La Seconda Julia

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Carte di lavoro

Sergio Giliotti è nato a La Spezia nel 1926 ma ha trascorso la sua infanzia a Belforte, piccola frazione del Comune di Borgotaro, ove ha frequentato le scuole primarie, terminate le quali viene mandato nel Collegio San Nicola di Genova, presso il quale compie gli studi. L’8 settembre 1943 lo coglie al terzo anno del liceo scientifico e, dopo le vacanze estive del 1944, anziché ritornare a Genova per completarne il corso, entra nella brigata partigiana Seconda Julia. Finita l’esperienza resistenziale, ritorna a Genova a completare gli studi interrotti e, conseguita la maturità, s’iscrive alla prestigiosa facoltà di Economia e Commercio dell’Ateneo genovese, presso il quale si laurea a pieni voti, discutendo la tesi Liquidazione coatta amministrativa, che il relatore definì come la migliore degli ultimi dieci anni. Insegnò per oltre un anno le tre Matematiche nei corsi serali istituiti presso l’Istituto Universitario Genovese per gli universitari che lavoravano, ma i suoi comandanti e amici partigiani vollero che tornasse a Parma, ove, nel 1952, venne assunto da un istituto di credito locale. Nel 1972 venne chiamato alla direzione di un importante istituto di credito regionale con sede a Bologna, presso il quale rivestì le cariche di Vicedirettore e Direttore generale. È stato per oltre un decennio consigliere nazionale dell’ANICA (Associazione Nazionale Istituti di Credito Agrario) e, dal 1991 al 2004 consigliere della Banca d’Italia. Gli incarichi professionali rivestiti non gli impedirono di partecipare alla vita dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani a fianco di Giuseppe Molinari, don Giuseppe Cavalli, don Guido Anelli, Gino Cacchioli, Italo Podestà, Giovanni Cattini, Carlo Grezzi e tanti altri che con lui divisero le alterne vicissitudini che accompagnarono la loro vita nei lunghi mesi della “ribellione”.

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Sergio Giliotti

La Seconda Julia nella Resistenza La più bianca delle brigate partigiane

D IAB A S I S

COMUNE DIPARMA

La Seconda Julia nella Resistenza

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BIBLIOTECHE

Sergio Giliotti

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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) La fotografia di copertina e quelle all’interno del volume provengono dall’archivio dell’autore. ISBN 978-88-8103-699-8

© 2010 Istituzione Biblioteche Comune di Parma © 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it


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Istituzione Biblioteche Comune di Parma

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Riconoscili tuoi. Ora sono il vento che dura a questa stretta la sua pena e lungamente va pregando pace. Italo PodestĂ , Per i partigiani caduti al Passo della Cisa Resistenza è pagina limpida, chiara, eroica del secondo Risorgimento d’Italia. Franco Franchini


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La Seconda Julia nella Resistenza La più bianca delle brigate partigiane

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Prefazione alla seconda edizione Presentazione alla prima edizione Premessa Cenni storici introduttivi Inizia la Resistenza italiana L’alba della Resistenza nell’Alta Val Taro e la Banda “Vampa”

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Il Territorio Libero delle valli del Taro e del Ceno La battaglia del Manubiola Il caso “Lucidi” Il grande rastrellamento del luglio 1944 Costituzione della brigata Personalità che aderirono alla brigata Il vecchio e il bimbo Primo Comando Unico Parmense Composizione e consistenza della brigata Notizie varie Sostentamento e rapporti con la popolazione Collegamenti Canti partigiani Patriota per interposta persona L’assistenza religiosa Rapporti con le altre brigate Dislocamento della brigata Apoliticità della brigata Rapporti coi CLN locali

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Le immagini

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Spionaggio Attività operativa della brigata Prigionieri – Scambio dei prigionieri – Tregue A ridosso della Linea Gotica L’attacco al Comando Unico Il nuovo Comando Unico Nozze partigiane Il duro inverno Problemi ai vertici della brigata Ripresa dell’attività La divisione Val Taro Uno strano combattimento La sfilata della divisione Val Taro La liberazione della vallata del Taro Crisi ai vertici della divisione L’attacco a Berceto I caduti della brigata Elenco dei partigiani che rivestirono incarichi di comando nelle file della brigata alla data della Liberazione APPENDICI

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Belforte: la capitale dei ribelli Vola, Sparviero, Giuseppe Massari Bibliografia Archivi


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Prefazione alla seconda edizione*

Vi siete opposti con tutte le vostre forze contro regimi incompatibili con la dignità dell’uomo. Giovanni Paolo II

Dopo la terza ristampa alla prima edizione, pubblicata senza apportare modifiche al testo, su pressioni di tanti amici, partigiani e non, mi sono accinto a scriverne una nuova, aggiornandola alla luce della storiografia più recente, di documenti emersi nel corso del decennio testé trascorso e riprendendone altri dall’archivio della mia Brigata partigiana, che allora avevo trascurato nella fretta (c’è sempre fretta!!) di consegnare le bozze alla stampa. Mi sono maggiormente soffermato sugli eventi nazionali e internazionali che hanno caratterizzato la prima metà del secolo scorso, il “secolo breve”, per cercare di meglio inquadrare il racconto su una brigata partigiana, nella dimensione storica in cui si è sviluppata la Resistenza italiana. In questo decennio hanno visto la luce pubblicazioni scritte anche, come direbbe il professor Achille Pellizzari, il Partigiano Poe, «da retori stipendiati… per lucro immondo» imperniate su un revisionismo che ha voluto dare una visione distorta della Resistenza, le quali, obliterandone le luci, hanno messo in evidenza le ombre che, purtroppo, ci sono state, ma, come testimonierà il maggiore inglese Gordon Lett in Partigiano… io so cosa vuol dire: Chi ha vissuto da partigiano fra i partigiani difficilmente può tollerare che vengano attaccati da chi non sa nulla di loro. Certo non erano tutti santi! C’erano i buoni ed i cattivi. Ma i buoni erano assai più numerosi dei cattivi. Oggi la Resistenza è storia: una pagina magnifica della storia d’Italia.

Mi sono altresì prefisso lo scopo di contribuire a sconfessare il falso storico di chi ha voluto far identificare la Resistenza con un partito politico, perché è incontrovertibile che essa fu ed è un patrimonio di tutto il popolo italiano e perché anche le più organizzate Resistenze, sia cattolica che comunista, singolarmente prese, non erano maggioritarie se rapportate all’intera realtà resistenziale. * N.d.E.: la prima edizione è avvenuta a cura dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani (ANPC). 7


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Non tutti condivideranno ciò che ho scritto, anche se nella stesura di questa edizione ho continuato a basarmi scrupolosamente su fonti storiche e documentali le piÚ attendibili. Questa nuova edizione la dedico affettuosamente ai miei figli Silvia e Giovanni, ai miei nipoti Serena, Stefano e Arianna, che sono la continuazione della mia vita, a mia nuora Cristina, ma soprattutto la dedico alla memoria della mia impareggiabile sposa, Liliana, che, con tanta pazienza, mi ha sopportato e mi ha incoraggiato a riscrivere queste pagine.

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Presentazione alla prima edizione

Ho letto l’ultimo libro di Galli della Loggia, la solita palinodia in polemica con la Resistenza e la cosiddetta storiografia “convenzionale”, incapace (a suo dire) di identificare nella data dell’8 settembre 1943 la morte della Patria. Ma a chi altro si dovrebbe attribuire se non al fascismo le responsabilità della disfatta? Che significa – si è chiesto Giuliano Vassalli – dare colpa di tutto ai fatti dell’8 settembre. Ora chi ridusse l’Italia a quel punto? Indubbiamente la dittatura ventennale. Galli della Loggia insiste con particolare durezza sul carattere “fittizio”, inautentico (militarmente parlando) della Resistenza. Sempre a suo dire, non fu neppure una vera guerra civile, perché non si è conclusa con un vero vincitore, riconosciuto come tale dai vinti. Di conseguenza non si poteva attendere da essa neppure quell’effetto risolutore che caratterizza ogni evento davvero fondativo. Ma un dato sfugge a Galli della Loggia, che pure ha scritto pagine di grande rilievo sulla mondializzazione della politica nel nostro secolo: in uno scontro di carattere mondiale, che si concluse per il nostro Paese il 25 Aprile (e nel mondo pochi mesi dopo) erano impensabili vittorie e sconfitte di dimensione solo nazionale; necessariamente, secondo Pietro Scoppola, i vincitori all’interno di una nazione non potevano vincere da soli, ma sempre in virtù del sostegno di forze omogenee operanti in ambito mondiale; proprio perché il fascismo si era collocato con l’adesione alla guerra tedesca e con il patto fra Roma, Tokyo e Berlino in una dimensione mondiale, la vittoria contro il fascismo era sottratta, per così dire, alla disponibilità esclusiva degli italiani. L’8 settembre del ’43, per la verità, il popolo delle nostre montagne e delle nostre pianure avvertì il feroce rigurgito proprio nel momento in cui pareva finalmente ritrovata (con la caduta del fascismo) la strada della democrazia; lo avvertì come una nuova drammatica realtà; si rese conto che l’armistizio imponeva un ultimo impegno di lotta e tentò di costruirsi modelli di esistenza totalmente diversi da quelli quotidiani e istituzionali fino a diventare, esso stesso, istituzione. È in questo spirito che va letto il meritevole saggio di Sergio Giliotti La seconda Julia nella Resistenza. Cronistoria di una brigata partigiana: uno sfor9


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zo ricostruttivo, schematico, appassionato e per certi aspetti rigoroso, di un microcosmo, di un settore della nostra montagna che domina un triangolo “strategico” dal Passo della Cisa a Berceto alle sponde del Manubiola a Ostia Parmense. Giliotti pone il tema dell’insorgenza partigiana in termini lievemente autobiografici e quindi non trascura un passaggio importante della sua vita: giovane liceale a Genova, può attingere alla cultura e alla saggezza del professor Giulio Marchi, una guida spirituale e politica di eccezionale umanità. E forse sta qui la ragione di una impostazione che Giliotti antepone e sviluppa nella prima parte di un libro dedicato all’essenziale cronistoria di una brigata partigiana in Val Taro: la necessità di sottolineare, con forza, l’importanza del riferimento mondiale della seconda guerra mondiale (siamo nel 1943), della mondializzazione di una guerra che non ha precedenti nella storia umana, per caratteri ideologici, estensione geografica, numerose vittime, vastità di distruzioni. Allineare tragicamente gli errori internazionali del fascismo può sembrare una forzatura geopolitica: invece è la cornice entro la quale le vicende tragiche di piccoli territori prendono significato e dignità di memoria. In questa cronistoria sono compresi in modo abbastanza netto tutti gli aspetti di una vicenda partigiana ispirata da una congeniale idealità cristiano-cattolica. Qui non s’indulge nella mitologia, come ripetono certi storici disinformati e settari. Tra questa gente il coraggio, la dedizione, la disponibilità al sacrificio s’innesta nella realtà ambientale; in questo triangolo di montagna le prime formazioni germogliano con un fervore ideale, con una coerenza che impressiona. Via via nel tempo, i momenti dei rastrellamenti e della lotta armata ricadranno sulle popolazioni inermi come passaggi di desolazione, a volte devastanti; ma pur tra inenarrabili difficoltà si ricerca di comporre il tessuto di rapporti tra partigiani e popolazione, in cui il compianto degli eccidi resta pur sempre più profondo che il calcolo interessato di cose perdute. D’altra parte l’obiettivo popolare, all’indomani dell’8 settembre 1943, fu quello di cacciare i tedeschi. La Resistenza, nella sua accezione più istintiva, nacque come reazione a una guerra che, mirando al violento dominio sui popoli, urtava angosciosamente la nativa disposizione a una serena e civile tradizione di valori morali; s’accrebbe e si convinse come risposta alle deportazioni in un clima di spaventose minacce e di terrorismo, quali la nostra gente non aveva conosciuto nella sua lunga storia. Le prime formazioni partigiane (le prime bande) s’impegnarono a chiarire, tra la gente, l’importanza della lotta e l’inevitabilità di un saldo collegamento. Nell’area Cisa-Berceto-Ostia Parmense la gente rimisurò, infatti, con sacrifici crescenti. Al di là delle difficoltà obiettive (trecento tedeschi di stanza a Berceto, guidati dal torturatore Jost; la pericolosità della statale della Cisa co10


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me arteria di notevole rilievo militare; gli attacchi dalle valli laterali con insidie di tutti i generi) le popolazioni sopportarono insieme al movimento partigiano rischi e sofferenze. Sotto il profilo della responsabilità politica e civile, via via nel tempo si formano i Comitati di Liberazione Nazionali (a Berceto addirittura nell’agosto 1943 – alla presenza di Achille Pellizzari). In condizioni più complesse, e diversi mesi dopo, si costituisce il CLN di Borgotaro. A Valmozzola il CLN si costruirà in due tempi, in sintonia con l’insorgenza partigiana, intorno al Monte Barigazzo. Nel libro sono indicati opportunamente i nomi di tutti coloro che parteciparono a queste forme di responsabile collaborazione. Quando in particolari circostanze, pur perdurando gli imprevedibili pericoli della lotta armata in atto, una parte della popolazione sentì il dovere di assumere ruoli amministrativi, nell’ambito di nuove realtà partigiane, è evidente che l’anima della Resistenza cercava il suo respiro nel clima di una partecipazione pubblica e di una corresponsabilità allargata, che aprisse la stagione di una diversa significazione politica di cui il popolo fosse autenticamente protagonista. Tra le figure partigiane che operano per la nascita e la crescita della Seconda Brigata Julia si rintracciano figure emergenti della Resistenza parmense: don Guido Anelli, Severino Molinari, Vampa, Poppy e, in grande evidenza, Birra (Giuseppe Molinari). In questo libro di Sergio Giliotti il lettore trova la documentazione (a volte inedita) della tessitura organizzativa e ideale della Seconda Julia. E non solo. Attraverso scrupolose precisazioni riesce a capire (sempre lungo una linea documentale) le vicende di maggior rilievo che segnano la vita partigiana nell’Alta Val Taro. Fuori dal mito, ma nella realtà, spiccano figure del valore impareggiabile, come quella di Achille Pellizzari (i suoi richiami paterni, fermi, inconfondibili; le sue mediazioni, il suo incitamento). In quel tempo si sviluppano iniziative come quella del colonnello Lucidi (tramontata con la morte dello stesso colonnello Lucidi nel rastrellamento dello Zerasco); le fitte riunioni organizzative, i rapporti con le popolazioni e le brigate limitrofe; l’esaltante esperienza del Territorio Libero del Taro (che da sola meriterebbe un lungo saggio di riflessioni per tutti i critici della Resistenza); il brutale rastrellamento di luglio (l’urto e l’inevitabile ricomposizione delle forze in campo); la lotta e il sacrificio delle piccole frazioni; la battaglia del Manubiola, con divergenti interpretazioni tattiche che non turbano, sostanzialmente, un risultato di notevole rilievo militare. La Seconda Brigata Julia si costituisce ufficialmente il 10 agosto 1944, intorno a don Guido Anelli che, insieme a don Carlo Giussani, provvederà al11


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l’assistenza religiosa. Il comandante della Brigata sarà Birra; il vice, Poppy; il capo di stato maggiore, Vampa; il commissario di guerra, Severino Molinari. Sullo sfondo emergono precisi rapporti della Seconda Julia con il Comando Unico Operativo, guidato da Pablo (Giacomo di Crollalanza). La Seconda Julia mostra scopertamente le sue caratteristiche ideali, la propria apartiticità (estranea a ogni disciplina di partito), conferma e rispetta le indicazioni del Comando Unico, con l’esclusione di ogni forma di settarismo; dispone una linea di rigore e di severità, come risulta da una serie di preziosi documenti. Il 17 ottobre 1944 i tedeschi attaccano, complice un traditore, il Comando Unico a Bosco di Corniglio: una tragedia incalcolabile. Muoiono trucidati Pablo e altri valorosi comandanti partigiani. È un momento tra i più dolorosi della lotta di Liberazione nel Parmense. Occorre reagire con forza. E proprio a Belforte, nella piccola casetta-canonica di don Guido Anelli, si ricomporrà il nuovo Comando Unico, sotto la guida di Arta (Giacomo Ferrari). I combattimenti riprendono nell’area della Seconda Julia, con grande sofferenza per la popolazione. Nello spirito ormai affermato di una particolare sensibilità, Birra avanza, nel territorio di sua competenza, il problema dello scambio dei prigionieri, iniziando i contatti coi tedeschi, di stanza a Pontremoli (testimonianza di Aristide Angelici). Simultaneamente la Brigata svilupperà e completerà un delicato recupero di giovani fascisti della Divisione Italia e della Divisione Monterosa: uno strano fenomeno di diserzione. Tutto questo avviene in uno spirito di grande serietà e di intransigente coerenza, anche se non tarderà qualche fenomeno diffamatorio nei confronti della Seconda Julia che innesca uno scambio violento di lettere con lo stesso Comando Unico. Di questo delicato periodo Giliotti mette in evidenza alcune cronache di efficace rilievo. Don Guido Anelli (il prete volante) usa il paracadute per intessere rapporti col governo di Roma, presieduto da Bonomi: queste pressioni dirette servono a incrementare i mezzi economici per le forze partigiane. I problemi difficili del vestiario e dell’armamento trovano qualche favorevole soluzione attraverso un piano di lanci. Il 1° febbraio 1945, Birra decide di lasciare il Comando della Seconda Brigata Julia, testimoniando una volontà di intransigente rigore che non ritiene possibile ottenere senza provocare delicate fratture all’interno delle formazioni. Tutto avviene nella chiarezza di un confronto di idee, nella reciproca comprensione, in una sorta di fair play. Nuovo comandante della Seconda Julia sarà il maggiore Umberto Pestarini (Umberto), maggiore dell’esercito italiano in forza al servizio segreto mili12


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tare. Successivamente, con elementi pontremolesi, Birra formerà la Terza Brigata Beretta. Va da sé che occorre leggere il libro per capire, per intero, il senso di simili assestamenti. Via via, nonostante la durezza della lotta, si profila la parte finale. Il rastrellamento invernale segnerà profondamente la capacità di resistenza. La strategia partigiana della zona continua a predisporre nuovi assetti di comando: ad esempio Vampa assume il comando di un reparto speciale di sabotatori. Ormai si definiscono gli obiettivi dell’ultima ora. Si costituisce la Divisione Val Taro con i seguenti reparti: Prima Julia, Seconda Julia, Brigata Siligatto, Brigata Barbagatto, Gruppo Valtaro, la Cento Croci e addetti al Comando. Il comando è assunto da Umberto Pestarini; commissario di guerra è Severino Molinari. Il 30 marzo 1945, a Porcigatone, Achille Pellizzari lancia l’ultimo messaggio: «Partigiani preparatevi, la battaglia è vicina, la più grande ma l’ultima. E la vittoria è certa. Scacceremo le belve tedesche e i malfattori nostrani». Nonostante l’imminenza della fine delle operazioni militari, si sviluppa un nuovo scontro all’interno della Divisione Val Taro. Traspare, con durezza, un dissenso sulla leadership, su aspetti tattici (e non solo tattici) della gestione. Si soffia sul fuoco e affiorano contrasti politici con minacce di fratture. Il Comando della Divisione Val Taro si dimette. L’intervento del Comando Unico favorisce la composizione di un nuovo vertice con Richetto (comandante), Corrado, Severino Molinari, Bruno e Tarass. Alla testa della Seconda Brigata Julia torna Umberto che affronta, a Berceto, i colpi di coda dell’armata tedesca ormai in rotta verso la sacca di Fornovo. Muoiono e rimangono feriti alcuni partigiani. Ma è proprio a Berceto (tappezzata ai muri di manifesti inneggianti ai partigiani) che il 28 Aprile la Seconda Brigata Julia entra vittoriosa accolta da una folla finalmente travolta dall’entusiasmo. La cronistoria di Sergio Giliotti non si esaurisce in una curiosità di informazioni o raccolta di dati, ma recupera l’animo della gente di quei giorni, i sentimenti che accompagnano i piccoli fatti, il coraggio di continuare, l’affermazione di una nuova prospettiva per un tempo di pace. Sergio Passera Parma, 25 aprile 1996

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Premessa

Nel 1985, in occasione del quarantesimo anniversario della Liberazione, l’amico fraterno e mio primo Comandante partigiano Giuseppe Molinari, da tutti conosciuto col nome di battaglia “Birra”, nel consegnarmi l’archivio della brigata partigiana “Seconda Julia”, mi invitò a scriverne la “storia”. Ho messo tra virgolette la parola “storia” perché questo mio lavoro non ha pretese di essere un’opera storica, ma vuole semplicemente rappresentare un contributo, un aiuto a chi, in un domani, si accingerà a scrivere la Storia, quella con la “S” maiuscola, della Resistenza parmense alla quale questa formazione, in cui ebbi l’onore di militare, diede il suo importante contributo. Mi sentii profondamente onorato per la stima e la fiducia riposta in me dal Comandante “Birra” e accolsi volentieri l’invito anche per rendere un postumo omaggio agli amici che nelle file della mia Brigata, combattendo per la libertà, col sacrificio delle loro vite, ne pagarono il prezzo più alto: alcuni di essi caddero al mio fianco. Scrissi alcune pagine, ma i pressanti impegni di lavoro di allora non mi permisero di continuare e, passata la ricorrenza accennata, rinviai tutto al momento successivo al mio pensionamento, che avvenne nei primi mesi del 1989. Contavo molto sull’aiuto dell’amico Molinari, non solo per essere stato egli uno degli artefici della creazione della Brigata, ma anche perché fu sempre ai vertici del movimento partigiano parmense. La sua improvvisa scomparsa nel novembre del 1989 mi ha privato della sua memoria storica, che mi avrebbe favorito nell’interpretazione di alcuni documenti e nell’integrare i vuoti che ho trovato perché io, semplice partigiano, non potevo essere a conoscenza di ciò che accadeva ai livelli ove si assumevano le decisioni, anche se, attraverso “radio scarpa”, le notizie non mancavano di giungere, più o meno tempestivamente, alle sempre tese orecchie dei gregari. Egli ricordava tutto e spesso intratteneva gli amici sugli avvenimenti passati come se fossero accaduti ieri, ma non lasciò nulla di scritto. Su certi aspetti e su alcune vicende, non sempre e non sufficientemente documentate, ho dovuto così affidarmi ai miei ricordi e a quelli di altri pro15


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tagonisti degli eventi narrati, ma col passare degli anni la memoria si affievolisce e gli avvenimenti possono apparire anche sotto angoli visuali non sempre esattamente corrispondenti alla realtà di allora. Ciononostante, nello scrivere queste pagine ho cercato di essere rigorosamente obiettivo. Non ho perseguito secondi fini, come spesso è accaduto in analoghe ricostruzioni che hanno mirato a mettere in evidenza personaggi che spesso erano gli stessi autori. Per evitare questa scialba autocelebrazione parlerò di me il meno possibile. Altri giudicheranno noi e gli eventi dei quali siamo stati, a vari livelli, attori. Sono nato a La Spezia nel 1926 da madre spezzina, Gemma Arnavas, maestra elementare, e da padre borgotarese, Pietro Giliotti, agricoltore. Essi mi impartirono un’educazione severa, quasi spartana e, con le parole e con gli esempi, m’insegnarono a essere ossequente alle leggi di Dio e della Patria, ad amare i piccoli e gli umili e a contrastare i superbi. La mia prima giovinezza, come quella di quasi tutti i giovani di allora, subì l’influenza della propaganda pseudo-patriottica del fascismo, ma col procedere verso la maturità, soprattutto sotto l’influsso di grandi maestri, sacerdoti e laici, primo fra tutti il professor Giulio Marchi, preside del Liceo da me frequentato nella città di Genova, maturarono in me sentimenti che, gradatamente, avrebbero sostituito quelli precedenti. Anche gli avvenimenti che si sono succeduti dagli anni Quaranta in poi hanno contribuito non poco a mostrare in luce diversa il volto del fascismo. Il 25 luglio 1943 mi trovavo a Belforte, piccolo e sperduto paese dell’Appennino parmense, ove mia madre insegnava e mio padre coltivava il suo podere. Esultai nell’apprendere le notizie delle dimissioni di Mussolini e della nomina del Maresciallo Pietro Badoglio a Capo del Governo, mentre gli abitanti del paese, senza apparenti emozioni, continuavano nel lavoro quotidiano per strappare alla dura e sassosa terra della montagna il pezzo di pane necessario alla loro sopravvivenza. Quello che succedeva nella lontana Roma, a loro poco importava. L’unica, modesta manifestazione consistette nell’andare, con un anziano agricoltore, a distruggere a martellate il solo e indifeso simbolo del Regime esistente: il fascio littorio posto sopra la porta del bacino dell’acquedotto, che gli abitanti del paese, con un modesto contributo del Comune, si erano da soli costruito nel 1934, anche se l’opera veniva fatta passare come una realizzazione del Regime. L’8 settembre anche la gente di Belforte tirò un sospiro di sollievo nell’apprendere la notizia dell’armistizio perché, con la fine delle ostilità, sperava nel ritorno imminente dei propri familiari impegnati nei vari e lontani fronti della guerra. 16


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Anch’io e la mia famiglia speravamo in un sollecito ritorno di mio fratello Alberto, in forza alla Marina Militare, le cui ultime notizie ci erano giunte dalla Sicilia nell’estate dello stesso anno. Lo avremmo riabbracciato solo nel maggio del ’45, quando venne smobilitato. Pochi giorni dopo l’8 settembre, assieme a un coetaneo, vagabondavo per i crinali dell’Appennino Tosco-Emiliano, tra il Monte Molinatico e il Passo della Cisa, in cerca di armi che si diceva essere state abbandonate da un Reggimento degli Alpini, senza peraltro trovarne traccia. Altri le avevano già raccolte. Lo scopo nostro era soltanto quello di utilizzarle per divertimento e non avevamo la minima idea che, in un non lontano domani, quelle armi sarebbero servite per combattere la nostra guerra contro la tirannide domestica e straniera. Nei pressi del Passo della Cisa vedemmo due soldati tedeschi che, a torso nudo, stavano consumando il loro pasto presso una fonte. Fu il mio primo impatto con le forze di occupazione e dentro di me provai un sentimento di ostilità nei loro confronti. Durante le vacanze estive lavoravo con mio padre nella coltivazione dei campi, dalla sfalciatura del fieno, alla mietitura del frumento, all’aratura dei terreni fino all’inizio delle semine autunnali. Ogni anno, in ottobre, riprendevo gli studi in collegio. Avvenne così anche in quell’autunno del 1943 e ritornai a Genova per frequentare il penultimo anno del liceo. Con me era mio fratello minore Ugo, che frequentava la scuola media inferiore. Era nato nel 1929, era sempre tra i partigiani e veniva considerato una “mascotte”. Nell’ultima fase della guerra, quando il Comando Partigiano della Divisione Val Taro s’installò nella canonica di Belforte, venne utilizzato come portaordini. Sposò poi la sorella di don Guido Anelli, il partigiano don Tito, e nel 1957 emigrò in Venezuela: qui, dieci anni dopo, assieme alla moglie Domenica e alla figlia Paola, morì sotto le macerie del terremoto che sconvolse Caracas. Tutta la sventurata famiglia riposa ora nel piccolo cimitero di Belforte, tra i verdi pascoli dei loro monti. A Genova trovai l’ambiente ben diverso da quello che avevo lasciato nel giugno del ’43. Nell’aria si sentiva la gravità del momento. Professori e studenti, si sentivano tutti uniti in un unico ideale di avversione al fascismo e al nazismo. Solo una professoressa e uno studente aderirono al nuovo Partito Fascista Repubblicano, ma non furono dei delatori. Lo studente, seppi poi, militò nelle file delle forze armate della repubblica di Salò. Più di una volta, il collegio ricevette le visite delle polizie fascista e tedesca che cercavano il Preside e alcuni professori più esposti. Dopo la guerra, sa17


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pemmo che il Preside, oltre che un antifascista, in quei momenti era un autorevole membro del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria e ne sarebbe diventato anche Vicepresidente. Il Preside, come già detto, era il professor Giulio Marchi, di origini romagnole, insegnante di lettere e filosofia. Prima dell’avvento del fascismo era stato un esponente del Partito Popolare Italiano. Antifascista irriducibile, per poter continuare l’insegnamento, che sentiva come una missione, entrò nel Terzo Ordine Francescano. Così, in base al concordato del 1929 tra lo Stato e la Chiesa, non ebbe l’obbligo di iscriversi al Partito Nazionale Fascista per espletare la sua professione. Fondò a Genova il Collegio San Nicola, di cui fu direttore fino alla morte. A volte passavano per le nostre mani volantini ciclostilati invitanti alla ribellione, che occultavamo sotto le maglie e che, nelle ore di uscita, abbandonavamo furtivamente per le strade. Una volta si era sparsa la notizia che era stato catturato dai fascisti un partigiano gravemente ferito e che le autorità della RSI, per cercare di dimostrare che agivano nel rispetto della legalità, lo avevano portato al Palazzo di Giustizia per processarlo. Gli venne assegnato un difensore d’ufficio nel primo professionista che avevano trovato. Era l’avvocato Patria, il principe del foro genovese. Il Pubblico Ministero concluse la sua brevissima requisitoria chiedendo l’applicazione della pena di morte. L’avvocato Patria nella sua improvvisata arringa difensiva cercava di sottrarre quell’essere umano alla pena capitale. Intanto le condizioni del partigiano stavano peggiorando e allora il Pubblico Ministero, impazientito, interruppe bruscamente il difensore intimandogli: «Faccia presto avvocato perché se l’imputato muore non lo possiamo fucilare». Questa era la “giustizia” fascista. Ricordo di aver letto su un giornale satirico fascista un articolo nel quale si auspicava che alcuni professori universitari venissero inviati in Germania a «coniugare tic e toc» anziché lasciarli in Italia a insegnare a coniugare i verbi latini, per via di un ordine del giorno da essi votato e divulgato dopo il 25 luglio del 1943, ordine del giorno che, come scrisse Franco Franchini, era «un inno alla libertà e palpito di speranza di un rinnovamento democratico in cui fossero rispettate la coscienza e la dignità dei singoli, in un clima di giustizia e di parità di doveri e diritti». Tra questi professori, lo apprenderò successivamente, vi era anche il professor Achille Pellizzari, sulla cui figura mi intratterrò nelle prossime pagine. Completato il penultimo anno del liceo, ritornai a Belforte per le vacanze estive, che trascorsi lavorando i campi.

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Ai primi di ottobre, anziché ritornare a Genova per riprendere gli studi, entrai nelle formazioni partigiane, arruolandomi nella Seconda Brigata Julia, arruolamento che venne formalizzato con l’ordine del giorno n. 2 del 14 ottobre: «ASSUNZIONE IN FORZA EFFETTIVA – Il Distaccamento “Lampo” assumerà in forza effettiva il Patriota GIGLIOTTI Sergio, nome di battaglia “Sparviero”». Militai in questo Distaccamento per poche settimane per passare poi al Distaccamento “Bartali”, dal nome di battaglia del suo primo Comandante per una certa rassomiglianza col grande campione delle due ruote. Il Distaccamento, successivamente, prese il nome di “China”, in onore di un suo partigiano caduto durante il rastrellamento del luglio ’44. Non entrai subito nel Distaccamento “Bartali” perché il Comandante e il Vicecomandante erano, il primo, il fidanzato e, il secondo, il marito di due nipoti dei miei genitori, i quali, intuendo ciò che bolliva nella mia testa, si raccomandavano loro di non prendermi nella loro formazione dato che «prima dovevo finire gli studi liceali». Venni dotato, subito, di una mitraglietta “Sten” e, poche settimane dopo, di un mitragliatore “Bren”, matricola 13.T.9111, che fu la mia efficiente e fedele arma per tutto il periodo partigiano. Appena smobilitato, nel maggio del 1945, fatto ritorno a casa, i miei genitori mi fecero trovare la valigia quasi pronta per ritornare a Genova in collegio. Dovevo riprendere gli studi interrotti per prepararmi, durante l’estate, a sostenere nella sezione autunnale l’esame di maturità e recuperare così l’anno scolastico perduto. Ritrovai il mio Preside e quasi tutti i miei professori, compresa la professoressa fascista che cercai inutilmente di aiutare per farle avere notizie del marito, ufficiale della polizia ferroviaria fascista, scomparso nel nulla. Ritrovai anche un amico che credevo chiamarsi Bonfanti, mentre il suo vero cognome era Levi. Era un ebreo che, per molti anni, senza mai tradirsi neppure con me che con lui condividevo la stanza, aveva nascosto la sua vera identità dietro quel falso nome per sfuggire alle persecuzioni delle leggi razziali. Non ho mai approfondito se il Preside del liceo fosse o meno a conoscenza della vera identità di questo studente. All’esame di maturità svolsi il tema «Dante partigiano anche nella beatitudine del Paradiso». Non vi era possibilità di scelta, perché altrimenti mi sarei indirizzato su qualcosa per me di meno impegnativo, essendomi mancata la possibilità, nei pochi mesi estivi, di approfondire lo studio del Paradiso dantesco. A sostenere l’esame, assieme a me vi erano altri due miei compagni. Uno, Bevilacqua, che era miracolosamente scampato all’eccidio del Turchino o della Benedicta, non ricordo bene, e l’altro, quello che aveva militato nelle forma19


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zioni militari della repubblica fascista di Salò, al quale il Preside, esponente della Resistenza, permise di sostenere, quasi clandestinamente, l’esame di maturità. Se fosse stato scoperto, sarebbe stato inviato nel campo di prigionia di Coltano, ove erano stati rinchiusi molti militari della Repubblica Sociale Italiana. Per chi, oggi, parla di pacificazione, questo ne fu uno dei primi, generosi esempi. Dopo questa premessa, ritorno all’argomento del libro e riprendo il filo del racconto. Il 22 o il 23 dicembre 1943, erano già calate le ombre della sera, assieme a mio fratello Ugo, percorrevo a piedi la ripida mulattiera che, per circa due chilometri, porta, senza dare respiro, dalla stazione ferroviaria di Ostia Parmense a Belforte. Provenivo da Genova e tornavo al mio “natio borgo selvaggio” per trascorrere in famiglia le tanto desiderate vacanze natalizie. Verso la fine dell’erta salita, a un centinaio di metri dalla mia casa paterna, improvvisa, stentorea e imperiosa udii una voce proveniente dal buio che intimava l’ “alt chi va là”. Era una pattuglia della banda partigiana denominata “Vampa”, dal nome di battaglia di uno dei suoi fondatori e primo Comandante, Giovanni Cattini. Questo fu il mio primo impatto con la Resistenza armata, ancora allo stato primordiale, e con un gruppo al quale, poco dopo aver ultimato l’anno scolastico in corso, avrei aderito, come ho già detto, appena diciottenne. Nello scrivere queste pagine debbo ancora fare un salto cronologico in avanti per compiere il dovere di ricordare un episodio che mette in risalto il coraggio e la solidarietà della popolazione nei confronti dei partigiani, solidarietà che si manifestò nei miei confronti quando venni catturato. Dopo un attacco a una pattuglia tedesca sulla strada provinciale che congiunge Borgotaro a Berceto, avvenuto il 29 gennaio 1945, con altri miei amici partigiani, anziché raggiungere la sede del mio Distaccamento a Mariano di Valmozzola, vista la vicinanza, assieme ad altri due, mi recai in famiglia a Belforte per una breve visita. All’alba del 2 febbraio la mia casa venne circondata da russi e tedeschi: tutti i miei familiari furono costretti a uscire per strada in mezzo alla neve, scalzi e con indumenti insufficienti a riparare dal freddo. Picchiato perché confessassi dove erano le armi, venni fatto prigioniero assieme a mio padre, a mio fratello Ugo, di appena sedici anni, e a un mio anziano zio. La casa venne incendiata e solo l’intervento della coraggiosa gente del paese limitò i danni. Quei pochi abiti che avevo indosso erano borghesi, perché la divisa partigiana era stata messa a bollire per disinfestarla dai pidocchi, nella duplice sottospecie di bianchi e grigiastri, che troppo di frequente erano la nostra pruriginosa compagnia. Questi noiosi parassiti furono la mia salvezza o, per lo meno, mi evitarono la deportazione in Germania: deportazione sicura, se 20


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fossi stato identificato come partigiano, a meno che non fosse intervenuto un provvidenziale scambio con prigionieri tedeschi. Assieme a un folto gruppo di partigiani e di civili, che erano stati catturati nella stessa mattinata, venni tradotto a Berceto e rinchiuso, assieme ai civili, nell’angusta prigione, che si trovava nella piazzetta antistante al Duomo. Venni sottoposto a vari e “scomodi” interrogatori dal sergente delle SS Jost, responsabile della lotta contro i partigiani, che, per la crudeltà con la quale li trattava, venne soprannominato “il boia”. Sposò o si accompagnò con un’italiana, la quale, spesso, era presente quando torturava i partigiani. Questa sua compagna era una parente di un’importante famiglia nobiliare, attraverso la quale, pochi giorni prima della Liberazione, riuscì a fargli ottenere un salvacondotto alleato che gli permise di lasciare indenne il teatro delle sue crudeltà. Riuscii a non tradirmi nonostante la lunghezza delle basette e dei capelli che insospettivano i miei inquisitori che non mi trattarono coi guanti. Mentre, incolonnato con gli altri, venivo condotto a uno dei diversi interrogatori, lungo la strada che portava al comando tedesco, a fianco della piazzetta retrostante al Duomo, lo spazzino di Berceto, Ernesto Zambernardi, che stava spalando la neve, mi si accostò e, approfittando della fitta nebbia, furtivo, mi offrì il badile, affinché fingessi di continuare il suo lavoro e mi sottraessi così al rischio di essere individuato come partigiano, con tutte le conseguenze che me ne sarebbero derivate. Feci un cenno di diniego e proseguii. L’iniziativa dello spazzino, in verità, era stata ispirata da don Angelo Pasquali, a casa del quale, per non perdere l’anno, quando nel 1941 la mia scuola a Genova fu bombardata, nell’attesa di una sistemazione diversa, avevo proseguito gli studi. Il sacerdote era il Cappellano del Santuario della Madonna delle Grazie; collaborava col CLN di Berceto e suo padre, che veniva a portarci un po’ di cibo con cui sfamarci, mi chiese, bisbigliando per non farsi udire dai carcerieri, perché non avessi approfittato di quella occasione. Gli risposi che non volevo che mio padre e mio fratello corressero ulteriori rischi per me. Tenni testa ai duri e pressanti interrogatori, sostenendo che ero studente e che non avevo potuto riprendere gli studi perché la mia scuola a Genova era stata bombardata. Come Dio volle, dopo molti indugi, venni rilasciato. Rientrato a Belforte, lavorai con mio padre per rimediare alla meglio ai danni provocati dall’incendio della casa, poi, dopo qualche giorno, recuperato il mio “Bren” che per fortuna era sfuggito alle ricerche dei tedeschi, ripresi il mio posto nella Brigata. L’ho fatto già pubblicamente a Berceto, ma anche in questa occasione sento il dovere di esprimere a don Angelo e al coraggioso spazzino la mia profonda gratitudine per la loro solidarietà. 21


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Nozze partigiane

Tra tanti e duri eventi guerreschi se ne annoverò uno che più pacifico e nello stesso tempo più gentile di così non poteva essere. Ai partigiani della brigata arrivò la gioiosa notizia che il suo comandante “Birra” stava per convolare a giuste nozze con la signorina Zita Marzocchi. La cerimonia venne celebrata il 15 novembre a Succiso, piccolo paese situato tra il Passo della Cisa e Pontremoli. Fu un matrimonio che, nella sua religiosità, non poteva non avere un contorno anche partigiano. I due sposi vennero uniti in matrimonio dal cappellano della brigata “don Carlo” e testimoni furono il commissario del Comando Unico “Poe” e Umberto Pestarini, “Umberto”, che, come si vedrà in seguito, succederà a “Birra” nel Comando della brigata. Mancava don Guido solo perché si trovava a Roma a chiedere aiuti per la Resistenza. Ma anche la luna di miele, chiamiamola così, ebbe dei risvolti partigiani perché, verso sera, il novello sposo anziché “abbracciare” la tenera sposa fu costretto a “imbracciare” il ferreo mitra per respingere una puntata nemica verso il paese di Succiso, ove era appena terminata la gioiosa festa nuziale. Il professor Pellizzari, “Poe”, era molto attaccato a “Birra” e, come tutti coloro che lo conoscevano, lo teneva in somma considerazione. Nei documenti della brigata vi è un biglietto augurale inviatogli in occasione della festività del Santo Natale 1944, con scritte di suo pugno le affettuose parole: A Birra e a Zita, a tutti i loro cari invia auguri di ogni bene, per oggi e per domani e per poi, l’affezionatissimo A.P.

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Il duro inverno

Arrestatasi l’offensiva alleata contro le fortificazioni della Linea Gotica e con l’inverno ormai iniziato, l’attività di guerriglia delle brigate andava affievolendosi anche perché si stavano assottigliando le scorte di munizioni. Il generale Alexander, il 13 novembre 1944, inviò alle formazioni partigiane un nuovo messaggio col quale informava che l’offensiva alleata veniva rinviata alla primavera del 1945, invitandole a sospendere l’attività di guerriglia e a sciogliere temporaneamente le formazioni. Alexander non si rese conto che non tutti potevano smobilitare per riprendere l’attività in primavera. Le formazioni pertanto restarono ai loro posti, sia pure in posizioni meno esposte. Di fronte a questo deciso atteggiamento di non smobilitare, ribadito anche da don Guido nel corso della sua missione a Roma, gli Alleati intensificarono i lanci di vestiari, scarpe, armi e munizioni. La Seconda Julia ricevette un consistente lancio il 4 gennaio del 1945 a Mariano di Valmozzola. Nevicava senza interruzione da diversi giorni e giungevano al Comando di brigata informazioni riguardanti l’ammassamento di truppe nazi-fasciste a Solignano, Valmozzola stazione, Ghiare di Berceto, Roccamurata, Ostia, Borgotaro e in diverse località della Val Ceno, chiaro indizio di un imminente massiccio rastrellamento. Lo scopo che i tedeschi non avevano raggiunto nel luglio del 1944 speravano di ottenerlo con la nuova operazione che stava per scattare, favoriti dalla neve che avrebbe reso molto difficile ogni via di scampo ai partigiani. Gran parte del vestiario e delle scarpe lanciate dagli Alleati venne immediatamente distribuita per meglio difendere gli uomini dal rigore del freddo. Le armi e le munizioni non strettamente necessarie vennero occultate dentro le cavità delle secolari piante di castagno. La neve, che silenziosa continuava a cadere, cancellava le orme che portavano a quei depositi di fortuna. Il rastrellamento iniziò e le truppe nazi-fasciste, dal fondo delle valli, salirono verso i monti alla caccia dei partigiani. Alcuni distaccamenti, che non erano stati impiegati nella raccolta e nell’occultamento del materiale del lancio erano già passati sulla riva destra del Taro. 136


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Il 5 gennaio, poco dopo mezzogiorno, il Comando, per sfuggire all’accerchiamento che già si delineava, impartì alla restante parte della Brigata l’ordine di armarsi e di portarsi anch’essa sulla sponda destra del fiume, cioè verso le più familiari contrade di Baselica e di Belforte che le informazioni non davano investite dal rastrellamento. Un passo dietro l’altro, faticosamente, gli uomini della brigata, appesantiti dalle armi e dalle scorte di munizioni, si aprirono la strada rompendo la neve alta oltre un metro. Raggiunsero la località denominata Roncaccia, sul cui displuvio si domina gran parte della vallata del Taro. Il cielo, intanto, si stava rasserenando. Oltre il fiume, lontani, i paesi di Belforte e Baselica: raggiungerli poteva significare la salvezza. Di qua dal fiume, Branzone e Tiedoli, già occupate dai tedeschi: indugiarvisi significava la morte o la prigionia. I colpi dei “ta-pum” e delle armi automatiche nemiche, sparati a casaccio, le sagome delle sentinelle tedesche poste sulle alture e sulla neve le orme che mostravano la strada percorsa dai partigiani, crearono un momento di riflessione sul da farsi. Chi era favorevole alla frammentazione della formazione, affinché ognuno o a piccoli gruppi si portasse sull’altra sponda del Taro, chi voleva battere una strada, chi un’altra. In quel momento, su quel pianoro scoperto si abbassarono due aerei alleati che, per fortuna, riconobbero i partigiani e fecero alcuni cenni di saluto. Ad un certo punto il capo di stato maggiore della brigata “Vampa” ruppe gli indugi e si rivolse a una partigiano chiedendogli: «Te la senti di portare il mio Battaglione oltre il Taro?». Alla rapida risposta affermativa, il battaglione abbandonò immediatamente la strada e, immettendosi in un canalone, in mezzo all’acqua gelida, senza lasciare tracce, riprese la marcia, mentre il Comando, scortato da un ventina di partigiani, proseguì seguendo la strada sempre coperta da un alto strato di neve, per una diversa destinazione. Il battaglione “Vampa”, dopo circa un’ora raggiunse un gruppo di case in una località dell’alto Tiedoli, denominata Testanello. Le brave famiglie di quei casolari, incuranti del pericolo che potenzialmente le minacciava, perché a non più di 300-400 metri stazionavano le sentinelle tedesche, sfamarono e riscaldarono come poterono in fretta e furia questi uomini, che dovevano cercare la via della salvezza per essere in grado di combattere domani. La sera era calata con le sue ombre. Il battaglione aveva appena ripreso la marcia quando si udì non troppo lontano un calpestio. Rapida e possente una voce, mentre tutti gli uomini si gettarono a terra pronti al combattimento, gridò: «Alt, chi va là, parola d’ordine»: non meno rapida, dall’altra parte risposero con la parola d’ordine e con la richiesta della contro parola. Erano gli uomini che, assieme al Comando, non avendo potuto percorre l’itinerario 137


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prefissato, avevano puntato sulla direttrice di marcia del battaglione “Vampa”. Un sospiro (e che sospiro!) di sollievo uscì dal petto di tutti. Rifocillatisi velocemente anch’essi presso quelle generose famiglie, tutti ripresero la marcia verso il Taro. Con la notte scese anche il gelo. Nel buio e col ghiaccio, con le mani impedite dalle armi imbracciate, il cammino era irto di difficoltà e ognuno bastava appena a se stesso. Eppure, a turno, si riuscì a trasportare due partigiani che, durante il percorso, scivolando, si erano fratturate le gambe. Al primo gruppo di case che si trovarono sul cammino, in località “Barca”, presso familiari di partigiani, si lasciarono gli infortunati, che vennero nascosti e che il giorno dopo vennero “ingessati” con strisce di stoffa imbevute di albume di uova che, seccandosi, faceva la funzione del gesso. La marcia, lentamente, continuò anche fuori strada per evitare di incappare in qualche pattuglia nemica che ogni tanto sparava colpi a casaccio e lanciava razzi colorati. La luna, alzatasi, illuminava il cammino, ma nello stesso tempo poteva favorire l’avvistamento da parte del nemico. Il Taro era ormai a poche centinaia di metri, ma gli uomini erano sfiniti per la lunga e faticosa marcia di oltre dieci ore. A questo punto si dovette assumere la decisione se attraversare il ponte di Magrano, presso Ostia Parmense, presidiata dal nemico, oppure risalire più a monte, verso Borgotaro, e attraversare il fiume in un punto guadabile. Questa seconda soluzione era indubbiamente la più sicura, ma gli uomini non avrebbero sopportato tale ulteriore fatica. Il ponte era lì a portata di mano. In fondo si scorgevano le sagome di due sentinelle tedesche. Sopraffarle sarebbe stato estremamente facile, ma da Ostia il presidio tedesco era in grado, con i fucili e le mitraglie, di colpire chiunque transitasse sullo scoperto ponte. La colonna si fermò. In testa “Vampa” discusse con un piccolo gruppo di partigiani sul da farsi. Ed ecco che due partigiani, uno col fucile mitragliatore “Bren” e l’altro con la “maschinenpistole” tedesca, puntarono decisamente sul ponte. La decisione era stata presa. «Disporsi in colonna distanti circa dieci passi l’uno dall’altro e attraversare il ponte». Questo fu l’ordine da trasmettersi da un partigiano all’altro sino all’ultimo della colonna. Un campo che la luna, nel biancore della neve, illuminava a giorno, degradante verso il fiume, completamente scoperto, senza un cespuglio, senza un riparo, portava all’ingresso del ponte. La formazione riprese il cammino snodandosi lungo quel campo, come un lungo serpente. I due partigiani, mandati in avanscoperta, ricurvi sulle armi pronte a far fuoco, iniziarono ad attraversare il ponte. Le sentinelle tedesche, alla vista di quella interminabi-

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le fila, abbandonarono il loro posto. I due partigiani, ormai sull’altra parte del fiume, in posizione coperta, erano pronti a proteggere il passaggio della brigata. Lentamente, senza colpo ferire, tutti i partigiani si portarono sull’altra sponda del Taro. Era quasi l’alba quando i partigiani della Seconda Julia raggiunsero Baselica e trovarono in ogni casolare i generosi montanari che si alzarono dai letti a ristorarli e ad accendere il fuoco per riscaldarli e per sgelare i vestiti che stavano loro addosso a guisa di armature medioevali. Le prime luci del giorno dell’Epifania filtrarono pallide attraverso gli affumicati e giallastri vetri delle cucine e i partigiani, buttati sulle panche e su giacigli improvvisati, finalmente, poterono abbandonarsi a qualche ora di sonno mentre i contadini vegliavano per loro. La brigata era sfuggita alla morsa che poteva annientarla. Ma anche senza il messaggio di Alexander, con la neve che rendeva difficile i movimenti, per tutto il mese di gennaio, era impossibile svolgere qualsiasi attività.

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In alto a sinistra: Giuseppe Molinari (Birra) e Guglielmo Cacchioli (Beretta), 1945. In alto a destra: Umberto Pestarini (Umberto, il secondo da destra) e don Aurelio Giussani (don Carlo, al centro) assieme ad altri partigiani, 1944. In basso a destra: Giovanni Cattini (Vampa).


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Porcigatone, 30 marzo 1945, Achille Pellizzari (Poe) parla agli uomini della divisione Val Taro. Da destra: Giacomo Ferrari (Arta), don Aurelio Giussani (don Carlo), Umberto Pestarini (Umberto); in seconda fila, Pippo Sidoli.


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La nuova edizione della Seconda Julia la piÚ bianca delle brigate partigiane viene stampata nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle Cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel mese di aprile dell’anno duemila dieci

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