La mongolfiera di Humboldt

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Massimo Quaini

LA MONGOLFIERA DI HUMBOLDT DIALOGHI SULLA GEOGRAFIA OVVERO SUL PIACERE DI CERCARE SULLA LUNA LA SCIENZA CHE NON C’È

LA MONGOLFIERA DI HUMBOLDT

Una geografia che, attraversata dall’eterno dualismo fra il mito e la carta, fra la narrazione e i modelli spaziali, trova un suo percorso tra piani urbanistici e geografia poetica, tra spazi virtuali e concreto abitare il mondo.

DIABASIS

Massimo Quaini, tra i maggiori teorici della geografia italiana fin dai primi lavori, (Marxismo e Geografia e La costruzione della geografia umana), tradotti in diverse lingue, ha attraversato con i suoi contributi scientifici, culturali e didattici i momenti più significativi della geografia dell’ultimo trentennio. Muovendosi dapprima sulla scia di Lucio Gambi, Emilio Sereni e Fernand Braudel, si è occupato di geografia storica, storia della cartografia e storia del territorio, con particolare attenzione a quella regione-laboratorio che è la Liguria. Attualmente lavora alla costruzione di un sapere geografico che sia in grado di rispondere alla domanda di una pianificazione territoriale capace di confrontarsi con i temi emergenti dell’identità, della memoria e del paesaggio come spazio abitato dall’uomo.

Massimo Quaini

La volta del cielo

DIABASIS

L’opera mette al centro della sua riflessione la capacità del geografo di librarsi sul mondo con un po’ della leggerezza imparata alla scuola di Italo Calvino. Il saggio, ambientato in un contesto geografico ben preciso, la Riviera ligure di Levante, ha una struttura dialogica che si dipana con la giusta dose di ironia e distacco. L’obiettivo che si pongono i misteriosi dialoganti è costruire un sapere territoriale per l’uomo del terzo millennio, lasciandosi innanzitutto affascinare dalla geografia poetica di Leopardi, Baudelaire, Proust, Borges, Montale, Calvino e altri scrittori e filosofi che più vivamente hanno sentito il bisogno di geografia e di paesaggio. Con il conforto della presenza di quanti, geografi e cartografi, hanno contribuito a disegnare i paesaggi della modernità: da Colombo ad Alexander von Humboldt. In questa prospettiva geofilosofica e geoletteraria, evocatrice di una geografia polifonica, si intende rispondere alla domanda: quale spazio rimane oggi, in una società informatizzata e basata sulla simulazione e sulla manipolazione di scenari geopolitici, per una geografia che, riscoprendo il senso mediterraneo dell’ecumene, sia sapere critico e concreto dei luoghi dell’abitare?


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La volta del cielo Sezione diretta da Massimo Quaini ed Eugenio Turri


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In copertina Levanto in una carta di Matteo Vinzoni

Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 134 5

Š 2002 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 e-mail redazione@diabasis.it riveroad@diabasis.it


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La mongolfiera di Humboldt DIALOGHI SULLA GEOGRAFIA OVVERO SUL PIACERE DI CERCARE SULLA LUNA LA SCIENZA CHE NON C’È.

DIVISI IN DUE PARTI, TRE GIORNATE, DODICI DIGRESSIONI E UNA CORPOSA APPENDICE SULL’INVADENZA DELLA GLOBALIZZAZIONE

D I A B A S I S


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Lo specchio della geografia

Chi oggi pratica veramente la geografia non la sa, mentre chi crede di conoscere la geografia non è in grado di praticarla. Giuseppe Dematteis Il mondo della geografia è sottosopra. William Bunge La geografia è l’ambito in cui assolutamente tutto è stato ritenuto possibile. Ernst Bloch Le convenzioni sono più dure a morire delle rivoluzioni. Quando le rivoluzioni svaniscono le memorie riempiono gli spazi vuoti. Gunnar Olsson Per sognare non occorre chiudere gli occhi, occorre leggere. Michel Foucault L’uomo si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione. Ernst Cassirer E nel progressivo fuggire del tempo, lo spazio che l’isoletta abita in me diventerà sempre più lo spazio puro della meraviglia, lo spazio separato dallo spazio geografico o fisico. E il tempo in cui vissi in lei sarà il tempo fuori del tempo in cui entriamo in contatto con qualcosa di vivo e di puro sul medesimo istante. Maria Zambrano


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Je suis un homme complet ayant les deux sexes de l’esprit. Jules Michelet Ma sebbene la teoria sia la morte del desiderio, il desiderio è la nascita della teoria. Gunnar Olsson L’umorismo non è uno stato d’animo, è un modo di guardare il mondo. Ludwig Wittgenstein Nos sciences ne font plus rire et les rêves qu’elles suscitent ont perdu leur qualité speculative. Isabelle Stengers


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Lettera a un geografo sui fortunosi eventi che hanno portato al ritrovamento del polveroso manoscritto

Caro Turri, conosci da tempo la mia passione per la Liguria e per i molteplici rapporti che storicamente hanno legato le nostre “isole”. Perché anche per me la Liguria è un’isola felice come il tuo Monte Baldo, bagnato dalle azzurre acque del Garda. E come la tua terra, dove mirabilmente l’ulivo cresce accanto al castagno, anche la Liguria ha una doppia anima: una più selvatica e montuosa, l’altra più mediterranea e solare. Da parte mia, come amante dei Lumi e del Settecento, ho sempre privilegiato questa seconda anima, ma non posso fare a meno di confessarti che l’oscuro e lunare mondo della montagna appenninica mi ha sempre affascinato, forse per il suo costante sottrarsi allo sguardo del viaggiatore curioso, non meno che all’occhio del potere. O per il suo essere terra di confine o meglio ancora per la capacità di fare della sua stessa condizione marginale e periferica un valore da spendere per sé, per costruire una segreta e gelosa identità. Un’identità insulare che continua ad affascinarci, perché, come scrive Maria Zambrano, «l’isola è sempre evasione, luogo in cui vogliamo rinchiuderci quando lo spettacolo del mondo intorno minaccia di cancellare ogni immagine di nobiltà umana; quando ci sentiamo prossimi all’asfissia per mancanza di bellezza ed eccesso di corruzione in tutte le forme. Allora – chi non l’ha mai provato? – ci struggiamo ardentemente per un’isola». Mi sono mosso sulle tracce di questi valori, un po’, si parva licet…, come l’illustre scrittore – che tutti e due amiamo – che rivisitò la Sicilia come metafora, ritrovando ad ogni passo l’olivo e l’olivastro sotto cui si rifugia Ulisse approdato alla favolosa terra dei Feaci: «spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di una biforcazione di sentiero e di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura». Una biforcazione che apre la strada al labirinto, luogo emblematico della contraddizione e modello del congetturare, che il filo dialettico di Arianna rappresenta e offre a chi sia ancora in grado di lasciarsi afferrare dalla forza evocativa del mito…


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Nel corso della mia esplorazione dell’universo ligure sono stato conquistato da un’oscura e appunto labirintica valletta – la mia “isoletta”, potrei dire – che porta il nome di Gambatiggia. Da essa proviene il manoscritto che ora raccomando alle tue amorevoli cure. È certo che Gambatiggia, come suggerisce il nome (che evoca la zoppaggine) e come ancor più rivela il manoscritto, partecipa più del lunare mondo appenninico che della solare Riviera che pure si distende a pochi minuti di cammino. In realtà è una manciata di minuti che, se ben considerata, si trasforma in anni di distanza. E tuttavia sarebbe fuorviante, soprattutto per il passato, contrapporre le due realtà e separare Gambatiggia dal mondo delle Cinque Terre. Un grande naturalista ligure, negli appunti di un suo viaggio compiuto in questa regione esattamente duecento anni or sono, rivisitava a modo suo, in questi luoghi, la citata metafora mediterranea dell’olivo e dell’olivastro: «Non ci vuole di meno che tutta l’industria di cotesti abitanti delle Cinque Terre per ritener a forza di muri uno strato forse assai sottile di terra vegetabile che cuopre questo nòcciolo. Se un momento si rallentano le cure per impedire gli effetti dell’acque che precipitano per questi piani inclinati, addio tutte le speranze degli agricoltori. La sterilità la più indomabile regna dove questo nòcciolo rimane allo scoperto. In Gambatiglia trovasi ancora circondato di vigneti e oliveti attorno, ma le case agricole collocate su di esso sono state abbandonate». Oggi che il nòcciolo appare spolpato come un osso di seppia, perché la nostra generazione, dimentica anche di Eugenio Montale, ha colpevolmente lasciato sprofondare in mare la straordinaria “opera d’arte” che era, e solo in parte è ancora, il millenario paesaggio delle Cinque Terre, il monito profetico di questo nostro antenato e la funzione anticipatrice acutamente riconosciuta a Gambatiggia non ci consolano. Né può confortarci l’ombra dell’olivastro, a meno che, come fanno i protagonisti della narrazione, non si prenda lo slancio dall’inferno o dal deserto che ci circonda, accettando fino in fondo il labirinto, per ricostruire un’altra geografia… Ma prima di anticipare alcuni dei temi del manoscritto, vorrei raccontarti del misterioso modo in cui ne sono giunto in possesso. Meno di un anno fa, nel corso del mio abituale pendolarismo accademico, viaggiavo in treno fra Roma e Torino. Era notte piena, quando la strana e netta sensazione di essere giunto a destinazione mi svegliò di soprassalto. Accorgendomi di aver da poco passato la Spezia, mi rimisi a dormire, senza riuscirci se non dopo che il treno aveva lasciato Genova. Nei mesi successivi la cosa si ripeté con una regolarità sconcertante e ogni volta nello stesso luogo: non appena il treno si accingeva ad uscire o si inoltrava dalla galleria che congiunge Monterosso con Levanto. Tutto si svolgeva come se, in quel preciso punto, la mia mente entrasse in un campo magnetico dal quale non riusciva a sottrarsi se non


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grazie alla velocità del treno e a uno sforzo di volontà di fatto possibile solo quando la distanza si faceva sensibile. Ne ebbi piena conferma di lì a qualche tempo, quando la mia crescente curiosità mi spinse su un treno regionale. Arrivato a Levanto la stessa forza misteriosa, di cui non riuscivo a spiegarmi l’origine e la natura, mi risucchiò (per così dire) fuori dal treno e senza che quasi me ne accorgessi mi ritrovai in cammino verso la collina. Lasciati alle mie spalle i numerosi quartieri e quartierini che ormai occupano tutto il fondovalle, risalii una vallecola selvaggia che, appena superati alcuni depositi edilizi, si apre in un fantastico pianoro circondato da un anfiteatro di colline nere di boschi, dai quali stava sorgendo una luminosissima Luna. Solo nel momento in cui i miei piedi poggiarono su quella terra e i miei occhi fissarono il disco della Luna, cessò l’inquietudine che mi aveva spinto fin là e il mio essere si sentì interamente appagato. Mi guardai intorno e sul margine settentrionale del piano scoprii una piccola casa che veniva emergendo nel gioco alterno delle ombre della notte e della luce lunare. Tutt’intorno la campagna, abbandonata da molti anni, appariva a prima vista selvatica e inospitale. La casa, invece, pur ermeticamente chiusa, esprimeva un senso misterioso di accogliente rifugio. Scesi in paese dove fui indirizzato a un piccolo hotel, dal nome gentile, che di lì a qualche giorno avrebbe chiuso per essere demolito e sostituito da un’impensabile torre alberghiera sovrastante le strutture invadenti di un porto turistico destinato a cancellare l’antica e selvaggia bellezza del golfo: questo dovevo apprendere di lì a poco da un plastico che il nuovo proprietario dell’hotel era orgoglioso di illustrare ai suoi stupefatti clienti. Sembrava che anche questo borgo antico e un po’ sonnolento, rimasto a lungo insensibile alle sirene del progresso, dopo aver assistito ad una celebre trasmissione televisiva in cui il Cavaliere aveva illustrato sulla lavagna il suo programma elettorale si fosse votato anima e corpo al turismo postmoderno (nome magniloquente dietro il quale si nascondeva la ripresa della più selvaggia speculazione edilizia). Quale differenza con la selvatica valletta di Gambatiggia! Viste le premesse, puoi ben capire con quanta ansia il mattino dopo mi misi alla ricerca di informazioni sulla proprietà della valletta. Alla luce dell’incubo che ti ho appena descritto, la mia voglia di quell’angolo dimenticato da Dio e dagli uomini (ma, come vedrai, non dalla Dea Bianca) era ancora cresciuta. Dal catasto computerizzato del Comune seppi che la proprietà era ancora intestata a una “Società Gambatiggia”. Ne era fiduciario un professore di geografia, di cui non sono autorizzato a farti il nome, che in passato aveva scritto alcuni libri sulla storia di Levanto e che, anche con lo strumento di una Fondazione intitolata a Matteo Vinzoni, aveva cercato


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di opporsi al nuovo corso. Ma tutto era stato vano. La sconfitta era diventata definitiva quando la parte bassa della valletta del rio Gambatiggia, proprio per essere così prossima e appartata rispetto al centro abitato, era stata destinata prima a pubblica discarica e successivamente “bonificata” come area industriale-artigianale. Per questa ragione la proprietà, in vendita da molti anni, non aveva trovato compratori. Mi fu possibile rintracciare il vecchio titolare dell’agenzia immobiliare “Cinque Terre” – l’unica rimasta sul mercato dopo che anche questa attività era stata accentrata nelle mani dei nuovi gruppi finanziari e immobiliari che dominavano la scena – a cui il professore, che di qui in avanti chiameremo Amerigo, aveva affidato la delega per la vendita della casa, dopo che aveva deciso di trasferirsi in Francia. Il prezzo era ormai sceso a un livello così basso che decisi di acquistarla su due piedi, come si suol dire. La sera stessa potevo entrare nell’abitazione che mi aveva attirato come una calamita e che doveva ancora riservarmi più di una sorpresa. La casa era ancora ammobiliata. Sembrava fosse stata abbandonata all’improvviso per una scossa di terremoto o per il rischio di uno slittamento a valle. Alcune grosse crepe sui muri perimetrali lo facevano pensare, ma non me ne sono mai dato pensiero né allora né oggi. Dalle riproduzioni di alcune carte storiche ancora appese ai muri avevo imparato che la casa era in piedi da almeno duecentocinquanta anni. Sul tavolo, appena oltre l’ingresso, i fogli di un giornale francese, «Libé», portavano la data 30 agosto 1996. Non trovai altri indizi di una frequentazione successiva. Mi misi a curiosare negli armadi e negli scaffali, dove trovai libri, carte e qualche lettera. Un grande quaderno, che sulla copertina portava il titolo curioso di Dialoghi di Gambatiggia, attirò la mia attenzione e ti assicuro che la tenne sveglia per gran parte della notte. È il manoscritto che ho deciso di mandarti, ora che sono riuscito a mettermi in contatto con il suo autore e di avere la sua autorizzazione alla pubblicazione. L’autore, come già ti ho detto, preferisce rimanere nell’ombra. È tuttavia ben felice che sia tu, perfetto outsider della geografia italiana, a curare l’edizione di questo trattatello apocrifo. Mi ha chiesto di firmare, se necessario, con il nome di Barone de Zach, che a me sembra uscito da una romanzo di Jules Verne ma che invece, a quanto mi si dice, ha un preciso significato nella storia delle scienze geografiche della Liguria nell’età di Alexander von Humboldt (del quale i Dialoghi parlano a lungo). A me questo pseudonimo fa un po’ ridere! Ma su questo aspetto lascio a te decidere. Tieni conto che l’autore è ormai molto distaccato e a quanto mi dice trova le sue maggiori soddisfazioni nello scrivere racconti di montagna. Per parte mia mi accontento di segnalarti alcune ragioni per cui mi pare opportuna la pubblicazione, con o senza lo pseudonimo verniano. Lascio da


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parte la motivazione troppo particolare, ma a me cara, di poter fare un confronto fra la vecchia e la nuova Levanto. In fondo Levanto non è oggi né era ieri l’ombelico del mondo, come non lo è Digne, dove Amerigo è andato a ritirarsi dopo aver ritrovato, a quanto mi ha raccontato, la sua Gea. Il motivo principale sta, io credo, nell’opportunità più generale di poter valutare quanto sia nel frattempo cambiata la società italiana e di riflesso la geografia. Perché il punto è proprio questo: mentre i geografi, anche quelli più coinvolti nel dibattito culturale, continuavano a sognare, nell’isolamento del loro status accademico, fantastici scenari e mondi nuovi o si baloccavano con raffinate interpretazioni storico-filologiche su geografi e cartografi del passato, c’era chi costruiva una nuova geografia d’Italia, mettendo a profitto il necessario sapere della geografia normale: quello per intenderci che faceva le sue prove tanto con la geografia elettorale e l’arte di interpretare la distribuzione del voto, quanto con i temi della globalizzazione e della geopolitica. Che spazio rimane oggi, in una società completamente informatizzata e basata sulla simulazione di spazi virtuali e sulla manipolazione di scenari geo-politici, per una geografia che, riscoprendo il senso mediterraneo dell’ecumene, sia sapere critico dei luoghi dell’abitare? Critico, innanzitutto nel senso di avere poche certezze e molti dubbi? Questa è la domanda su cui il manoscritto, senza fornire una risposta univoca, offre materiali di riflessione che, andando al di là dell’ironica occasione nella quale sono stati pensati, non mi pare giusto abbandonare alla «critica roditrice dei topi», per usare una bella espressione del vecchio Marx. Se queste motivazioni, un po’ fuori moda, non ti paiono sufficienti, sono pronto a rivelarti il mio più profondo e finora segreto motivo di immediata adesione all’andamento incerto e zig-zagante dei Dialoghi. Per farmi capire al meglio dovrei riprendere e sviluppare le considerazioni sulla metafora del labirinto a cui ho appena accennato. Ma, anche a costo di apparire quasi enigmatico e confidando nell’agilità mentale tua e del futuro lettore, mi limito a dire che in questi Dialoghi mi è parso di trovare, non dirò una spiegazione, ma un luminoso collegamento con l’“originario mitologico” di cui le donne sono da sempre principali custodi e che riaffiora negli strani versi che Euripide nell’Ippolito pone in bocca a un gruppo di donne di Trezene: se un dio, datemi le ali, allo stormo degli uccelli del cielo mi rendesse compagna! Mi innalzerei allora sui flutti del mare salato verso le coste dell’Adriatico, verso il vortice di Eridano, dove le figlie di Elio piangono Fetonte:


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scorrono le lacrime delle fanciulle al mare e si condensano in splendente ambra. Al giardino degli dèi, giungerebbe il mio volo, dove il Vecchio degli Abissi impedisce il procedere ai naviganti umani, dove Atlante sta a guardia dei confini del cielo e le figlie di Espero custodiscono le mele d’oro. Là sorge il palazzo, in cui il re degli dèi celebrò le nozze, là scaturisce copioso il nettare, là la Terra, l’eterna, prodiga agli dèi il cibo della vita beata.

Questo dovrebbe essere tutto. Ma forse ti farà ancora piacere sapere che l’ambigua geografia lunare, di cui si parla nei Dialoghi – e che nelle nostre amate terre mediterranee si potrebbe mettere sotto la protezione di Aretusa-Persefone, Signora del labirinto – ha esercitato anche su di me, che geografo non sono, i suoi benefici influssi e mi ha indotto a riprendere da qui, ancora da Gambatiggia, le battaglie di Amerigo. Nelle notti di plenilunio, quando seduto sotto il fico mi lascio trasportare dall’onda degli eventi di cui la Luna è stata fedele testimone e attiva interlocutrice, mi pare di sentire le voci di Gaia e Arianna, di Alice e Ceccardo, di Andrea, Omar, Cartofilo, Ampelio, Diego e soprattutto quella, venata di malinconia, di Amerigo. Li sento presenti attorno a me, come persone reali. Dopo lo sfortunato volo sulla mongolfiera di Humboldt, gli amici si sono dispersi. A poco sono serviti l’ auspicio finale di Gaia e la superiore serenità della sua visione. L’avvento della Seconda Repubblica e i nuovi indirizzi della cultura nazionale, in cui nessuno spazio può essere dato alle incertezze di una geografia ambiguamente androgina, hanno certamente contribuito alla diaspora e soprattutto a rendere i nostri amici, in qualche caso, irriconoscibili l’uno all’altro. Ma chissà che la pubblicazione dei verbali dei loro dialoghi, che in questi ultimi mesi sono stato ben lieto di curare, non possa riportarli tutti ancora una volta, qui, in Gambatiggia, a ragionare dell’altra geografia? tuo Bonaventura De Rossi Da Gambatiggia, nel mese di giugno dell’anno di grazia 2001

P.S. L’editore, che non ama gli pseudonimi e vorrebbe vedere chiaro nella doppiezza della geografia, è riuscito, dopo un’estenuante trattativa, a convincere l’autore a firmare il volume. Non solo, ma come si vede dalla se-


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conda parte, è riuscito a riportare in Liguria Amerigo e alcuni componenti dell’antica brigata a ragionare di una geografia più attenta ai bisogni delle collettività e allo sviluppo locale. Alla fine, come vedrai, i nostri geografi sono riusciti a chiudere il cerchio di una geografia critica che per uscire dalla sua crisi aveva bisogno di trovare il filo che collega le celebrazioni colombiane con il G8 che ha riportato Genova all’onore delle cronache e di cui non si può smettere di parlare. Questa moderna rivisitazione potrà forse compensarci della perdita di molte pagine. Il manoscritto infatti, a una più attenta analisi, appare in più punti mutilo, eroso dall’umidità e dai topi famelici di Gambatiggia. L’autore si è rifiutato di collazionarlo con i materiali preparatori che ancora conserva, convinto che questi tagli, anche se non voluti e casuali, hanno certamente alleggerito un testo che lo straripante furore dialettico dei dialoganti aveva in più punti appesantito. Come il lettore attento non farà fatica a notare, questo libro ha avuto una lunga gestazione. Ideato nel corso delle celebrazioni colombiane, mi ha accompagnato tanto nella mia “cattività” barese (dove mi sono lasciato catturare dalla splendida regione pugliese) quanto nel mio rientro nella piccola patria che è protagonista di questo saggio in forma di dialogo. La tabula gratulatoria di rito dovrebbe perciò essere troppo lunga per essere completa. Non posso però fare a meno di ringraziare quanti hanno avuto la pazienza di leggere il manoscritto nelle sue varie redazioni e quanti hanno contribuito alla realizzazione del libro. In particolare Giuseppe Dematteis, Diego Moreno e Franco Farinelli che, nascosti dietro tre dei principali protagonisti, hanno dato, con i loro preziosi studi, argomento e sostanza ai dialoghi. M.Q.


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CONCLUSIONI DI FINE GIORNATA IN CUI, DOPO AVER INVOCATO ATLANTE E GIANO, SI TENTA DI CONCILIARE L’AURA E LA TRACCIA, FACENDOSI AMMALIARE PIÙ DA BENJAMIN CHE DA HEIDEGGER

CARTOFILO: Se mi consentite un breve aggancio a Heidegger, vorrei dirvi che senza essercelo proposto, ma forse subendo, devo ammetterlo, la suggestione del luogo e soprattutto del genius loci, abbiamo nei nostri pensosi vagabondaggi verificato quanto Heidegger scrive a proposito dell’abitare: «il modo in cui i mortali adempiono al loro errare: dalla nascita alla morte, sulla terra e sotto il cielo. Ovunque sia, l’errare resta l’essenza dell’abitare come lo stare tra terra e cielo, tra nascita e morte, tra gioia e dolore, tra opera e parola». In questo molteplice tra consiste il nostro mondo e il significato dell’insediamento: «gli edifici avvicinano la terra all’uomo, quale paesaggio abitato, e pongono allo stesso tempo la vicinanza del dimorare insieme sotto la vastità del cielo». AMERIGO: Trovo che questa bella citazione di Heidegger abbia benefici effetti di spaesamento per il geografo e che tali effetti vadano al di là dell’approdo a una poetica geografica dell’abitare pur ricca di fascino, che Norberg-Shulz, teorico del genius loci, ha indagato. Non ho mai amato Heidegger e tuttavia non posso negare che il suo pensiero mi affascina, anche come geografo. In particolare quando, evocando la sua piccola baita per sciatori costruita sui clivi di un’ampia valle della Foresta Nera a 1150 metri d’altitudine, il filosofo scrive: «quando in una profonda notte d’inverno una furiosa tempesta di neve si scatena con i suoi colpi attorno alla baita (Hütte ) e tutto copre e nasconde, è allora il grande momento della filosofia». Gli interpreti del filosofo ci dicono che in questa modesta baita va ritrovato il luogo centrale in cui si iscrive il suo pensiero e che Heidegger, insediandosi a Todtnauberg, non pensa a un nostalgico ritorno a un radicamento ormai impossibile ma alla «ricerca di una appartenenza a un luogo come Ort, punto di convergenza e di raccolta delle coordinate che fanno essere spazio e tempo, divini e mortali, cielo e terra, stretti in quel rapporto di tutti i rapporti che si dona nella parola». DIEGO: Se questo è il senso generale dell’enigmatica “provincia” di Heidegger, mi chiedo se Amerigo, ricorrendo a questo lato più sorprendentemente geografico del filosofo tedesco, abbia inteso indurci a vivere la rustica villetta di Gambatiggia come la piccola e austera Hütte heideggeriana


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collocata ai margini del bosco… Che Gambatiggia possa entrare negli annali della filosofia mi sembra altrettanto improbabile dell’eventualità meteorologica, così propizia alla riflessione, evocata da Heidegger. Nessuna tempesta di neve farà risuonare i suoi filosofici colpi contro questi spessi muri di pietra che l’arte del contadino ha edificato soprattutto per difendersi dai calori estivi. Se non vogliamo rinnegare il genius loci dobbiamo dunque rimanere ben ancorati alla differenza! AMPELIO: Non credo che con le sue sensate osservazioni Diego voglia negare l’evidenza e cioè che la concezione heideggeriana dello spazio ci aiuta a capire l’immaginifica geografia di Alice e Ceccardo e i misteriosi rapporti che nella preistoria – e non solo nella preistoria – si sono stretti fra cielo e terra, fra divini e mortali. Non sarebbe del resto difficile estendere questa visione ad altri contesti mediterranei, per esempio alla costellazione dei nuraghi che di recente ho visitato insieme a un geografo cagliaritano che mi faceva notare quanto fosse improbabile l’interpretazione ufficiale, superficialmente topografica, basata su una loro funzione difensiva e quanto più convincente fosse la loro natura di santuario tribale (con interessanti testimonianze di culto degli astri), confermata dalla continuità in età storica di un’analoga funzione in ambito pastorale. E del resto, chi se non il pastore ha da sempre vissuto la verità dell’assioma heideggeriano che l’essenza dell’abitare sta nell’errare? Anche a proposito dello “stare tra terra e cielo” basterebbe rileggere il leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia… ARIANNA: Accanto al pastore, non dimenticherei la figura del moderno nomade, del viaggiatore per vocazione o meglio per profonda inquietudine, come quella che agita Isabelle Eberhardt che, alla fine del secolo scorso, parte ventenne da Ginevra per l’Algeria, dove si converte all’Islam, penetra gradatamente nella realtà locale fino a fondervisi e muore a ventisette anni, dopo aver lasciato incompiute opere affascinanti come la sua breve vita. Anche la sua storia è in qualche modo legata alla Sardegna. In una breve pausa della sua tormentata vita africana Isabelle si ritrova a Cagliari. «In questo angolo perduto del mondo», al quale non aveva mai pensato più di qualsiasi altro punto che l’occhio distratto può incontrare sulla carta del mondo abitato, trova un provvisorio quanto accogliente foyer e quando arriva ineluttabile il momento di partire, di rivestire «la divisa, talora troppo gravosa, del vagabondo e del senza-patria», rimpiange «il breve sogno di tranquillo raccoglimento nella vecchia città sarda, sotto un cielo dolcemente pensoso e clemente, in un paesaggio così africano…» E di quel paesaggio mediterraneo, grazie alla sua sensibilità femminile, riesce a descrivere con pochi tocchi le più segrete relazioni fra il cielo, il profilo urbano e la fisionomia degli uomini e delle donne che ne percorrono le vie.


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GAIA: Mi chiedo perché, al di là del discreto riferimento alla sensibilità geografica femminile, hai voluto, dopo esserti anche tu riconosciuta nella geografia di Ceccardo e Alice, richiamare questo diverso approccio. È forse per uscire dai limiti di una filosofia o per meglio dire di una retorica delle radici e del radicamento oggi di moda anche grazie alla rilettura di Heidegger? Di un Heidegger in cui l’errare come essenza dell’abitare viene interpretato come statico stare tra terra e cielo, piuttosto che come viaggio, percorso attraverso le discontinuità culturali del mondo. O è forse per evadere dai limitati orizzonti materiali che chiudono la prospettiva accessibile da questa nostra “Hutte” di Gambatiggia? Ma la luce lunare della Dea Bianca, che splende in questa magnifica notte, stemperando il lineare rilievo dei chiusi orizzonti montani ci ha consentito di superare quei limiti che solo la luce diurna, solare, sottolinea con il rigore implacabile del disegno cartografico. Anche se siamo giustamente partiti dal genius loci, abbiamo infatti privilegiato l’errare piuttosto che lo stare e siamo pronti ad accogliere il messaggio di Isabelle… ARIANNA: In effetti il mio disagio nasce proprio dal peso della retorica del radicamento che non può essere alleggerito o vinto soltanto dal recupero del mito e della deriva ermeneutica sulla verticale tra la terra al cielo. Il problema è al centro del dibattito culturale di questo nostro tempo. La società “globalizzata” in cui viviamo è fondata sulla pratica di uno sradicamento radicale che produce un contesto generale di incertezza, di instabilità nel lavoro, nell’abitare, nella composizione etnica delle nostre città, nelle relazioni sociali. In questo contesto, come aveva già notato Ernst Bloch, la casa, il suolo, il popolo diventano contraddizioni oggettive che oppongono il “tradizionale” al tempo presente o moderno dove tali strutture e valori risultano disgregati e non sostituiti. L’aspirazione al radicamento o meglio al ri-radicamento nasce su questo terreno. Come ancora ci mette in guardia Bloch, riferendosi sempre all’esperienza degli anni Trenta e all’ascesa del nazismo, sono gli sradicati, quelli che si accorgono di avere meno presa sulla nuova realtà, che si mettono a sognare il ritorno al Tempo Antico o la restaurazione di un passato idealizzato, alla ricerca di un suolo, di una terra, di una comunità in cui ritrovare il proprio radicamento… AMPELIO: Per uscire dalla retorica delle radici bisogna avere né gli occhi troppo rivolti al cielo né i piedi troppo attaccati alla terra e saper coniugare il bisogno di appartenenza e di radici con l’aspirazione alla libertà e al movimento. In altre parole anche in questo caso si tratta di sostituire il modello della radice, con la sua struttura ad albero, con il modello antigerarchico del rizoma… GAIA: Non so se vi interpreto bene, ma mi viene da pensare che esprimendo queste preoccupazioni ciò di cui sentite il bisogno è soprattutto


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un’iniezione di cultura illuministica. Come se il romanticismo al quale ci siamo finora riferiti non vi soddisfacesse del tutto. Esprimendo questo bisogno ci invitate peraltro a seguire un itinerario già percorso: quello degli intellettuali la cui eredità è confluita nella Scuola di Francoforte, in particolare l’itinerario tormentato di Walter Benjamin. Essi già si sono pronunciati contro l’apologia reazionaria del suolo e della comunità organica e chiusa, senza con questo escludere i valori di integrazione sociale delle collettività contadine e del loro rapporto con le risorse ambientali; ponendo, come diceva Adorno, «tutti gli argomenti reazionari contro la civiltà occidentale al servizio dell’Aufklärung progressista». Ma soprattutto la loro critica delle tendenze più irrazionalistiche dell’universo romantico, al quale hanno attinto le ideologie reazionarie, non ha escluso l’aspirazione a ri-incantare il mondo… Lo scambio tra Arianna e Gaia era stato seguito con attenzione e tutti avrebbero voluto dire la loro, a cominciare da Cartofilo che più degli altri scalpitava, ma ormai l’ora si era fatta molto tarda e anche la Luna era ormai tramontata dietro la Costa di Sopramare. Per la fortuna del narratore prevalse il buon senso e la discussione venne rimandata, non prima di un ulteriore scambio di battute. AMERIGO: L’intervento di Arianna ci fa ripiombare con un certo affanno al centro di un dibattito che prima che sulla geografia è sulla modernità e la post-modernità. Un dibattito che oggi coinvolge soprattutto i geografi più sensibili. È quindi comprensibile che Arianna se ne sia fatta carico. Avremo tempo di tornarci sopra. Ora, non solo per rasserenare l’ambiente ma anche per porci dentro una di quelle prospettive rovesciate in cui crediamo, tornerei per un momento sui cartografi rinascimentali, per farvi notare che talvolta anche loro dimostrano una sensibilità che verrebbe voglia di qualificare “post-moderna”. La storia, molto breve, è questa. Nel 1560 i due fondatori della cartografia moderna, Mercatore e Ortelio, decidono di fare un viaggio insieme. Cosa che per Mercatore, cartografo da tavolino, era da considerarsi eccezionale. Volete sapere verso quale meta decidono di dirigere i loro passi? Verso la Pierre Levèe di Poitiers, un dolmen situato a un chilometro a est della città, sulla riva destra del Clain; e non certo per riunirsi agli studenti che attorno ad esso, come ricorda Rabelais, facevano le loro allegre riunioni. Anche se sarebbe bello pensarlo, soprattutto per riconciliare il nostro Ampelio con Mercatore… Mentre Ortelio, spirito più moderno, era probabilmente mosso solo da un interesse antiquario, l’interesse di Mercatore era determinato in larga misura da una complessa visione cosmologica e astrologica, già enunciata


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nel giovanile De mundi creatione ac fabrica… Una visione che spiega perché Mercatore sia stato il primo a dedicare la sua raccolta di carte al dio Atlante: un nome fortunato destinato a soppiantare i barocchi titoli di Theatrum o Speculum adottati da Ortelio, Hondius ecc. Dell’intricata genealogia di Atlante, riportata da Mercatore nella prefazione, più dei genitori – la dea Asia e il titano Giapeto, secondo la più accreditata tradizione, Cielo e Terra secondo la versione del mito accolta da Mercatore – ci interessa l’ identità pelasgica di Atlante e del fratello Prometeo e soprattutto la progenie femminile del primo: Calipso signora di Ogigia e Alcione, la prima delle sette Pleiadi, perché ambedue ci riconducono alla dea-Luna e al bianco uccello marino simbolo di Leucotea. Allo stesso esito ci riportano anche i rapporti fra Atlante e le Esperidi ovvero le Tre Figlie dell’Ovest. Secondo una più bizzarra tradizione, anch’essa accolta da Mercatore, il figlio Espero, mentre scrutava gli astri, preso dalla comune passione familiare, venne trascinato dai venti in Etruria, dove esercitò la sua prudente sapienza come tutore di Giano. CECCARDO: Questa complicata genealogia sottende uno spostamento da occidente a oriente che in qualche modo chiude il cerchio del mito di cui abbiamo finora parlato e che ci riporta a Genova, fondata da Giano e da Giano nominata Ianua, come ripetono tutti i suoi annalisti medievali. Una tradizione popolare raccolta nel Medioevo racconta infatti che dopo la distruzione di Troia un nobile troiano di nome Giano sia approdato a queste parti e nel luogo che dicesi Sarzano, cioè Saltus Jani (bosco di Giano), abbia edificato un castello. E quanto al nome ecco che cosa dice Jacopo Doria: «dicesi Janua da Jano dio dei principii, il quale pingesi come avente due facce, dinanzi e di dietro, e così la città di Genova guarda dinanzi il mare e di dietro la terra; e dicesi che esso Jano ha due vedute ossia due porte, oriente e occidente, e così la città di Genova ha due porte, cioè la porta del mare e la porta della terra…» La ricchezza del mito originario contiene, come si vede, le categorie con le quali si possono leggere la storia e le immagini successive di Genova. Le due “vedute” di Giano alludono infatti sia al ruolo delle due Riviere d’Oriente e d’Occidente, sia alla funzione di porta aperta sul Mediterraneo e sull’entroterra padano. Si potrebbe dire che il mito fonda la possibilità di una storia a tutto campo, a trecentosessanta gradi… ARIANNA: Molti sarebbero d’accordo anche oggi, se non sull’etimologia, sulla funzione! Ma per non cadere in maniera precipitosa nelle spire di un’attualità in cui si sta consumando l’amaro destino di Genova città post-moderna, vorrei farvi notare che anche attraverso il mito di Giano, che Ampelio e prima di lui Olsson hanno riconosciuto come il simbolo più pregnante del sapere geografico, siamo ricondotti alla Dea Bianca. Se-


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condo l’affascinante ricostruzione di Robert Graves, infatti, i Latini onoravano la Dea Bianca con il nome di Cardea. Ovidio nei Fasti la collega col vocabolo cardo, “cardine”, e dice che era l’amante di Giano bifronte, il dio delle porte e del primo mese dell’anno. La storia raccontata da Ovidio è confusa e non rende giustizia alla priorità della Dea Bianca Cardea, giunta a Roma da Albalonga (“la città bianca”), fondata da genti provenienti dal Peloponneso e a sua volta fondatrice di Roma. Anche la natura bifronte di Giano non sarebbe originaria ma derivata dalla Dea stessa che, nelle feste in onore di Carmenta all’inizio di gennaio, era invocata come “Postvorta” e “Antevorta”, colei che guarda sia indietro sia avanti. Essa era il cardine su cui ruotava l’antico anno latino e l’importanza di questo ruolo è testimoniata dall’aggettivo latino cardinalis che, cosa per noi non trascurabile, sarà usato anche per indicare i quattro venti principali della bussola. AMERIGO: I venti che, come ci racconta Mercatore, spinsero Espero e Atlante in Etruria. Se anche i venti e dunque l’orientamento, oltre che la divisione del tempo, erano sotto la giurisdizione della Grande Dea, come poteva un geografo come Mercatore non richiamarsi, sia pure indirettamente attraverso l’ambigua genealogia di Atlante, alla Triplice Dea, cantata dai poeti nelle sue tre caratteristiche di Signora del Cielo, della Terra e degli Inferi? Cantata, per esempio, nella sua stessa epoca, da John Skelton come «Diana nelle verdi foglie, / Luna che splendi così luminosa, / Persefone nell’Inferno». Come poteva Mercatore non mettere sotto la sua protezione un progetto cosmografico che si proponeva di trattare «caelestia, mox astromantica, quae ad divinationes ex astris pertinent, quarto elementaria, denique geographica», in modo che «totum mundum tanquam in speculo proponam, ut ad inveniendas rerum causas, sapientiam et prudentiam assequandam, sint aliqualia rudimenta et lectorem ad altiores speculationes ducere possint»? ALICE: Da quanto hanno detto Arianna e Amerigo mi pare emerga una conclusione stupefacente, che rovescia la tradizionale storia della geografia: alle origini dello spirito geografico non vi sarebbero le speculazioni dei fisici ionici o dei geografi alessandrini, vi sarebbe soprattutto il mito della Dea Bianca, amante di Giano bifronte, la cui feconda ambiguità è ancora un dono della Dea… GAIA: Visto che la mano invisibile della Dea e di Giano bifronte ci ha ricondotto alle più alte speculazioni, concedete anche a me lo spazio per una domanda che da tempo mi arrovella. Ascoltando poco fa le suggestive ricostruzioni storiche di Ceccardo e Alice e i meravigliati commenti che in noi hanno suscitato, mi chiedevo e ora chiedo a voi (senza pretendere una risposta immediata) se questa geografia, così disponibile a cogliere tanto l’aura sacra o magica che aleggia sui luoghi quanto le più concrete tracce


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storiche che ne fondano l’archeologia, sia per caso in grado di superare l’opposizione fra aura e traccia enunciata da Walter Benjamin nei suoi celebri Passagen: «la traccia è l’apparizione di una vicinanza per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza per quanto possa essere vicino ciò che essa suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell’aura essa si impadronisce di noi». Questa alternativa fra un atteggiamento “archeologico” più attivo, che rimanda alla figura del cercatore di tracce e del cacciatore che insegue e cattura la preda, e un atteggiamento più ricettivo verso le cose, i luoghi, i paesaggi e i miti, che rimanda piuttosto a esperienze estatiche e mistiche, non solo ci riporta alla riflessione sui miti che Lévi-Strauss ci ha offerto come viatico per questo nostro viaggio nella geografia storica ma, come ho già sostenuto parlando di romanticismo geografico, comincia a costituire un rilievo importante nel paesaggio metodologico che le nostre parole vengono disegnando. DIEGO: Lasciatemi dire subito la mia: in nome di Benjamin e del materialismo storico atteniamoci alla traccia e lasciamo l’aura a Elémire Zolla! GAIA: E no, caro Diego, non possiamo cavarcela così. Quello che per Benjamin era il «sale materialistico» e l’intenzione di concretezza storica non può così facilmente dissociarsi dall’aura, per quanto ambigua sia questa nozione. Ambigua ma anche centrale per la nuova geografia che cerchiamo di costruire. La geografia dei luoghi che Ampelio ha ironicamente definito “allucinogeni” altro non è che la mappa dei luoghi provvisti di aura o se preferite dei luoghi geniali: l’inedita mappa del genius loci. La centralità del concetto è ben dimostrata da una citazione di Benjamin, che vi sottopongo come ulteriore materiale di riflessione: La forza di una strada è diversa a seconda che uno la percorra a piedi o la sorvoli in aeroplano. Così anche la forza di un testo è diversa a seconda che uno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede soltanto come la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi occhi essa procede secondo le medesime leggi del terreno circostante. Solo chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella stessa contrada, che per il pilota d’aeroplano è semplicemente una distanza di terreno, essa, con ognuna delle sue svolte, faccia balzar fuori sfondi, belvederi, radure e vedute allo stesso modo che il comando dell’ufficiale fa uscire i soldati dai ranghi. Così, solo il testo ricopiato comanda all’anima che gli si dedica, mentre il semplice lettore non conoscerà mai le nuove vedute del suo spirito che il testo, questa strada tracciata nella sempre più fitta boscaglia interiore, riesce ad aprire: perché il lettore obbedisce al moto del suo io nel libero spazio aereo delle proprie fantasticherie, e invece il copista lo assoggetta a un comando […].

DIEGO: Mi pare che questa citazione cambi le carte in tavola e attraverso l’introduzione di un inedito, quanto ambiguo, rapporto fra lettore e co-


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pista finisca per penalizzare la traccia a vantaggio della visione dall’aereo e della conseguente lettura cartografica: visione riduttiva in cui il paesaggio diventa «semplice distanza di terreno» e la strada si annulla nel terreno circostante appunto per l’operare delle leggi del discorso cartografico o della visione zenitale. In questo senso la traccia, l’orma lasciata dell’uomo che nel tempo ha modellato la strada, non è più, come dovrebbe essere, «l’apparizione di una vicinanza», è solo l’apparizione di una lontananza astratta, priva di aura, privata di ogni aura dal discorso cartografico. Come vedete torniamo alla vecchia critica della carta, senza che l’aura ci faccia avanzare di un pollice… CARTOFILO: Diego ha ragione solo in parte. Il passo di Benjamin, per essere inteso in tutto il suo significato per noi, richiede che si faccia intervenire la “lezione di geografia” contenuta nella Terre des hommes di SaintExupéry che, come sapete, è necessaria per intendere L’Homme et la Terre di Dardel, il geografo che, al tempo del trionfante positivismo geografico, ha anticipato la geografia fenomenologica. È una lezione, la prima, che ci viene, non a caso, da due aviatori che fanno naufragio nel deserto e per i quali salvarsi significa uscire dal paesaggio zenitale – ovvero da ciò che viene visto dall’aereo ed è codificato nella carta – per entrare nella scena della storia, nella scena che contiene le orme dell’uomo. Il percorso filosofico che questo passaggio richiede, letto in termini husserliani, coincide largamente con quello indicato da Benjamin: dal deserto del «mondo-vero-in-sé», cioè del mondo come universo matematico concepito secondo l’astrazione spazio-temporale di marca galileiana che s’usa chiamare scientifica e di cui la carta geografica fornisce l’immagine più chiara e immediata, i due aviatori, protagonisti della Terre des hommes, riescono ad evadere soltanto perché, allontanatisi dal velivolo, tornano a piedi nel «mondodella-vita» che precede ogni astrazione scientifica. Solo allora le località riportate sulla carta diventano luoghi autentici ed è possibile «tirare fuori dal loro oblio, dalla loro inconcepibile lontananza, particolari ignorati da tutti i geografi del mondo». Esattamente ciò che fra noi hanno fatto Ceccardo e Alice… ARIANNA: Va anche detto che nel passo di Benjamin c’è la doppia equazione: Terra (cioè strada, paesaggio ecc.) = Testo; Cartografo (cioè aviatore) = Lettore. La possibilità di una critica della lettura cartografica del mondo entra in gioco solo in quanto viene introdotta la figura inedita del “copista” che non si limita a leggere ma trascrive il testo del paesaggio che ha di fronte e ne subisce il fascino, l’aura; cioè solo nel momento in cui per noi vale la nuova equazione Geografo = Copista. La differenza fra “lettore” e “copista” diventa importante per noi, se la riferiamo al territorio e alla strada: per l’aviatore-lettore la strada si annulla nel paesaggio, nel ter-


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reno circostante, perché ubbidisce alle leggi generali della veduta dall’alto, della rappresentazione cartografica e diventa poco più di una semplice distanza di terreno; per il viaggiatore a piedi-copista la strada svolgendo la sua infinita varietà comanda all’anima che così subisce la forza, il dominio del paesaggio. Che cos’è l’aura se non il soffio del dominio delle immagini che compongono il genius loci? Non a caso, sviluppando la filosofia del flâneur, Benjamin sviluppa prima di Heidegger e in maniera dialettica il rapporto fra errare e abitare: Come ogni esperienza valida e provata comprende in sé il proprio opposto, così la perfetta arte del passeggiare comprende in sé la scienza dell’abitare. Ma il modello originario dell’abitare è la matrice o la capsula, il bozzolo. Dunque ciò da cui si riconosce esattamente la figura di colui che vi abita. Ora, se vogliamo ricordare che non abitano soltanto gli uomini e gli animali, ma anche gli spiriti, e soprattutto le immagini, vediamo con tutta evidenza di che cosa si interessa il flâneur e che cosa cerca. Le immagini dovunque abitano. Il flâneur è il sacerdote del genius loci […].

La lezione del flâneur – «questo passante poco appariscente che ha la dignità di un sacerdote e il fiuto di un detective» – si riassume per Benjamin in poche, disincantate parole: «Noi vediamo soltanto quello che ci guarda. Noi possiamo soltanto ciò per cui non possiamo nulla».


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Lo specchio della geografia Lettera a un geografo Prima parte

La cornice del dialogo

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Comincia la prima giornata

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Comincia la seconda giornata

201 209 223 234 243 272

Comincia la terza giornata

275 277 279 315

Prima digressione Intermezzo notturno Seconda digressione Conclusioni di fine giornata Terza digressione Quarta digressione Quinta digressione Sesta digressione Rivoluzionaria teoria Settima digressione Ottava digressione Nona digressione Decima digressione Undicesima digressione Dodicesima digressione Seconda parte

Seconda lettera a un geografo Primo tempo o del piano urbanistico Secondo tempo o della globalizzazione

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Bibliotheca geographica curiosa, lunatica et magica

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Indice dei nomi


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Pensiero di un mondo in cui la geografia visionaria piÚ si stringe con il paesaggio e con l’umano questo libro di Massimo Quaini al crocevia delle domande e delle culture fondamento di Passages viene stampato su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni nel carattere Simoncini Garamond dalla tipografia Grafitalia di Reggio Emilia nel settembre dell’anno duemila due


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