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Non già rifiniti impeccabilmente, (…) ma nudi e schietti Infelice quella stagione in cui le primedonne dell’architettura si rubano la scena a colpi di effetti speciali con l’ansia di bucare lo schermo, enfatizzando per mezzo del disegno cose che nel progetto non ci sono, né mai ci saranno nella realtà costruita. Al contrario, nel ritrovato spazio della Casa della finestra, lontano dalle luci eleganti delle gallerie che compravendono il segno e i gesti degli artisti à la page, hanno trovato ospitalità per qualche settimana le tavole che Giorgio Grassi aveva predisposto per la realizzazione della Cassa di Risparmio a Novoli. In fila una dopo l’altra la prima serie di concorso, ancora poco convinta di divenire pietra costruita, e la seconda serie di disegni destinata all’esecutivo del cantiere nel suo farsi. Disegni costruttivi da manuale, in scala, per sezioni ortogonali, fatti per capire il problema ancora prima che per raccontarlo. Viste assonometriche dal basso, con taglio analogo a quello che Choisy utilizzava per costruire-ricostruire gli edifici degli Antichi, cercando di coglierne il segreto tecnico: particolari costruttivi degli angoli della casa laddove si mostra l’architettura com’era.1 A fronte dei facitori di mirabolanti render
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sempre in affanno per mostrare l’ancora mai visto, le tavole di Grassi hanno al contrario l’ambizione di avvicinarsi il più possibile all’architettura come si dovrebbe costruire, sforzandosi di ridurre lo scarto tra la rappresentazione e la realtà, usando il disegno per meglio indagare i singoli elementi dell’architettura in relazione al tutto, comunque senza lasciarsi ingannare né tradire da effetti che rendano in qualche modo accattivante ciò che si sta cercando. Il cantiere della Cassa di Risparmio di Firenze, ora giunto al termine ancorché privato di alcuni degli interni presentati in mostra (come l’autorevole auditorium di rappresentanza o l’atrio principale in prospettiva con cielo), ha obbligato Grassi a far precipitare una riflessione su Leon Battista Alberti e l’architettura romana che aveva per lungo tempo intersecato il suo lavoro. Come dice Alberti il percorso del progetto va dall’idea al disegno alla costruzione, cioè dal generale al particolare, ma la cosa che conta alla fine è solo quel particolare (anche l’idea e il disegno hanno la loro conferma solo in quel particolare), cioè l’idea che si confronta con la realtà, il progetto che si confronta
col mondo dell’architettura e la costruzione che si adatta al mondo com’è per poterlo migliorare.2 E se per Grassi parlare di Alberti significa in realtà parlare del proprio lavoro e del proprio modo di lavorare, rimettendoli in discussione proprio attraverso il lavoro dell’Antico Maestro, i disegni e i modelli esposti a piazza Tasso sembrano rispecchiarsi in maniera immediata e letterale nel famoso passo del De re aedificatoria dove Alberti mette in guardia dall’esibizionismo di quell’architetto che per ambizione cerca di attrarre con esteriorità l’occhio di chi guarda, distraendone la mente da una ponderata disamina delle varie parti del modello per riempirla di meraviglia. Meglio quindi che si continuino a esporre (e a far fare ai nostri studenti) disegni e modelli, non già rifiniti impeccabilmente, forbiti e lucenti, ma nudi e schietti, sì da mettere in luce l’acutezza della concezione, non l’accuratezza dell’esecuzione.3 Francesco Collotti 1 Non si spendono qui altre parole sulla questione, rimandando direttamente alla recensione che chiude questo numero di Firenze Architettura. 2 Giorgio Grassi, Leon Battista Alberti e l’architettura romana, Franco Angeli, Milano, 2007. 3 Così ancora il pezzo dal De re edificatoria ripreso da Giorgio Grassi nel volume citato.