Il patto iniquo. Libertà private, pubblica servitù

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Gabriele Magrin

Il patto iniquo Libertà private, pubblica servitù

DIABASIS



MFS MONTEFALCONE STUDIUM


Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto Redazione Leandro del Giudice Anna Bartoli Progetto grafico BosioAssociati, Savigliano (CN) In copertina Francisco Goya, La sepoltura della sardina, 1812-14

ISBN 978-88-8103-810-7

Š 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: commerciale@diabasis.it www.diabasis.it


Gabriele Magrin

Il patto iniquo LibertĂ private, pubblica servitĂš

D I A B A S I S



Gabriele Magrin

Il patto iniquo Libertà private, pubblica servitù

7

Introduzione Capitolo primo

17

La tirannia delle passioni Capitolo secondo

41

Dietro la maschera dell’Uno Capitolo terzo

63

La libertà a una dimensione Capitolo quarto

83

Le servitù dei moderni Capitolo quinto

109

La mediazione necessaria

125

Indice dei nomi

129

Bibliografia


Il trattare del piacere e del dolore è cosa propria di chi studia filosoficamente la politica.

(Aristotele, Etica Nicomachea) Chi ha a cuore la prospettiva dell’emancipazione, se non vuole precipitare nel disastro, deve imparare a fare i conti con la fragilità che caratterizza l’essere umano e non limitarsi a guardarla dall’alto […]. Non bisogna lasciare al conservatorismo la confidenza con la debolezza dell’uomo. (Franco Cassano, L’umiltà del male)

Io credo che gli uomini siano fatti come i gatti…se non sanno cosa fare, se non hanno topi da prendere, si graffiano tra di loro, scappano sui tetti, oppure si arrampicano sugli alberi e magari poi gnaulano perché non sono più buoni a scendere. Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualcosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci (Primo Levi, La chiave a stella)


Introduzione

Il pensiero politico occidentale ha proposto infinite volte una diagnosi funesta circa il destino delle democrazie, formulata per la prima volta da Platone nella Repubblica: le democrazie periscono per un eccesso di libertà che, lasciando libero corso alle passioni umane, finisce per restituire gli individui alla condizione di servi. «Servi volontari» dirà più tardi La Boétie, descrivendo i piaceri come lo «zucchero della servitù». In questa ricorrente narrazione, l’inesorabile incedere delle democrazie dalla libertà alla servitù segue una via maestra che, giù per una montagna scoscesa, conduce individui e collettività alla perdizione. La strada percorre una spirale discendente, che ad ogni nuovo giro accresce la servitù dei singoli nei confronti delle passioni e subito dopo, dall’altro lato della montagna, infiacchisce irreversibilmente la libertà politica. Anarchia dell’anima e anarchia politica si richiamano e si alimentano vicendevolmente. Al fondo della strada, artefice della propria perdizione, il demos, ridotto a popolo-massa, cercherà un nuovo kratos e lo troverà in un padre-tutore, compiacente con le sue debolezze, che presto si farà tiranno. La strada tracciata dalla democrazia conduce agli inferi. Ma è proprio così? Dovremmo dare atto ai cultori dell’Ordine e della Gerarchia, o ai fautori di un ferreo controllo della ragione sulle passioni, che la libertà è un bene troppo impegnativo per poter essere goduto da tutti, senza che si trasformi nel suo contrario? Niente affatto. La libertà di scegliere «il proprio particolare modo di vita», condannato da Platone come illusoria promessa della democrazia, è tra i beni più preziosi che il mondo moderno ha cercato incessantemente di promuovere attraverso la democrazia. Difendere la democrazia in nome della libertà significa però avere un’onesta cognizione dei mali che essa stessa produce. Ecco perché l’analisi luciferina svolta da Platone non dovrebbe cessare di agitare i nostri sogni e di interrogarci sui frutti avvelenati che, insieme alla promessa di affrancamento, possono nascere dalla li-


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bertà. Non occorre condividerne esiti e soluzioni per apprezzarne il valore. È sufficiente riconoscere che essa parla anche di noi. La profezia di sventura pronunciata da Platone conosce, già in epoca antica, significative variazioni sul tema – in Aristotele e Polibio, per esempio – e si ripresenta con articolazioni e accenti diversi in epoca contemporanea. La “diagnosi funesta” si ripropone nel pensiero conservatore. Accompagna nei secoli la dottrina sociale della Chiesa e trova una stabile collocazione nelle teorie controrivoluzionarie e decisioniste, da De Maistre a Carl Schmitt. Ancora oggi fornisce un fondamento teorico alla condanna del “relativismo dei valori”, sul piano etico e, sul piano politico, alle concezioni leaderistiche e autoritarie della democrazia, che nella concentrazione del potere decisionale vedono il solo, necessario, rimedio al disordine generato dalla pretesa dei singoli all’indipendenza. L’idea di una servitù politica figlia della libertà proviene dunque da una visione dell’universo politico di marca dichiaratamente anti-democratica. Diviene però un patrimonio costitutivo della cultura liberale, prima, e di quella democratica, poi, grazie a un “doppio movimento” teorico, con il quale il rapporto tra democrazia e servitù cessa di essere concepito in termini di necessità e si presenta invece come una possibilità, che è compito della coesistenza politica disinnescare nei suoi effetti deflagratori. Il primo passaggio teorico è quello che tra il XVIII e il XIX secolo, dopo un lunga gestazione, vede protagonista una parte cospicua del pensiero liberale e segnatamente filosofi come Adam Ferguson e Benjamin Constant, pronti a riconoscere nella ricerca del benessere la più potente delle passioni “moderne”, come già aveva fatto una lunga schiera di filosofi. Ma anche a sottolineare, nello stesso momento e per la prima volta, che la «passione tranquilla» dell’interesse può condurre i soggetti, per un amore malinteso dell’ordine, a fornire un sostegno attivo a un “potere forte” e arbitrario. La servitù politica appare ora come una possibilità dischiusa dalle “libertà dei moderni”, che può e deve essere contrastata però – questo il comune approdo teorico – con la forza di una libertà politica esercitata dai cittadini attraverso la rappresentanza. A questo primo passaggio, che innesta la teoria della servitù volontaria sul ceppo del liberalismo, fa seguito intorno alla metà del XIX se-


Introduzione

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colo un secondo sviluppo teorico, destinato a influire in modo rilevante, come vedremo, sulla cultura democratica. Gli artefici ne sono autori “di cerniera” tra il pensiero liberale e quello democratico, come Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill, i quali spostano l’attenzione verso un dispotismo “di tipo nuovo” – tipicamente moderno e tipicamente democratico – che sorge piuttosto dalla società e dall’opinione pubblica, che non dagli abusi del potere politico. Una delle sue figure più celebri è quella che sotto il nome di “dispotismo della maggioranza” mette a fuoco gli effetti nefasti generati dalla passione generalizzata per il benessere privato. Conformismo, mediocrità collettiva, incapacità di influenza individuale sulla società intera sono alcuni dei fenomeni intorno ai quali viene ora riformulato il tema classico di un indebolimento antropologico prodotto da un uso distorto della libertà. Il grande lascito di autori come Mill e Tocqueville alla teoria democratica è prima di tutto di metodo: per loro, ammettere che la servitù emana anche dalla democrazia non significa affatto rassegnarsi all’ineluttabile. Significa invece ricercare nella democrazia stessa le risorse necessarie a contrastare il male. Se il liberalismo si era fino ad allora limitato a individuare gli antidoti alla servitù nel voto e nella rappresentanza (peraltro riservati a una parte minoritaria della società), l’obiettivo strategico diviene ora quello di migliorare la qualità di una libertà politica destinata ad estendersi a settori crescenti della popolazione e non più circoscrivibile al momento elettorale. Il centro dell’attenzione diviene allora una complessa opera di manutenzione preventiva della libertà politica che nelle sue articolazioni non ha perso nulla della sua attualità. Per proteggere la libertà dalle minacce della servitù volontaria – convengono Mill e Tocqueville – occorre irrobustire le passioni umane, moltiplicare le relazioni sociali, sviluppare l’indipendenza delle opinioni, favorire il pluralismo. Così riformulata entro un quadro di valori liberale e democratico, la teoria di una servitù prodotta dalla libertà non è mai scomparsa dal dibattito e costituisce oggi un lascito prezioso per l’interpretazione del malessere democratico che attraversa le società contemporanee. È triste, eppure intellettualmente onesto, osservare che l’impegno prima illuministico e poi democratico in nome di una libertà fondata sulla padronanza di sé del soggetto non è bastato a scalfire la forza con la quale


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l’idea di un rovesciamento della libertà nel suo opposto torna periodicamente a riproporsi. La realtà sembra opporre resistenza alla teoria democratica, la storia continua a fornire le sue dure repliche. Illuminismo e democrazia hanno promesso la liberazione dell’individuo dalle catene della soggezione culturale e della servitù politica, ma il soggetto autonomo stenta ad assumere il centro della scena. L’autonomia che i filosofi hanno teorizzato presenta due volti: il volto dell’autonomia morale, come padronanza del soggetto sulla propria natura istintuale, e il volto dell’autonomia politica, come capacità di dar legge a se stessi nella sfera pubblica e, quindi, come assenza di padroni. A quale tipo di autonomia – ci si chiede – potranno mai essere ascritti il valore crescente che gli individui delle società democratiche attribuiscono al «godimento dell’indipendenza privata» e, dall’altro lato, il consenso svogliato o visceralmente interessato a un leader, scambiato per libertà politica? L’autonomia del soggetto edificata dalla filosofia politica occidentale, con la sua presunzione di trasparenza dell’io a se stesso e di dominio sulla realtà sociale, si è dunque dimostrata irrealistica. Dobbiamo guardarci bene, a questo punto, dalla tentazione ricorrente di chiuderci nella torre d’avorio delle nostre teorie, indicando il male soltanto fuori di noi: nel tiranno, nel padrone, nelle storture pure evidenti delle nostre società, o nelle tecniche, sempre più raffinate, di estrazione del consenso. L’anarchia dell’anima indicata da Platone come il male dischiuso dalla democrazia, l’opacità della volontà individuale sulla quale Freud ha sollevato il velo, non sono prodotti esogeni: non sono soltanto il frutto della stupidità e della manipolazione e non sono sempre patologie da estirpare. Sono le condizioni ordinarie nelle quali la libertà si manifesta in democrazia, conducendo ciascuno di noi a compiere scelte che, è bene esserne consapevoli, possono anche condurre alla catastrofe. La seconda e ancor più terribile tentazione dalla quale guardarci è quella di credere, allora, che nessun tipo di autonomia sia possibile, né desiderabile. In un’epoca di involuzioni populistiche, prendere sul serio la severa critica di Platone e dei suoi eredi è un esercizio salutare: conduce a misurarsi da capo con questioni che la teoria democratica, edificata sul paradigma prometeico del soggetto autonomo, ancora oggi elude o fraintende. È plausibile un’autonomia fondata sul sacrificio di


Introduzione

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passioni e interessi? Se gli individui, smentendo Rousseau, possono scegliere di servire, e possono farlo liberamente, cosa può trattenerli dal farlo? E soprattutto: in che modo le democrazie possono contenere, o perfino giocare a proprio vantaggio, la forza d’attrazione che passioni e interessi esercitano sugli individui liberi? Porre queste domande non significa, come spesso si crede, indebolire la democrazia, e nemmeno revocare in dubbio il ruolo interessato svolto dal potere. Significa invece temprare la democrazia, aiutandola a riconoscere il contributo attivo che i singoli danno alla propria perdizione, ma, in condizioni appena mutate, potrebbero anche non dare. Vuol dire in altri termini interrogare una zona grigia dell’animo umano e della coesistenza sociale: non la zona grigia del male che si produce in circostanze estreme, esplorata da Primo Levi, ma quella del male quotidiano e possibile, nella quale il conflitto delle volontà può paralizzare il giudizio, inibire l’azione, rendere preferibile la mediocrità del proprio presente all’impegno per un futuro migliore. È la zona grigia nella quale lo sforzo degli individui e della collettività nel combinare passioni e ragioni, ragioni e interessi, interessi privati e interesse comune non è un compito risolto una volta per tutte, ma, nei casi migliori, un impegno quotidiano, esposto al rischio del fallimento. Si tratta allora di prendere commiato dall’ideale – platonico, poi rousseauiano, e infine kantiano – di un’integrità dell’autonomia morale come premessa della Res Publica e di ripensare l’autonomia, secondo la lezione di Spinoza, come una pratica e come un processo che possono essere inibiti o al contrario favoriti dalla società, ma che restano aperti nei loro esiti. Come una scommessa che ciascuno può assumere con sé e con gli altri, ma che può anche non assumere. Come un esercizio che fa capo a soggetti mossi al tempo stesso da desideri e razionalità. Questa interpretazione (diminuita forse, ma non certo diminutiva) dell’autonomia, come si dirà, affida un compito rilevante alla democrazia in quanto forma di coesistenza sociale e politica che, sola tra tutte, alimentando la continua ridefinizione dei fini della coesistenza politica, rende possibile l’uscita da sé del soggetto e, per altro verso, la proiezione nel tempo delle esistenze individuali.


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La democrazia ha fatto e può fare molto per irrobustire la libertà dei cittadini. Ciò che per Platone costituiva la colpa originaria della democrazia – creare un terreno comune di uguaglianza tra i diversi – deve continuare a essere motivo di orgoglio e di impegno. L’uguaglianza democratica si afferma contro l’ordine secolare della soggezione e dell’obbedienza, delle gerarchie “naturali”, come Platone sapeva bene (pur considerandola un disvalore). Ed è per questa via che la democrazia giunge a dischiudere alla libertà dei singoli margini d’azione che Platone le negava alla radice: non solo “la liberazione del desiderio”, ma, insieme ad essa, anche la possibilità che l’impresa dell’autogoverno, con i suoi rischi e le sue immani promesse, sia assunta su di sé da ciascuno e da tutti, e sottratta al monopolio dei sapienti, dei privilegiati, o degli “eletti”. Come negare infatti che la ricerca di autonomia dei singoli – di tutti i singoli: del più fortunato come del più povero tra i poveri – tragga un immenso beneficio dal riconoscimento di uguale dignità e dalla promozione delle capacità individuali, che solo le democrazie possono assicurare? La democrazia può fare molto per assicurare che i cittadini “nutrano aspirazioni”, per usare la felice espressione di Arjun Appadurai. Ma non può fare tutto. Forze potenti nella società e nell’animo umano inibiscono la ricerca di autonomia, ben oltre i vincoli costituiti dalla privazione culturale e della povertà. Alcune di queste forze rappresentano i compagni di strada ordinari della ricerca di autonomia e riconoscerle come tali, con l’esercizio della “intelligenza delle emozioni”, è il primo passo da compiere. Su alcune di esse si fermerà la nostra attenzione: la coazione a ripetere esercitata dal principio del piacere, la ricerca della stima altrui e il desiderio di compiacere, l’amore del benessere personale. L’incertezza di fronte a un domani ignoto, che secondo Ulrich Beck caratterizza la nostra come un’«età del rischio», ha dischiuso però nuove forze che hanno eroso in profondità la pratica democratica della libertà e ampliato a dismisura la zona grigia della servitù volontaria. Di fronte al venir meno delle cornici di senso costruite da scienza, ideologie, narrazioni collettive, è sempre più difficile perseguire fini che trascendano l’utilità e il desiderio immediato. Viviamo un’epoca, è stato detto, di


Introduzione

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«passioni tristi», di paura del futuro e di chiusura dei singoli nella cittadella del sé. In un tale contesto, la scommessa dell’autonomia individuale ha cessato in molti casi di presentarsi come una possibilità. Sono proprio questa esigenza frustrata di futuro e questa coazione all’immediatezza, però, come si argomenterà, a rendere oggi tanto più necessario il recupero di quel duplice ruolo di mediazione svolto tradizionalmente dalla politica e, segnatamente, dalla politica per via rappresentativa: mediazione tra sé e gli altri, possibile soltanto in una sfera pubblica riconosciuta come tale, che proietti le relazioni umane oltre i confini del privato; ma anche, in secondo luogo, mediazione tra il sé presente e il sé di domani, attraverso la rappresentazione pubblica di orizzonti che offrano all’esistenza individuale vie da percorrere. La democrazia non può fare tutto, ma è chiamata oggi a un compito altissimo e non procrastinabile nella promozione della libertà, rispetto al quale appare oggi profondamente inadeguata: se non vuole ridursi alla identificazione istantanea in un capo-tutore, se vuole smentire i profeti di sventura, deve riscoprire le sue virtù antiche, dilatate anziché ridotte dalla rappresentanza moderna. Virtù che non consistono affatto nel trasferire immediatamente nel pubblico le volizioni subitanee dei privati, ma piuttosto nel creare le condizioni per la formazione delle volontà, di singoli e collettività. Lo scontro aperto tra visioni del mondo, quella parresia che Platone condannava insieme al carattere “teatrale” della democrazia, la discussione sulle idee, caduti nell’oblio in tempi di amministrazione emergenziale del presente, continuano a essere strumenti insostituibili nella formazione di una volontà consapevole di sé. Perché forniscono di senso l’appartenenza del singolo a una collettività e rendono possibile la dilazione del piacere, mediante la rappresentazione pubblica di fini e “orizzonti” capaci fornire alle passioni stesse quella profondità che il narcisistico amor proprio annienta invece alla radice. Saranno questi strumenti antichi, e non il sogno di una politica “in presa diretta” con le emozioni del demos, a salvare la democrazia dai demoni che essa stessa produce. A patto però che la rappresentanza politica, nelle sue forme e nei suoi soggetti, si dimostri all’altezza della prova epocale che la attende nella riconnessione delle esistenze private. Spetta oggi alla politica rappresentativa, infatti, fornire risposta all’esi-


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genza tangibilmente frustrata di un’immagine collettiva di società; riconoscere negli spazi di deliberazione esistenti, dilatati dalle piazze informatiche, un luogo di formazione della volontà. Spetta alla democrazia mediata dalla rappresentanza, soprattutto, riassumere su di sé il compito antico di tradurre in progetto consapevole di sé ciò che altrimenti è destinato a rimanere una sommatoria dispersa di volizioni private. L’essere umano è mosso da passioni e interessi egoistici ma è anche un animale teleologico e capace di socievolezza: ha bisogno di alimentare i suoi fini e di condividerli con gli altri. Eliminati i fini e un contesto politico nel quale perseguirli, resta la soddisfazione immediata del piacere. Ma questa, giusta la lezione di Platone, è la strada che conduce i liberi alla servitù. Il percorso che seguirò per sviluppare questi argomenti si articola in quattro tappe, costituita ciascuna dall’analisi di un classico della politica, e in una riflessione finale (non certo conclusiva), nella quale la tesi della servitù volontaria è messa al servizio di una possibile lettura dei fenomeni populistici che attraversano le democrazie contemporanee. Nel primo capitolo, la “diagnosi funesta” formulata da Platone nella Repubblica è ricostruita e discussa in quanto matrice originaria di una tesi ciclicamente riproposta dal pensiero anti-democratico. L’attenzione si ferma in particolare sul ruolo attribuito alla “liberazione del desiderio” nell’inesorabile scivolamento dei popoli democratici verso la “protezione” offerta da un padre-padrone e, da qui, verso il dominio di un tiranno. Con un salto temporale che conduce alla metà del XVI secolo, e agli albori della modernità politica, il secondo capitolo fissa l’attenzione sul Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie: l’esercizio retorico di un giovane e talentuoso umanista, più che un’organica trattazione politica. Che ha il merito, però, di dare un nome a quella realtà ineffabile chiamata ora, appunto, «servitù volontaria». E che consente di mettere a fuoco, accanto al nome, anche “la cosa”: le diverse possibili fonti di una servitù prodotta dalla libertà. L’abitudine. Il piacere. Ma soprattutto gli interessi, che muovono i molti a investire le loro migliori energie nella ricerca di una complicità con l’Uno, posto al vertice della piramide della servitù. Il terzo capitolo si focalizza sulla teoria del di-


Introduzione

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spotismo messa a punto da Benjamin Constant negli anni dell’arbitrio napoleonico. Vi si indicherà il punto terminale di una lenta maturazione che conduce una parte cospicua del pensiero liberale a considerare la dissociazione di libertà individuali e libertà politica la fonte privilegiata della servitù che minaccia i popoli moderni. Ne emerge, come si dirà, una critica ante litteram delle teorie liberiste e delle moderne apologie del “libero mercato”, con la loro presunzione che interessi personali e libertà individuali possano costituire una garanzia sufficiente dagli abusi di potere. I due volumi della Democrazia in America, pubblicati nel 1835 e nel 1840 da Alexis de Tocqueville sono letti, nel quarto capitolo, come la più feconda trasposizione in chiave liberale e democratica della tesi antica di un dispotismo come male prodotto dalla democrazia. Uno stesso filo rosso di tipo metodologico viene individuato nelle categorie tocquevilliane del “dispotismo della maggioranza” e del “dispotismo paterno”: la considerazione del soggetto come vittima e, al tempo stesso, come partecipe della propria trasformazione in vittima. Un’impostazione metodologica – si sosterrà – che non solo è congruente con la teoria democratica, ma che contribuisce anche ad arricchirla di un argomento fondamentale: quello secondo il quale è la democrazia stessa a fornire ai cittadini gli strumenti per proteggersi dalla servitù. Primo fra tutti, «l’arte di unirsi» per perseguire fini comuni. L’idea ricorrente nei secoli di un “patto iniquo”, stretto dai cittadini con il potere a tutela del loro benessere personale, diviene infine nel quinto capitolo la chiave di lettura privilegiata di quella metamorfosi populistica delle democrazie che ha raggiunto e superato da tempo, in Italia, la soglia della criticità. Alla luce della letteratura politologica, si proporrà di leggere il “populismo” come una “patologia della democrazia rappresentativa”. Come un frutto, e non soltanto come una causa, del cattivo stato di salute delle istituzioni. Maturato nel quadro di una destrutturazione dei luoghi consolidati della sovranità che ha ampliato a dismisura la sfera di influenza dei poteri economico-finanziari e ridotto a simulacro il potere del cittadino-elettore. Di fronte all’esigenza di prosciugare le fonti del consenso che oggi alimentano l’offerta populistica,


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due precondizioni vengono presentate come irrinunciabili. La moltiplicazione di luoghi e forme di esercizio della democrazia e una radicale inversione di rotta della politica rappresentativa. Che sottragga quest’ultima alla complicità con le élite economiche e finanziarie e la restituisca al suo compito, originario, di trasformare le istanze vitali della società in prospettive collettive nelle quali le aspirazioni dei singoli possano trovare una possibilità di espressione. Rileggere il presente alla luce delle teorie della servitù volontaria conduce allora a riconoscere che le democrazie rappresentative hanno oggi a disposizione un solo modo per smentire i profeti di sventura: tornare a fornire ai singoli buone ragioni, e buoni occasioni, per preferire la pratica di una libertà inquieta alle illusorie promesse di una servitù tranquilla.


Indice dei nomi

Abensour, Miguel

58n

Butler, Judith

38n

Adorno, Theodor

60n

Appadurai, Arjun

12, 124n

Calise, Mauro

124n

d’Arcais, Flores

55, 58n, 60n

Campus, Donatella

123n

Arendt, Hannah

39n, 101, 108n

Canfora, Luciano

59n

Aristotele

6, 8, 24, 26-28, 36n-39n, 56, 61n 104n

Cartesio, René (Descartes) Cassano, Franco

32

Cassina, Cristina

39n, 106n

Aron, Raymond

6,105n

Barberis, Mauro

36n, 80n-82n

Cavarero, Adriana

38n

Battini, Michele

39n

84

Battista, Anna Maria

104n

Chateaubriand, F.-René de Ciaramelli, Fabio

Beck, Ulrich

12, 124n

Ciliberto, Michele

105n, 112, 122n

Benasayag, Miguel

105n

Condorcet

82 n, 99, 107 n

Bentham, Jeremy

71, 72

Constant, Benjamin

Berlin, Isaiah

36n, 38n, 70, 74, 81n

Crouch, Colin

8, 15, 63-80, 80n-82n, 83, 84, 89, 90, 95, 100, 104n, 110, 122 123n, 124n

Bloch, Marc

59n

Curi, Umberto

37n

Bobbio, Norberto

37n, 81n, 122n, 124n

Böckenförde, Ernst-Wolfgang Bodei, Remo

38n

Dahl, Robert

64

38n, 42, 58n, 122n

De Leonardis, Ota

124n

Bonald, Louis de

84

De Maistre, Joseph

8, 30

De Sanctis, Francesco Maria

104n, 105n-107n

Bovero, Michelangelo

39, 107n, 122n

Burke, Edmund

84

58n-60n


Gabriele Magrin

126

Derathé, Robert

82n

Hofmann, Etienne

80n, 82n

Desgraves, Luis

58n

Hume, David

66, 67, 80n

Donoso Cortés, Juan

30

Hutcheson, Francis

67

Durkheim, Emile

92 Kant, Immanuel

24, 73, 79, 81n, 110

Kelly, Georg Armstrong Kelsen, Hans

104n

Elster, Jon

107n

Felice, Domenico

81n, 106n

Ferguson, Adam

8, 67, 68, 69, 80n, 91, 110

Ferrajoli, Luigi

124n

La Boétie, Etienne de 7, 14, 41- 58, 58n, 59, 60n, 73, 78, 79, 93, 110 Laclau, Ernesto 59n, 123n

Fichte, Johann Gottlieb

21

Lasch, Cristopher

124n

Firpo, Luigi

58n

Lefort, Claude

Forti, Simona

40n, 59n, 60n

Levi, Primo

44, 45, 47, 54, 59n, 60n 6, 11

Linz, Juan

108n

Freud, Sigmund

10, 45, 46, 59n

Lloyd, Margie

108n

Fusaro, Diego

106n

Locke, John

19

Galli, Carlo

119,122n-124n

Machiavelli, Niccolò 39n, 66

Gallino, Luciano

123n

Magrin, Gabriele

81n, 123n

Gastaldi, Silvia

39n

Mair, Peter

118, 122n, 124n

Gauchet, Marcel

58n

Manin, Bernard

124n

Germani, Gino

39n, 108n

Marx, Karl

21, 45, 52

Mastropaolo, Alfio

123n

21

Matteucci, Nicola

104n, 105n

Helvétius, Claude-Adrien 66

Maurras, Charles

30, 39n

Herder, Johann Gottfried 30

Mauss, Marcel

53

Hirschman, Albert O.

60n, 65-68, 80n

Mélonio, Françoise

104n

Hobbes, Thomas

19, 36n, 66, 74

Mény, Yves

122n, 123

Hegel, G.W. Friedrich

124n


Indice dei nomi

127

Merker, Nicolao

81n

Rahe, Paul

105n

Mill, John Stuart

9, 64, 79, 106n

Revelli, Marco

124n

Monoson, Sara S.

37n

Riesman, David

106n

Montaigne, Michel de

41

Rosanvallon, Pierre

117, 122n, 123n

Montesquieu

64, 66, 67, 77, 82n, 93, 97, 105n-107n

Rousseau, Jean-Jacques

11, 21, 43, 47, 38, 63, 67, 105n

Mosse, George

108n

Mura, Virgilio

80n

Sainte-Beuve,

58n

C. Augustin de

Salvadori, Massimo

123n

Napolitano, Giorgio

107n

Sartori, Giovanni

64

Nussbaum, Martha C.

38n

Sau, Raffaella

123n

Sbarberi, Franco

82n, 107n

Schmitt, Carl

8, 30, 105n

Schumpeter, Joseph

64

Olivieri, Ugo Maria

54n, 58n, 60n

Paoletti, Giovanni

59, 60n, 80n-82n

Sennett, Richard

105n

PazĂŠ, Valentina

60n, 123n

Simmel, Georg

106n

Pesante, Maria Luisa

37n

Smith, Adam

67, 80n

Platone

Spinoza, Baruch

11, 22, 32, 38n, 66, 80n, 113, 122n

Polibio

7, 8, 10, 12-14, 1735, 36n-39n, 47, 49, 50, 56, 57, 66, 73, 78 8, 25, 56, 61n

Strauss, Leo

30

Popper, Karl R.

37n, 80n

Surel,Yves

122n,123n

Portinaro, Pier Paolo

80n

Pozzi, Regina

39n, 82n, 100, 104n, 107n, 108 n

Taggart, Paul

118, 123n, 124n

Preterossi, Geminello

38n, 123n, 124n

Taine, Hippolyte

84

Tarizzo, Domenico

59n, 123n

Tocqueville, Alexis de 9, 15, 63-65, 67, 83103, 104, 104n-107n


Tuccari, Francesco

123n

Tucidide

39n

Urbinati, Nadia

108n,123n

Vico, Giambattista

25

Vitale, Ermanno

39n

Vivanti, Corrado

58n

Voegelin, Eric

30

Weber, Max

26, 35, 37n, 39, 92n

Wolin, Sheldon S.

123n

Zagrebelsky, Gustavo 103,107n,108n


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Questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN) per conto di Diabasis nell’ottobre dell’anno duemila tredici





MONTEFALCONE STUDIUM studi e ricerche

Una democrazia necessaria per aver accesso ai godimenti privati e un capo, o un tutore del popolo, eletto a garante del benessere personale: è forse questo l’esito necessario della liberazione dei desideri? Le democrazie rappresentative hanno oggi a disposizione un solo modo per smentire i profeti di sventura: tornare a fornire ai singoli buone ragioni, e buone occasioni, per preferire la pratica di una libertà inquieta alle illusorie promesse di una servitù tranquilla.

ISBN 978-88-8103-810-7

E 15,00


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