IL SENSO DEGLI OPPOSTI A cura di Ferruccio Andolfi Anima e corpo Libertà e grazia Ragione e passioni Giustizia e compassione Libertà e uguaglianza Amore e odio Individuo e Stato
– Pensare la vita –
Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto Redazione Leandro del Giudice Progetto grafico e copertina Anna Bartoli
ISBN 978-88-8103-771-1
Š 2014 Edizioni Diabasis Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: info@diabasis.it www.diabasis.it
Il senso degli opposti A cura di Ferruccio Andolfi
Il senso degli opposti A cura di Ferruccio Andolfi
I
Introduzione di Ferruccio Andolfi IL SENSO DEGLI OPPOSTI
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Anima e corpo in Platone Alberto Meschiari
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LibertĂ e grazia in Lutero Alberto Siclari
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Ragione e passioni in Spinoza Paolo Cristofolini
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Giustizia e compassione in Schopenhauer Ferruccio Andolfi
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LibertĂ e uguaglianza in Tocqueville Elena Pulcini
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Amore e odio: Empedocle e Freud Federica Montevecchi
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Individuo e Stato nel pensiero di Adorno Italo Testa
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Vita contemplativa e vita attiva in Hannah Arendt Paolo Costa
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I Relatori
Introduzione
Una certa saggezza popolare ci ha reso familiare l’idea che la verità non si trova mai da una sola parte ma si divide equamente tra gli opposti partiti. Manzoni se ne fa interprete quando nei Promessi sposi scrive: «La ragione e il torto non si divide mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altra». Un grande filosofo di quella medesima epoca, Hegel, ne ha dato una formulazione “nobile” nella sua dialettica degli opposti, in base alla quale nessuna posizione (tesi) racchiude in sé la totalità del vero, ma rimanda a un termine contrario che la nega (antitesi) e la loro simultanea verità si esprime in un terzo termine (sintesi). Il terzo corso di formazione filosofica Pensare la vita, che si è tenuto a Parma nel 2013 per iniziativa dell’associazione La Ginestra, con il patrocinio del Dipartimento ALEF – Area di Filosofia e il decisivo contributo dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma, è stato dedicato appunto al tema Il senso degli opposti. Ciascun relatore ha trattato una polarità fondamentale dell’esistenza e della vita associata (anima e corpo, amore e odio, ragione e passioni, vita contemplativa e vita attiva, libertà e grazia, giustizia e compassione, individuo e Stato, libertà e uguaglianza) a partire da un autore in cui si è manifestata in modo particolarmente significativo. Questa rete di riflessioni ha permesso di comprendere meglio, e in maniera meno superficiale, in che senso en-
trambi i poli di ogni opposizione possono essere veri. Non si tratta di attribuire un uguale valore a entrambi, per un malinteso senso di equanimità, e neppure di supporre che ci sia un terzo elemento che li supera. Le più interessanti visioni del mondo sono state create grazie a una certa parzialità, scegliendo cioè uno dei due termini come fondamentale e cercando di pensare quello opposto a partire da esso. Naturalmente non è affatto la stessa cosa se la scelta cade su un termine (o un valore) o su quello opposto. Il lettore non avrà difficoltà a capire quali sono in merito gli orientamenti degli autori trattati come dei loro interpreti. E questi modelli lo aiuteranno, si spera, a schierarsi a sua volta. Questo discorso rischia di restare oscuro senza un’esemplificazione, per la quale mi rifarò alla coppia di termini che ho trattato nella mia lezione: giustizia e compassione. Non si tratta di termini propriamente opposti, si dirà, possono essere concepiti come complementari. Tuttavia nella storia del pensiero e delle religioni non è raro che la logica della giustizia sia stata opposta polarmente a quella della compassione. Si pensi a come è stato pensato il rapporto tra il Dio della giustizia (e della vendetta) veterotestamentario e quello di amore e misericordia dei Vangeli. Oppure alla morale kantiana, che fa risiedere ogni valore nell’osservanza della legge e ha persino in sospetto i sentimenti “impuri” della compassione. Del resto egli appartiene a una tradizione che viene da lontano: dagli stoici a Spinoza e si prolunga fino a Nietzsche e Hannah Arendt. A volte, è il caso di Habermas, si assiste al tentativo di mostrare come per accedere ai valori di una bontà positiva non sia necessario uscire dal-
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l’ambito della giustizia. Nondimeno una tradizione non meno nobile, da Buddha a Schopenhauer fino a Lévinas, scommette tutto sulla compassione, e concepisce al più la giustizia come un grado preparatorio della compassione (Karuna, Mitleid). Si intuisce facilmente che da queste diverse opzioni scaturiscano disposizioni verso la vita profondamente diverse. Un ringraziamento va ai miei collaboratori che da anni contribuiscono alla progettazione e gestione del corso (Simona Del Bono, Annamaria Ricucci, Marco Anzalone), ai moderatori degli incontri (Fabrizio Amerini, Simona Bertolini, Simona Del Bono, Emanuela Giuffredi, Donatella Gorreta, Marina Savi, Chiara Tortora), a Sabrina Govi che ha costruito e implementato il blog di Pensare la vita (pensarelavita.wordpress.com), ai tirocinanti che hanno curato l’accoglienza dei corsisti all’ingresso del cinema Astra e provveduto alla trascrizione di alcune lezioni. Lo staff dell’Assessorato alla Cultura del Comune ci ha dato una consulenza tecnica preziosa nelle persone di Irene Fossa e Luca Amadasi. Mariagrazia Andriani mi ha validamente aiutato nella revisione dei testi.
Ferruccio Andolfi
III
Il senso degli opposti
Alberto Meschiari Anima e corpo in Platone1
Introduzione oi tutti siamo abituati a considerare l’unità psicofisica come un dato di fatto. Ma non è stato sempre così. Ora, parlare di anima e corpo in Platone significa riandare alle fonti del pensiero dell’anima – che precedono di parecchi secoli l’era cristiana – alle origini di una descrizione sistematica del corpo, e a quelle di una comprensione della loro interazione. Ma significa anche vedere come in Platone i pensieri dell’anima e del corpo a un certo punto s’intersechino strettamente con quello della città (polis) e della sua organizzazione. Significa far ritorno alle radici degli interrogativi politici in cui ci dibattiamo ancora oggi. Questo vi dice quanto sia falsa la vecchia immagine caricaturale del filosofo con la testa perduta fra le nuvole. Già in Platone filosofia e politica (da polis, appunto) sono inscindibilmente intrecciate. Perché continuiamo ad amare tanto Platone? Probabilmente perché è il filosofo che ci ha regalato due grandi speranze, dice María Zambrano: quella di vincere la morte grazie all’immortalità dell’anima; e quella di realizzare sulla terra il “regno della giustizia”. Il genere utopia compare per la prima volta nella storia con La Repubblica (Politeia, in greco) di Platone.
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Alcune brevi coordinate biografiche per inquadrare la sua opera. Platone nasce nel 428 a.C. nel cuore dell’aristocrazia ateniese, in una famiglia ricca tanto di beni quanto di genealogia. Vanta addirittura una discendenza da Solone, il primo legislatore di Atene, e una da Codro, ultimo re della città. Lo zio materno, Crizia, era stato uno dei Trenta tiranni che nel 404, quando Platone aveva 24 anni, aveva rovesciato la democrazia in Atene e fondato un regime sanguinario. Il potere di Crizia durò pochi mesi e fu a sua volta abbattuto da una restaurazione democratica in cui egli stesso trovò la morte. Per tutte queste ragioni Platone pareva destinato a seguire la carriera politica, come ricorda egli stesso nella famosa Lettera VII, scritta in tarda età. Ma nel 399 avvenne un fatto traumatico, destinato ad allontanarlo per sempre dalla scena della democrazia ateniese. Il regime democratico, che aveva dato inizialmente prova di una certa tolleranza, processa e condanna a morte il suo maestro Socrate, accusato di traviare i giovani con i suoi discorsi e di aver introdotto in città nuovi dei. Fu questo evento a mettere Platone sulla via della filosofia. Da allora in poi egli non avrebbe cessato di riflettere sul rapporto tra la filosofia e la città, tra la filosofia e la politica. È dopo quell’evento che Platone comincia a scrivere i suoi dialoghi, quasi tutti ambientati nel trentennio precedente. Vi è messa in scena la grande società ateniese nell’arco di tempo che va dalla morte di Pericle (429) alla guerra del Peloponneso contro Sparta fino alla sconfitta nel 404 e al colpo di stato oligarchico, il cui modello veniva proprio da Sparta. I personaggi dei dialoghi, quasi tutti morti all’epoca della loro composizione, rappresentano quella società, quasi che Platone avesse voluto inter-
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rogare ancora una volta quella generazione per comprendere gli errori che avevano portato alla crisi della città. Intorno al 387 fonda l’Accademia, dove vent’anni dopo sarebbe approdato il più grande dei suoi discepoli, Aristotele. Convinto che solo un potere filosofico possa porre fine ai mali della polis, nel 388 Platone e alcuni amici dell’Accademia intraprendono un primo viaggio a Siracusa, una delle maggiori città del mondo greco. Forse si aspettava di realizzare là ciò che non era possibile ad Atene, vale a dire un governo di filosofi. Ma tre viaggi nell’arco di vent’anni non fanno altro che confermare il fallimento delle sue aspettative. Platone muore nel 347/6, a settantacinque anni, ed è sepolto nel giardino dell’Accademia. Perché Platone scrive dei dialoghi e non dei trattati? Platone non concepisce la filosofia come un sistema di dottrine compiute da imporre ai suoi lettori. Egli mette in scena la filosofia in azione, come dialégesthai (dialogare, confrontarsi, disputare), la filosofia come ricerca aperta della verità (philo-sophia – da philêin = amare indica appunto l’amore per il sapere, non il suo possesso, che è solo degli dei). La filosofia come un interrogarsi collettivo sulle questioni di comune interesse: ad esempio su cosa sia virtù. Questo è lo spirito socratico ereditato da Platone, che rivela di per sé una vocazione democratica. Ed è anche per questo che continuiamo ad amarlo. Dice Socrate nell’Apologia: «una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta». I dialoghi sono ricchi di tesi filosofiche diverse e talora perfino contrapposte, nessuna delle quali è direttamente ascrivibile a Platone. Platone è l’autore di tutti i suoi personaggi e quindi di tutte le loro tesi, anche se s’individuano comunque alcuni temi forti che costituiscono il nucleo del
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suo pensiero. I dialoghi sono un’opera corale, in cui si ha l’impressione di una mancanza di linearità, di coerenza, di un permanere di contraddizioni non risolte. Fra l’altro, non è nemmeno sempre possibile ordinarli cronologicamente.
Iliade, storia di una passione Cantami, o Dea, del Pelìde Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei, gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde di eroi, lasciate in pasto ai cani e agli uccelli – così si compiva il consiglio di Zeus – da quando aspra contesa avea diviso l’Atride signore di eroi Agamennone e il divino Achille.
L’Iliade è la gigantesca storia di una passione: l’ira di Achille. L’azione si svolge in cinquantun giorni, e argomento ne è un episodio dell’ultimo anno, il decimo, della guerra di Troia: l’ira di Achille contro Agamennone, comandante in capo dell’esercito degli Achei, che gli ha preso la schiava e concubina Briseide. Ora, la finzione poetica dell’Iliade – risalente all’VIII secolo – parla a un pubblico già lontano centinaia di anni dal tempo in cui la finzione è collocata. Ma questa finzione racconta quale fosse la morale degli inizi, la morale della società omerica. Poniamo attenzione a questo che è il punto di partenza di tutto il ragionamento. Il conflitto fra Achille e Agamennone è il conflitto fra due eroi. Nella società omerica l’eroe è generalmente signore di una piccola comunità o casata (oikos), circo6
scritta in un piccolo territorio, come l’Itaca di Ulisse, dove è assente qualsiasi legittimazione istituzionale, e la sola legittimazione è la difesa armata della comunità. Certo, nell’esercito radunato a Troia si può leggere in nuce una lontana rappresentazione di una comunità più grande, in cui si discutono fini comuni, strategie comuni. Ma l’eroe omerico rimane una figura autonoma e indipendente. Per di più non è responsabile delle proprie azioni, è destinato dagli dei, di cui spesso è figlio, dominato dalla passione (thymos), il suo potere (krátos) si fonda unicamente sulla forza, la sua virtù (areté) si esprime in un contesto agonale e guerriero e sta tutta nella sua capacità di esercitare violenza. Prendendosi Briseide, Agamennone disonora Achille. L’unica risposta possibile, immediata, è l’ira, la vendetta: Achille, il più valoroso dei guerrieri, recede dal combattere per gli Achei e ritira i suoi Mirmidoni dalla battaglia, facendo così volgere le sorti della guerra a favore dei Troiani. Subire il disonore comporta vergogna: inammissibile per un eroe omerico. Nella contesa fra Agamennone e Achille, manca un’istanza superiore, istituzionale, a cui entrambi possano fare appello per dirimere la contesa. Il conflitto non può esser risolto facendo ricorso a un arbitro esterno e superiore.
Risposte Ora, ciò che poteva valere per quel mondo estremamente circoscritto e primitivo, non può bastare a fondare la convivenza in una comunità più articolata, come quella che si viene sviluppando nei secoli successivi. 7
A questo problema della legittimazione istituzionale dell’azione, del superamento della violenza come strumento per decidere le controversie, vengono date in Grecia, fra il VII e il V secolo, due soluzioni diverse. Due soluzioni che s’intersecano nella figura di Socrate. È in questo contesto, che si sviluppa la riflessione platonica sulla interazione anima-corpo. 1. La prima soluzione consiste nella politicizzazione del problema morale, con la fondazione della città e l’elaborazione del pensiero della legge (nomos). La forza, come strumento per dirimere privatamente le contese, viene abbandonata nel momento in cui esiste una soggettività collettiva che esprime imparzialmente la sua volontà attraverso la legge. Una legge che garantisca la distribuzione regolata dei poteri, che controlli i conflitti, assegnando ragioni e torti; una legge che sostituisca la figura di un “noi” collaborativo a quello di un “io” agonale e competitivo. Questa è la prima risposta – di straordinaria potenza – che la storia culturale greca darà alla crisi dell’Iliade. E uno dei regali più importanti che essa fa all’Occidente. Virtù significherà con Socrate rispetto della legge, e non più capacità di esercitare violenza. Ma per affermare la priorità della legge sull’arbitrio individuale fu necessario, a partire da Solone (VII-VI secolo), un lungo cammino. Al termine del grande secolo della polis, il V, il secolo di Pericle, Socrate è il personaggio del cittadino militante, l’uomo in cui l’impresa educativa della città e della sua legge raggiunge il compimento. A questo riguardo è emblematica la scena del Critone platonico. Critone va a trovare Socrate in carcere, già condannato e in attesa della morte, e cerca di convincerlo a fuggire e a mettersi in salvo.
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Questa è la risposta di Socrate: O Critone, se quando siamo sul punto di prendere questa fuga o come altro ti piaccia chiamarla, ci si parassero dinanzi le Leggi e la Città e ci chiedessero: «Dimmi, Socrate, che cosa hai in animo di fare? Non pensi tu forse con codesto tuo tentativo d’uccidere, per quanto è in te, e noi, Leggi, e tutto intero lo Stato? O ti sembra possibile che resti in piedi e non vada in rovina quella città in cui i giudicati non hanno alcun valore, ma son resi vani e nulli dai privati?» [...] «Ma Socrate, era forse questo il patto intercorso tra noi e te, o non piuttosto che tu dovessi obbedire ai giudizi resi dalla città? [...] E se tu ti sottrai al nostro giudizio e te ne vai altrove, ti metterà poi conto di vivere? Quali discorsi terrai nella nuova città, continuerai a parlare di virtù e di giustizia e di legalità? Continuerai a insegnare che le leggi sono ciò che c’è di più prezioso per gli uomini?
«A chi potrebbe esser cara una polis senza nomoi?». Non c’è virtù senza giustizia, e la giustizia consiste primariamente nel rispetto della legge; e non c’è felicità (eudaimonia), lo scopo morale comune a tutti, senza questa giustizia, che sola rende possibile la convivenza umana. 2. La seconda soluzione va in una direzione apparentemente opposta, ma che, come vedremo, convergerà con la prima proprio nella figura di Socrate: nella direzione di una interiorizzazione radicale del problema morale. L’eroe omerico è impulsivo, immediato, esprime le sue passioni sotto forma di hybris (eccesso, tracotanza). Non ha un centro di controllo interiore. E non ha nemmeno il senso della colpa delle proprie azioni. Manca nel mondo omerico il soggetto morale, manca un Io a cui attribuire la responsabilità delle azioni. Ora, dopo l’Iliade e con Esiodo, Zeus inizia una metamorfosi: viene introdotto il concetto di dike (giustizia), e Zeus diventa signore della giustizia. Lo sguardo di Dike e
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dei suoi demoni trasforma l’innocente e perfino virtuosa hybris in una colpa. Il senso della colpa e della punizione inevitabile (némesis) viene radicando un’ansietà religiosa ignota all’eroe omerico. Ma su chi ricade questa colpa, se non c’è un responsabile? È qui che entra in gioco il pensiero dell’anima, inesistente nel mondo dell’Iliade. Un pensiero che, come vedremo fra poco, arriva in Grecia dal di fuori, da sette religiose di origine straniera. A questo punto possiamo finalmente occuparci di anima e corpo.
Anima e corpo in Omero Facciamo un passo indietro e chiediamoci: che consistenza hanno anima e corpo in Omero? Nei poemi omerici è soltanto la morte a produrre le forme di esperienza descrivibili come anima (psyché) e corpo (soma). Soma in Omero è il cadavere, la salma che giace esanime, una volta che l’abbia abbandonato l’anima. Per il corpo vivente Omero non possiede un termine preciso. A volte indica il corpo come involucro, più spesso impiega il nome collettivo di membra, un aggregato mobile che designa più il gesto momentaneo che non la struttura permanente. Come se ogni parte del corpo fosse indipendente e non sapesse nulla del resto. Psyché, dal canto suo, non ha alcuna funzione specifica nel corpo vivente: è una semplice forza vitale che si rivela soltanto quando lo abbandona, nell’attimo della morte, fuggendone attraverso la bocca con l’ultimo respiro, o dalla ferita insieme al sangue. L’anima, dice Omero nell’Odissea, abbandona il cadavere, fuggendone come un sogno. Abbandonato il cadavere, l’anima rag-
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giunge l’Ade, il mondo dei morti, dove sopravvive come un’immagine fantasmatica, un doppio incorporeo del vivente. Ma essa non ha, dopo la morte, alcuna funzione psichica particolare, così come non l’aveva in vita. Ora, una simile concezione dell’anima ha conseguenze anche per il pensiero etico, dato che essa non può costituire il fondamento di alcun sistema di premi o punizioni per le azioni compiute in vita. In Omero le esperienze non sono accentrabili attorno a un Io consolidato. Manca questo Io in Omero. Per il pensiero naturalistico e medico del V secolo, che non si discosta dall’eredità omerica, il corpo è il recipiente che si riempie e si svuota, dove cibi, arie, umori si scontrano e si compongono per dar luogo agli equilibri della salute o agli scompensi della malattia. Né esiste una concezione dell’anima capace di produrre una qualsiasi unificazione di questa dispersione fluida dei processi corporei. Manca anche qui un centro unificatore dell’unità psicosomatica.
Orfismo, pitagorismo Un’alternativa radicale alla tradizione omerica prende forma in Grecia a partire dal VI secolo. Dice Socrate verso la fine dell’Apologia: C’è molta speranza che il morire sia un bene. In effetti, una di queste due cose è il morire: o è come un non essere nulla, e chi è morto non ha più alcuna sensazione di nulla; oppure, stando ad alcune cose che si tramandano, è un mutamento e una migrazione dell’anima da questo luogo che è quaggiù a un altro luogo.
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Quali sono queste «cose che si tramandano»? Si tratta di dottrine e di pratiche introdotte da gruppi minoritari legati a esperienze mistiche, come l’orfismo, o a un messaggio sapienziale a connotazione religiosa come il pitagorismo. Queste esperienze danno luogo a una concezione dell’anima come essere incorporeo, immortale, legato da una stretta affinità col divino. Propriamente un demone, che per una colpa di natura morale può essere costretto all’esilio dalla sfera divina e all’immissione nell’esistenza corporea. Qui esso attraversa una serie di reincarnazioni, in corpi di diversa dignità, nel ciclo noto come metempsicosi. L’anima-demone può spezzare il ciclo delle reincarnazioni e tornare presso la divinità da cui proviene, attraverso una pratica assidua di purificazione, che consiste soprattutto nel rescindere progressivamente i vincoli con la corporeità, nel reprimere le sue esigenze – dei piaceri in primo luogo – attraverso l’esercizio dell’astensione ascetica, che presso i pitagorici è minuziosamente regolamentata. Il corpo costituisce dunque al tempo stesso la pena che l’anima deve espiare per la sua colpa, e il maggiore impedimento al suo ritorno a una condizione divina. Attenzione, però: questo demone, che vaga di corpo in corpo, non è legato a nessun individuo in modo peculiare, non è personale. Come si vede, in queste esperienze religiose minoritarie ci troviamo di fronte a un radicale capovolgimento di valori rispetto alla concezione omerica: l’anima diventa un principio divino e immortale, rispetto al quale il corpo costituisce una polarità degenerata e tombale. Il corpo (soma, ma anche sema, cioè “tomba dell’anima”, in quanto essa vi è sepolta durante la vita terrena, secondo
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il Cratilo) è solo un simulacro di vita che segnala (sema significa anche segno) la vicenda di un’anima colpevole. Le coordinate culturali entro cui fa la sua comparsa l’anima nel ruolo di protagonista della moralità religiosa sono definite da un sistema formato dalla religiosità dionisiaca, dall’orfismo e dal pitagorismo. Prima e al di fuori di questo sistema, psyché non appare investita, nella cultura greca, di alcuna particolare valenza religiosa, né tanto meno di una funzione privilegiata nella soggettivazione morale. L’assunzione dell’anima come figura centrale del pensiero religioso e morale va dunque considerata, dopo Omero, come una novità inaudita, e per lungo tempo marginale, introdotta in Grecia intorno al VI secolo dai movimenti di cui si è detto. Erodoto riconosce una matrice egiziana per le principali credenze orfico-pitagoriche. Studi recenti chiamano in causa la tradizione sciamanica di provenienza sciita, i culti anatolici, le credenze indo-iraniche sull’anima e le sue rinascite. Se il rito dionisiaco culmina nella sfrenatezza dello stato selvaggio, nell’uccisione dell’animale selvatico le cui carni sono dilaniate a mani nude e sbranate crude, per gli orfici e i pitagorici, che si pongono sotto l’insegna di Apollo purificatore, vige il rifiuto di ogni uccisione, una pratica di vita ascetica e il vegetarianismo: una opposizione polare rispetto all’estasi di Dioniso. E tuttavia accomuna questi movimenti un rifiuto della polis e della religione che essa ha integrato, un rifiuto della politica con i suoi valori violenti, della temporalità storica, del tempo e della corporeità, generati da una colpa originaria. Come risposta alla disperazione dell’esistenza, essi promettono salvezza e felicità: che non possono trovarsi se non fuori dalla città, dal tempo, dalla corporeità. Il de-
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stinatario della promessa sarà impolitico, immortale, incorporeo: su questa via nasce il pensiero forte dell’anima. La risposta di Socrate: interiorizzare l’etica L’Apologia si chiude con queste parole rivolte da Socrate, che si avvia a bere il veleno, agli amici che gli hanno tenuto compagnia negli ultimi istanti: Ma è ormai venuta l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio.
La priorità di valore dell’anima, la sua identificazione con il “vero io”, contrapposto all’esteriorità del corpo, dei suoi piaceri e delle sue vicende, costituisce il nucleo centrale che caratterizza l’esperienza socratica. È probabile che si possa attribuire proprio a Socrate il trasferimento nell’ambiente della polis ateniese del pensiero dell’anima. Ma rispetto a orfismo e pitagorismo, Socrate opera una svolta decisiva, attraverso la quale il tema dell’anima esce dal contesto religioso, per diventare il fulcro del discorso morale. Socrate è l’uomo donato dal dio alla città per persuadere i cittadini alla virtù. Dice ancora nell’Apologia: Se voi mi diceste: Socrate, ti lasciamo uscire dal carcere a patto che tu non dedichi più il tuo tempo alle tue indagini e non pratichi più la filosofia; io risponderei: ubbidirò più al dio che non a voi, e finché ne sia in grado, non smetterò di filosofare, e chiunque di voi incontri, gli dirò: «Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più grande e famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il più possibile fama e onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero
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della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?». E se qualcuno dissentirà e sosterrà di prendersene cura, non lo lascerò andare immediatamente, ma lo interrogherò, lo sottoporrò a esame e lo confuterò. [...] E io ritengo che non ci sia per voi, nella Città, un bene maggiore di questo mio servizio al dio.
Questa laicizzazione dell’anima è necessaria per cancellarne il carattere demonico, sovraindividuale, e trasformarla nel fondamento della soggettività morale. Il motto delfico: conosci te stesso, non può significare altro che conosci la tua psyché, perché l’uomo, nella sua essenza individuale, non è altro che la propria anima. Ma cosa significa anima in questo contesto? Nel Simposio platonico Alcibiade paragona Socrate ai Sileni. E ai Sileni di Alcibiade Erasmo da Rotterdam dedicò uno dei suoi Adagia pubblicati a Venezia nel 1508 da Aldo Manuzio. «I Sileni, scrive Erasmo, sono passati in proverbio per indicare una persona che dalla veste e dalla faccia ben poco lascia vedere della ricchezza che racchiude nell’animo». In effetti, stando a quel che si tramanda, i Sileni erano una sorta di figurine a intaglio, eseguite in modo da poter essere aperte e spiegate: quando erano chiuse riproducevano l’immagine, comicamente deforme, di un sonatore di flauto, aprendosi rivelavano d’un tratto un’immagine divina. [...] La maggior parte degli uomini rappresentano, invece, Sileni a rovescio. [...] i valori più alti sono al tempo stesso [...] i più riposti e i meno accessibili agli occhi profani.
Socrate afferma che dentro ciascuno di noi c’è un giudice che valuta la nostra condotta morale con severità e giustizia, un giudice al quale non si può sfuggire. Esso condanna all’inquietudine e all’infelicità anche chi è premiato dai benefici del corpo e della posizione sociale, o viceversa premia con una incrollabile, serena felicità, 15
anche chi appare duramente punito al di fuori. L’ingiustizia è il male più doloroso e tormentoso dell’anima, e soltanto la giustizia può risanarlo. Non c’è altra felicità se non nella salute dell’anima, cioè nella giustizia. Il male supremo è che la nostra anima giunga nell’Ade gravata di ingiustizia. Le ipotesi di una immortalità dell’anima e di un giudizio d’oltretomba, per quanto non necessarie (riconosce Socrate verso la conclusione del Fedone che «sostenere a spada tratta che le cose stiano proprio come io le ho raccontate, non si addice a un uomo dotato di senno; [credo tuttavia che] valga la pena di correre il rischio di pensare che stiano così – perché il rischio è bello – ed è necessario, per così dire, incantare se stessi con racconti del genere»), quelle ipotesi rafforzano, proiettandolo nell’eternità, quel giudizio che l’anima di ognuno pronuncia già durante la sua vita corporea, e ingigantiscono la promessa di felicità che consegue alla giustizia. Ma è proprio questo fare affidamento al giudice interiore che appare a Platone assai debole come fondamento morale. La tragedia: le passioni non oppongono l’anima al corpo, ma lacerano l’anima Socrate infatti sembra ignorare la parte irrazionale dell’anima, come gli rimproverano Aristofane e Aristotele. Socrate rifiuta l’esperienza tragica, quella messa in scena dalla tragedia greca, perché non comprende il conflitto interno dell’anima, la sua scissione costitutiva. Egli contrappone un’anima “pura”, indivisa, non articolata, al corpo come punizione dell’anima. Suppone un’affinità originaria fra quest’anima e il divino (per Platone solo la 16
parte razionale dell’anima sarebbe in relazione con gli dei). Vede nell’anima, liberata dai suoi vincoli, il nucleo di una soggettività autonoma e unitaria, responsabile delle sue libere decisioni. Bastava allora, secondo Socrate, che questa soggettività si rendesse consapevole del bene, del sistema legge-giustizia-felicità, perché il comportamento morale ne risultasse univocamente determinato e orientato alla virtù. Nessuno commetterebbe colpa volontariamente. La conoscenza sarebbe perfettamente in grado di governare i piaceri. In altri termini: nessuno che conosca il bene, opererà il male. Ma è proprio questa la debolezza dell’etica socratica. Il thymos, la pulsione violenta che preme per il soddisfacimento immediato del desiderio, rappresenta un’istanza interna alla dinamica psichica a cui l’anima non può far fronte. La tragedia greca non separa l’anima dal complesso delle emozioni, della sensibilità e della corporeità. Pensiamo all’Agamennone di Eschilo, all’Antigone di Sofocle, alla Medea di Euripide. Dice il corifeo a chiusura dell’Edipo re: O cittadini di Tebe [...] guardate questo Edipo, che conosceva gli enigmi famosi ed era il più valente tra gli uomini, né alcuno tra i cittadini poteva considerarne senza invidia la sorte, a quale flutto di tremenda sciagura è giunto. Onde non si stimi felice nessun mortale guardando al giorno estremo, prima che abbia trascorso il termine di vita senza aver sofferto nulla di doloroso.
Il rapporto di Edipo con la divinità non ha nulla a che fare con il cammino salvifico dell’anima. Edipo è oppresso da un daimon ostile, da un destino che egli non può controllare, opposto alle sue intenzioni, alla sua volontà. Medea, la sposa ripudiata di Giasone, sa che il thymos è responsabile dei mali maggiori per i mortali. Non basta dunque conoscere il bene per evitare il male, né 17
l’errore dell’anima è da attribuire soltanto a costrizioni esterne: passioni come l’odio e l’amore che agiscono dentro di essa sono sufficienti a travolgere ogni ragionevolezza. La crudeltà di Dioniso appare così installata nel cuore stesso del soggetto tragico. Ma allora, se l’anima cede al fato e alle sue stesse passioni, se in essa regna la stasis (conflittualità, sedizione, sommossa), proprio come nella città, se dunque l’anima non è una, come sarà possibile assumerla a fondamento della soggettività morale e dei suoi valori, come sarà possibile affidarle la responsabilità delle nostre azioni?
Platone: elaborare la scissione È questo il compito che si trova di fronte Platone: elaborare il problema della scissione dell’anima al suo interno, rinunciando all’idea di un’anima pura contrapposta al corpo. E lo fa in parallelo alla elaborazione dell’altro problema drammatico del suo tempo: il conflitto interno alla polis. L’ingenua convinzione socratica che la privata serenità dell’anima possa bastare al giusto viene così abbandonata come troppo debole e non universalizzabile. Aristotele definirà seccamente «una nullità» la tesi secondo cui l’uomo buono è felice anche sotto tortura (Etica Nicomachea). L’opposizione di anima e corpo è portata al suo estremo nel Fedone, dove Platone sembra chiudere i conti con orfismo e pitagorismo. Lo scioglimento dalle catene corporee, la preparazione alla morte come liberazione dell’anima, sono presentati come il compito della vita in generale, e il
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progetto della vita filosofica in particolare. Ma Platone ha in serbo un programma ben diverso, che non vuole creare un’alternativa al mondo, bensì fondare un nuovo sapere del mondo, cercare un fondamento etico delle nostre azioni e una soluzione ai conflitti interni della città. Una città per i vivi, non per i morti. Un esito di questa svolta consiste nello stabilire un rapporto non alternativo ma di integrazione fra anima e corpo, fra ciò che dirige e ciò che deve essere diretto, fino a spezzare del tutto, nella Repubblica (Libro IV), il dualismo animacorpo, fino a superare la loro opposizione. Gli opposti non sono più opposti. Qui, infatti, Platone ha raggiunto una chiarezza nuova: il conflitto non contrappone più l’anima al corpo, ma si svolge interamente fra le diverse istanze in cui si articola l’anima stessa: razionale, quella con cui ragioniamo; desiderante, quella che ci fa provare amore, fame, sete, e che eccita gli altri desideri, compagna di soddisfazioni e piaceri materiali; passionale, legata al thymos. Sulla base di questa articolazione interna, egli può sviluppare una politica dell’anima che viene a costituire il compito educativo centrale, l’impresa maggiore della parola filosofica. Con due conseguenze di straordinaria importanza. In primo luogo l’energia pulsionale radicata nella corporeità non deve più venire repressa mediante il rifiuto ascetico; una volta che essa sia riconosciuta come rappresentata da un’istanza dello psichico e resa quindi omogenea alla sfera della razionalità, se ne può tentare un’educazione, cioè una conversione dai suoi oggetti naturali (i piaceri) agli scopi della ragione stessa. Nella famosa allegoria del Fedro l’anima è raffigurata come la potenza d’insieme di una coppia di cavalli alata e di un auriga.
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L’auriga, la parte razionale dell’anima, conduce la pariglia; i due corsieri, diversi per carattere, rappresentano l’energia che deve essere guidata. Cosa significa questo? Che desideri e passioni possono venire aggiogati al carro della ragione. La seconda conseguenza sta in un atteggiamento verso la vita radicalmente diverso da quello della tradizione orfico-pitagorica ancora riecheggiata nel Fedone: se il conflitto è nell’anima, non ha senso considerare la vita come preparazione alla morte, e la salvezza come liberazione dell’anima dal corpo. Si tratterà piuttosto, attraverso una politica educativa dell’anima, di trasformare la vita e l’uomo stesso: un progetto, in luogo di una fuga, che spiega come la svolta decisiva della teoria platonica dell’anima cada all’interno di un dialogo politico come la Repubblica. Il cosiddetto artificialismo di Platone consiste in questo: che egli considera l’uomo plasmabile, modificabile, perfettibile tramite un programma educativo. Ciò a cui Platone è più interessato è una ristrutturazione profonda della tradizione dell’anima-demone, che ne liberi tutta la valenza morale. La visione che egli riesce a costruire e che avrà un grande avvenire, è quella secondo cui l’anima commette la colpa o si salva durante una singola vita corporea, e in questa si prepara il destino oltreterreno. Qui si gioca la responsabilità morale dell’anima individualizzata, nel rapporto univoco con un solo corpo e una sola vita, e si decidono i premi e le punizioni che la attendono dopo la morte. Al tempo stesso egli procede a una ricostruzione complessiva dell’immagine del corpo. Nell’affresco di Raffaello La Scuola di Atene, dipinto all’inizio del Cinquecento in una delle Stanze vaticane, Platone, per il quale sembra
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aver posato Leonardo da Vinci, tiene sotto braccio il Timeo, Aristotele l’Etica Nicomachea. Platone indica con un dito il cielo, Aristotele la terra. La direzione opposta delle loro mani indica proprio il luogo in cui l’uno e l’altro hanno cercato il fondamento dell’etica: nella trascendenza, Platone; nell’immanenza, Aristotele. Per parecchi secoli il Timeo di Platone è stato il dialogo più letto e studiato, e per molti aspetti anche il più influente nella storia del pensiero filosofico e teologico dell’Occidente. Ebbene, in quest’opera, per la prima volta nel pensiero greco, veniva delineata una complessa teoria dell’interazione fra anima e corpo. E nella terza parte, dove tratta della natura dell’uomo, Platone perviene, per la prima volta, alla comprensione del corpo come organismo articolato in una pluralità di parti anatomicamente distinte ma fisiologicamente connesse e interagenti fra loro. Una svolta filosofico-scientifica di rilievo epocale, senza la quale non sarebbe pensabile il grande sapere anatomicofisiologico sviluppato da Aristotele.
Platone: l’anima e la polis Veniamo così alla conclusione di questa lunga storia, al parallelo fra l’anima e la città. La Repubblica è tutta dedicata a fondare il nesso fra giustizia, politica e felicità. E questo nesso chiama in causa il rapporto fra l’individuo e la polis. Perché? La costruzione dell’etica non poteva che prender atto di un fatto incontrovertibile: che c’è pólemos, conflitto, in ciascuno di noi contro se stesso. Nemmeno la città è una. Anche la città è scissa e conflittuale come l’anima: la città non è un corpo indifferenziato e unitario
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di cittadini, come riteneva Socrate. Le città sono due, tra loro nemiche: la città dei poveri e quella dei ricchi. Le passioni dell’anima sono ciò che il conflitto sociale (stasis) è nella città. La politica tradizionale aveva dato luogo a due opposte degenerazioni: l’oligarchia e la democrazia. Opposte come la città dei ricchi e la città dei poveri. Opposte, ma equivalentisi nei delitti. Nessuna delle due risolve il problema della giustizia. Il problema della giustizia resta dunque quello della politica e del governo della città. Platone si propone una ricomposizione unitaria ma articolata della città, una sua pacificazione che sia soprattutto ordine gerarchico di parti differenziate. Come per l’anima. Platone sa bene che gli uomini non sono uguali per natura, sa bene che la loro dotazione intellettuale e morale è immensamente variegata, sicché non tutti possono svolgere le stesse funzioni sociali. La città giusta sarà quella in cui ognuno svolge il ruolo per il quale è meglio attrezzato: una distribuzione gerarchica delle funzioni è la sola, a suo giudizio, che possa garantire il vantaggio comune. L’ingiustizia, al contrario, consiste nel tentativo di sovvertimento dei ruoli. Ad esempio la pretesa al comando da parte dei detentori della ricchezza o della forza militare. È necessario educare gli uomini, perché da essi possa nascere la città giusta. La natura non produce uomini predisposti alla giustizia. Il motivo del raddrizzamento, dell’ortopedia educativa è centrale e ricorrente in Platone. L’educazione (paideia) costituisce il punto di contatto e di transito fra individuo e città, e fra progetto e realizzazione. Ma perché, ci si potrebbe chiedere, questa insistenza sulla giustizia? Che cosa rende la giustizia desiderabile? La prima risposta di Platone è che la giustizia, salute e armonia dell’anima, è tanto desiderabile quanto
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salute e bellezza lo sono per il corpo. Il sacrificio della pulsione primaria alla sopraffazione reciproca viene compensato dalla promessa di un benessere più solido e duraturo, non minacciato dai mali altrimenti inevitabili della paura universale e della insaziabilità individuale. Tema quanto mai hobbesiano, ma ancora al centro della psicoanalisi freudiana. Ora, se la città è malata, dove reperire i buoni medici che la curino? È nota la risposta che Platone fornisce nel V libro della Repubblica: A meno che i filosofi regnino nella città, o quelli che oggi han nome di re e di sovrani non prendano a nobilmente e acconciamente filosofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la filosofia, [...] a meno che ciò non succeda, non avran tregua i mali della città.
La città risanata dal conflitto, la città in cui i valori competitivi sono definitivamente posti al servizio di quelli collaborativi (questo significa in ultima istanza la giustizia), sarà infine una città felice, per l’armoniosa distribuzione dei ruoli e delle gerarchie che vi si è realizzata. È questa l’utopia di Platone, che si prolungherà fino alla Rivoluzione francese e alle società comunistiche ideate nell’Ottocento. La sua Repubblica ha costituito l’origine e il modello di una lunga tradizione utopistica che ha attraversato l’antichità e il Rinascimento fino a giungere alle soglie del mondo moderno. Lo ritroviamo nell’Utopia di Thomas More e nella Città del Sole di Campanella, nella Città felice del Patrizi, nella Nuova Atlantide di Bacone, nel socialismo utopistico di Saint-Simon, Owen, Fourier, Proudhon. All’opposto, Karl Popper (La società aperta e i suoi nemici, terminato nel 1942, una data assai significativa) la 23
interpretò come il primo modello dello Stato etico, cioè totalitario, precursore del comunismo e del nazifascismo. E in effetti Platone propone certe norme di eugenetica che col senno di poi fanno rabbrividire, o una ortopedia sociale che fa pensare alla cosiddetta “rivoluzione culturale” cinese! Per persuadere che il suo progetto non è impossibile, che la città ideale da lui descritta nella sua struttura concettuale nella Repubblica era già esistita nell’Atene del lontano passato, Platone ricorre nel Timeo, ideale prosecuzione di quella, a un espediente retorico, al mito di Atlantide. Nelle antiche scritture dei sacerdoti egiziani si troverebbe memoria dell’eccellenza dell’antica Atene prima dell’ultimo diluvio, e in particolare della grande impresa da essa condotta contro l’invadenza di Atlantide, che conquistava tutti i territori limitrofi, sottomettendo a sé gli altri popoli. L’antica Atene avrebbe impedito questa espansione e liberato tutti coloro che si trovavano al di qua delle colonne d’Ercole. L’isola di Atlantide venne poi sommersa dal mare e scomparve. Con il progetto della città ideale, con la rielaborazione dei concetti di anima e corpo, con il superamento della loro opposizione e la definizione dei termini di una loro possibile interazione, Platone rispondeva al problema morale apertosi in Grecia con il mondo degli eroi omerici. La sua riflessione non ha cessato di avere ancora oggi un’enorme risonanza in tutto il pensiero morale e politico dell’Occidente.
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L’anima e il corpo in relazione all’eros Restava tuttavia un elemento che premeva per trovar posto in questo quadro d’insieme: il desiderio erotico. Platone non può farne a meno, perché l’eros è la fonte principale di energia del complesso psichico, indispensabile alleato della filosofia. Nella favola di Amore e Psiche, la più nota delle Metamorfosi, o L’asino d’oro, di Apuleio, raffigurata da grandi artisti come Canova e Bouguereau, l’amore, unendosi all’anima, le dona l’immortalità. E siccome psyché in greco significa anche farfalla, alcuni hanno raffigurato Eros come un giovane con le ali di un angelo e Psyche come una fanciulla con le ali di farfalla. Anche per Platone (Fedro) un tempo l’anima era tutta alata. Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco, questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali... quando rimira la bellezza di un giovane... Ma quando sia separata da quella bellezza, l’anima inaridisce.
La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è pesante e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dei. La vista della bellezza terrena suscita nell’anima il ricordo della bellezza vera – perché la conoscenza per Platone è anamnesi, ricordo di ciò che l’anima ha conosciuto quando abitava presso gli dei – ed è per questo che essa mette le ali e mira a sollevarsi da terra. Rispetto agli altri dialoghi, il Simposio offre una versione radicalmente diversa della problematica dell’immortalità. Platone distingue qui due vie verso la immortalizzazione personale, una propria del corpo, e una dell’anima. Nel resoconto riferito da Socrate, Dio25
tima afferma che «il congiungimento dell’uomo e della donna è un dare alla luce. E questo atto è divino: nell’essere vivente, che è mortale, vi è questo di immortale, il concepimento e la procreazione». L’amore tende dunque all’immortalità. La natura mortale cerca, per quanto è possibile, di essere eterna e immortale. Ma può farlo solo a questo modo, con la generazione. Orbene, coloro che sono gravidi rispetto al corpo, dice Platone, si rivolgono di preferenza verso le donne. Coloro invece che sono gravidi rispetto all’anima – cosa spetta all’anima partorire? Saggezza, eccellenza, la capacità legislativa delle città, che è l’aspetto più alto della saggezza – vanno in cerca dell’oggetto bello in cui generare. Giacché nel brutto non genererà mai. Tra costoro Platone annovera i poeti, gli uomini di scienza, ma soprattutto i legislatori, grazie alla fama imperitura delle loro opere: l’unica forma di immortalità personale riconosciuta anche da Aristotele. Ma c’è un bello che è sempre, non nasce, non perisce, né mai vien meno. E tutte le cose belle partecipano di quello: è il bello in sé. È questa la regione della vita, dice Diotima, che è degna di essere vissuta da un uomo che contempli il bello. Cominciando dalle cose belle del mondo s’innalzerà verso il bello come fine. Lì avrà toccato il suo termine, salendo come per scalini. Allora non partorirà fantasmi di eccellenza, ma eccellenza vera, avrà messo le mani sul vero. E giacché siamo nell’anno verdiano e wagneriano, permettetemi di concludere con quest’altra immagine. La cicala è animale filosofico, dice Platone, perché si origina dalla consunzione di uomini dediti esclusivamente alle arti musive, canta e produce musica mostrandosi supe-
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riore alle necessità primarie del corpo. Racconta Socrate nel Fedro, il più poetico dei dialoghi platonici, che una volta le cicale erano uomini – viventi prima della nascita delle Muse – e che quando esse nacquero e comparve il canto, alcuni di questi a tal segno furono storditi dal piacere che, per cantare, scordavano cibo e bevanda e neppure si accorgevano di morire. Da costoro e in seguito a ciò saltò fuori la famiglia delle cicale, alle quali le Muse concessero il favore di non aver affatto bisogno, da che son nate, di alimenti, ma di poter cantare subito, senza mangiare e bere, fino alla morte; e dopo, di andare presso le Muse a riferire chi le onori sulla terra [...].
Note 1. Mi sono attenuto per questa mia chiacchierata alla linea interpretativa di Mario Vegetti, ai cui seguenti testi ho attinto a piene mani: Mario Vegetti, Anima e corpo, in AA. VV., Il sapere degli antichi, a cura di M. Vegetti, Boringhieri, Torino 1985; L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1989; Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003.
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I Relatori
FERRUCCIO ANDOLFI, già docente di Filosofia della storia nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma, dirige il quadrimestrale «La società degli individui» e, insieme a Italo Testa, la collana «La ginestra» di classici dell’individualismo solidale (Diabasis). Tra le sue pubblicazioni: Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (Diabasis, 2004), Il non uomo non è un mostro. Saggi su Stirner (Guida, 2009), Il cuore e l’animo. Saggi su Feuerbach (Guida, 2011). Ha curato l’edizione di testi di Schleiermacher, Feuerbach, Marx, Guyau, Simmel, Landauer.
PAOLO COSTA, filosofo, è ricercatore presso la Fondazione Bruno Kessler di Trento. Si è laureato a Milano con Laura Boella e ha svolto i suoi studi dottorali e post-dottorali tra Parma, Trento e Toronto. Oltre che di numerosi saggi, è autore di Verso un'ontologia dell'umano: antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor (Unicopli, 2001) e Un’ idea di umanità: etica e natura dopo Darwin (EDB, 2007). Ha curato l’edizione italiana delle opere di Charles Taylor, Hannah Arendt, Charles Darwin. Attualmente sta lavorando a un libro sull'idea di ragione, la cui uscita è prevista per il 2014 presso la casa editrice Feltrinelli.
PAOLO CRISTOFOLINI, direttore della rivista internazionale «Historia philosophica», ha insegnato all’Università di Pisa e poi alla Scuola Normale Superiore, e ha tenuto dal 1989 al 1997 una serie di corsi semestrali alla Sorbona. Fra i suoi studi storico-filosofici si segnalano in particolare La scienza intuitiva di Spinoza (Morano, 1987; II ed. riveduta e aggiornata, ETS, 2009); Spinoza per tutti (Feltrinelli, 1993; trad. fr. Chemins dans l'Ethique, P.U.F., 1996); Vico et l'histoire (P.U.F., 1995). A Vico ha dedicato l’edizione critica de La Scienza nuova 1730 (Guida, 2004). Ha pubblicato presso ETS l’edizione critica con traduzione a fronte di Spinoza, Trattato politico (20112) e dell’Etica (2010). ALBERTO MESCHIARI è ricercatore di Filosofia morale presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato testi di Storia della filosofia: da Psicologia delle forme simboliche (Le Lettere, 1999), alla cura di scritti di Heymann Steinthal La scienza della lingua di Wilhelm von Humboldt e la filosofia hegeliana. Filologia, storia e psicologia (Guida, 1998) e di Moritz Lazarus Psicologia dei popoli come scienza e filosofia della cultura (Bibliopolis, 2008); di Storia della scienza: con la cura, in particolare, dell’Edizione Nazionale delle Opere e della Corrispondenza di Giovanni Battista Amici (Bibliopolis, 2006), di cui è direttore; e di narrativa: Le lanterne di stagno. Dieci racconti di commento a Stevenson (ETS, 2004); Una giornata fiorentina di Friedrich Nietzsche (Bibliopolis, 2006); Un posto dove abitare (Il Campano, 2009), e Racconti d’amore (Tassinari, 2011). Nell’ambito della Filosofia morale ha elaborato una propria “etica del reincanto”, tuttora in evoluzione (cfr. Sul dialogo e i suoi caratteri distintivi rispetto a ogni altra forma d’interazione verbale (Il 144
Campano, 2008); Riprendersi la vita. Per un’etica del reincanto (Tassinari, 2010); Il libriccino del silenzio. Strategie del reincanto (Tassinari, 2012). FEDERICA MONTEVECCHI ha compiuto i suoi studi dottorali e postdottorali presso l’Università di Parma, ora insegna filosofia al Liceo Scientifico “Rambaldi-Valeriani” di Imola. È autrice di saggi e volumi, i più recenti dei quali sono Giorgio Colli. Biografia intellettuale (Bollati Boringhieri, 2004); Empedocle d’Agrigento (Liguori, 2010); Le parole della politica (Einaudi, 2008) firmato con Vittorio Foa. ELENA PULCINI è professore ordinario di Filosofia sociale presso il Dipartimento di filosofia dell’Università di Firenze. Fa parte del comitato scientifico di varie riviste tra cui «Iride», «La società degli individui», «Iris», «Politica e società». È vicepresidente del Bureau del MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste en Sciences Sociales) ed è stata partner del network europeo di Gender Studies “Athena”. Tra i suoi lavori recenti L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale (Bollati Boringhieri, 2011); Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura (Bollati Boringhieri, 2003); Invidia. La passione triste (il Mulino, 2011). È cocuratrice dei volumi Filosofie della globalizzazione (ETS, 2001) e Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale (Editori Riuniti, 2004). Il suo libro La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, 2009) ha ottenuto il primo Premio di Filosofia “Viaggio a Siracusa” 2009.
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ALBERTO SICLARI è stato professore ordinario di Storia della teologia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Parma. Si è occupato a lungo della patristica greca e del pensiero tardo antico, del Medioevo latino (in particolare di Guglielmo di Occam e di Guglielmo di Saint Thierry) e più di recente della teologia liberale (Ernst Troeltsch) e del pensiero danese (anzitutto di Søren Kierkegaard e di Harald Høffding). Fra i suoi lavori si segnalano L’itinerario di un cristiano nella cristianità. La testimonianza di Kierkegaard (Franco Angeli, 2004) e L’umorismo e la filosofia (Diabasis, 2009). ITALO TESTA è ricercatore presso l’Università di Parma, dove insegna Storia della filosofia politica. È autore di La natura del riconoscimento (Mimesis, 2010); Teorie dell’argomentazione con P. Cantù (Bruno Mondadori, 2006); Ragione impura con R. Genovese (Bruno Mondadori, 2006); Hegel critico e scettico (il Poligrafo, 2002). Ha curato i saggi di Th.W. Adorno La crisi dell’individuo (Diabasis, 2010) e diverse raccolte, tra cui Lo spazio sociale della ragione con L. Ruggiu (Mimesis, 2010). Ha pubblicato saggi su riviste italiane e straniere, tra cui «Philosophy and Social Criticism», «Constellations», «Critical Horizons», «aut-aut», «Iride» e «Sistemi intelligenti».
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Nella stessa collana ÂŤPensare la vitaÂť
I messaggi dei grandi filosofi, a cura di F. Andolfi, lezioni del corso di formazione filosofica 2012.
Otto lezioni su alcuni fondamentali contrasti di idee e valori pensate dall’associazione La Ginestra per la Città raccolte in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN) per conto di Diabasis nel febbraio dell’anno duemila quattordici
Una certa saggezza popolare ci ha abituati a credere che la verità non si trova mai da una sola parte ma si divide equamente tra gli opposti partiti. Ma è davvero così? Nel terzo corso di formazione filosofica “Pensare la vita”, i relatori hanno illustrato, a partire da pensatori classici (Empedocle, Platone, Lutero, Spinoza, Schopenhauer, Tocqueville, Adorno, Arendt), il senso di alcune polarità cruciali dell’esistenza. Le loro riflessioni suggeriscono che tutti e due i poli delle opposizioni considerate possono effettivamente essere “veri”, senza che per questo si debba attribuire un uguale valore ad entrambi. Le più interessanti visioni del mondo sono state create grazie a una certa parzialità, facendo leva cioè su uno dei due termini e cercando di pensare quello opposto a partire da esso. Contributi di: Ferruccio Andolfi, Paolo Costa, Paolo Cristofolini, Alberto Meschiari, Federica Montevecchi, Elena Pulcini, Alberto Siclari, Italo Testa.
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