbe potuto risultare diversamente di fronte a strutture che identificano quei processi costruttivi che hanno contribuito a fare la storia dell’architettura moderna. La capillare rivisitazione condotta in questi ultimi trent’anni nei confronti di questo patrimonio, che ha portato alla delocalizzazione degli impianti industriali dai luoghi originari, ha prodotto necessariamente lo smantellamento e la progressiva sostituzione degli opifici obsoleti da un punto vista funzionale per far posto alle aree residenziali seguendo le logiche del mercato, senza alcuna gerarchia. Ciò ha determinato anche un strappo irreversibile nell’insediamento cittadino novecentesco con la dispersione, fino alla totale eliminazione, di cospicui tratti identitari della città stessa. Le ruspe hanno indifferentemente spianato tante aree del costruito più vecchio che contenevano tanta parte della moderna industria pratese non adeguatamente compensata dai nuovi inserimenti con grave nocumento culturale e sociale, tanto che la problematica del restauro dei beni industriali si progressivamente trasferita dal piano vanificato della conservazione dell’esistente in una prima fase a quello del recupero tout court e oggi piuttosto a quella dettata da una rigenerazione consapevole dei valori identitari perduti. In ogni caso a distanza di anni dall’inizio di questo processo la situazione è rimasta largamente incompiuta, sospesa vuoi per la crisi economica vuoi per la pedestre rioccupazione dell’esistente da parte della comunità cinese che ha indotto il mercato a dirottarsi verso un mantenimento di puro comodo. Non c’è dubbio tuttavia che la “città fabbrica” che, dal dopoguerra fino al terzo millennio, ha rappresentato la tendenza
“vocazionale” dell’industria pratese, fosse divenuta dopo il collasso funzionale e ambientale, insostenibile e caotica, subendo un ulteriore stravolgimento per divenire un coacervo di spazi senza storia, un “non luogo” diffuso.
Il riferimento territoriale della ricerca sul restauro del Moderno ha intercettato nel distretto industriale pratese, che per queste sue caratteristiche è certamente da considerare un caso emblematico a livello nazionale nella delicata e perdurante fase di trasformazione dei comparti produttivi in dismissione di questo paese, trovando nella rigenerazione un ambito di sperimentazione di straordinaria rilevanza. Si tratta di una problematica che è prepotentemente tornata alla ribalta interessando la complessa transizione ecosistemica dei territori per la riqualificazione ambientale del costruito esistente, un nuovo punto di incontro tra storia e territorio, tra identità dei luoghi e qualità della vita.
Nella transizione economica, energetica ed ecologica, che ci attende potremmo riscoprire le radici fondative del distretto produttivo, il profondo radicamento sociale con le fabbriche del distretto tessile. Anche il paesaggio antropico caratterizzante l’area pratese, dalla vallata alla piana, è frutto delle trasformazioni indotte dai giacimenti storici dell’industria. Questo è avvenuto largamente in uno stretto connubio con le risorse naturali e la geomorfologia del territorio. In particolare, motori dello sviluppo sono state le acque alimentate dal fiume Bisenzio e dalla rete di canali e gore e che hanno segnato lo sviluppo della città indirizzando compiutamente anche la dislocazioni degli opifici segnando i processi che hanno determinato la rivoluzione industriale pratese. Alle soglie del terzo millennio, dopo un decennio caratterizzato dall’avvio di trasferimenti delle industrie dal centro alle aree periurbane, nel 2001 furono censite ben 198 fabbriche in degrado, già all’epoca segnalate come obsolete o in smantellamento, molte delle quali aventi pregevoli strutture in c.a. e un ricco corredo di elementi architettonici di precipuo interesse costruttivo e accessorio, tra queste si contavano anche ben 10 complessi industriali maggiori, per un totale di 450.000 mq, l’equivalente di un circa un terzo del centro antico (Centauro 2001). A questi si sarebbero aggiunti centinaia di opifici minori, stanzoni e capannoni, oggi occupati dalla comunità cinese, ma allora indicati in dismissione, per una volumetria complessiva di 1.700.000 mc. Oggigiorno l’attenzione si è spostata sul “riciclaggio” dei sedimi edificati per contenere l’ormai massivo consumo del territorio perché l’interesse è rivolto ai destini delle vecchie fabbriche fatte oggetto di demolizione e ricostruzione con altre destinazioni, spesso senza dare il giusto peso, come si sarebbe dovuto fare, al loro intrinseco interesse testimoniale e scientifico.
Il dibattito odierno che si viene a proporre attraverso i diversi contributi presentati dai vari autori, affronta in un ambito multidisciplinare alcune delle problematiche più scottanti in questo momento, prendendo spunto dalla una migliorata conoscenza del patrimonio industriale pratese per aprirsi in modo consapevole alle questioni di metodo nell’approccio finalizzato attraverso il restauro alla salvaguardia in un’ottica di sostenibilità ambientale e di investimento culturale (Centauro 2018).
I contributi che sono stati presentati dai relatori offrono un campionario quanto mai vario, mettendo a fuoco, pur in estrema sintesi, aspetti di metodo, conoscitivi ed operativi, evidenziando alle diverse scale le problematiche da affrontare, ma anche fornendo indicazioni sulle più congrue procedure d’intervento da seguire attraverso l’illustrazione comparata delle risultanze di recenti esperienze di recupero funzionale e di restauro architettonico. Si tratta di interventi di riabilitazione attenta al mantenimento dei caratteri costruttivi e alla riconversione d’uso degli spazi ex industriali.
L’attenzione progettuale nella conduzione degli interventi sulle architetture moderne ci dimostra altresì come anche gli interventi ristrutturativi leggeri, ad esempio quelli di parziale riconfigurazione formale degli elementi architettonici seriali, dovuti ad esigenze di efficientamento impiantistico e/o di rafforzamento strutturale, ancorché richiesti dalle norme vigenti, siano da considerare largamente compatibili con il restauro, in questa finalizzazione anche interventi di cosiddetto “restyling” che comportano revisione estetica delle cortine esterne o riarticolazione dei corpi di fabbrica, come pure opere interne che approdano ad una parziale revisione distributiva degli spazi, lasciando spazio a funzioni alternative rispetto alle destinazioni preesistenti, sembrano bene adattarsi al recupero dell’identità dei luoghi della produzione, non più sviliti da incongrue sostituzioni edilizie. In una tale prospettiva è stato affrontato un percorso di confronto a più voci sui temi tracciati, aprendo un dialogo e una compenetrazione di ricerca tra il mondo della formazione e quello delle professioni, passando in una condivisa dialettica progettuale, dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni. Seguendo questi indirizzi di messa a punto metodologica e di sperimentazione sono stati condotti gli stages formativi, che sono illustrati in questa pubblicazione, svolti nell’ambito delle attività laboratoriali che hanno visto protagonisti gli studenti del corso di restauro con l’assistenza dagli architetti iscritti all’Ordine professionale, attivi in qualità di tutors dei rilievi condotti sul campo.
Il Fabbricone, viale principale di accesso prima del rialzamento della palazzina di sinistra, anno 1925. (Fonte: Archivio Privato)
Ex fabbrica
“Campolmi”, prima e dopo gli articolati interventi di recupero (arch. Marco Mattei, 2000-2009)
Uno sguardo sul patrimonio dell’industria pratese del ‘900 dalla forma ogivale simile a quello della Campolmi, un analogo impianto esisteva agli Alcali. Proprio l’ex Cimatoria “L. Campolmi & Co.” è un esempio virtuoso a livello nazionale per l’archeologia del c.a., in virtù del restyling della vecchia tintoria elevata a “cattedrale” della cultura, luogo frequentatissimo e fulcro della nuova Biblioteca Lazzerini (Istituto Culturale e di Documentazione del Comune di Prato).
Per capire la portata “rivoluzionaria” per il XX sec. delle architetture in c.a., si parte dagli anni ’20. In città spicca il progetto, avveniristico per il 1925, della copertura del Politeama Banchini, per mano dell’ing. Pierluigi Nervi, che 5 anni più tardi realizzerà lo Stadio Comunale di Firenze.
Visti i risultati eccellenti conseguiti con il teatro, l’impresa “Nervi & Nebbiosi” trovò una diffusa committenza tra gli imprenditori cittadini e fu presto impegnata a realizzare molte armature in c.a. per gli opifici dell’emergente industria tessile pratese. Tra questi cito la nuova filatura con capannoni “a shed” in c.a. (1927) dello stabilimento Mazzini in via Bologna. In città fu un successo senza pari per l’impiego del c.a. iniziato da Nervi per l’ossatura della grande raggiera di travi, a sostegno degli anelli strutturali della copertura della grande sala del Politeama, con quella cupola a due emisferi apribili elettricamente (ing. Carlo Mazza) (Critelli 2006). Grazie all’avveniristico impiego del c.a. condotto dal Nervi, gli imprenditori pratesi si convinsero precocemente che la “modernizzazione” dell’edilizia, non solo quella industriale, sarebbe passata dall’impiego del calcestruzzo armato, utile soprattutto per realizzare grandi luci utilizzabili per i nuovi stabilimenti o l’aggiunta di reparti di produzione. L’uso del c.a. ha massicciamente interessato molti stabilimenti “storici” pratesi che, fin dalla metà degli anni ‘30, andavano ampliando i reparti con spazi più ampi e funzionali. In città anche il Fabbricone, pietra miliare dell’industria tessile, non fece eccezione. Una prima grande occasione di ampliamento fu nel 1934 per il rialzamento del corpo di fabbrica posto lungo il viale centrale del complesso (Guanci 2011).
La committenza esortò la Ditta “Nervi & Bartoli” a trovare una soluzione che consentisse di far coesistere le opere in c.a. con le strutture più tradizionali in laterizio e ghisa. Fu un grande successo che fece molti proseliti fra le aziende che volevano rinnovare, ma non “rottamare”, il vecchio con il nuovo. Il genio imprenditoriale dell’epoca chiedeva soluzioni ingegnose, affidabili e “risparmiose” che il c.a. combinato con strutture metalliche e vetro consentiva di avere. Da quel progetto si proseguì, senza soluzione di continuità, nel dopoguerra a fissare grazie al c.a. un vero e proprio “imprinting” urbano. Ancora una volta l’ing. Nervi e la sua impresa furono protagonisti della scena. In associazione con la Ditta “Poggi & Gaudenzi”, che stava realizzando l’ampliamento del monumentale lanificio “Figli di Michelangelo Calamai” sul viale Galilei, si edificarono altri 8.000 mq. con capannoni ad un sol piano tutti con telaio in c.a.. Questi modelli costruttivi furono molto imitati, cito per tutti il lanificio di Brunetto Calamai in via Galcianese. La tintoria annessa al lanificio Ricceri in via Bologna ospita un padiglione in c.a.
Il complesso attuale, che comprende anche il Museo del Tessuto, è nato dal progressivo restauro delle vecchie fabbriche, portando a termine, su progetto dell’arch. Marco Mattei, un laborioso intervento pubblico di recupero e valorizzazione (dal 2000 al 2009) (Mattei 2004). Ancora una volta, non disgiunto dallo sfruttamento delle risorse naturali del territorio, esiste un luogo emblematico per tracciare la storia dell’industria del c.a. a Prato, una sorta di “genius loci” della marna da cemento e del calcare da calce. Questo è Poggio Castiglioni, estrema propaggine meridionale dei Monti della Calvana, dove, nel 1925, la “Società Marchino & Co.” acquistò terreni per legare l’estrazione della materia prima alla produzione in loco del cemento.
Le leggi minerarie del 1927 e la rapida espansione commerciale della Marchino fecero sì che nel volgere di pochi anni il cementificio si espandesse in modo esponenziale, con 700 ettari in concessione, ma solo in parte sfruttati, e gli oltre 6 km di gallerie d’estrazione scavate nelle viscere rocciose del monte. Un complesso articolato e composito di manufatti caratterizzati dal forte impatto visivo con quei quattro imponenti altiforni in laterizio, emergenti fin nel paesaggio remoto al disopra di una grande scheletro strutturale sorretto, quasi fosse il fronte di un ciclopico tempio, da nove allungatissimi pilastri. A far da corollario all’imponente struttura altri stabilimenti con un’isolata ciminiera e, più in basso, ulteriori forni porticati e impianti di stoccaggio. L’insieme di queste costruzioni compone una cittadella dell’industria
Ex Cementificio Marchino, icona dell’architettura industriale pratese
Le strutture della “cementizia”, in attesa di restauro che segna in modo surreale e metafisico un insolito paesaggio artificiale che contrasta con la natura selvaggia dell’intorno.
La fortuna di questi impianti s’interruppe bruscamente con la guerra a causa dei pesanti danneggiamenti subiti per le mine tedesche e della difficile contingenza postbellica che ne aveva impedito una completa riabilitazione funzionale (Guanci, op. cit.).
Negli anni immediatamente precedenti il conflitto bellico, l’ing. Pier Luigi Nervi è stato senza alcun dubbio l’artefice principale, come progettista e costruttore, delle strutture in conglomerato cementizio armato che hanno “infrastrutturato” e fatto crescere l’industria pratese. Si tratta di opere condotte dal Nervi con sapienza, sempre caratterizzate da un rigoroso calcolo strutturale e dal suo genio creativo, ma anche da una meticolosa cura nelle gettate di calcestruzzo per la messa in opera, tale da fare apparire le superfici a faccia
L’ardita passerella delle ex Lanificio Sbraci demolita nel 1989, in una foto degli anni’60 (Fonte : AFR, Prato)
Il Lanificio “Walter Banci” al tempo della sua edificazione (Fonte: Archivio Privato)
La fabbrica oggi in stato di abbandono
La composizione dei corpi di fabbrica ben si coniugava con il razionale disimpegno lavorativo degli operai (Fonte: Archivio privato)
La ridistribuzione del verde piantumato intorno al Lanificio Banci dopo il suo completamento (1962) (Fonte: Archivio privato) vista del cemento come opere d’arte, orgoglio di carpentieri e maestranze (Castelli et alii 2011). Come non ricordare le strutture del Lanificio “Franchi Orlando”, oggi sostituito dal Palazzo delle Poste, con quelle innovative coperture piane in c.a. sorrette da travi a sbalzo, con le ampie terrazze (Guanci, op.cit.). In realtà l’impiego del c.a., specie nell’architettura industriale, ha significato per oltre mezzo secolo progresso e sviluppo, espressione di un ordine formale corrisposto nei nuovi assetti urbani che i grandi complessi venivano a creare. Si citano alcuni complessi industriali scomparsi o fin troppo frettolosamente demoliti, quali il Lanificio Sbraci in via Ferrucci con quella “arditissima” passerella area, completata dalla “Nervi & Nebbiosi” solo nel 1942 e demolita nel 1989 (Guanci, op. cit.). Anche il Lanificio dei Fratelli Querci in via Santa Gonda per l’ampliamento degli stabilimenti si avvalse della consulenza del Nervi. Come l’altro sopra citato non resta più alcuna traccia di quello storico complesso, se non la testimonianza dell’antico mulino dell’Olivo, già detto di Sancte Abunde a contrassegnare il luogo delle origini. La “città vecchia” con le industrie fuori dalla cintura delle mura, poste ancora lungo le gore, lasciò il posto nella ricostruzione post bellica ad un’espansione urbana senza limiti, a formare negli anni del boom economico un grande coacervo ambientale che inglobò, una ad una, tutte le preesistenze e densificò con centinaia e centinaia di magazzini e stanzoni tutte le aree intorno ai grandi complessi industriali prebellici, dilatando “a macchia d’olio” interi quartieri a S-E e S-W del centro antico.
Un’immagine della “città fabbrica” è l’asse di via del Romito con l’ininterrotta sequenza di opifici e case, vecchie e nuove. A Prato la seconda metà del secolo scorso è figlia del gigantismo espansivo del distretto industriale, dall’accrescimento imponente di strutture di piccole, medie e grandi dimensioni reso possibile dall’impiego massiccio del c.a.
Non mancheranno le eccellenze architettoniche alle quali la città, nella sua evoluzione moderna, non poteva certo dirsi estranea. Una di queste è rappresentata dal Lanificio
“Walter Banci”, realizzato tra il 1951 e il 1953 ma completato solamente negli anni ’60 (Centauro 2011). Si tratta di un complesso che occupava una superfice coperta di oltre 25.000 mq lungo l’Autostrada del Mare, ancor prima che divenisse, nel 1962, la c.d. Declassata (oggi viale Leonardo Da Vinci). Allo stato attuale le fabbriche giacciono in uno stato di desolante degrado, nonostante siano state al centro, dopo la dismissione, di una lunga querelle sul possibile riuso come area espositiva Nel 2007, un expertise del prof. arch. Brian Spencer (American Institute of Architects), puntava i riflettori sull’importanza urbanistica e architettonica dell’ex Lanificio Banci. La dichiarazione di Spencer qualificava il complesso architettonico come uno dei pezzi pregiati dell’archeologia industriale pratese, attribuendone l’ascendenza al genio creativo di Frank Lloyd Wright. La peculiare tipologia dello stabilimento, unica nel suo genere, prevedeva un’industria a ciclo completo, andando controcorrente rispetto alla tendenza consolidatasi nel dopoguerra nel distretto pratese di frammentazione delle lavorazioni. D’altronde inusuale era lo stesso schema costruttivo dei capannoni, certamente assai diversificati per tipologia strutturale rispetto a quelli esistenti. La rivoluzione architettonica non riguardava solamente gli aspetti compositivi, bensì si completava con un orientamento strutturale affatto diverso da quelli in uso corrente nel periodo, realizzandosi con pilastri in cemento armato a sorreggere ampie coperture a due falde con compluvio centrale, costruite “a camera d’aria” con travetti in cemento e tavelle in laterizio. Il calcolo delle opere strutturali, i progetti esecutivi e la direzione dei lavori furono eseguiti dagli ingegneri Arrigo Forasassi e Alieto Taiti ai quali il Banci aveva affidato lo sviluppo del concept progettuale ispirato ai principi dell’architettura organica, secondo gli intendimenti e i canoni esecutivi caratterizzanti i progetti di F.L. Wright. Si utilizzarono per le membrature murarie materiali naturali selezionati, provenienti dalle cave della Calvana, principalmente conci di pietra alberese, mentre le malte di allettamento furono confezionate con le sabbie dei Renai a Signa. Per le opere con il vetro, estremamente innovative per il periodo, usate per le grandi pareti frontali sia per le superfici piane che per le parti curvilinee, fu fatto esplicito riferimento alla ditta “Saint Gobain”, che aveva già realizzato un lavoro in California per il grande architetto americano. Completava l’innovativo impianto industriale una lungimirante visione ambientale che si attuò attraverso la piantumazione di un gran numero di alberi e siepi di schermatura intorno all’articolato complesso degli stabilimenti.
In questa sintetica carrellata sul patrimonio industriale per esaminare i lasciti delle architetture in conglomerato cementizio armato, ci siamo fermati a 50 anni fa, un tempo non casuale - come vedremo- per valutare nella giusta prospettiva storica le valenze ambientali e culturali assegnabili a queste strutture moderne.
A distanza di anni dall’inizio di questo processo di “rivisitazione” la situazione è rimasta largamente incompiuta in chiave di restauro di molta parte di quelle strutture.
Se per l’incuria è necessario avere cura delle fabbriche in dismissione, per evitare crolli o collassi strutturali occorre, monitorare e intervenire precocemente in tutte le situazioni a rischio o nell’incipienza delle patologie dei materiali che, per quanto concerne le opere in c.a., presentano i primi sintomi di disgregazione superficiale o di perdita di resistenza nelle armature. Ripristinare i copriferro, passivizzare le armature scoperte, rigenerare il materiale ammalorato e soprattutto avere cura di ogni particolare costruttivo che è partecipe della struttura in c.a. sono le buone regole per prolungare la vita di pilastri, travi e ferri; queste sono solo alcune delle opzioni per la conservazione e per il restauro del Moderno sulle quale ha puntato l’attenzione l’attuale dibattito attraverso l’analisi diretta dei beni industriali in degrado.