Dichtung und Wahrheit. Scarpa a Castelvecchio: l’invenzione della luce Riccardo Campagnola
“Quando si parla dell’opera [di Carlo Scarpa] - ammoniva Bruno Zevi nel 19781 molti amano adagiarsi in un’atmosfera drogata, arcana e criptica, cui fa riscontro una fraseologia letteraria in bilico tra l’incanto e il melodramma. Chi ha frequentato Carlo assiduamente, nella sua fatica quotidiana, sa benissimo che, di fronte a queste magiche rievocazioni, si metterebbe a ridere” [forse meglio: “si sarebbe messo a ridere”. Una correzione quasi obbligata per uno scritto che, pur intriso di commozione per la morte dell’Autore, non sembra tuttavia rinunciare a certe rivendicazioni su astratte e, a suo giudizio, disattese sue proprie teoresi “alle quali mai Scarpa avrebbe risposto”, testimonia lo stesso Zevi nella seconda parte del suo scritto]. Scarpa, infatti, così avaro nelle sue comunicazioni e/o lezioni, improntate ad una recita poeticamente retorica - la seduzione, quale più profonda alternativa al convincere, come concesso ad ogni vero maestro,2 - vien rivelandosi, invece, sia nelle sue “sofferte” lezioni che nelle rare interviste, ben conscio del livello europeo - della sua cultura: francese, forse, nell’evocazione di un mondo teorico/poetico? O forse viennese, per esplicita ammissione dei propri archetipi formali? O orientale infine, data la metamorfosi di ogni riferimento nell’unità della sua opera appartenente - per manifesta fede - ad una sorta di ideal-typus costantinopolitano? In realtà, tali sintagmi sembrano ripercorrere, in une raccourcie storica e stilistica ad un tempo, la doppia anima (occidentale/orientale) della città per eccellenza: Venezia. In definitiva: una solida struttura teorica ben lontana da quel paradigma d’ingenua artisticità nascente in cui si suole rinchiude-
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re l’autore. Una coscienza ostinatamente tenuta segreta, così da venir solitamente disattesa ad ogni esplicita richiesta: l’ho sentito criticare il Pantheon, il modello di tutte le architetture, per il suo monolitico quanto elementare (seppur leggendario) sistema proporzionale. Ma, appunto, evidentemente sapendo di barare: impossibile non conoscesse - lui, poi - le infinite trasgressioni con cui l’edificio romano mediava la sua cosmica essenza nella narrativa costruzione dell’edificio… . Già è stato detto: “Ogni artista tende a segretare, più che a rivelare, i propri convincimenti e il proprio mestiere”… . I Nella conferenza tenuta da Scarpa a Madrid - “Mille cipressi”3 - sia pur sotto forma di distratta constatazione, nasce un vero principio teorico: “io non ho fatto molti lavori ex novo. Ho messo a posto [l’assonanza con la nota declinazione dialettale veneta si rivela, come sempre, sostitutiva di un italiano non altrettanto espressivo] musei e allestito mostre, operando sempre in un contesto. Quando il contesto è obbligato, forse [impagabile l’avverbio], un lavoro diventa più facile”: un understatement che vale un trattato… E, subito dopo, pragmaticamente: “Se vi sono delle parti originali [nell’edificio da restaurare/modificare], vanno conservate: qualunque altro intervento deve essere disegnato e pensato in maniera nuova. Non si può affermare: “io faccio il moderno - metto acciaio e cristalli -“: può andare meglio il legno, oppure potrebbe essere più adatta una cosa modesta…”. Inequivocabili, per quanto improbabili, echi Tessenowiani? Di seguito, sono dedotte conseguenze di non poco momento con una singolare
contro-intervista: “[Lei] ricorda come nella Querini Stampalia ho risolto il restauro della scala di accesso ai piani superiori?” - la domanda rivolta nel maggio 1978 da Scarpa all’agguerrito intervistatore spagnolo Martin Dominguez ha un’unica risposta obbligata - “Lei ha collocato delle lastre di marmo sopra i gradini danneggiati dal tempo”. La risposta di Scarpa costituisce il primo paradigma (Dichtung?) del rapporto tra tempo e progetto: “Precisamente - risponde Scarpa -. In questo modo si può rinnovare una scala senza distruggerla, preservandone l’identità e la storia, aumentando la tensione tra il nuovo e il vecchio: [e l’idea viene subito ampliata a principio compositivo] mi preoccupava molto articolare le connessioni dei giunti per spiegare la logica visiva dell’unione tra le diverse parti”. Ancora il Tessenow de “il dividere e il collegare”? Ma l’endiadi richiede, come decisivo, un secondo paradigma (Wahrheit): “a Castelvecchio gli antichi costruttori si erano posti il problema dell’identità formale di una serie di abitazioni e della loro connessione. Le stanze erano disposte in fila, fra due muri distanti e distinti; erano le due facciate del Castello. Il muro più antico e massiccio, quasi senza aperture, dava verso il fiume, all’esterno. L’altro, più recente, era più sottile e aperto sul giardino. Vede come nel tempo l’edificio conserva la sua identità? È un principio fondamentale…”. Che importa che Scarpa qui mis-interpreti storia e filologia dell’edificio? Una nativa vis ermeneutica disseziona e critica l’esistente, forse già autorizzata, in un’inestricabile dialettica, dall’intenzionalità in divenire del progetto stesso. Eppure, in altro luogo,4 e quasi riassumen-