Antonio Sant'Elia e l'architettura del suo tempo | a cura di Ezio Godoli

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visioni futuriste e utopie urbane • monica manicone

ti e ordinati da Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori nel 1958, si susseguirono le iniziative che rilanciarono la ricerca sull’attività futurista. Nel 1926 il Gruppo 7 prendeva le distanze dall’architettura futurista esprimendo la propria posizione critica attraverso le pagine della rivista Rassegna Italiana1. Il Gruppo dichiarò che le esperienze futuriste e le prime cubiste avevano deluso il pubblico che invece si aspettava risultati maggiormente convincenti date le premesse. Inoltre, l’esperienza futurista per i componenti del Gruppo 7 sembrava già lontana e “romantica”. Erano gli anni in cui Marinetti era impegnato nella celebrazione di Sant’Elia, culminata nella mostra a Como del 1930, gli stessi in cui veniva fondato il Miar (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) e venivano inaugurate la prima (1928) e la seconda (1931) Esposizione italiana di Architettura Razionale. Nel 1934 Le Corbusier, invitato da Pietro Maria Bardi e Massimo Bontempelli a tenere due conferenze al Circolo delle Arti e delle Lettere di Roma, affermò che il cubismo in Francia e contemporaneamente il Futurismo in Italia avevano rappresentato un “grande momento di costruzione spirituale” che determinò una nuova coscienza moderna2. I disegni di Sant’Elia rappresentavano edifici monumentali, stazioni, centrali elettriche, ponti affrontando la sfida di una architettura fondata sulla funzionalità delle strutture, sull’uso di nuovi materiali come il cemento armato, il ferro e il vetro, sulla verticalità degli edifici, sulla velocità e sulla simultaneità e ponendo al centro dell’attenzione la città come spazio privilegiato della modernità. Nel suo scritto per il catalogo della mostra Nuove Tendenze e nel successivo Manifesto dell’architettura futurista, l’architetto comasco dichiarava una rottura con l’architettura tradizionale e con il decorativismo di fine Ottocento — dal Liberty milanese e dalla Wagnerschule che in quegli anni influenzava non solo la cultura architettonica dei paesi appartenenti all’impero asburgico ma di tutta l’Europa — pur confermando alcuni dei principi modernisti. Affermava, attraverso proclami di spiccata forza innovativa, la necessità di inventare la città e la casa futurista esaltando la tecnologia. Un’“architettura del calcolo” e “della semplicità”, quella proposta dal Manifesto, con “l’uso razionale e scientifico del materiale” per una “casa futurista simile a una macchina gigantesca”3 che influenzerà in seguito le altre avanguardie e il Movimento Moderno, anticipando, in qualche modo, la machine à habiter di Le Corbusier. Sant’Elia fu un precursore e, in quanto tale, “accenna e non svolge”, scrisse Giulio Carlo Argan in un saggio inserito nella raccolta Dopo Sant’Elia, pubblicato dall’Editoriale Domus nel 1935. Secondo Argan l’interesse dell’architetto comasco nello svolgimento dell’architettura contemporanea era dovuto al suo contenuto polemico e perciò l’attenzione nei suoi confronti andava rivolta alla teoria piuttosto che ai suoi progetti4. Nel 1936 Antonio Sant’Elia veniva citato nei Pionieri del Movimento Moderno di Nikolaus Pevsner soltanto nelle note. Lo stesso autore molti anni dopo — nella nuova edizio-

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