Il maestro utopico. Scritti in onore di Pietro Maria Toesca

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In copertina Giovanni Bellini, Crocifisso, 1475-1480 (particolare) olio su tavola, 57x45, Collezione Palazzo Corsini, Firenze

Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-636-3

Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it info@diabasis.it


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Il maestro utopico Scritti in onore e in memoria di Pietro Maria Toesca A cura di Romano Romani

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Il maestro utopico Scritti in onore e in memoria di Pietro Maria Toesca A cura di Romano Romani

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Prefazione NELLA POLIS

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Speranza e utopia, Angela Ales Bello

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Il tempo della città, Alessandro Bosi

41

Dalla città all’Europa, dalla periferia al centro, Francesca Brezzi

65

Scienza, tecnica e meditazione, Pietro De Vitiis

81

Il pudore nell’evento tra narrazione ed ermeneutica, Lorenzo Barani

107

L’utopia pedagogica. Diversità di genere e educazione nella Repubblica, Margarete Durst

143

Chi usa chi?, Franco Insalaco

161

Il realismo utopico di Pietro Maria Toesca, Lido Chiusano

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Pietro Maria Toesca e i sociologi della città, Ferruccio Andolfi NEL CAMMINO

199

La filosofia e l’umorismo: un’utopia costruttiva di Harald Høffding, Alberto Siclari

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Arte e moda nella riflessione critica di Adorno, Giuseppe Di Giacomo

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Qewrhtikav libro sesto, frammento, Romano Romani


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Linguaggio e veritĂ nella svolta linguistica del Novecento, Giorgio Derossi

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Il tribunale degli amici, Giuseppe Ferraro

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Sull’ermeneutica religiosa di Simone Weil, Giancarlo Gaeta NELLA PRESENZA

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Uno scambio di lettere e un ricordo di liceo, Adriano Sofri

335

Un dialogo, Anna Marina Storoni Piazza

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Il maestro utopico, Pietro Maria Toesca

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Pietro Maria Toesca: breve cenno biografico

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Gli autori di questo volume


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Prefazione

Nonostante l’accento che si è soliti porre sulla diversa concezione del bene in Aristotele e Platone sulla scorta di un confronto tra Repubblica ed Ethica nicomachea, ritengo l’Ethica a Nicomaco l’opera di Aristotele più armoniosamente platonica. Non perché ricalchi la cosiddetta dottrina etica e politica di Platone, ma in quanto è il prodotto di un dialogo critico con l’opera platonica nel suo complesso. Ebbene, quando penso a Pietro Maria Toesca, penso anche all’Ethica nicomachea: per più ragioni. Toesca, come Aristotele – e Platone – faceva derivare la politica – il far politica – dalla teoresi e non subordinava la teoresi alla politica. Egli inoltre, come teorizza Aristotele nell’Ethica a Nicomaco, concepiva l’arte e la scienza del governo, come l’arte e la scienza di rendere felici gli uomini. E la felicità più grande che un essere umano può raggiungere, sta nell’elevare la propria esistenza fino al livello della teoresi. Sono felici gli uomini che pensano e agiscono nella divina luce del pensiero. L’Altrove, l’Utopia di Pietro Maria Toesca era ed è questa luce. In questa luce è cresciuta e si è consumata la sua esistenza.


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aijei; paptaivnousa pro;" aujga;" hjelivoio ... che sempre guarda rapita lo splendore del sole. Parmenide, DK. b 15


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NELLA POLIS


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Il tempo della città Alessandro Bosi

1. Come onda di mare Negli anni di Parma, Pietro Maria Toesca non ci parlava di città, l’argomento che avrebbe messo al centro dei suoi studi dopo essersi trasferito a San Gimignano. Altri erano i suoi temi in quel periodo. Dovessi sceglierne tre senza esitare, come si fa a volte per gioco, direi: uomo, utopia e filosofia. Direi uomo come La filosofia dell’homo faber (1967); utopia come Aporie della filosofia contemporanea (1970); filosofia come Pascal, l’uomo ritrovato o della ricerca (1971) e lo direi in modo arbitrario per come ricordo Toesca alle sue lezioni che spesso prolungava, ben oltre l’orario stabilito, in appassionati dibattiti o nei seminari con i suoi assistenti e colleghi delle facoltà scientifiche, ai quali invitava noi studenti, sulla questione dell’epistemologia in un periodo dominato dal problema delle due culture; per come lo ricordo quando decise, nel clima di generale fervore per la piccola editoria, di fondare a Parma i Nuovi Quaderni e di lasciare lo Studium Parmense, l’editrice universitaria che aveva ideato e diretto dalla fine degli anni Sessanta e infine, naturalmente, per come lo ricordo attraverso i suoi libri, che in questi anni, sbirciandomi dai diversi scaffali nei quali li ho di volta in volta collocati, hanno continuato a parlarmi dentro. Non ricordo invece il tema della città in quegli anni, ma era come se Toesca non ci avesse parlato d’altro, come se fosse questo il centro gravitazionale del suo discorso dal quale emergeva l’urgenza del presente, lo stilema stesso della città che percepiamo e viviamo come il crogiolo di genti e costumi in cui sono raccolti e mescolati insieme memorie e sensazioni del passato con ansie e speranze del futuro. L’homo faber abitava questo fecondo laboratorio nel quale l’umanità si mette ogni giorno alla prova della propria storia, di quella trascorsa e di quella da venire, nel vertiginoso spazio senza estensione che è il presente. Era questo ossimoro la dimensione di una filosofia costruita sulle aporie della contemporaneità perché Toesca non era solito sistemare il passato nel suo tempo con rigore filologico e non contemplava il futuro facendolo


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ruotare intorno a una qualche previsione uscita dal calcolo dei possibili esiti che il domani ci riserva: la sua utopia è stata, così ho creduto d’intenderla, il luogo di un presente al quale non ci possiamo sottrarre mentre la concretezza stessa delle cose che sperimentiamo vivendo è quella di un passato e di un futuro che di continuo premono sulle pareti delle nostre giornate facendole vibrare. Non ho mai pensato che fosse altrove l’utopia di Toesca dal qui e ora, dal luogo puntiforme, per questo appunto senza estensione, di un indifferibile presente nel quale vivere tutto quanto il tempo della nostra storia, quella individuale e quella dei nostri cari ma anche di quanti ci sono odiosi, dell’umanità tutta insomma. E questo tempo dell’utopia, questo tempo del non luogo è, tout court, il senso della vicenda umana che si deposita nella città come nel suo alveo naturale dove il presente subisce e reagisce di continuo agli impulsi contrastanti del passato e del futuro. Sicché il presente, esso perfino, non è affatto il trascorre del mondo a fronte di un passato che, immobile, archivia e di un futuro che, ugualmente stabile, mantiene inalterata la distanza da noi allontanandosi, come linea d’orizzonte, a misura che lo incalziamo. Il presente non è il moto dei giorni che si succedono gli uni agli altri tra giganti di pietra, lo zampettare frenetico di piccoli uomini nella quotidianità che alimentano un disegno teleologico al quale sono estranei. Né il presente, come molti sembrano credere, è il vento delle cose nel quale disporsi compiacenti o da contrastare riottosi. È piuttosto onda di mare, impulso di movimento. È lo stare in bilico del sasso scagliato nel cielo e finalmente in sosta sul crinale che divide il tempo della salita da quello della discesa, della libellula che dissimula col fremito delle ali quanto sia tetragona sul fiorire delle ninfee, del ciclista in surplace sulla sommità della curva nel velodromo mentre attende che la sagoma del rivale gli sfili davanti per sfruttarne la scia e azzannarlo sul traguardo. Il presente è un esercito che segna il passo e contiene a stento l’energia della storia e del mondo. Questo tempo inesteso e vibrante, questo irriducibile avamposto della storia che di continuo si espone sull’abisso del nulla è, in ogni istante, solo con sé stesso, isola della storia. Il presente è influenzato bensì dal passato e dal futuro, per i quali vibra, di continuo li subisce e reagisce alla loro presenza; ma non vive per misurarli e calcolarli, come vorrebbe lo spirito scapigliato dell’illuminismo e la prudente dottrina del positivismo, così da assumerne l’eredità e lasciarne una migliore. Vive per sé stesso il presente, e la sua etica della responsabilità è quello stesso qui e ora che ne costituisce la natura. Il presente non si mette in gioco, in ogni mo-


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Pietro Maria Toesca e i sociologi della città La città circolare, la comunità di Toennies e la metropoli di Simmel Ferruccio Andolfi

La città costituisce uno dei temi costanti della riflessione di Pietro Toesca. Se si scorrono gli indici della rivista che ha a lungo diretto – «Eupolis» – balza agli occhi l’insistenza di questo suo interesse, a cui il Manuale per fondare una città (1994) ha dato solo una forma più sistematica. Se nell’ultima fase della sua vita egli ha intrecciato un dialogo fecondo anche con urbanisti ed ecologisti, le fonti costanti e remote delle sue posizioni sono piuttosto di altro genere: da un lato l’esperienza diretta dell’abitare e del trasmigrare da una città all’altra e poi le grandi costruzioni utopiche, dalla Repubblica di Platone alla Città di Dio di Sant’Agostino. La città costituisce ai suoi occhi il luogo in cui abitare appagando i propri fondamentali bisogni di realizzazione e di vita comunitaria. Per intendere a pieno il significato del contributo teorico che Toesca ha offerto su questo terreno – e convalidato con gesti e scelte impegnative per la vita sua e dei suoi familiari – mi richiamerò a certe riflessioni classiche sulla città e la metropoli, che risalgono all’epoca della fondazione della sociologia, tra Otto e Novecento, cioè al periodo in cui gli spiriti più riflessivi cominciarono a lamentare la perdita della capacità delle città di rappresentare le esigenze comunitarie dei propri abitanti o, sull’altro versante, a tessere le lodi, pur venate da dubbi, delle virtù liberatrici delle grandi metropoli. Credo che pur risalendo a un’epoca molto anteriore a quella in cui si è svolta la vita di Toesca questi testi classici – penso in particolare a Comunità e società di Ferdinand Toennies (1887) e a La metropoli e la vita dello spirito di Georg Simmel (1903) – offrano l’esempio di atteggiamenti paradigmatici verso l’avvento della città moderna e argomenti che possiamo ritrovare, ripresi o contestati, nelle teorie del personaggio che commemoriamo. Naturalmente sarà bene tener conto del diverso intendimento dei due sociologi, che pur lasciando trapelare proprie preferenze usano un approccio descrittivo, e di un filosofo che intende proporre un progetto politico di «fondazione» della città. Degli accostamenti sono responsabile io, in quanto, per quanto mi risulta, Toesca non si è misurato direttamente con quelle prospettive sociologiche.


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1. Nel ricostruire il passaggio che si è compiuto nell’epoca moderna dalla «comunità» (Gemeinschaft) alla «società» (Gesellschaft) Ferdinand Toennies, uno dei padri fondatori della sociologia, indica l’origine di queste due forme associative in particolari modi di porsi delle volontà degli individui che interagiscono. La forma più antica è opera della volontà che Toennies definisce «essenziale» (Wesenwille), un «equivalente psicologico del corpo umano», in opposizione alla «volontà arbitraria» (Kurwille), che domina la più recente «società»1. Diverso è nei due casi il rapporto tra volontà e pensiero: nella comunità è la volontà a contenere in sé il pensiero, mentre nella società la volontà è contenuta nel pensiero che la orienta verso fini. La volontà essenziale è fondata sul passato, quella arbitraria si comprende invece a partire dal futuro (129 s.). In quest’ultima il pensiero dello scopo domina tutti gli altri pensieri, e in rapporto allo scopo fissato l’io acquista un’esistenza durevole. Lo scopo supremo è identificato con la «felicità», intesa come «un oggetto esterno del quale ci si può impadronire usando le proprie forze». L’aspirazione alla potenza e al denaro appaiono collegati al perseguimento di questo fine (155-159). Dal punto di vista della volontà essenziale il pensiero egoistico e calcolatore, in cui culmina il principio di individuazione, si presenta come assolutamente ostile e cattivo, benché, a dire il vero, l’uomo astratto e artificiale sia piuttosto indifferente verso il bene e il male degli altri e conosca soltanto alleati e avversari nei confronti dei fini da lui perseguiti (161 s.). Nel rapporto con la natura il singolo soggetto (della volontà arbitraria) assume un atteggiamento di dominio cercando di ottenere da essa più di quanto ha dato: ma si trova di fronte soggetti simili che competono con lui nell’intento di avvantaggiarsi del suo danno. È qui adombrata la figura dello scambio e della concorrenza quale si dà nella società capitalistica. A questa figura competitiva dello scambio viene opposta quella forma più fondamentale che si attua originariamente nella vita comunitaria tra le membra di un tutto organico: «Il loro scambio non è che una conseguenza e una manifestazione delle loro funzioni, e quindi del loro modo di esistere come modificazioni organiche, cioè come espressioni della naturale unità e comunanza» (175). Se i concetti «normali» di volontà essenziale e arbitraria si escludono, empiricamente, nel carattere delle singole persone, può riconoscersi una combinazione dei due elementi: dove prevalgono le forme della volontà essenziale il temperamento appare «fluente, morbido e caldo», mentre quando esso è


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La filosofia e l’umorismo: un’utopia costruttiva di Harald Høffding Alberto Siclari

Per lo storico della filosofia e filosofo militante Harald Høffding, che gli ha dedicato uno scritto specifico e spesso è tornato sull’argomento anche in altri lavori, nella sua forma compiuta l’umorismo non è un atteggiamento occasionale, e tanto meno una semplice battuta di spirito, ma una visione della vita (livsanskuelse), una disposizione esistenziale. È dunque come un occhio che vede piuttosto che ciò che esso vede, un modo di guardare e di rapportarsi alla vita e non una sua immagine, sebbene il volto con cui questa si presenta abbia un peso tutt’altro che trascurabile nella sua formazione1. Le disposizioni esistenziali sorgono, in effetti, dalla combinazione di elementi eterogenei – conoscenze, giudizi, sentimenti, emozioni – che interagiscono sotto lo stimolo di fattori, anche temperamentali, contingenti e personali. Sono quindi diverse e mutevoli non soltanto nei diversi individui, ma nei diversi momenti dell’esistenza di uno stesso individuo2. Nonostante ciò, è possibile rintracciare in esse delle costanti, relative all’indirizzo del pensiero, ai sentimenti e alle tendenze dominanti, che permettono di caratterizzare con sufficiente precisione alcune loro forme fondamentali. Høffding, che ha affrontato ex professo il problema in uno dei suoi ultimi lavori di ampio respiro, Teoria della conoscenza e concezione della vita, ha incluso fra queste anche la disposizione umoristica, nella quale ha indicato il proprio «sentimento globale della vita»3. 1. Caratteri della disposizione umoristica Ispirandosi a Solger, dell’umorismo Høffding tratta già nella sua Psicologia, data alle stampe nel 1882, definendolo «una visione della vita che vede bene quanto di limitato, di doloroso, d’insignificante e di disarmonico vi è nel mondo, e lo pone in netto contrasto con quanto vi è di grande e ricco di significato, ma che ha superato ogni amarezza grazie alla sua profonda simpatia per tutto ciò che vive e alla sua ferma fede nelle potenze che regnano nella natura e nella storia». In sostanza, all’epoca Høffding vede nell’umorismo una manifestazione di apprezzamento e fiducia nella vita e, assieme, di


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consapevole accettazione della sua finitudine costitutiva e delle irriducibili contraddizioni che le appartengono. Le sue considerazioni si concludono, infatti, con queste parole: «La visione umoristica della vita si è conciliata con l’esperienza che anche ciò che è grande ed elevato ha i suoi limiti, i suoi lati finiti, e il suo sorridere di ciò che è dappoco e finito non dimentica che esso può essere forma di un contenuto prezioso»4. Questo si legge nella Psicologia. L’espressione sintetica più matura e compiuta della propria concezione dell’umorismo è stata però fornita da Høffding quasi trent’anni dopo, ne Il pensiero umano (e appunto per questo verrà ripresa alla lettera nel successivo Grande umorismo). Essa viene proposta, con lo scopo evidente di mettere in luce la superiore criticità e comprensività dell’umorismo, subito dopo le considerazioni sulla tendenza di un’altra fondamentale disposizione esistenziale, quella religiosa, a non riconoscere, per purificata che essa sia, il valore soltanto poetico dei propri simboli. È una contrapposizione, va precisato, soltanto relativa, perché in entrambe queste visioni gioca un ruolo vitale la fede nel permanere del mondo dei valori, ma è una contrapposizione. «Vi è, al contrario […], scrive Høffding, un punto di vista dal quale, in mezzo alla mescolanza di tragico e di comico, di vittorie e di sconfitte che la vita presenta, si conquista un sentimento fondamentale (grundstemning) che ha, assieme, un carattere di gravità (alvor) – a causa di quanto di grande si è vissuto e del dolore che questo sovente è costato – e d’ironia nei confronti di tutti gli sforzi fatti per esprimere con immagini ciò che, nella sua pienezza e con i suoi contrasti, infrange tutte le forme in cui si cerca di fissarlo. La concezione della vita o il sentimento della vita che così sorge ha la salda convinzione che vi è, nell’esistenza, per ciò che riguarda i valori come per tutti gli altri aspetti o elementi, una grande unità, e può perciò contemplare le vicende della vita facendosene beffe, perché esse sono impotenti nei confronti di questa convinzione, e così ugualmente gli sforzi di dire l’indicibile. Questo farsi beffe ha tuttavia il carattere della melanconia (vemod), perché di continuo si sente quanto è contraddittorio che la grandezza sia tanto spesso associata alla meschinità, e che non si riesca a trovare la parola conclusiva (et afsluttende ord) sull’essenza della vita e le sue contraddizioni. Dietro l’ironia e la melanconia vi è una grande rassegnazione, talvolta più prammatica, talvolta più contemplativa, talvolta amara, talvolta animosa»5. Tale concezione della vita, ricorda ancora Høffding, è appunto quella che


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Kierkegaard chiama umorismo e indica come lo stadio esistenziale più elevato nell’ordine puramente umano, inferiore soltanto alla religiosità, in particolare alla religiosità cristiana. Se però, continua, il criterio di individuazione del rango dei diversi stadi dell’esistenza si basa «sulla pienezza delle esperienze della vita, specialmente sulle esperienze dei contrasti della vita che una su concezione è in grado di abbracciare, nulla impedisce che questa concezione della vita sia la più elevata». Essa suppone, più di quanto non avvenga nella visione religiosa, «la probità intellettuale (den intellektuelle redelighed), il rispetto per la ricerca obiettiva disinteressata e per la conoscenza della realtà, coltivate secondo le proprie personali capacità». E qui Høffding prende decisamente le distanze da Kierkegaard, e dopo aver deplorato il suo sostanziale disinteresse nei confronti della comprensione obiettiva della realtà conclude: «Appunto per questo il contenuto di tale concezione della vita è più diversificato, i suoi problemi sono più reali e determinati in un modo più preciso, ed essa s’appoggia più saldamente sull’esperienza. Essa abbraccia elementi che Kierkegaard, deliberatamente e passionalmente, non ha voluto vedere. Non colloca le esperienze del chiostro al di sopra delle esperienze che possono essere fatte nel cuore della vita degli uomini, e tuttavia comprende il rispetto per il movimento monastico del Medioevo che Kierkegaard esigeva. Presenta ovviamente in coloro che l’hanno adottata molti gradi e molte sfumature. Suppone la riflessione e la critica, mentre suppone anche un’esperienza vissuta e una profonda simpatia»6. In sostanza, nel grande umorismo Høffding ha creduto di veder realizzata quella sintesi fra l’esigenza religiosa e il rispetto dei valori umano-mondani, anzitutto la tensione all’obiettività, che agli inizi della sua attività di studioso gli era parsa impossibile, portandolo, come leggiamo nelle sue Memorie, sull’orlo della disperazione. Una sintesi che si può raggiungere, s’intende, soltanto attraverso una serie di dolorose rinunce e l’abbandono di ogni forma di dogmatismo, teologico, scientifico o del senso comune7. Essa riposa infatti sull’accettazione della caducità di ogni forma, necessariamente finita, in cui la realtà e i suoi valori si propongono all’uomo, e sulla riconosciuta incompletezza di ogni conoscenza (e presumibilmente, come Høffding osserva in più occasioni, della realtà stessa). Proprio su quell’elemento, quindi, che assieme al riconoscimento delle insuperabili contraddizioni dell’esistenza sta all’origine della tonalità melanconica sempre presente nell’umorismo. Va peraltro sottolineato che tale incompletezza era ritenuta da Høffding


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anche altamente positiva, in quanto gli sembrava garantisse la tensione vitale dell’esistere8. Il suo scritto del 1925 già menzionato, Teoria della conoscenza e concezione della vita, si conclude, significativamente, con queste parole: «La ricchezza della natura e della vita certamente procurerà che ci siano sempre nuovo lavoro da compiere per il pensiero, nuove lotte da sostenere, nuovi inni alla vita da cantare»9. L’ambivalenza dell’incompletezza della conoscenza è d’altronde del tutto coerente con la disposizione umoristica, che richiede appunto la capacità di riconoscere e accettare assieme, con onestà e coraggio, il valore e il limite di ogni aspetto della realtà. 2. La filosofia e l’umorismo in Høffding Anche alla luce di queste considerazioni si comprende facilmente come Høffding abbia riconosciuto alla filosofia una funzione fondamentale per la vita sua e dell’uomo in genere. Funzione che ha delineato sinteticamente, nell’autobiografia intellettuale edita nel 1923, in questi termini: «Che cosa è stata la filosofia per me? Dopo i dubbi e le incertezze che mi hanno tormentato nei miei anni di gioventù, mi è divenuto chiaro dove stanno i grandi compiti per il pensiero e per l’azione, e come si deve lavorare per la loro soluzione (sia essa possibile o meno). Nel lavoro intellettuale ho trovato così il miglior aiuto contro la tristezza e la melanconia. Come Spinoza, ho sperimentato che difficoltà e afflizioni si dissolvevano non appena potevo sprofondarmi nella riflessione (modo possem penitus deliberare). Ma la filosofia non è stata per me soltanto un rimedio personale. Ho anche acquistato rispetto per il mondo del pensiero, in quanto esso ci rivela e ci addita i grandi compiti della nostra ricerca anche in mezzo all’inquietudine dei tempi e al contrasto delle passioni. Io credo più all’ideale che alle idee. Se poi non possiamo mai uscire da un’incessante ricerca, la spiegazione sta forse nel fatto che l’esistenza stessa è incompleta. Questo è in ogni caso vero per l’esistenza che si manifesta nella vita e nel pensiero dell’uomo»10. Andando oltre tali affermazioni, possiamo chiederci sino a che punto la filosofia si sia in lui effettivamente e felicemente incontrata con le esperienze della vita, dissolvendone «difficoltà e afflizioni», e quanto abbia contribuito a caratterizzare la sua disposizione umoristica. Nella ricordata autobiografia intellettuale Høffding rinvia a due suoi scritti, al saggio Prefazione e postilla alla mia filosofia della religione e al già citato Il grande umorismo, dove ha cercato di chiarire la sua posizione rispetto al problema religioso, ossia al problema del senso ultimo dell’esistenza, come filosofo e come uomo, precisando che il fi-


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Un ricordo di liceo e uno scambio di lettere Adriano Sofri

I Sono ospitato in queste pagine, grazie alla sollecitudine del curatore, solo per ragioni d’affetto. Non ho alcun titolo per intervenire sull’eredità teorica e civile di Pietro M. Toesca. Non l’ho conosciuto abbastanza lui vivo, e non ho ancora riparato poi. Sulla sua eredità umana sì: faccio affidamento su un ricordo di scuola. Lo ebbi come insegnante di filosofia al romano liceo classico Virgilio, per i primi due anni. Dunque da quando ero quindicenne. Ho ricostruito quanti anni aveva lui, e mi ha fatto impressione: trenta. Oggi, di un trentenne si direbbe che è un ragazzo. Allora, quel nuovo professore, pieno di capelli e barba − più da musicista ottocentesco che da capellone ante litteram − e un po’ zoppicante (qualcuno troverà una somiglianza fisica fra lui e Goffredo Fofi) sembrava agli adolescenti che eravamo un uomo assai maturo. Fu un incontro importante. Era l’iniziazione alla filosofia, così come al greco – le due materie tendevano, nella nostra immaginazione entusiasta, a coincidere. Di Toesca avevo già sentito parlare da mio fratello Gianni, che era allora normalista e impegnato nella Fuci, l’organizzazione universitaria degli studenti cattolici, e in quell’ambito aveva conosciuto e simpatizzato con quel teologo originale. Così, nella modesta biblioteca di casa mia erano entrati tempestivamente, con dedica, due volumi di Toesca, smilzi ma densi molto, le Riflessioni sul male e sulla storia, che era del 1956, e Teoresi per l’uomo, che uscì nel 1958, nel mio secondo anno liceale. (Un collega, di malignità settecentista, coniò la sua brava battuta sul titolo Teoresi per l’uomo: “e cosmesi per la donna”). Il secondo ha una prefazione di Carlo Mazzantini. Oggi, leggo con straordinario interesse il ricordo, qui ristampato, che Toesca, a sua volta discepolo, scrisse del suo maestro, un po’ modellandolo a propria somiglianza. E permettendomi di misurare uno dei passaggi essenziali che Toesca compì, fra gli anni in cui fui suo allievo, e, dopo il 1960, la rivelazione di un marxismo anch’esso modellato a somiglianza di Socrate e Cristo, di Marco Aurelio e di Cartesio e Pascal. Come sanno gli ex allievi del classico, che continuo a ritenere fortunati (va


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Adriano Sofri

da sé che in un’altra vita provvederei diversamente al mio incivilimento scientifico) l’incontro con la filosofia, con la materia, se non con la cosa, ha nel corso scolastico un valore speciale. È un vero passaggio. Sia pure per l’alchimia di certi programmi pedagogici e burocratici, è il riconoscimento che siete grandi e responsabili abbastanza per avere a che fare con il modo di pensare e di prendere il mondo. La prima lezione di filosofia è l’equivalente civile del servizio militare, e il suo principale concorrente. Non fingerò di ricordare il contenuto della prima lezione di Toesca. Ne ricordo il tono, affabile, colloquiale, frequente di domande e, diciamo pure, maieutico, così da confermarci nell’impressione che la filosofia e il suo rappresentante significassero un’investitura sulla nostra intelligenza e sulla nostra responsabilità. E ne ricordo l’evocazione, non cronologica, di termini come l’essere e il divenire, e di pensieri loro riferiti, l’acqua in cui non ci si bagna due volte e il sole che è nuovo ogni giorno e la tartaruga e Achille. Mi ricordo essenzialmente di un certo interdetto, perché quei pensieri stuzzicavano l’ingegno, e però avevano anche un’aria di gioco infantile, mentre ci si aspettava qualcosa che andasse drammaticamente al punto, cioè alle questioni di vita e di morte. Il mio rapporto con Toesca, che si fece da subito molto amichevole, fu attraversato da questo sentimento contrastante: di gusto per il gioco intellettuale, e di sospetto di futilità. Lui si guadagnava tuttavia il prestigio di chi sa estrarre anche dalle acutezze e dai paradossi dell’intelligenza la drammaticità delle questioni di vita e di morte. La «riflessione concreta che un tempo si chiamava filosofia» era già allora il suo punto. Ho interpellato una mia compagna di scuola di allora, Maria Pellegrini, che è diventata una provetta latinista (e molte altre cose più importanti), alla cui magistrale memoria ricorro ogni volta che la mia vacilla. Lei è capace di chiudere gli occhi e recitare come eravamo sistemati nei banchi. Maria ricorda la fiducia che Toesca dava ai ragazzi, a fondo perduto. Che faceva molto più affidamento sulla conversazione che sulle interrogazioni ufficiali. Che gli bastavano la partecipazione e l’interesse degli alunni. E che, naturalmente, qualcuno ne approfittava per non studiare. Ma è uno scotto che si può pagare. Qualche volta, dice Maria, non ci capacitavamo dell’insistenza di Toesca su certi argomenti, che a lui sembravano fondamentali: «Per esempio sul Concilio di Trento parlò per mesi». Aveva le sue ragioni. Risale ad allora la nostra informazione sulla questione proposta nel 1946 da Hubert Jedin, Riforma cattolica o Controriforma?, la cui edizione italiana uscì appunto nel 1957.


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Pietro Maria Toesca: breve cenno biografico

Pietro Maria Toesca è nato a Torino il 26 gennaio 1927 da Enrico, un ricercatore di chimica del Politecnico, e Desi (Margherita) Zanna, figlia di un medico. Dopo aver trascorso infanzia e gran parte della fanciullezza a Sauze d’Oulx, un paesino a 1509 metri sul livello del mare, in alta val di Susa, a Torino frequenta le scuole medie, il liceo classico e l’università. Finisce presumibilmente il liceo classico nel 1946 e si laurea nel 1950 in Lettere moderne, con una tesi in storia sul Risorgimento italiano. Durante gli anni universitari segue contemporaneamente i corsi di Lettere e quelli di Filosofia, divenendo allievo di Carlo Mazzantini. Il progetto di prendere la laurea in filosofia non viene portato a termine, ma gli studi filosofici sono il suo destino intellettuale. Appena laureato, ottiene due borse di studio, una a Parigi (non ricorda la moglie Giovanna, che è la fonte di questa notizia, presso quale istituto di ricerca), l’altra a Napoli, presso l’Istituto Croce di Studi Storici. Inizia il suo insegnamento di Filosofia e Storia nel 1956/57, a Roma, nel liceo Virgilio. Il 19 maggio 1957 sposa Giovanna Tresalti, studentessa (poco dopo laureata) di filosofia, che gli resterà sempre fedelmente e coraggiosamente accanto. Nel 1956 viene pubblicato da Philosophia, editrice in Firenze, il suo primo libro: Riflessioni sul male e sulla storia. Sempre a Firenze, dalla stessa casa editrice, viene pubblicato nel 1958 il volume Teoresi per l’uomo. Nel 1958 consegue anche la libera docenza in Filosofia della storia alla Sapienza di Roma, e ivi inizia il suo libero insegnamento. Il 30 marzo del 1960 nasce la primogenita Maria; il 16 giugno dell’anno successivo Alexandra. Nel 1965 Toesca ottiene un incarico per la cattedra di Filosofia teoretica nella Facoltà di Magistero dell’Università di Parma. E a Parma, insieme a lui, si trasferiscono alcuni dei suoi allievi dell’università di Roma: Ferruccio Andolfi (ora docente di Filosofia della storia nell’Università di Parma), Giuseppe Di Giacomo (ora docente di Estetica nell’Università “La Sapienza” di Roma), Pietro De Vitis (ora docente di Filosofia morale nell’Università Roma Due “Tor Vergata”), Alberto Siclari (ora docente di Storia della teologia nell’Università di Parma). Lo spostarsi di Pietro Maria Toesca da Roma a Parma, “il trasferirsi dei Toesca”, rappresentò la dislocazione di un centro di incontri, affetti, dibattiti, speranze, pro-


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getti. Si poneva il problema di mantenere vicino ciò che diveniva lontano o, meglio, di ampliare talmente l’area d’influenza di quel fuoco dell’interesse, delle amicizie, delle attività, da rendere irrilevante il suo passare da una città all’altra. Così molti, davvero molti, percepivano la partenza di Toesca da Roma. Per tutte queste persone egli era ed è restato a lungo, la filosofia. Dal 1965, dunque, il Magistero di Parma cominciò a essere lo spazio di questa personalità filosofica e umana. Nello stesso anno, presso l’editrice Studium di Roma, esce Verità e Rivoluzione, che Toesca dedica alle figlie Maria e Alexandra. Il 3 agosto del 1966 nasce Francesco. I «Quaderni dello Studio Parmense» sono stati per Toesca un’occasione importante di ulteriore espansione dell’attività intellettuale. In questi anni nasce e cresce l’amicizia con Ferruccio Masini, germanista e poeta, pittore, filosofo, studioso e traduttore di Nietzsche. Nel 1967 viene pubblicato, nei «Quaderni dello Studio Parmense», Filosofia dell’homo faber. Il 22 aprile del 1969 nasce l’ultimogenita, Chantal. L’anno successivo, vede la luce della stampa, presso la stessa casa editrice, le Aporie della filosofia contemporanea: il volume miscellaneo raccoglie, oltre a uno scritto di Toesca che ne è il curatore, contributi di Angela Ales Bello, Pietro De Vitis, Ferruccio Masini, Alessandra Olivetti Greppi, Alberto Siclari. Com’era inevitabile, gli eventi del 1968 hanno visto Pietro Maria Toesca al centro delle profonde contraddizioni che esplosero nelle istituzioni accademiche di tutto il mondo occidentale. Egli non era uomo che potesse nascondersi dietro il disturbato quieto vivere della sua università; era alla ricerca della verità: l’inquietudine della società che lo circondava non poteva non inquietarlo. E la dialettica della sua inquieta, faconda e feconda ricerca non poteva non trasmettersi alla società circostante. Nel 1971 Toesca fonda la Cooperativa editoriale Nuovi Quaderni e la rivista «Il tamburo di latta». Tra gli entusiasti primi ideatori e collaboratori della rivista, Ferruccio Masini. Nello stesso anno, la Cooperativa pubblica un altro volume di Toesca: Pascal, l’uomo ritrovato o della ricerca. Negli ultimi anni Settanta, forse nel 1978, la famiglia Toesca acquista un bellissimo casale in pessime condizioni vicino a San Gimignano, in Val D’Elsa, località Pancole. I Toesca si mettono tutti al lavoro per restaurarlo con le proprie mani e, possibilmente, quelle di amici volenterosi e disposti a sperimentare la durezza e la bellezza del lavoro manuale, il suo rapporto con la speculazione e la poesia, il suo appartenere al fare in senso creativo, al poiein. È l’inizio di una rottura definitiva con l’istituzione universitaria, l’abbandono degli allievi che nell’accademia si trovano ancora in posizioni subordinate o in condizioni di precariato, l’inizio di una nuova, difficile, durissima esperienza.


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Per qualche anno, fino al 1981, Toesca si reca ancora a Parma per tenere le sue lezioni; ma sta già scrivendo la sua aperta lettera di dimissioni, che sarà stampata dalla Cooperativa Nuovi Quaderni con il titolo L’università come fabbrica dell’intelligenza. Lettera aperta di dimissioni ai miei colleghi sulla fraudolenza dell’intellettuale. Pietro Maria Toesca non è ricco, non cerca la libertà che può procurare il denaro, ma quella che può manifestarsi in un lavoro autenticamente umano, non alienato. Un lavoro vero in mezzo a una società falsa, una parola autentica in un discorso fuorviante. Nel podere Toesca, si impara a fare i muratori, i falegnami, i tipografi. Si studia, si parla, ci si incontra, si mangia insieme quello che è disponibile. Chi può dà un piccolo contributo in denaro o in lavoro, oppure nulla. Nessuno è respinto, neppure quelli che criticano anche aspramente le scelte del filosofo, le sue condizioni di vita, il suo rifiuto irreversibile della carriera accademica, della possibilità di dedicarsi senza altre preoccupazioni allo studio, la rinuncia al potere di aiutare i propri allievi ad avanzare nell’università, l’abbandono accademico della propria Scuola. “La mia università è questa”, dice Pietro con irritante ironia e serietà: la “Pancole Country University”. In questo inizio c’era l’orizzonte e il termine, l’idea per la quale e intorno alla quale il pensiero di Toesca ha dato luogo a un’utopia che era anche la realtà di una comunità gravitante intorno a una famiglia esemplarmente unita, ma formata da persone esemplarmente autonome. L’aleatorietà e la consistenza di quella comunità risiedeva tutta nella capacità di Pietro di ridiscutere, ricreare, ricostruire sempre di nuovo i suoi presupposti, le sue condizioni, i suoi limiti, i suoi fini. Era il tentativo di costruire, fondare una città, una Polis, una comunità autentica di uomini autentici. E questo in mezzo a delusioni, ristrettezze, degenerazioni e involuzioni della politica, crisi economiche della società circostante, solitudini, incomprensioni, equivoci. Pietro Maria Toesca, mentre agiva, studiava, rifletteva, scriveva: per lui la praxis era, nel suo punto più alto, logos. Del 1986, ancora pubblicato dalla Cooperativa Nuovi Quaderni, è il suo Platone pensatore negativo. Analisi della scrittura ironica della Repubblica. Cito ancora, perché rientra nel tema, Manuale per fondare una città, Eleuthera, Milano 1994. La produzione in libri e articoli negli anni che vanno dal 1980 al 2005 è assolutamente vertiginosa. Negli anni Novanta nasce la rivista «Eupolis», la quale avrà una certa regolarità nelle uscite, in quanto è legata a una attività di carattere politico volta alla realizzazione di un modo nuovo di vivere nelle piccole città storiche dell’Italia centrale. Ma il fulcro di questo far politica è un’esigenza di far filosofia, un distacco dalla politica nei suoi aspetti meschini, nel suo servire non al bene di tutti, ma all’interesse


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di alcuni. Toesca ha studiato, studia e segue il Socrate platonico, sentendosi vicino al Chisciotte di Cervantes. Il casale di San Gimignano, restaurato, è divenuto come la materializzazione di un pensiero, di un progetto in parte realizzato, in parte da realizzare, in parte irrealizzabile. Qui ho incontrato Pietro ancora nel giugno del 2005: gli ho portato un mio libro. Appare molto stanco e affaticato, cammina con difficoltà appoggiandosi a un bastone. Intellettualmente è in piena attività. Ci sediamo fuori, è caldo. Egli chiede a qualcuno di prendere un suo recente scritto per regalarmelo. È intitolato L’altrove come luogo e i suoi abitanti. L’altrove è il luogo − o il non luogo − nel quale abitano, ovunque si trovino, i personaggi di cui si parla in queste pagine: il poeta, il pittore, il pensatore, il musicista, il filosofo, l’inventore, lo scultore, l’artigiano, il costruttore di cattedrali, l’attore, il cantante, la ballerina classica, il regista, il costumista, l’innamorato... Di questo libro ci sono due edizioni; nella seconda sono stati aggiunti personaggi, professioni, condizioni di libertà degli uomini dalla necessità che li assedia. “Caro Romano, leggo nella dedica, dove possiamo incontrarci se non nell’altrove?”Ancora un invito nella sua città, con la piena consapevolezza che essa sta altrove perché può essere ovunque. Si ammala più gravemente nell’agosto, prima che abbia luogo la Festa-Cantiere della Poesia, da lui organizzata a San Gimignano per il settembre di quell’anno. Deve essere ricoverato in ospedale. A casa tornerà per pochi giorni, prima di essere portato, di nuovo in ospedale poi in clinica, a Roma dove risiedono ormai da anni tutti i suoi figli. Torna a Roma, Pietro Maria Toesca, e molti suoi antichi allievi del liceo Virgilio e dei primi corsi universitari alla Sapienza, lo vanno a visitare. Egli riconosce tutti, per tutti ha una parola, fino all’ultimo respiro. Muore, nella tensione alla realizzazione dell’Uomo e nella speranza della salvezza del Cristo, il 28 dicembre 2005.


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Gli autori di questo volume

Angela Ales Bello insegna Storia della filosofia contemporanea nella Pontificia Università Lateranense; Alessandro Bosi insegna Sociologia generale nell’Università degli Studi di Parma; Francesca Brezzi insegna Filosofia della religione nell’Università degli Studi Roma tre; Pietro De Vitis insegna Filosofia morale nell'Università degli Studi Roma due “Tor Vergata”; Lorenzo Barani insegna Filosofia e Storia nel liceo classico S. Carlo di Modena; Margarete Durst insegna Pedagogia nell’Università degli Studi Roma due “Tor Vergata”; Franco Insalaco è stato redattore della rivista «Eupolis» fondata da Pietro Maria Toesca; Lido Chiusano insegna Storia della filosofia nell’Università degli Studi di Cassino; Ferruccio Andolfi insegna Filosofia della storia nell’Università degli Studi di Parma; Giuseppe di Giacomo insegna Estetica nell’Universita degli Studi di Roma “La Sapienza”; Romano Romani ha insegnato Ermeneutica filosofica nell’Università degli Studi di Siena; Giorgio Derossi insegna Filosofia teoretica nell’Università degli Studi di Trieste; Giancarlo Gaeta insegna Storia del cristianesimo antico nell’Università degli Studi di Firenze; Giuseppe Ferraro insegna Filosofia morale nell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli; Adriano Sofri è scrittore e pubblicista; Anna Marina Storoni Piazza ha insegnato Filosofia e Pedagogia nelle scuole medie superiori e ha studiato il mondo greco dell’epoca classica.


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Generato da lacerante meraviglia di un maestro che continua a popolarci tra filosofia teoretica poesia della vita amore per la città costruita ogni giorno dal pensiero che fonda e dalle mani operose questo libro ci restituisce Pietro Maria Toesca per la stampa della tipografia Nerocolore di Correggio per conto di Diabasis nel mese di maggio dell’anno feriale orfano di utopie duemila nove


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