Michelangelo Sabatino Orgoglio della modestia. Architettura moderna italiana e tradizione vernacolare Franco Angeli, Milano 2013 ISBN: 9788820444730 Michelangelo Sabatino non poteva trovare titolo più simbolico e significativo per fornire una chiave di lettura e condensare il contenuto del suo libro - Orgoglio della modestia - pubblicato in inglese nel 2010 per la University of Toronto Press e ora disponibile nella versione italiana per la Franco Angeli, nella collana diretta da Marco Biraghi. Il titolo principale è tratto dallo scritto di Lionello Venturi del 1933, “Per la nuova architettura”, in cui lo storico dell’arte individua un “fondamento comune negli architetti moderni: il disgusto di ogni esteriore inutile ricchezza; l’orgoglio della modestia”. Tante volte Giuseppe Pagano ha utilizzato questo fondamento comune per esprimere come l’architettura moderna e italiana non sia data esclusivamente dalle opere eccezionali ma dalle moltissime architetture, cosiddette minori, sottoposte alle limitazioni della modestia. Estraneo alla ricerca dell’arte di eccezione, Pagano estrapola una rassegna sulla casa rurale ed è attratto da oggetti anonimi come la sedia e l’aratro. La leva del nuovo atteggiamento moderno è una leva morale, un atto di liberazione, quasi selvaggio, contro ogni abitudine esteticamente falsa. È soprattutto da questo punto di vista che il libro di Sabatino indaga e racconta l’architettura italiana dal 1911 agli anni Settanta, fornendo le tappe della ricerca dell’identità culturale che va ben oltre il concetto di tradizione. Sabatino rileva che l’architettura moderna in Italia si è nutrita costantemente della presenza delle proprie radici popolari e arcaiche, della propria tradizione paesana e rurale e per questo, nella sua lunga storia, non sono poche le incursioni nell’etnografia, nella letteratura, nel cinema. Sovvertendo l’interpretazione e l’ottica con cui si affrontano gli studi sull’architettura moderna, che pongono l’esperienza italiana come storia periferica e marginale, l’originale impostazione di Sabatino dà risalto alla cultura ‘paesana’, solitamente considerata una parentesi rispetto alle architetture monumentali, leggendola, invece, come punto fondamentale per interpretare e capire un’esperienza singolare come quella dell’architettura del ventesimo secolo in Italia, che stabilisce un indiscusso primato: la tradizione nella modernità. Ugo Rossi
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Renato Capozzi L’Idea di riparo Clean, Napoli, 2012 ISBN 978-88-8497-228-6 Occasione di ricerca e sperimentazione didattica, come l’autore stesso afferma, L’idea di riparo è anzitutto un momento di riflessione sui temi e le ricerche condotte qualche anno addietro con Salvatore Bisogni, Maestro di Renato Capozzi, al quale il libro è dedicato. Il volume si apre con la presentazione di Valeria Pezza che rileva i molteplici spunti offerti, seguita da una breve nota a cura dell’autore che racconta le ragioni del libro e introduce ai contenuti articolati in due distinte Parti. Nella Parte I “Architettura, forme elementari, spazio, costruzione” viene descritto con grande rigore il tema del riparo, il valore che questo ha in quanto archetipo che «contiene, a un livello ancora più astratto di quanto avviene nel tipo, l’idea primigenia del ricovero, del coprire, del definire un luogo per lo stare». Nel seguito, i capitoli tendono a costruire una riflessione strettamente legata alla disciplina compositiva: da “Gli elementi primi dell’Architettura”, passando per le considerazioni sulle forme elementari, sul tipo, sulla costruzione, sul luogo urbano e sulla natura, per concludersi con una riflessione sul futuro del tema trattato. Anche la postfazione, di Federica Visconti, pone l’accento sull’attualità della riflessione proposta dall’autore facendo riferimento a tre grandi architetture di altrettanti Maestri: la Festhalle di Tessenow a Rugen, il Crematorio a Enskede di Asplund e la Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino. Segue la riproposizione di alcuni manoscritti di Salvatore Bisogni, “Lezioni sul riparo” e la riproduzione di alcuni appunti già trascritti corredati da schizzi di grande espressività e chiarezza. La Parte I si conclude con uno scritto di Raffaela Napolitano, “L’architettura della “struttura” nel Politecnico di Luigi Cosenza”, lasciando il passo alla Parte II, “Seminario sul tema del riparo” che si compone delle lezioni di Raimondo Consolante, Camillo Orfeo, Luigi Coccia, Massimo Fraldi e Andrea Maglio, seguite da alcune delle Tavole elaborate nel Laboratorio di Composizione del I anno e aventi ad oggetto ricomposizioni analoghe del Foro di Pompei e della Agorà di Assos dove i ripari progettati dagli studenti sono chiamati a costruire nuovi luoghi pubblici della città. In un ideale percorso generazionale, dalla lezione del Maestro ai lavori degli studenti, il libro propone una interessante riflessione sulla composizione, trattando in maniera chiara i temi proposti e guardando alla lezione di chi è venuto prima «alla ricerca di qualche frammento su cui poter ri-costruire il nuovo, il moderno». Mirko Russo
Nicola Squicciarino La Great Exhibition del 1851. Una svolta epocale nella comunicazione Armando editore, Roma, 2014 ISBN 978-88-6677-374-0 La concezione della Great Exhibition di Londra, come fantasmagoria delle merci prodotte dall’industria volta ad attestare il livello di sviluppo raggiunto dal genere umano, non è certo più quella delle più recenti esposizioni universali a tema. Quell’evento è stato però l’inizio di tanti fenomeni di lunga durata, come la internazionalizzazione della produzione e del commercio, la creazione di nuovi e efficaci strumenti di comunicazione e di promozione delle merci, la ricerca dell’innovazione tecnologica, la comprensione dell’importanza del fattore formale ai fini della commerciabilità del prodotto e del carattere feticistico delle merci, il turismo di massa, che in parte condizionano ancor oggi la nostra realtà e i nostri modi di vita. In una esauriente sintesi delle molteplici implicazioni dell’esposizione, l’autore esamina il Crystal Palace di Joseph Paxton, avvalendosi di fonti bibliografiche d’epoca non solo inglesi, e fornisce una interpretazione della sua modernità più comprensiva della consueta lettura teleologica che insiste sul suo valore di battistrada della costruzione mediante il montaggio di componenti standardizzate realizzate prodotte industrialmente, economicamente vantaggiosa per la possibilità di recupero e di riutilizzo dei materiali. Indipendentemente dalla sua ricostruzione a Sydenham Hill(1852), il Crystal Palace esprime una concezione della modernità come “le transitoire, le fugitif, le contingent”, secondo la definizione formulata nel 1863 da Baudelaire e condivisa in testi successivi da Nietzsche e Simmel. Celebra “la bellezza del non-durevole” e “la seduzione del nuovo ed il suo inevitabile ‘essere per la morte’”, afferma Squicciarino, “vale a dire la dinamica propria della moda, definita dai concetti vita-morte, creazione-distruzione, che sono poi i caratteri fondamentali dell’epoca moderna: una sempre più celere produzione industriale di massa ed una conseguente crescente usura comunicativa dei beni prodotti”. Questa nozione di breve durata trovava emblematica espressione in quella sensazione di incorporeità che colpiva il visitatore di questo “Vacuum ricoperto di vetro” (Semper), dove il grande afflusso di luce erodeva la corporeità delle strutture metalliche e abbagliando l’occhio gli impediva di percepirne le dimensioni. In sinergia con la luce i colori primari scelti da Owen Jones concorrevano alla smaterializzazione delle strutture, con effetti che hanno indotto un acuto Lothar Bucher a scrivere di un edificio non decorato, ma costruito dai colori e un giornalista dell’Illustrated London News ad accostare la visione complessiva degli interni alla “foschia indistinta” dei paesaggi di Turner, tema che sarà poi ripreso da Siegfried Giedion. Ezio Godoli