Prima Persico nel 1933 poi Quaroni nel 1940 avevano rispettivamente rilevato che i progetti di case popolare non avessero quella “garanzia di autonomia civile” o non fossero degni di entrare in una storia dell’architettura, com’era accaduto, ad esempio, per i progetti di case popolari tedesche. Eppure il tema della casa, della cellula residenziale, della tipizzazione dell’alloggio, erano stati i temi dominanti per gli architetti del Movimento moderno in Europa, in Russia come in Germania, in Francia come in Gran Bretagna. Temi ben noti anche in Italia: basterà citare il volume di Giuseppe Samonà, La casa popolare, pubblicato a Napoli nel 1935, contenente un’ampia ricognizione delle esperienze europee contemporanee. Nel giugno del 1943, Pagano pubblicò su “Casabella” quello che possiamo considerare il suo testamento spirituale, il citato Presupposti per un programma…, in cui si auspicava un mutamento culturale e morale che privilegiasse l’edilizia proletaria. Nello stesso anno Libera e Vaccaro pubblicarono su «Architettura italiana» (n. 5-6) il saggio Per un metodo nell’esame del problema della casa e, assieme a Ponti, su «Stile» (n. 30), Per la «Carta della casa». “L’esigenza della casa per tutti – scrivono i tre autori -, anzi della casa per ciascuno, come corregge giustamente Banfi, si fa presente con sempre maggiore evidenza […] La «casa di ciascuno» deve essere per ciascuno costruita su termini di uguale dignità”. Gli stessi tre autori pubblicarono a Milano, due anni dopo, il volume Verso la casa esatta. Contemporaneamente Bottoni, nel saggio La casa a chi lavora, preconizzava la costituzione di un «Istituto nazionale di assicurazione sociale per la casa». Nel 1948 Diotallevi e Marescotti diedero alle stampe a Milano Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione, un libro che coronava una serie di sforzi teorici sul tema, pubblicati tra il 1940 e il ’41 su «Casabella», auspice Pagano, e nel volume Ordine e destino della casa popolare (Milano 1941). Il programma di una casa-per-tutti ebbe l’avvio con la ‘Legge Fanfani’ del 1949 e con la costituzione dell’InaCasa. Intanto si era acceso un dibattito sui temi generali della progettazione e sul ruolo stesso dell’operatività dell’architetto: a Milano vengono tradotti e pubblicati due libri di Wright, Architettura e democrazia, nel 1945, e Archi-
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tettura organica l’anno seguente. A Milano si era costituito il “Movimento studi per l’architettura” e a Roma, poco dopo la Liberazione, la “Associazione per l’architettura organica” animato da Bruno Zevi che nello stesso anno diede alle stampe Verso un’architettura organica. Va detto che sul tema della casa popolare si dovette registrare una cesura tra la ristrutturazione urbana e la creazione di tanti ‘quartieri’ di case popolari, alcuni assai riusciti, altri meno. Forse si era persa l’occasione di riconfigurare lo spazio delle città che furono lasciate crescere senza ordine; forse si era persa anche l’occasione di creare poli decentrati intorno alle grandi città e ridisegnare il territorio. Nel 1953 Comunità pubblicò il testo di Lewis Mumford La cultura della città, che costituì un lievito per l’interesse verso l’unità di vicinato e per le sperimentazioni svedesi di città-satellite. Le illusioni e le disillusioni generate dai vari tentativi-pilota - da Årsta ad Örebro, da Gröndal a Vällingby - ci attestano la storia della necessità ma anche della crescente inapplicabilità dello schema generoso ed idealistico della cittànon-città, vivificata ed insieme negata dall’esistenza in essa di molti “cuori”. La storia della casa popolare del secondo dopoguerra in Italia non è tutta da scrivere, ma è certamente ancora tutta da leggere, prima che per le città italiane il tempo sia del tutto scaduto.