idea che gli uomini si fanno, e cioè che l’architettura di un luogo si presti a ogni parte del luogo: e per Capri, che l’architettura così detta caprese si adatti egualmente al versante sul golfo, a quello di Marina Piccola, a quello idillico, episodeo, di Anacapri, e a quello greco di Matromania. Qui, nessuna casa appariva. Io ero dunque il primo a costruire una casa in quella natura. E fu con timore reverente che mi accinsi alla fatica, aiutato non da architetti, o da ingegneri (se non per le questioni legali, per la forma legale), ma da un semplice capomastro, il migliore, il più onesto, il più probo, fra quanti abbia mai conosciuti. Piccolo di statura, silenziosissimo, poverissimo di gesti e di parole, l’occhio nero coperto da una palpebra lenta e prudente e saggia, Mastro Adolfo Amitrano cominciò col tastar la roccia con la mano: allora si scendeva sulla Punta Massullo calandosi lungo uno sperone di roccia a picco. Passavamo là, su quella punta ventosa, gran parte delle nostre giornate, ed era inverno. Ma egli seguiva le mie parole, le idee che gli andavo spiegando sulla casa, approvando o negando. Per mesi e mesi squadre di muratori hanno lavorato su quell’estremo davanzale di Capri, finché a poco a poco la casa cominciò a uscir dalla roccia, sposata a quella, e prese forma, si rivelò per la più ardita e intelligente e moderna casa di Capri. Molti eran quelli che avrebbero voluto che io concedessi allo stile caprese, senza pensar che è proprio qui, nel concedere e nel far stile, che io mi rifiutavo e stavo sul mio. Nessuna colonnina romanica, perciò, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi, tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista, che certi tedeschi, trenta o cinquant’anni or sono, portarono a Capri, inquinando la purezza e semplicità delle case capriote. I problemi da risolvere non erano pochi, e non erano facili. A cominciare dall’orientamento poiché c’era da scegliere fra due venti, il greco e lo scirocco, che vi battono spesso. E io preferii affrontarli col gomito, per così dire, orientando la casa con gli angoli volti a tagliare i quattro punti cardinali. In quanto alla sua forma, essa m’era dettata dall’andamento della roccia, dalla sua struttura, dalla sua pendenza, dal rapporto dei suoi sessanta metri di lunghezza con i suoi dodici metri di larghezza. La feci lunga, stretta dieci metri, lunga 54. E poiché, a un certo punto, dove la roccia s’innesta al monte, la rupe si incurva, si abbandona, formando come una specie di collo esile, io qui gettai una scalinata, che dall’orlo superiore della terrazza scende a triangolo.21 Da Kaputt, 1944 (...) Dovevo ripartire la mattina dopo per Riga e per Helsinski... Ci avviammo verso il centro della città, io camminavo accanto a Louise... Aveva smesso di piovere, le sera era tiepida e chiara, senza luna. (...) “Perché non viene a passare la sua luna di miele in Italia, Louise?” “Ah, lei sa già che mi sposo? Da chi l’ha saputo?” “Me lo ha detto l’altro giorno Agata Ratibor. Venga a Capri, a casa mia. Io sarò lontano, in Finlandia, sarà lei la padrona di casa. La luna, a Capri, è veramente dolce come il miele”.22 (...) da La pelle, 1949 (...) Era il tramonto, e il mare prendeva a poco a poco il colore del vino, che è il colore del mare in Omero. Ma laggiù, fra Sorrento e Capri, le acque e le alte rive scoscese e i monti e le ombre dei monti si accendevano lentamente di un vivo color di corallo, come se le selve di coralli che coprono il fondo del golfo emergessero lentamente dagli abissi marini, tingendo il cielo dei loro riflessi di sange antico. La scogliera di Sorrento, folta di giardini d’agrumi, sorgeva, lontana, dal mare, come una dura gengiva di marmo verde: che il sole morente feriva obliqua dall’opposto orizzonte con le sue stanche saette, traendone il dorato e caldo bagliore delle arance, e i freddi, lividi lampi dei limoni. Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio; finché la luna ruppe l’orlo del cratere come un guscio d’uovo, e si levò chiara ed estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. (...) (...) Il mare, aggrappato alla riva, mi guardava fisso. Mi guardava fisso con i suoi grandi occhi verdi, ansando, come una bestia aggrappata alla riva: mandava un odore strano, un forte odore di bestia selvatica. Lontano, verso l’occidente, dove il sole già declinava in un orizzonte caliginoso, dondolavano ancorati al largo del porto centinaia e centinaia di piroscafi, avvolti in una densa foschia grigia, rotta dal bianco bagliore dei gabbiani. Altre navi solcavano remote le acque del golfo, laggiù, nere contro l’azzurro spettro trasparente dell’isola di Capri: e una tempesta che saliva da scirocco, ingombrando a poco a poco il cielo (erano nubi livide, spaccate da lampi sulfurei, da improvvise, sottili incrinature verdi, da accecanti neri bagliori), spingeva innanzi a sé bianche vele smarrite, che cercavano scampo verso il porto di Castellammare. La scena era triste e viva, con quelle navi fumose in fondo all’orizzonte, quelle vele fuggenti innanzi al balenar verde e giallo della nera tempesta, con quella remota isola errante nell’abisso azzurro del cielo: era un paesaggio mitico, e in margine a quel paesaggio Andromeda incatenata a uno scoglio piangeva, chi sa dove, Perseo, chi sa dove, uccideva un mostro. (...) (...) Durante i giorni ch’egli trascorreva nella mia casa di Capri, il Generale Cork si alzava all’alba, e, solo, andava a spasso nel bosco dalla parte dei Faraglioni, e si arrampicava su per le rocce che cadono a picco sulla mia casa dalla parte di Matromania, o, se il mare era calmo, usciva in barca con me e con Jack a pescare tra gli scogli sotto il Salto di Tiberio. Gli piaceva sedere alla mia tavola con me e con Jack davanti a un bicchiere di vino di Capri, spremuto dai vigneti del Sordo. La mia cantina era ben fornita di vini e di liquori, ma al miglior Borgogna, al miglior Bordeaux, al vino del Reno o della Mosella, al più regale Cognac, egli preferiva il semplice, schietto vino delle vigne del Sordo, sul Monte di Tiberio. La sera, dopo cena, andavamo a sdraiarci davanti al camino, sulle pelli di camoscio che coprono le lastre di pietra del pavimento: è un immenso camino, e in fondo al focolare è murato un cristallo di Jena. Attraverso le fiamme si vede il mare sotto la luna, i Faraglioni sorgenti dalle onde, le rocce di Matromania, e il bosco di pini e di lecci che si stende dietro la mia casa. (...) (...) Un giorno, a Capri, la mia fedele housekeeper, Maria, venne ad avvertirmi che un Generale tedesco, accompagnato dal suo aiutante di campo, era nell’atrio, e desiderava visitare la casa. Era la primavera del 1942, poco prima della battaglia di El Alamein, la mia licenza era finita, il giorno dopo dovevo partire per la Finlandia. (...) Andai incontro al Generale tedesco, lo feci entrare nella mia biblioteca... lo accompagnai di stanza in stanza per tutta la casa, dalla biblioteca alla cantina, e quando tornammo nell’immenso atrio dai finestroni aperti sul più bel paesaggio del mondo, gli offrii un bicchiere di vino del Vesuvio, dei vigneti di Pompei. Disse “Prosit” levando il bicchiere, bevve tutto d’un fiato, poi, prima d’andarsene, mi domandò se avessi comprato la mia casa già fatta, o se l’avessi disegnata e costruita io. Gli risposi - e non era vero - che avevo comprato la casa già fatta. E con un ampio gesto della mano, indicandogli la parete a picco di Matromania, i tre scogli giganteschi dei Faraglioni, la penisola di Sorrento, le isole delle Sirene, le lontananze azzurre della costiera di Amalfi, e il remoto bagliore dorato della riva di Pesto, gli dissi: “Io ho disegnato il paesaggio”. “Ach, so!” esclamò il Generale Rommel. E dopo avermi stretta la mano, uscì. Io rimasi sulla porta a guardarlo mentre saliva la ripida scala, tagliata nella roccia, che dalla mia casa porta a Capri. A un tratto lo vidi fermarsi, volgersi di scatto, fissarmi a lungo con un duro sguardo: poi voltarsi e andar via.23 (... )
Da Benedetti Italiani, 1961 (postumo) Apro la finestra, ed è la notte di Capri sul mare, chiudo la finestra, ed è la notte di Capri nella mia casa solitaria a picco sul mare, la notte italiana sui libri e sui quadri della mia biblioteca: sulla Spiaggia normanna di Dufy, sui tre Paysages parisiens di Delaunay, sulla giovane donna del Concerto di Kokoschka, sul Déjeuner sur l’herbe di Pascin, sulla Crocifissione di Chagall; la notte greca di Capri sul mazzo di fiori di Giorgio Morandi, sulla Spiaggia della Versilia di De Pisis, sul pavimento di mattonelle di maiolica bianca con la lira incoronata di alloro, disegnata da Goethe in margine al manoscritto del Viaggio in Italia. Apro la finestra, e fra poco sarà l’alba. Il cielo è chiaro sui monti del Cilento, bianchi di neve, sulle colonne dei templi di Pesto, là di fronte, e il promontorio di Agropoli, el il capo Palinuro. Fra poco il sole romperà il guscio dell’orizzonte, e sul mare, il monte, le rive, da questo deserto d’acque, di rocce, di pini, di cipressi, di mirti, nascerà la voce dell’uomo. Esco, ed è già l’alba, m’avvio su per il sentiero che sale a Matromania, e nel prato di asfodeli mi fermo a cogliere una fronda di leccio. Questa fronda è l’immagine dell’Italia, queste foglie verdi, frastagliate come coste marine, sono l’Italia: che è cosa della natura, un frutto della natura, e gli uomini che nascono da lei sono cose della natura anch’essi, sono i frutti di questa fronda, sono animali bellissimi, e nel chiarore argenteo dell’alba li odo chiamarsi da roccia a roccia, da olivo a olivo, da barca a barca, e hanno voci dolci, lente, remote. E non son voci d’uomini, son voci della natura, come la voce del mare, del vento, delle fronde degli alberi, degli uccelli marini, come le voci degli animali che si chiamano dalla terra e dal mare.24 (...) Un delitto cristiano, 1944 II. Quando il sentiero che da Tragara prosegue verso Matromania, svolgendosi a picco sul golfo roccioso di Tragara, ai piedi dei Faraglioni e del Monacone, scendendo e risalendo per rocce e valli e botri selvosi o nudi scogli a picco sul mare, giunge alla svolta che è sotto il Pizzolugno, l’aspetto del paesaggio cambia all’improvviso... È un paesaggio deserto dove l’uomo si sente straniero. Non è più la grazia languida del golfo di Napoli, ma la dura bellezza e selvaggia della Grecia. Un paesaggio abbandonato, rifiutato dall’uomo, come Delfo, Micene. Cui l’uomo rinunzia, per sua debolezza, per paura. (Per paura di sé). Rari sono i passeggeri che si addentrano per quelle rocce e quelle fitte selve di mirti, di ginepri, di lecci, di cipressi, fra i quali il pino prorompe solenne e triste. (...) Non v’appaion case, né segni della presenza dell’uomo, del suo lavoro, della sua vita. La montagna cade a picco sul mare, dalla cresta del Pian delle Noci e di Tiberio, sulla selva di Matromania, e tutta scavata di grotte segrete, profonde, che aggiungono al misterioso e pauroso di quei luoghi. Come spaurito di quella selvaggia natura, lo sguardo si ritrae dal monte, si allontana per un’immensa e dolcissima prospettiva d’acqua, di cieli, di isole remote, di remote rive, delicate nella luce rossa e grigia, tenuissima. L’occhio trascorre dal golfo di Castellamare, da Sorrento, al ciglio verde della montagna di Agerola, al clivio di Ravello lontanissimo, alle lontananze delicate e grigie del golfo di Salerno. Nei giorni chiari, proprio di faccia, è visibile oltre il golfo la costa di Pesto, oltre la foce del Sele, oltre Agropoli: e in certe ore del mattino, quando l’aria è trasparente, si vedono rosseggiare, sulla riva sabbiosa (un’apparizione misteriosa, quasi un ricordo), le colonne dei templi di Pesto. In quella parte dell’isola, la particolare bellezza di Capri esprime con libera intensità la sua profonda, dolorosa tristezza. L’uomo, di fronte alla natura, è per sé stesso vile. Accetta la bellezza senza lotta, senza resistenza, come un dono felice. (...) III. Il paesaggio si appoggiava dolcemente al vetro della finestra, con le sue delicate tinte di pastello sbiadito. L’alta parete rocciosa di Matromania faceva da quinta al remoto abbandono della costa di Amalfi, pallidissima nel cielo di un verde tenue, venato di lievi cicatrici rosee. Cosimo era seduto sul divano, nella “corte”, quasi immerso nel paesaggio appoggiato al vetro del finestrone. Si cominciò a muovere piano piano, su un fianco, cercando di non respirare. Si alzò in piedi, mosse qualche passo sul lastricato del pavimento. La suola di gomma delle sue scarpe da tennis aderiva strettamente alla superficie ruvida della pietra di Massa. Gli pareva di far fatica a camminare... si avvicinò in punta di piedi alla porta che dà sul corridoio interno, sulla piccola anticamera interna. Nella penombra dell’anticamera intravide gli aspetti familiari delle due stampe colorate di Alessandro di Russia. (...) In quel suo primo tentativo quasi inconscio, in quel suo primo istinto, in quel suo primo incerto e pallido tentativo di volontà, e di azione, egli si aggrappava inconsapevolmente a tutti gli appigli che gli capitavan sotto mano nel breve tragitto dalla corte alla stanza di Lavinia. Ora era fermo davanti alle due stampe appese al muro... Si mise a ridere, mordendosi il dorso della mano sinistra appoggiata al muro. E a un tratto tornò indietro. Aprì adagio adagio la porta, si fermò sulla soglia, misurò con lo sguardo l’immenso salone. (...)
“Ogni uomo è un’isola” Curzio Malaparte - brani scelti da Gianni Pettena - foto Mario Cozzi e Alberto Scribani - inserto staccabile di Firenze Architettura 1.2005
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