Ti lascio e vado nei campi...

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MONTEFALCONE STUDIUM


Coordinamento editoriale Xxxxx xxx Xxxx Cura redazionale Xxxxxxx Xxxxxx Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) ISBN 978-88-8103-xxx-x Š 2014 Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039 0521 207547 www.diabasis.it


Ilaria Dioli, Daniela Morsia, Giuseppe Gambazza

«Ti lascio e vado nei campi…» Giuseppe Verdi agricoltore



Nome Cognome

«Ti lascio e vado nei campi…» Giuseppe Verdi agricoltore

Presentazione

Domenico Ferrari Cesena Giuseppe

Prefazione

Tiziana Albasi Il paesaggio agrario dell’Emilia nordoccidentale nel xix secolo Giuseppe Gambazza

Introduzione Inquadramento geostorico delle terre emiliane all’epoca di Verdi (1813-1901) Lo spazio rurale dell’area emiliana occidentale La piantata padana Aspetti formali e funzionali dell’abitazione rurale dell’epoca verdiana I luoghi di Verdi Conclusioni L’agricoltura piacentina e parmense ai tempi di Giuseppe Verdi Daniela Morsia

Una terra di grano e vigne L’agricoltura emiliana tra Sette ed Ottocento Tra l’Appennino il Po e la via Emilia, tante agricolture L’evoluzione dei contratti: affitto e mezzadria Luci ed ombre della dominazione francese Le nuove esperienze di stampa agraria e le statistiche del primo Ottocento Il governo di Maria Luigia e il catasto L’agricoltura emiliana al momento dell’Unità e l’Inchiesta Jacini Il decollo di fine Ottocento: l’interconnessione con l’industria Il ruolo delle istituzioni nello sviluppo agrario Le Cattedre ambulanti e la nuova propaganda agraria La “pianuraccia” di Giuseppe Verdi


Tra note, carte e campi: un ritratto del paesano delle Roncole Daniela Morsia

L’aratro del maestro «Ti lascio e vado nei campi…» Le grandi fatiche di Verdi Lo spaccio-osteria di Roncole tra conti e note L’ascesa patrimo niale di Verdi L’azienda del Maestro I libri e gli amici Le abitudini agrarie del Maestro La morte di Verdi Le abitudini alimentari di Verdi Ilaria Dioli

«Torniamo al passato e sarà un progresso»: il concetto di gusto nell’Ottocento Variazioni sul tema: il rapporto di alcune grandi personalità ottocentesche con il cibo I ricettari come pentagrammi dei sapori: da fonte storica a genere letterario «Un pasto italiano è come un’opera»: le abitudini alimentari di Giuseppe Verdi


Presentazione Domenico Ferrari Cesena

Giuseppe Verdi agricoltore. Quanti sono, nel mondo, gli appassionati del melodramma, per moltissimi dei quali Verdi è un vero idolo, a sapere di questa passione verdiana per l’agricoltura? Che, tra l’altro, è stata proprio una passione, non un semplice hobby, o una scelta di investimento in quel “bene rifugio” che è da sempre il terreno agricolo, o la realizzazione di un sogno di promozione sociale, quella a proprietario terriero. Una passione sì, ma, in termini più razionali, una seconda professione, ai suoi occhi importante quanto la prima, che è quella che gli ha dato fama universale e imperitura. Ed è stata una professione composita: oltre al ruolo di imprenditore agricolo, Verdi amava quelle di contadino, muratore (che lui chiamava spesso, anche nelle sue lettere, “magutt”, probabilmente pronunciato con la dieresi sulla “u”), giardiniere, architetto, direttore di cantiere, ingegnere idraulico, falegname, e addirittura, quando era necessario, facchino. L’importanza che il Maestro annetteva a tutte queste attività è ben riassunta in una lettera del 1867 da Sant’Agata all’amico conte Arrivabene, dove, parlando di sé in terza persona, scrive: «Se tu gli dici che il Don Carlos non val niente non gliene importa un fico, ma se tu gli contrasti la sua abilità di fare il magutt, se n’ha a male». E pensare che, nato in campagna da una famiglia piccolo borghese di origini contadine piuttosto recenti, Giuseppe Verdi aveva scelto una carriera, quella di musicista compositore, che lo aveva estraniato dal mondo rurale dell’infanzia e della giovinezza. Come racconta Giuseppina Strepponi in una lettera a Clara Maffei, fu proprio Giuseppina, che amava moltissimo la campagna, a chiedergli di lasciare Parigi e trasferirsi a vivere nei dintorni. Verdi, che, aveva quasi orrore del soggiorno in campagna, dopo molte preghiere acconsentì a prendere una casetta in poca distanza di Parigi. Questa fu per Verdi, incredibilmente, “una rivelazione”, egli: «si prese ad amarla con tanto amore, con tanta passione che io mi trovai vinta e troppo esaudita


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in questo culto per gli dei boscherecci. Comperò il latifondo di Sant’Agata[…]». Può darsi che il Maestro, fin dall’inizio della sua eccezionale carriera, abbia sognato di acquistare terreni agricoli nella sua zona di mondo, la bassa piacentino-bussetana a cavallo dell’Ongina; tuttavia, se questo è vero, si direbbe che la richiesta pressante della Strepponi abbia fatto precipitare i tempi e provocato una realizzazione anticipata di quel sogno. «Ti lascio e vado nei campi…» una frase tolta dalle lettere all’amico Arrivabene, è il titolo quanto mai azzeccato di questo libro dedicato a Verdi agricoltore. I tre autori inquadrano gli aspetti principali del tema nelle rispettive cornici spaziotemporali, fornendo gli elementi geografici e storici che consentono al lettore di comprendere appieno i significati e la portata delle attività agricole del grande compositore. Giuseppe Gambazza scrive del paesaggio agrario dell’Emilia nord-occidentale nell’Ottocento, toccando le caratteristiche salienti di quel paesaggio, che è in parte scomparso (vedi la sparizione, forse economicamente ma di certo non esteticamente giustificabile, della “piantata padana”), in parte in rovina, almeno per ciò che riguarda l’architettura rurale (una piccola consolazione viene fornita dal lamento dello stesso Verdi: «Ho molte case coloniche in ruina come lo sono tutte da queste parti»). E poi, nella seconda metà del suo intervento, discute in particolare la geostoria dei luoghi verdiani. Un po’ più della metà del libro, e la sua parte centrale, è costituita dal secondo capitolo, scritto da Daniela Morsia, il cui tema è l’agricoltura a Piacenza e a Parma ai tempi di Verdi, e i modi in cui Verdi stesso ha declinato la sua seconda professione. La prima parte del capitolo passa in rassegna la storia della nostra agricoltura tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: l’evoluzione dei contratti agrari, gli effetti della dominazione napoleonica, il governo di Maria Luigia, che realizzò la riforma del Catasto impostata dai francesi durante il periodo precedente, la relativa arretratezza dell’agricoltura nei decenni del Risorgimento, e la grande fioritura di iniziative piacentine di fine secolo (le Cattedre ambulanti, i Comizi agrari e poi i Consorzi, la Federazione dei consorzi agrari, la prima Camera del lavoro, dove per “lavoro” si intendeva soprattutto quello agricolo). Avendo così descritto con sicura dottrina e dovizia di particolari il contesto in cui si esplicò l’impegno di agricoltore di Giuseppe Verdi, Daniela Morsia passa a occuparsi della storia di questo impegno e dei principali accadimenti connessi: le umili origini delle Roncole, la costruzione del cospicuo patrimonio terriero, l’organizzazione


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dell’ “azienda Verdi”, e il ruolo (anzi, i ruoli) che il Maestro si era riservato in essa, le abitudini della sua vita campestre, e infine la morte, nel 1901. Il terzo e ultimo capitolo, firmato da Ilaria Dioli, si occupa di una terza passione di Verdi, dopo la musica e l’agricoltura, il cui soggetto è però strettamente legato a quest’ultima: quella eno-gastronomica. Anche in questa parte del libro il lettore trova un’ampia e interessante introduzione all’argomento, nella quale si discutono il concetto di gusto nel secolo xix e i rapporti tra alcuni grandi di quel secolo (Cavour, Artusi e Rossini, soprattutto quest’ultimo) e i piaceri della tavola. L’autrice tratta inoltre dei ricettari, cui viene riconosciuta, proprio a partire dall’Ottocento, la dignità di “genere letterario”. E anche questo capitolo termina con un’approfondita discussione del tema dal punto di vista di Verdi e dell’esperienza verdiana; in questo caso, i suoi costumi alimentari e la sua abilità in cucina. La discussione viene introdotta da una citazione del giornalista ottocentesco Waverley Root, che ci riporta in un certo senso al punto di partenza: «An Italian meal is like an opera». Una lettura dunque, quella di Ti lascio e vado nei campi…, molto piacevole, istruttiva e anche divertente. Il libro ci avvicina molto di più all’uomo Verdi rispetto ai tanti trattati di musicologia verdiana (opere peraltro indispensabili e altamente meritorie, quelle buone): è il Verdi quotidiano, con il suo carattere difficile, esigente con gli altri ma ancor più con se stesso, rispettoso in tutti i settori delle sue molteplici attività dai più alti standard di qualità, parsimonioso ma non meschino, anzi molto generoso nelle cose che gli stanno veramente a cuore, sempre governato dall’intelligenza, nonostante la sviluppatissima sensibilità per i moti dell’animo umano. Ci si può chiedere che rapporti ci fossero tra le due professioni principali di Giuseppe Verdi: la composizione musicale e l’agricoltura. Le due attività sono, almeno in superficie, assai lontane tra loro per ciò che riguarda gli oggetti trattati, la mentalità e la cultura necessarie, le finalità, le utilità sociali. Ci soccorre, nel trovare la risposta, lo stesso Verdi, che, come ricorda Daniela Morsia, a Corrado Ricci diceva: «Tutte le mie opere, tranne le prime, le ho scritte a Sant’Agata, non derogando mai dalle mie abitudini solitarie e contadine. Dove son solito vivere, nulla mi può distrarre. Mi ritempravo uscendo solo, per le mie terre ed occupandomi col massimo piacere di agricoltura». Le due professioni? «Proprio dall’una traggo la forza per l’altra. Se dal mio studio arrivo qui spiritualmente spossato, l’intimo contatto con la natura, in particolare l’esercizio dell’agricoltura, mi danno ristoro, ridonando alla fantasia e al mio spirito la tensione necessaria per la creazione».



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Prefazione Tiziana Albasi «È sogno o realtà?», Falstaff, atto II, parte I

Il percorso di Giuseppe Verdi come musicista è intimamente legato a quello di grande proprietario fondiario, uno status che riuscì ad acquisire grazie alle risorse derivanti dal successo delle sue opere. Ed è bene sottolineare la vocazione agraria del Maestro poiché non è poi così scontata – soprattutto non lo era a quel tempo – la correlazione tra disponibilità di capitali e visione imprenditoriale e lungimirante nella conduzione fondiaria, come invece fu quella di Verdi. Il contesto storico ed economico all’interno del quale Verdi si inserì come agrario evidenzia una serie di fragilità e debolezze su cui è necessario soffermare l’attenzione, proprio per valorizzare ulteriormente l’intelligente passione del “paesano delle Roncole”. L’Italia postunitaria, unificata solo politicamente, in realtà presentava condizioni di sviluppo estremamente differenti in ambito economico e sociale. Nelle «cento Italie agricole», messe in luce nell’Inchiesta Agraria Jacini degli anni ottanta dell’Ottocento, il divario non era solo tra Nord e Sud, ma pure tra le diverse aree regionali dell’arco settentrionale. Un generale panorama di forte arretratezza caratterizzava anche il territorio dell’ex Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. L’utilizzo di pratiche obsolete nella conduzione agraria, la scarsa propensione a reinvestire capitali nell’acquisto di nuovi macchinari e nell’introduzione di migliorie nelle coltivazioni, le difficoltà di accesso al credito: tutti questi fattori erano propri di un ceto possidente poco attento anche al valore della formazione professionale, aspetto questo che verrà in parte superato, a partire dall’ultimo decennio del secolo xix, con l’attività dei Comizi agrari e delle Cattedre Ambulanti di Agricoltura. I lavoratori della terra - mezzadri, coloni, braccianti - soffrivano non soltanto di scarsa formazione e professionalità, ma anche di condizioni di lavoro e di vita spesso al limite della sopravvivenza, in balia di regole verbali stabilite da proprietari terrieri, più propensi a ricapitalizzare i guadagni nell’acquisto di nuovi fondi o di edifici urbani piuttosto che ad investire in sistemi innovativi di conduzione agraria. Entro queste coordinate storiche si contestualizza l’ascesa di Verdi come


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proprietario fondiario, ascesa resa possibile dalla brillante carriera di musicista e quindi dai proventi delle opere. Verdi “musicista della Vita”, – «il grande fiume che cresce e si arricchisce man mano che incontra i suoi affluenti, rimanendo sempre fedele a se stesso...» ( Riccardo Muti) – trasferì anche nell’amore per la terra quella forza e quella individualità che segnano ancora oggi il suo agire, dalle espressioni più alte e disinteressate di mecenatismo all’amore patrio di risorgimentale memoria, ricercando autenticità nelle relazioni umane e allontanando adulatori ed ipocriti sostenitori. Anche dalla lettura del suo testamento – con i lasciti all’Ospedale di Villanova, da lui stesso fondato, al Monte di Pietà di Busseto, al Comune di Villanova e con una borsa di studio a favore di due studenti di agraria – si possono cogliere i sentimenti profondi che legarono il Maestro alla terra e alla sua terra di provenienza in particolare. Universalmente riconosciuto come il più celebre compositore italiano, Giuseppe Verdi non tradì mai le sue origini rurali e padane. La “buona terra” e la “buona cucina”: i saggi di questo volume ricostruiscono con acribia storica il composito percorso sociale e patrimoniale del Maestro, che, come fu attento e scrupoloso nella composizione delle opere, lo fu anche nella gestione delle sue possessioni e nella valorizzazione dei prodotti della terra.


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Il paesaggio agrario dell’Emilia nord occidentale nel xix secolo Giuseppe Gambazza

Introduzione Il presente scritto si colloca nel solco degli studi di geografia degli spazi rurali e mira a ricostruire i caratteri formali e funzionali del paesaggio agrario del xix secolo, attraverso l’utilizzo di metodologie afferenti alla geografia storica e alla geografia culturale. Il connubio tra le due discipline vuole restituire un quadro sintetico ed esaustivo di un mondo rurale andato perduto, ma le cui tracce riverberano nella contemporaneità e ne influenzano il tessuto sociale ed economico. Gli spazi rurali, infatti, sono stati modificati dal processo di dispersione urbana, (sprawl), il quale ha costituito ampia materia di discussione tra geografi, sociologi urbani, dando vita dagli anni Novanta a una miriade di etichette diverse: “città diffusa”, “edge cities”, “exopolis posturbane”, “città infinita”, “schiuma urbana”. Riguardo all’urbanizzazione avvenuta nell’area geografica investigata nella presente ricerca, appare utile fare un rimando alle pagine di Eugenio Turri, nelle quali, egli – interrogandosi sugli sviluppi urbani della pianura Padana e delle valli alpine (2000) – finiva con l’equiparare la pianura Padana a una megalopoli, ossia «a un continuum urbanizzato, frutto di un vasto e incontrollato processo di dilatazione e distribuzione urbana, che non rispetta più i confini tradizionali, finendo così per lasciare poco spazio al non-urbano» (Pomodoro 2012, p. 52). Ciononostante, tracce della tradizione contadina resistono alla proliferazione dei tipi urbani e riecheggiano nella postmodernità in modi inconsueti, anche attraverso l’opera di valorizzazione e di conservazione di un patrimonio culturale, che sfocia, in taluni casi, nell’istituzione di luoghi dedicati al culto o alla memoria di eventi o personalità di epoche passate, al fine di riprodurre atmosfere e di veicolare valori apparentemente scomparsi. L’obiettivo che si pone il presente lavoro, pertanto, è quello di cogliere la pregnanza della figura e dell’opera di Giuseppe Verdi nella trasformazione dei territori collocati nella sezione nord-occidentale dell’Emilia Romagna.


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La parte iniziale del lavoro mirerà, pertanto, a ricostruire il paesaggio geografico e umano in cui il Maestro visse e operò. La parte iniziale si concentrerà inizialmente sullo studio delle caratteristiche morfologiche dei territori dapprima facenti parte dell’antico Ducato di Parma e Piacenza e, in seguito all’unificazione del Regno d’Italia, appartenenti alle province di Piacenza e di Parma. In seguito verranno tratteggiati gli aspetti amministrativi di tale regione, relativi segnatamente all’arco di tempo compreso tra il 1813 e il 1901, che corrispondono agli anni di nascita e di morte del “Cigno di Busseto”. Successivamente verranno delineati i caratteri del paesaggio agrario delle terre verdiane, indicando gli elementi di continuità e discontinuità tra quest’area e gli spazi rurali emiliani, italiani ed europei. Un’ulteriore sezione dell’articolo investigherà, invece, le tipologie di insediamento rurale, con particolare attenzione alle forme abitative, le quali rappresentano un paradigmatico esempio di adattamento delle attività umane alla natura circostante. La parte conclusiva, infine, si proporrà di indagare i “luoghi della memoria verdiana”: le terre in cui la memoria del Maestro è stata conservata in maniera più vivida, e verso cui egli mostrò un più acceso senso di appartenenza. L’indagine quindi, restringendo progressivamente il campo di analisi, punterà lo sguardo sul territorio compreso tra i vertici di un triangolo ideale, costituiti dai paesi di Le Roncole, Busseto e Sant’Agata, elencando e localizzando i principali possedimenti terrieri dell’artista. Il punto di arrivo del percorso investigativo realizzato, sfociante nella parte conclusiva dell’articolo, intenderà, infatti, studiare approfonditamente uno spazio limitato ma pregno di significati storico-culturali, anche al fine di metterlo in relazione a fattori caratterizzanti un contesto più ampio. La metodologia con cui verrà condotta l’indagine prevede l’analisi cartografica e documentaria, il recupero di fonti statistiche, oltre all’osservazione diretta del territorio studiato.


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Inquadramento geostorico delle terre emiliane all’epoca di Verdi (1814-1901) L’insorgere di fenomeni, che, a partire da un recente passato, hanno sfumato i confini tra lo spazio rurale e quello urbano, ha ridotto e talvolta annullato le differenze formali e funzionali tra città e campagna. Lo sprawl urbano, ad esempio, con la dispersione delle attività secondarie e terziarie al di fuori della città, ha causato la nascita di aree di frangia, in cui si coagulano elementi urbani e rurali che minano le vecchie “categorie” estetiche e spaziali e ne suscitano la formazione di nuove. Ciò è reso evidente anche dall’avvenuta contaminazione tra gli stili di vita urbani e rurali, che ha contribuito alla scomparsa di alcuni aspetti tipici delle società agricole della modernità, come quelli relativi alla coincidenza tra il luogo di lavoro e il luogo di riposo, oggi relegato in poche aree dalle innovazioni agricole e dallo sviluppo della mobilità. Pertanto il tentativo di delineare i perimetri delle due sfere, reso difficoltoso dalla diffusa presenza di elementi sociali e culturali “urbani” nelle campagne italiane, ha avuto come conseguenza quella di reintrodurre nel dibattito contemporaneo l’analisi formale dello spazio come lo strumento primario atto a distinguere i paesaggi urbani e rurali. Questo cambiamento di prospettiva segna uno scarto rilevante rispetto alla concezione funzionalista di paesaggio, secondo la quale il paesaggio percepito dallo sguardo del ricercatore, non portando in sé una sintesi vera e piena della società ospitante, doveva essere indagato precipuamente nei suoi aspetti non visibili, ossia quelli non configurabili topograficamente. Di qui l’attenzione posta dalla New Geography al campo dei valori economici che si ridimensionano e mutano in continuità, ai fattori che implicano la socialità, ai miti religiosi ecc. (Gambi 1956; Gambi 1961; Juillard 1962, pp. 483-99). La ricostruzione geostorica del paesaggio agrario emiliano del xix secolo, tuttavia appariva al tempo di Verdi scevra dalle problematiche di delimitazione dello spazio rurale, il quale si presentava agli occhi del geografo come uno spazio in parte conchiuso e ben distinguibile. Indirizzando lo sguardo ad un tempo in cui le aree rurali costituivano un mondo separato dalla vita cittadina, pertanto, ci si trova nella condizione di non dover affrontare il problema di delimitare il campo di indagine e si avrà pertanto la possibilità di soffermarsi già in prima istanza sia sugli aspetti fisici del territorio studiato, sia su quelli antropici, nel tentativo di restituire un’immagine quanto più complessa e coerente delle zone


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agricole attraversante longitudinalmente dal fiume Ongina. Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce il 10 Ottobre 1813 alle Roncole1, piccola frazione di Busseto, nel dipartimento del Taro, allora parte dell’Impero napoleonico, la quale due anni dopo, con la caduta di Napoleone, sarebbe appartenuta al restaurato Ducato di Parma Piacenza e Guastalla. Esso si configurava come uno stato autonomo, fondato nel 1545 e definitamente scomparso nel 18592, che rappresentava la regione amministrativa entro la quale si localizzavano alcuni dei luoghi maggiormente significativi di Verdi e dei suoi antenati. A segnare il limite settentrionale del territorio ducale era il fiume Po, oltre al quale si estendevano le pianure del Lombardo-Veneto, mentre la catena appenninica ne tracciava i confini occidentali e meridionali, separandolo dalle terre del Regno di Sardegna3 e da quelle del Ducato di Modena. Verso est, invece, il paesaggio agrario parmense non incontrava imponenti barriere naturali e trovava ampio spazio per svilupparsi senza soluzione di continuità nei territori pianeggianti del Ducato di Modena e Reggio. Alla destra del Po, che dominava la rete idrografica della pianura, la campagna godeva degli effetti dei suoi numerosi affluenti, i quali ripartivano la regione nelle diversi valli che tuttora corrono dall’arco appenninico all’alveo del fiume. Tra essi i principali sono il Tidone, il Trebbia, il Nure, l’Arda (oggi facenti parte della provincia piacentina), lo Stirone, il Taro, il Parma, il Baganza e l’Enza (che oggi solcano il territorio parmense). La Lunigiana Parmense, invece, era attraversata dal Magra, un fiume che attualmente scorre per 70 Km in Toscana e in Liguria e bagna le province di La Spezia e di Massa-Carrara. La morfologia del territorio, pianeggiante per ampi tratti, favorì, inoltre, l’istituzione di una ben organizzata rete di comunicazioni, nella quale il ruolo preminente era occupato dalla via Emilia, la strada che tagliava i territori del Ducato da n-o a s-e e metteva in contatto i più popolosi centri urbani della zona (Castelsangiovanni, Piacenza, Fiorenzuola, Borgo San Donnino e Parma), per poi raggiungere e attraversare le terre degli altri Stati emiliani. Subordinata a essa si articolava la trama delle direttrici secondarie, sovente dipanantisi dalle città di Parma e di Piacenza, alcune delle quali funzionali ai collegamenti interni fra i centri del Ducato, altre finalizzate al collegamento della rete urbana ducale con centri degli stati confinanti. La strada che congiungeva Parma a Pontremoli e quella tra Parma e Colorno, per esempio, risultavano afferenti al primo gruppo, mentre nella seconda tipologia si ricordano la strada che univa Parma a Brescello,


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centro dello Stato Estense, le strade per Cremona, provenienti sia da Parma (passante per San Secondo) sia da Piacenza (Strada Caorsana) e, infine, la strada che conduceva da Piacenza al Po diretta verso Milano. Per quanto riguarda l’economia della regione, le caratteristiche territoriali e sociali dell’area facevano sì che fosse l’agricoltura ad assorbire la grande maggioranza di manodopera. Ad essa, tuttavia, si affiancavano le attività commerciali e manifatturiere, tra le quali si segnalavano i filatoi, le cartiere e le fabbriche per la concia di cuoi, diffuse nel parmigiano, nel piacentino e nel pontremolese; le saline di Salsomaggiore; le distillerie – come, per esempio, la fabbrica di rosolio a Pontremoli – le manifatture tessili, di vetrame, di cera, di stoviglie di tetra; le manifatture meccaniche – tra le quali si distingueva lo stabilimento Fioruzzi di Piacenza – le tipografie (ad esempio la tipografia Bodoniana di Parma). Inoltre una parte della popolazione era impiegata nella milizia a presidio dei fortilizi dello Stato, localizzati nella cittadella di Parma (dichiarata Piazza di guerra) e nelle fortificazioni di Piacenza, di Pontremoli, di Bardi, di Compiano e di Berceto. A ciò si aggiungeva il rafforzamento dell’apparato bellico su alcune zone del territorio italiano, voluto dal protettorato austriaco all’epoca della Restaurazione, che, sebbene non prevedesse, salvo rari casi, il reclutamento dei giovani parmigiani, rappresentò un ulteriore fattore di trasformazione del territorio ducale4. Se, infatti, i decreti napoleonici del 1805 e del 1810 avevano soppresso i conventi degli ex ducati, destinandone i beni al Demanio Nazionale, Maria Luigia d’Austria concesse una parte di essi all’amministrazione austriaca, la quale li adibì a caserme, scuderie e magazzini, in cui trovassero spazio le guarnigioni imperiali (Ferrari 2010). Tuttavia, nemmeno in seguito alla proclamazione dell’unità nazionale (1861), quando ci si sarebbe dovuti attendere uno spostamento dei confini strategici del paese, il presidio militare sugli ex territori del Ducato si attenuò. Al contrario «l’esercito nazionale mantenne le sedi precedenti e ne richiese di nuove, trovando la massima disponibilità da parte delle prime amministrazioni postunitarie» (Spigaroli, 1980, p. 591). La dismissione delle strutture militari sarebbe iniziata soltanto agli scoppi della prima guerra mondiale – quando l’impianto di fortificazioni che lo Stato maggiore piemontese aveva predisposto e attrezzato a Piacenza avrebbero dimostrato la propria inefficacia – per continuare successivamente fino ai giorni nostri. Da un punto di vista amministrativo il Ducato, in seguito alle misure stabilite dal Trattato di Fontainebleau dell’11 aprile 1814 e confermate durante il Con-


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gresso di Vienna, venne restaurato sotto la protezione dell’Austria e, in seguito all’abdicazione di Napoleone, affidato a sua moglie, Maria Luigia d’Austria, figlia dell’imperatore Francesco i. Nel 1847, anno di morte della duchessa, il Ducato venne poi riassegnato alla linea parmense dei Borboni, tre anni dopo l’accordo segreto siglato tra Carlo ii e i Borbone e il Duca di Modena, con il quale si sanciva la cessione a quest’ultimo del territorio di Guastalla, in cambio del circondario di Pontremoli e di una forte somma in denaro, utile per ripianare i debiti contratti dal tenore di vita dispendioso del futuro duca di Parma (Molinari, Forlini, Arisi, 1980). Da quel momento la denominazione del territorio muterà da Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla in Ducato di Parma, Piacenza (e Stati annessi), riadottando l’antica denominazione e assumendo la sua ultima fisionomia prima del sopraggiungimento dell’era unitaria e della sua conseguente e definitiva sparizione. In questa fase, compresa tra il 1844 e il 1859, la superficie del Ducato era pari a circa 6.200 kmq5 e ospitava una popolazione di poco superiore a 500.000 abitanti, con una densità media di 80 ab./Kmq. Ne facevano parte il Ducato di Parma, il Ducato di Piacenza, l’antico Stato Pallavicino (facente capo a Busseto), il Principato di Landi (primeggiato da Borgotaro), la Contea di Pontremoli, i Marchesati di Mulazzo, di Bagnone e di Villafranca, oltre ad alcuni borghi della Lunigiana. L’amministrazione dei territori era organizzata in un sistema comunale a cui facevano capo cinque stati (o ducati): gli Stati di Parma e di Piacenza, che erano retti da due Governatori, e quelli di Borgo San Donnino, di Valditaro e della Lunigiana Parmense, sui quali un Prefetto esercitava i compiti di sovrintendenza. Ad una più piccola scala operavano, pertanto, le 105 amministrazioni comunali, ciascuna delle quali veniva rappresentata da un relativo Consiglio di Anziani e amministrata da un Podestà. Con l’annessione al Regno di Sardegna il sistema amministrativo della regione cambiò notevolmente. Nel 1859, infatti, in previsione della suddetta annessione, vennero istituite, con decreto dittatoriale di Carlo Farini, le province di Parma e di Piacenza. Le due città divennero pertanto città-capoluogo e, in quanto tali, uniche sedi di sottoprefettura, di tribunale, di catasto e degli uffici finanziari per tutto il territorio dei circondari afferenti a esse. La provincia di Parma venne suddivisa nei circondari di Parma, di Borgo San Donnino (oggi Fidenza) e di Borgo Taro (oggi Borgo Val di Taro), mentre la pro-


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vincia di Piacenza fu ripartita nei circondari di Piacenza e di Fiorenzuola d’Arda. Il circondario di Pontremoli, invece, confluì nella provincia di Massa-Carrara, mentre quello di Guastalla entrò a far parte della provincia di Reggio nell’Emilia. Una seconda ripartizione territoriale, solo in parte collimante con quella predisposta dagli organi politico-amministrativi pre- e post-risorgimentali, ma non meno incisiva sul tessuto sociale della società agricola ottocentesca, era costituita dalle aree delle quattro diocesi vescovili presenti sul territorio: la diocesi di Parma, quella di Piacenza, quella di Borgo San Donnino (oggi di Fidenza) e quella di Pontremoli (dal 1988, anno in cui è avvenuta la plena unione fra le due circoscrizioni vescovili, diocesi di Massa Carrara-Pontremoli). Per quanto concerne il sistema scolastico del Ducato, in seguito all’operazione di riordino effettuata nel 1854 dalla reggente Luisa Maria di Borbone, esso comprendeva istituti dislocati su tutto il territorio, tra i quali si segnalavano l’Università di Parma – organizzata nelle facoltà di teologia, di legge, di medicina, di fisica e matematica e di filosofia e letteratura – le Scuole Superiori e Facoltative di Piacenza e le Scuole Inferiori o comunitative distribuite massicciamente sull’intera superficie del Ducato (se ne contavano, infatti, otto a Parma, cinque a Piacenza e una per ciascun comune). L’istruzione pubblica delle ragazze era, invece, nella maggioranza dei casi affidata a istituti religiosi o a insegnanti privati. Dopo aver delineato, seppur succintamente, le caratteristiche fisico-antropiche dell’intero territorio costituito dalle province di Parma e Piacenza, così come esso appariva nel xix secolo, le pagine che seguono mirano a restringere vieppiù il campo di indagine, dedicandosi in maniera esclusiva allo spazio rurale dell’area emiliana nordoccidentale e, più segnatamente, alle terre in cui Verdi aveva possedimenti, nei quali trascorse e ai quali dedicò ampia parte della sua esistenza. Questa operazione tenterà di rispondere al tentativo di individuare i caratteri principali della campagna piacentina e parmense sia dal punto di vista estetico sia da quello funzionale.



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