Il gioco dell'oca

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Ruggero Orfei RUGGERO ORFEI

I MURI BIANCHI

16,00

DIABASIS

IL GIOCO DELL’OCA

Ruggero Orfei, nato a Perugia nel 1930, dopo la laurea in Filosofia teoretica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, diviene direttore dello stesso ateneo, carica che ricoprirà fino al 1968. Membro della Direzione e della Presidenza delle Acli, è stato redattore e collaboratore di alcune riviste e quotidiani, fra cui «Vita e pensiero», «Relazioni sociali», «L’Italia»; diresse «Settegiorni in Italia e nel mondo», «Il mensile», «Azione sociale». Si è occupato, presso le Relazioni culturali della Stet, delle nuove forme di comunicazione. Fra le sue pubblicazioni: Marxismo e umanesimo (1970), Quando la guerra va in amore (1973), Andreotti (1975), Fede e politica: i cristiani davanti al potere (1977), L’uomo di Nazaret: inchiesta sulla vita di Gesù (2002).

IL GIOCO DELL’OCA Rapporto sul movimento cattolico

DIABASIS

Il libro nasce dalla necessità di aprire un processo di chiarimento sulla crisi del movimento cattolico. L’autore parte dal presupposto che la fine della Democrazia cristiana ha avuto un effetto di trascinamento verso il basso di tutta la struttura organizzata dei cattolici italiani. Questo pone una serie di riflessioni. In particolare, da un lato si rende necessario riconsiderare la natura stessa della presenza dei cattolici nella vita pubblica. Dall’altro si indaga la possibilità di un impegno dei cattolici che sia ancora cristiano, ma senza più l’ipotesi di un partito unico, e con finalità solo indirettamente religiose. In sintesi, si fa luce sulla possibile legittimazione di un movimento cattolico non più unitario, ma articolato e fatto di parti concorrenti per la promozione del bene comune nell’accezione dell’insegnamento morale cattolico, e a un tempo l’assunzione di responsabilità laicale che chiuda davvero con i mai sopiti impulsi.


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I muri bianchi


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Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 568 7

Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047


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Il gioco dell’oca Rapporto sul Movimento cattolico italiano

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Il gioco dell’oca Rapporto sul Movimento cattolico italiano 9

Una premessa (Dove si va a parare)

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Ciò che si muove (Omne quod movetur ab alio movetur)

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Gli incunaboli del Mci politico (Semper mater certa)

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Gli «interessi cattolici» (La «robba»)

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Il partito popolare italiano (Ci provarono)

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Spunti di riflessione (Sediamoci)

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Un ambiente diverso (Senza orizzonte)

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Un nuovo livello della divisione dei poteri (Divide et impera)

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Democrazia è sinonimo di libertà (Non è un truismo)

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Presupposto europeo (Più spazio più faccende)

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Lo stato del benessere (A chi tocca, tocca)

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La forma delle relazioni internazionali (Girotondo intorno al mondo)

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Gli obblighi di struttura (C’è sempre un dato di fatto)

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Gente in movimento (Passa la nave mia)

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Il debito internazionale (Tutto è un dare)

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Globalizzazione (Il mondo era più largo)

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La «merconomia» (La parolaccia)

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Contestazione e no profit (Beato chi ne gode)

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La regressione del diritto pubblico (Facciamoci una leggina)

94

L’angoscia da cambiamento (Sempre quelle colonne d’Ercole)

98

La cittadinanza (Nemo propheta in patria)

100

L’immagine del grande complotto (Chi la fa l’aspetti)

104

Una storia ormai lontana (C’era una volta)

107

Presenza cristiana (Vi imploro a nome di Dio)

110

Punti di debolezza e crisi (Andava combattendo ed era morto)

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Laicismo secolarizzato (Vivevano come se Dio non fosse)

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Nuovo «Non expedit» (Abstine substine)

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Se è proponibile un altro nuovo Mci (Repetita siccant)


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Azione temporale «ispirata»? (Dio lo vuole)

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Esiti diversi (Di doman non c’è certezza)

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La lettura del messaggio (Senza crittografia)

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La naturalità dello Stato e la carità (Amantium irae amoris integratio est)

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Nota sull’integralismo (Esser tutto per essere niente)

145

Trovare un keynesismo per il nostro tempo (Non confondere il noto con l’ignoto)

149

Una nuova Dsc (Dammi, dammi quel ferro!)

159

Non sembra far problema il carattere democratico (Finalmente, il mare!)

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Centro e centrismo (Anch’io vissi in Arcadia)

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Una antica teoria dei bisogni (Hoc opus, hic labor est)

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La terza via (Tertium non datur)

178

La tendenza al partito (Tendiamo, partiamo)

180

La mimesi riformista (Rendiamo ferme le stesse cose)

182

Non il partito cattolico (Non si trova in natura)

187

I conti si fanno con uno scenario diverso (Il teatro cambia con gli attori)

189

Configurazioni di regime (Un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene)

194

Le nuove forme della comunicazione (In principio erat Verbum)

198

Una presenza da rielaborare (Se ci sei batti un colpo)

202

L’indifferenza in materia politica (Non ti curar di loro, ma guarda e passa)

203

Il grande affare privato (Lo stato sono io)

205

Transizione e Nazioni Unite (Il solo mondo che abbiamo)

212

C’è guerra per tutti (Ognuno ha la sua guerra giusta)

217

Il papa (La durata)

223

Storielle remote (Quel che è stato è stato)

234

Identità (a=a)

237

Un discorso quasi riservato (Capiamoci)

240

Il «partito storico» (Vedo le mura e gli archi)

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Conclusione (Sic transit gloria mundi)

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Indice dei nomi


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Avvertenza

L’insieme delle osservazioni stese in queste pagine erano già pronte, quando sono intervenuti alcuni fatti nuovi di cui è al momento impossibile anche una vera e semplice decifrazione di immediata percezione. Non si può andare al di là di una presa d’atto, avendo fiducia che l’insieme delle riflessioni e dei ragionamenti valgano anche senza fingere precognizioni su quello che potrà accadere. Il primo fatto nuovo è l’elezione di Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti che fa sperare cambiamenti significativi nella politica degli Stati Uniti. Tali cambiamenti che dobbiamo sperare e augurarci che avvengano, riguardano sia la politica interna che internazionale americana. Quel che sarà opportuno osservare è quanto conterà la struttura del potere statunitense, quanto verrà corretto e non certamente capovolto, dell’idea che gli americani hanno di se stessi e del loro ruolo nel mondo. L’altro fatto nuovo è la crisi finanziaria che ha investito il mondo a partire da un primo fallimento bancario negli Stati Uniti. La dominanza del ruolo americano ancora conferma che non si tratta di problemi connessi solo alla contingenza di scelte compiute dall’uscente Bush. Nella misura in cui il caso riguarda tutto il pianeta conferma sia un certo livello di globalizzazione sia la finanziarizzazione dei rapporti economici che hanno assunto come una seconda natura anche rispetto a quella che si è sempre chiamata l’economia reale. Questi eventi implicano responsabilità nuove per tutti i gruppi dirigenti dei vari Paesi. Per questo il tema di un riorienta-


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mento delle linee programmatiche dei promotori di politica è il vero tema che rinvia alle scelte non di mera convenienza. Quando abbiamo finito il lavoro avevamo anche terminato la lettura di un libro, Il cigno nero di Nassim Nicholas Taleb che, al di là della tesi generale, ha attirato la nostra attenzione su una revisione necessaria dell’idea di sistema politico, fondato su una procedura storiografica svolta tradizionalmente a disegno. Ciò che ci è apparso utile è l’implicito richiamo alla volontà di elaborare progetti, liberandoci di schemi elaborati al seguito di prolungamenti di traiettorie di eventi che solo a posteriori, per necessità di ordine intellettuale, ci poniamo. In questo senso la lettura del libro è stato un po’ un «cigno nero», arguto e bizzarro talora, ma molto ricco anche di esperienza umana, usando un criterio di stesura per noi non abituale.


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Una premessa (Dove si va a parare)

Tema preliminare: ipotesi di una regressione della cultura sociale e politica dei cattolici. Pare di poter dire che sia in corso un ritorno a concezioni antiche dello spirito pubblico dei fedeli, cioè a un’idea che la politica sia estranea alla professione di fede. E che comunque la questione che potrebbe porsi sia soltanto di coscienza individuale. I presupposti di questa situazione sono i fallimenti di molte iniziative dei cattolici sul piano temporale. Una laicità – necessariamente richiamata in alto e in basso nella chiesa – ha subito anch’essa un processo di secolarizzazione che porta a una sua irrilevanza di gruppo. I fedeli sono indotti a non avere più interesse per la storia reale e concreta di bisogni sociali, politici e più generalmente di bene pubblico. La stessa carità finisce per ricadere all’interno di un modello di virtù personale e privata rispetto alla quale la “struttura” temporale è accidentale. Tutto ciò supera nei fatti ogni problematica contenuta nel rapporto fra fede e politica, che aveva trovato nel Concilio uno sviluppo che avrebbe dovuto portare i laici cattolici su altre strade, segnate da pluralismo, problematicismo e apertura sul futuro, con partecipazione all’elaborazione delle novità senza attendere queste come una fatalità. La domanda adesso è: «I cattolici, come grande gruppo, hanno un significato nella vita storico-temporale? come gruppo hanno un futuro da proporre?». Meglio: i cristiani, che sono partecipi di una comune fede nel destino dell’uomo, hanno una radice nella storia tanto da potere dare un senso al suo sviluppo?

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La nostra risposta è affermativa ed è un presupposto, sia pure generico. I cattolici si propongono nella storia non come espressione religiosa-sacrale, bensì come popolo di Dio, religiosa-laicale, che vive una dimensione spirituale e culturale che decide «in qualche modo» anche quella temporale. Si comincia con un paradosso. È l’affermazione di una laicità che insiste sulla libertà di coscienza quale ultimo foro per ogni decisione morale. Essa convive col dato (la «cosa») della relazione sociale che implica mutualità e solidarietà. Nella concretezza della vita e delle scelte, la libertà di coscienza fonda la laicità, ma ciò può avvenire anche a rischio della vita della chiesa che implica sempre scelte collettive, o come si dice meglio, comunitarie. Si può scivolare in un individualismo che si diffonde come una forma di liberalismo etico, alimentando una prospettiva di cattolicesimo liberale che tende a unire termini difficili da coniugare. La relazione sociale, per sé, ha implicazioni di tutt’altro segno. La scelta delle responsabilità collettive viene incontro alla questione posta dal nascere, di ciascuno, in un ambiente dato. Poi, propone ed esige una partecipazione all’elaborazione di un’armonia tra forze e interessi contrastanti. Su quest’aspetto appare sovrastante l’autorità del magistero della chiesa che storicamente ha elaborato un modello che non è solo il suo statuto interno. Essa esige non solo una morale unitaria, ma anche deduzioni unitarie che possono dare luogo a un clericalismo in contraddizione con la laicità. Ciò dipende da un uso equivoco dei termini laicità e laico. Intervengono nell’uso diverse accezioni tra loro neppure omogenee. Ristabilire chiarezza nel linguaggio può essere un compito non solo concettuale, ma anche di contenuti reali. Ecco alcuni punti riassuntivi: 1) L’adozione dei termini, partendo da quella originaria e corretta di popolo cristiano distinto dal sacerdozio, rimane fondamentale. Tuttavia, la distinzione non è una separazione, per-

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ché anche i sacerdoti sono laici in quanto partecipi, quali credenti, del sacerdozio regale che è di tutti i cristiani. Comune è la missione della consecratio mundi (Martirologio di Natale). Di sacerdozio regale parla Pietro (I, 2,9: sacerdozio regale, popolo santo, stirpe scelta). San Paolo (I Cor., 7.7) specifica che tutti i credenti in Cristo costruiscono la chiesa con i loro carismi («Vorrei che tutti fossero come me, ma ciascuno ha il proprio dono di Dio, chi in un modo, chi in un altro»). Infine la Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, Lumen Gentium (p. 311 e seguenti) indica la nozione concreta del sacerdozio comune dei fedeli che agisce insieme al sacerdozio gerarchico e ministeriale. Quest’ultimo ha la potestà sacra, forma e regge il popolo sacerdotale. Nell’indicare ruoli e funzioni diverse («forma e legge») rimane tuttavia una specie di incompiutezza che finora più che il dogma ha sempre risolto la storia con effetti non gradevoli perché si può arrivare alla Bolla Unam Sanctam. 2) Il principio evangelico e teologico non risolve il problema storico perché, alla fine, le cose sono quello che si afferma che siano. L’uso del termine laico ha subito una forte torsione nel secolo XIX quando si è identificato il clericalismo come struttura di potere derivata dal sacerdozio, ancorato al principato temporale1. 3) Il laicato nella chiesa ha una storia che non si è identificata come categoria concettuale e pratica fino a che le limitazioni imposte al clero hanno ridimensionato le funzioni di questo, con una progressiva apertura di credito verso i laici. 4) La precisazione storica «moderna» nella chiesa, tuttavia, arriva quando si sviluppa la «dottrina» dell’Azione cattolica come partecipazione dei laici all’apostolato dei sacerdoti. In questo caso, il compito del laico è ancora interno alla vita sacramentale della chiesa. Nella vita pastorale si aprono però finestre su realtà nuove perché la complessità crescente della vita sociale e politica pone problemi di comprensione e di partecipazione ai bisogni delle masse. Si può assumere come data convenzionale la nascita del capitalismo industriale e il sommovimento della rivoluzione francese.

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5) La separazione fra stato e chiesa sopraggiunge dopo, anche se apparentemente è concomitante col processo di cambiamento. Nel mondo cattolico l’articolazione si svilupperà nella questione del rapporto fra fede e politica. 6) Tuttavia, una storia del laicato non è soltanto una questione recente. Recente è la caratterizzazione polemica del laicato rispetto al sacerdozio e con le sfumature d’accompagnamento. In realtà, gran parte della storia degli ordini religiosi è storia del laicato. San Francesco, ad esempio, volle essere laico nella sua missione nella chiesa e fuori2. Più recentemente, il fenomeno degli istituti secolari insiste su questo tema della vita religiosa nella chiesa anche come impegno secolare. Anche se a lungo non si è precisato il carattere laicale degli istituti secolari, questi indubbiamente, non avendo la disponibilità della «amministrazione» dei sacramenti, sono opere laiche a tutti gli effetti. 7) La laicità cristiana, anche se dovesse cambiare nome a causa degli usi impropri del termine, ha un valore oggettivo sempre rilevante e rilevabile, concreto, legato a particolari vocazioni, funzioni e ruoli oggi anche sociali e politici di grande rilievo irreversibile. 8) Una precisazione teologica, storica e sociale si impone per ristabilire una correttezza delle realtà umane che sono o entrano in gioco con l’adozione di termini che diventano incomprensibili. Nei linguaggi talora una parola cambia il proprio significato per alterazioni continue e mai repentine, ma in genere l’esito è univoco e un termine si può affermare che abbia sostituito un altro. Nel nostro caso gli esiti sono molteplici e ambigui e a volte contraddittori. 9) Il laico come sinonimo di non credente, ad esempio, va oltre ogni distinzione nella chiesa. L’uso del termine in questa accezione non consente una correttezza del parlare, e spesso nasconde o contrabbanda ambiguità di collocazione. 10) Il fatto decisivo è storico, perché dalla laicità si è passati a un laicismo, partendo da un’altra base concettuale e culturale. La separazione fra stato e chiesa, essendo avvenuta gene-

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ralmente in una situazione di forte polemica, prima istituzionale e poi popolare, ha avuto, nelle sue articolazioni strutturali, le formalizzazioni di convincimenti anche teorici e filosofici. Questi, per giustificare la limitazione di potere temporale della chiesa, hanno finito per contestarne la natura anche religiosa. 11) Per una certa fase (che dura ancora) la religione e la religiosità sono considerate dal laicismo e dai laicisti dei residui storici con cui fare i conti anche con pattuizioni oggi pacifiche e concordate. 12) Recentemente è entrata in crisi la convinzione di un tempo, secondo cui la dimensione religiosa, perché sostegno della morale tradizionale, potesse essere messa da parte. La crisi religiosa, diventata morale, ha riaperto la questione. 13) Tra i cattolici, la revisione in senso apparentemente inverso, ma in realtà parallelo, è pure avvenuta. Tra i laici cattolici si è fatta strada nel secolo scorso un’idea della distinzione fra azione temporale e vita spirituale, fondando una dottrina dell’autonomia delle scelte secolari. Il Concilio ha portato a conclusione quell’impostazione accettando la chiarificazione filosofica di Maritain, gli insegnamenti della scuola di Le Saulchoir, la teologia delle realtà terrene e così via. Ha tenuto presente anche le esperienze politiche dette d’ispirazione cristiana. 14) Il cambiamento è in corso, ma la decadenza dell’integralismo ha reso debole anche l’impostazione mariteniana, e nello stesso tempo ha posto il problema di una riunificazione culturale e spirituale di scelte religiose e scelte politiche nella persona. La proposizione di temi nuovi in materia sociale, di pace/guerra, di biotecnologia ha proposto una ricerca di valore che stia al fondo delle varie dichiarazioni di valori. 15) Una ricognizione storica che porti a chiarire, almeno incoativamente, questa problematica s’impone, e l’onere spetta ai cattolici laici che esigono una nuova formulazione di problemi nuovi, con ricerche di soluzioni non facili, perché aperte alla riedizione di antichi errori che per scarsa conoscenza possono essere disgraziatamente ripetuti.

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Il riferimento d’appoggio più importante, non solo per l’Italia, è stato Giuseppe Lazzati la cui operosità pubblicistica sia scientifica sia spirituale, e la sua attività politica e la sua azione di educatore anche attraverso la stampa, deve essere ancora approfondita. Anzi, si potrebbe sostenere che il passare del tempo rende più importante il suo insegnamento. La sua idea di laicità raggiunge una perfezione teorico-pratica. La sua impostazione di un disegno per la «città dell’uomo», ha il pregio di un discorso che non sia valido solo per i credenti, ma che sia riconosciuto da non credenti. La concezione lazzatiana di una realtà temporale di convivenza riguarda i cristiani quali portatori di un’idea di laicità che potremmo dire universalistica. Questo rende originale Lazzati, che non fa una questione di scuola contro l’integralismo, ma avanza la proposta di un’esperienza di vita cristiana rilevante storicamente, praticamente. Città dell’uomo, per Lazzati, mariteniano sicuro, non è un antropocentrismo di ritorno, ma una riflessione sul pensiero del filosofo cristiano francese. L’idea di natura non è solo un ritorno al tomismo, ma il rivivere un’aspirazione che anche i non credenti consapevoli dei valori fondamentali dell’uomo, potessero tutti cooperare a una realtà sociale sempre migliore. La formula «a misura d’uomo» è il criterio fondamentale. Un’obiezione che egli portava contro ogni ricerca, documento, articolo o altro che fosse buono solo per i cristiani rimaneva sempre insufficiente per tentare vanamente di fare qualcosa «di cattolico». Laicità, dunque, ancora da approfondire, facendo ricorso anche ad esperienze rimaste in ombra3. La laicità rimaneva comunque con un limite nella sfera della coscienza che in qualche modo non è sempre assoluta, perché si deve immaginare sempre «formata». Il vero paradosso emerge in termini di principio. Se la sfera della coscienza ha un’autonomia intoccabile, come pare debba essere, allora diventa difficile il rapporto con la prassi. Ad esempio, porre il problema del rapporto tra politica e morale, tra politica ed etica, tra attività economica ed etica, può

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diventare un vero groviglio. Se la sfera della coscienza di fatto è la sfera del privato, la sfera del pubblico patisce una separazione materiale e funzionale. In tal caso il rapporto tra norma − che comunque è di ambito sociale − e scelte personali, diventa abbastanza complicato. Ha scritto il teologo mons. Angelini: «La coscienza non può essere pensata quasi fosse un attributo naturale del singolo, realizzato a monte rispetto alle forme del suo rapporto sociale. Il singolo viene a coscienza di sé attraverso la mediazione decisiva dei suoi rapporti sociali; di quelli familiari anzitutto, di quelli secondari o macrosociali in genere poi. Una politica giusta nei confronti del soggetto esige in tal senso che la considerazione strettamente politica diventi anche – e più fondamentalmente – considerazione morale. Morale, nel senso di sfera riferita ai mores, alle forme del costume e alla loro ragione di congruenza con la causa della formazione della coscienza del soggetto. Certo, la morale così intesa è anche una questione politica. Occorrerà poi riconoscere come le forme della coscienza morale del singolo trovino alla fine la propria ultima definizione per riferimento a istanze ideali (religiose?) ulteriori rispetto a quelle definite da ogni possibile forma del costume. E tuttavia questa ultima “trascendenza” della coscienza morale rispetto alle forme civili del vivere non può nascondere l’altra evidenza: che la coscienza morale, qualsiasi sia la forma della sua ultima determinazione religiosa, ha indispensabile bisogno delle evidenze dischiuse dall’alleanza civile per edificarsi. L’affermazione vale, ovviamente, anche per coscienza cristiana. La “presunzione” – così occorre valutarla – che si dia una morale cristiana suscettibile di definirsi nei suoi contenuti materiali a prescindere da ogni riferimento alle evidenze dischiuse dal rapporto civile, conduce la stessa morale ad assumere un profilo alquanto immaginario e velleitario. La possibilità che la coscienza cristiana maturi una proposta pertinente per riferimento alla società postmoderna, è legata a questa condizione preliminare, che essa sviluppi una competenza esperta a proposito del-

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le forme morali del nostro tempo. Condizione che fino ad oggi appare assai lontana dall’essere realizzata»4. La citazione apre un contesto dove l’impellenza della questione sociale e quella dei diritti se non costituiscono un nesso stretto tra la «situazione» reale e i rapporti complessi della formazione e lo sviluppo della società civile e il suo esprimersi nelle istituzioni, non consente riferimenti facili, di semplice aggiornamento. Non si può, in effetti, puntare simultaneamente all’affermazione di una laicità che implichi una separazione tra la sfera morale privata e quella politica, pubblica, intendendo i termini nella loro più ampia genericità e comprensibilità, e la dichiarata socialità. In questo paradosso della vita cristiana, si coglie la difficoltà che non può essere risolta in termini formali, filosofici e anche teologici, una volta per tutte. Esiste una processualità storica del problema che implica la storicità delle diverse esperienze che mettono in evidenza, nei tempi, emergenze di bisogni e di valori che possono sembrare sempre uguali a se stessi, ma che non sono uguali nella loro urgenza e nella loro messa all’ordine del giorno di una generazione. In questo quadro «genetico», nasce l’esigenza di dare un valore alla laicità che si organizzi in molteplici esperienze e può anche dare vita a una sorta di movimento cattolico italiano (Mci: sarà indicato così), all’interno di una consapevole storicità della chiesa e all’interno di una rispondenza alle diversità che già san Tommaso indicava esistenti, anche senza il peccato originale. Il punto è questo: c’è un errore d’impostazione nelle polemiche che hanno creduto di porre correttamente il problema della laicità. In realtà, integralismo e laicità sono forme di un’esperienza storica comune che dovrebbe spegnere molte polemiche accese nel passato, per giungere a un’idea processuale dell’esperienza laicale, ecclesiale e temporale5. Il Mci si situa in un punto di discontinuità dalle esperienze passate, con lo stesso nome, che pure vanno ricordate e con-

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siderate. Adesso, l’accento va posto sul termine «movimento» laicale, appunto, che suppone un’agitazione culturale e spirituale forse senza precedenti. Ha osservato Yves Congar che «ci vogliono degli sforzi evidentemente in tutti questi settori, per quella influenza cristiana nel campo temporale di cui vi do degli esempi molto esteriori. Non ci sono formule. “Una politica cristiana” non esiste, come non esiste un’arte cristiana o una letteratura cristiana. C’è un cristianesimo che è trascendente riguardo a questi sforzi di espressione nel campo temporale, e il temporale non è soltanto la politica: è tutto lo sforzo di coordinazione della vita terrena da parte dell’uomo. C’è un cristianesimo trascendente riguardo al piano temporale, che suscita o suggerisce un certo numero di sforzi che si adattano come possono»6. Si devono assumere le esperienze passate, ma per riproporre un movimento di forma nuova, non più proiezione della gerarchia apostolica e portatore di percezioni omogenee, anche se non uguali e senza proposte unitarie. La vita di relazione implica una relatività impiantata dall’apporto delle diverse coscienze. Ha scritto Karl Rahner: «Il cristiano cattolico normale spesso è ingiusto verso la chiesa; in certe circostanze egli si ritiene senz’altro giustamente libero nei confronti di una determinata legge ecclesiastica positiva, perché considerato il suo caso concreto davanti a Dio, non si ritiene obbligato moralmente dalla legge generale della chiesa e forse non può ritenersi obbligato da essa. Se egli ha questa convinzione, ebbene questa può essere senz’altro giustificata, però egli non può nel contempo richiedere ancora che la chiesa approvi espressamente con una sentenza questa decisione individuale concreta»7. D’altra parte, la storia c’insegna la sofferenza della vita cristiana in certi momenti e in certe sfere di uomini dirigenti della vita pubblica. Per non essere astratti ci riferiamo alle vicende dei confessori del re, come li ha ricordati Georges Minois8. Il caso è emblematico.

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Nel secolo XVII i confessori dei re di Francia erano tutti gesuiti, secondo una convenzione allora consolidata dall’esperienza. Questi confessori avevano non pochi problemi di coscienza propria per dirigere le coscienze regali. Bene. Le istruzioni del generale della Compagnia, Claudio Acquaviva, ai confessori erano quelle di badare alla coscienza del sovrano. Il confessore doveva guardarsi dall’immischiarsi negli affari politici estranei al suo compito. In tal modo la separazione era contenuta drasticamente nelle istruzioni. In concreto, per quanto riguardò Luigi XIII ben cinque confessori si susseguirono nella direzione spirituale del re. Tutti cadevano in disgrazia e nel licenziamento quando osavano connettere l’immoralità di certe scelte politiche e militari o anche ideologiche (come lo schieramento con i protestanti) e chiedevano al re un esame di coscienza in merito. Alla fine, l’ultimo confessore resistette, perché si astenne dal porre simili questioni, forse riservandosi di chiedere il numero delle amanti del sovrano che seguiva anche in questa materia una condotta incorreggibile. Il cardinale Richelieu era furibondo con questi confessori che osavano sindacare moralmente la ragion di stato. Il modello si rivelò durevole. La drasticità di certi atteggiamenti di condanna e di deplorazione di atti riferiti alla vita privata, non avevano riflessi sulle scelte sociali. Questo valeva per la condotta militare, ma anche amministrativa e per le scelte finanziarie e fiscali e per lo sfruttamento sistematico del lavoro altrui, quello delle masse tagliate fuori non solo dalle decisioni dei potenti, ma anche dalla compartecipazione alla stessa dottrina morale. Oggi avanza una nuova idea di politica, ma questa già incontra difficoltà con una predicazione dell’individualismo più radicale che è condivisa da vasti strati di classe dirigente. Porre il problema del rapporto tra morale e politica senza porre il dato strutturale di quel che significa una libera iniziativa, spinta in tutte le direzioni, e la necessità tutta politica di colmare la differenza nella soddisfazione dei bisogni, determina la questione della scelta culturale-politica.

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Va notato che la percezione nuova dei problemi di questa natura caratterizzò il primo Mci. La questione sociale dette l’avvio a una nuova fase che conserva la sua potenzialità storica. Sul terreno della socialità, del lavoro e dello sfruttamento, cominciò una riflessione che veniva dall’alto, dall’insegnamento pontificio che diventò magistero dottrinale della chiesa. Facciamo un passo indietro. Vediamo il caso iniziale con una citazione di Bernanos che ci offre un aspetto di una situazione nel colloquio tra due preti: «L’ingiustizia e la disgrazia, guarda son cose che m’accendono il sangue. Oggidì, d’altronde, son questioni ben superate, tu non puoi rendertene conto… Per esempio, la famosa enciclica di Leone XIII, Rerum Novarum: voi la leggete tranquillamente, con l’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! Ero, in quel momento, curato di Norenfontes, in pieno paese di miniere. Quest’idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini, come sul grano, lo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi? Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente son passato per un socialista e i contadini benpensanti m’hanno fatto mandare a Montreuil, in disgrazia». Georges Bernanos ci offre questo quadretto di una situazione importante «d’epoca». Il prima e il dopo. Prima l’ordine costituito era una specie di programma politico per i cattolici. A un certo punto c’è un cambiamento, un’innovazione e arriva l’enciclica sul lavoro. È un inizio, in realtà, un punto di partenza da cui il Mci che già era cominciato, ma sull’onda del legittimismo, trovò la sua ragione sociale nell’interesse delle persone e della società9. Da allora, è cambiato qualcosa, nel corpo della chiesa e nel mondo. Si era schiusa, allora, una linea critica della chiesa verso lo sfruttamento che come struttura era stato ignorato, al di fuori delle opere personali di misericordia.

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La mimesi riformista (Rendiamo ferme le stesse cose)

L’avvento della destra si è configurato per una sua parte come una continuazione della Dc sul terreno dell’anticomunismo, anche a comunismo svanito. La campagna della nuova destra «centrista» contro i comunisti, a molti sembra superficiale, come se i leader di questo settore politico non avessero preso atto della fine del comunismo. I destinatari di questo messaggio, invero, capiscono la portata dell’avvertimento che è una finzione argomentativa e semplificativa per stigmatizzare un gruppo di potere d’origine comunista, che avrebbe la sola ambizione di comandare. I comunisti costituirebbero un gruppo che vuole raggiungere gli scopi che non aveva raggiunto col Pci. Conterebbe per loro non l’ideologia morta, ma la volontà di potenza. Si prende di petto il dirigismo come eredità statalista dei comunisti. Sostenendo che ancora si debba fronteggiare, oggi, il comunismo, la destra intende solo continuare una polemica contro chiunque voglia istituire regole per una corretta vita democratica in qualche modo «sociale». L’alterità contenuta in tale premessa, rispetto alla sinistra, dovrebbe, in ipotesi, caratterizzare il corpo centrista, che è identificato anche come la parte più sostanziosa dell’eredità della Dc. Si trascurano però le ragioni del declino democristiano che non sono state chiarite e riguardano, come in ogni formazione politica, il rapporto reale esistente tra individuo, società civile, stato, governo dell’economia, distribuzione delle risorse, la formazione di queste. Sotto dovrebbe stare la pos-

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sibilità di elaborare un consenso educato verso una politica che, per essere vitale, dovrebbe annunciarsi come diversa dalla precedente. Non si tiene presente che la linea democristiana sconfitta è stata quella egemone nella Dc, detta dorotea, che è finita principalmente nello schieramento della destra. I volenterosi centristi non tengono presente che il centrismo ha serie possibilità d’affermazione soltanto quando le estreme, destra e sinistra, sono robuste ma incapaci di parlare ai moderati. Nelle teorizzazioni del nuovo centro vive un paradosso: troviamo un centrismo politico che si fida della sinistra e con essa fa fronte comune, ma nella consapevolezza che gli ex comunisti possono tendere (a causa della loro formazione culturale che non si cancella con un generoso atto di volontà) all’egemonia, seguendo una vocazione che potrebbe ripetere, sia pure molto vagamente e in modo più scaltro e liberal una visione frontista, con un «popolo-popololavoratore» che si suppone il perno intorno a cui si aggregano altre forze sociali, non ancora meglio definite. Si tratta di una posizione rischiosa, perché se si immagina una politica centrista solo per distinguersi dalla sinistra senza un tessuto programmatico e ideale, si può rendere talmente vicini i centrismi nella destra come nella sinistra, da non farli più distinguere fra di loro. S’immagina un centrismo che non abbia bisogno di altra identità che quella di essere “centrista”, con una spiccata vocazione al nullismo. Con il declino o la scomparsa della logica di classe, per non dire del messianismo del proletariato predicato da Marx, il quadro di riferimento è interamente mutato.

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Non il partito cattolico (Non si trova in natura)

Nel molto parlare e nel molto confondere, sul tema dell’eventuale risurrezione del partito della Dc si sorvola sulla questione principale. È vero che nelle discussioni sulla restituzione agli italiani di un partito d’ispirazione cattolica, di tutto si parla meno che di questa. Si direbbe che si gioca una partita col morto, senza mancare di riguardo a nessuno. La questione preliminare è costituita dalla percezione che i cristiani hanno del loro modo di presentarsi nelle attività pubbliche e politiche. Probabilmente, a intralciare un cammino, in apparenza, logico e lineare, si colloca la storia di un passato in cui un partito presuntivamente unitario dei cattolici sia modello da replicare, pure con aggiornamenti, o da ripudiare in blocco. Questa storia, purtroppo, non è stata analizzata e pare che sia ancora un buco nero. S’intende: non è stata analizzata da chi si è legato per anni all’esperienza della Dc ed è in grado di compiere anche una chiarificazione personale. Lo fanno gli altri, ma fuggono sempre per due uscite di sicurezza: una costituita da tangentopoli e una dalla fine del comunismo, che invero giungono al termine di un processo storico e politico assai complesso che − col suo procedere − spiega quel che è accaduto. Sono uscite che non portano da nessuna parte; non c’è esperienza politica passata alla storia che sia spiegata in termini tanto banali: sia per le forze politiche sia per i leader e i loro comportamenti. Si può precisare che tangentopoli, per testimonianza degli stessi procuratori, è esplosa soprattutto per cause economiche, cioè per una caduta della sua redditività e non per una ri-

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volta morale. Pertanto il suo valore è limitato. Il suo carattere morale complessivo rientra in una forma di «normalità», da contestare, che non entra negli elementi di giudizio che si adottano per giudicare una fase storica ed eventi, ad esempio, come l’impero di Augusto o l’epopea napoleonica fortemente intrise di immoralità pubblica. La mancanza di un esame di quel che è accaduto in cinquant’anni, non aiuta a definire neppure astrattamente la possibilità di un’esperienza di partito di ispirazione cristiana. I «dibattitori» del replicabile partito per i cattolici (non «cattolico») evitano di indicare su quali linee. Rimane il fragoroso silenzio su quel che dovrebbe attirare i cattolici intorno a un programma politico. L’idea della testimonianza personale da produrre in qualsiasi forza politica, comunque orientata culturalmente, in una fase di sollecitazione generalizzata come moda egemone del momento verso il liberalismo individualista, è logica e ricca di senso. Ma non si può sfuggire alla necessità di una verifica costante della veicolazione reale di una cultura nella pratica politica. Quella cultura che entra in ogni politica, anche se esorcizzata con il rinnegamento delle ideologie, che non lasciano mai una specie di vacuum impossibile. L’idea che la politica sia diventata una questioncina tanto piccola da non aver più bisogno di fondamenti culturali, accettati in gruppo e non solo da singoli, è un ritorno di un antico pregiudizio che si è fatto luogo comune. Uno o più partiti d’ispirazione cristiana si potrebbero anche legittimare proprio perché la finzione di un confronto politico che sia mero scontro di interessi economici è fallita. Ciò diventa più vero in un momento in cui ci si appella alla solidarietà come fine e come mezzo, che si dà o si tenta di dare uno scopo di bene comune all’attività mistica della mano invisibile del mercato, nel momento in cui grandi questioni legate alla natura dello stato, delle autonomie, alla cultura, alla pace e alla guerra, alla bioetica, alla manipolazione e all’uso di ogni mezzo per la ragion di stato, all’emergere dei nuovi di-

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ritti o all’espressione di quelli antichi: tutti temi che esigono un impegno di comprensione teorica che rimane attaccata a una prospettiva morale. L’esperienza del Mci, specialmente in Italia, (a meno che non si sostenga che sia stato un ingannevole scherzo della natura) ha messo in luce che nel rapporto tra fede e politica, a differenza del passato, i cattolici devono procedere in forme programmatiche, cioè con ipotesi costruttive, non esclusive e non integraliste. L’esperienza del Mci è stata estesa. Ha messo radici anche al di fuori di quella che è stata la vicenda italiana che era troppo connessa alla questione romana e a Porta Pia, almeno per la sua genesi. La cultura del Christian Democrat, che ha fatto le sue esperienze soprattutto nei paesi anglosassoni, era nota a personaggi come Sturzo e De Gasperi e trovò in Maritain un organico teorizzatore. Si dirà che proprio questa linea dovrebbe dimostrare che i cristiani che vogliono essere attivi in politica non necessariamente devono fare un partito proprio. Giustamente, non è necessario fare un partito proprio. Ma questo dato deve essere deciso all’interno di ogni ambiente politico culturale di ciascun popolo e stato. Conta il rifiuto storico di un atteggiamento d’indifferenza riguardo alle scelte politiche, e il fingere che non esista alcuna specifica esigenza da cristiani nella vita pubblica. Oggi si è presentata la proposta del Partito democratico (Pd) che fa seguito alle variazioni seguite allo scioglimento della Margherita e del Pds e quindi dell’Ulivo. Si deve tener presente il modello che nasce con esso. Pare che anche a destra vi sia qualche influenza in tal senso malgrado lo schema del «principato» che è ancora dominante. Il centrosinistra tenta di essere un fatto nuovo unitario per superare una fase storica. Tuttavia quando si deve spiegare cosa sia e che cosa possa essere il Partito democratico, la domanda riguarda la sua identità. La questione è molto più difficile che in passato, perché l’idea di partito politico pluralista e delle sue funzioni si è

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arricchita di significati, perdendone altri che erano di maggiore evidenza in una realtà monoculturale. L’idem sentire de re pubblica che caratterizza ogni associazione partitica, si muove lungo una strada che è prefissata da uno schema teorico − implicito o esplicito − che può essere chiamato, a seconda della sua durezza e del suo spessore, ideologia o cultura. Il passaggio al partito «leggero», non tanto organizzativamente, ma culturalmente, sembra aver tolto qualcosa alla sua «partitarietà» e quindi non è evidente il punto di riferimento politico. Un partito che viene dopo l’esperienza dei partiti monoculturali, a differenza di quello che si può pensare, ha più problemi: di composizione corale di più istanze, di più premesse teoriche, di più idee che talora possono essere tra loro anche contrastanti. Questo partito più ricco di possibilità di penetrazione sociale trova qualche difficoltà, nella sua fase iniziale, a presentarsi come un corpo unico e nello stesso tempo ricco di apporti differenti. Non avendo predefinito un interesse sociale da patrocinare o da privilegiare o comunque da esprimere come potevano essere la classe o i ceti intermedi, a livello di base popolare, trova qualche ostacolo per la chiarezza delle sue proposte. Non si può fare finta che non esista il problema. Questo vale anche per quanto riguarda le idee generali, i costumi e i comportamenti e più in generale la vita pubblica e lo stato. La visione dell’interesse pubblico a cui si sottomette quello della parte, dovrebbe qualificare dall’inizio un movimento politico. Forse l’impostazione della questione deve subire i maggiori travagli. La lotta politica, uscita dagli “scontri di civiltà”, deve qualificarsi con un programma come insieme strutturale di risposte a bisogni, a necessità che vengono da ogni forma di sviluppo non solo economica e di reddito. Su questo terreno i convegni culturali di preparazione, introdotti da illustri accademici, hanno fallito lo scopo. Il programma è il punto di trazione di ogni filo che collega alle diversità e agli interessi e su di esso deve avvenire la fondazione.

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Si deve immaginare – come cerchiamo di sostenere in questa sede – che i dati di base debbano esistere fuori del partito, come un reticolo di associazioni e movimenti, riviste, giornali, case editrici, organizzazioni sociali anche molto specializzate, che fanno sì che il partito sia quell’organo istituzionale di sintesi previsto dalla Costituzione: i partiti concorrono a elaborare la vita della nazione (art. 49). Il partito deve quindi essere una realtà complessa, un punto di partenza di stimoli e di domande continue per mantenere sempre attiva una discussione, dalla quale, in più punti della società, vengano quelle proposte che poi confluiscono nel programma. Questo non è una sommatoria, dove le parole sostituiscono i concetti e i fatti (per essere chiari, un frammento cattolico, uno liberale, uno socialista…). Vi si deve esprimere un’elaborazione complessiva, una fusione a molte voci che, circoscritte dalla norma dell’interesse del Paese, poi indicano il programma comune che è identico per tutti nel partito unitario, mentre le diversità rimangono al livello culturale di tutto il blocco sociale, come si diceva in tempo, che si riconosce nell’iniziativa politica nuova. In coscienza ciascuno fa le scelte che ritiene appropriate, anche le più personalizzate. Ciò non toglie che esista un dovere e un diritto e, soprattutto, uno spazio storico culturale, in cui partiti di ispirazione cristiana potrebbero essere ancora possibili. Il difficile starebbe nell’eventuale rimpianto di un’esperienza da considerare chiusa anche se rimane ricca di insegnamenti (pure di errori e omissioni da non ripetere). Il rischio è il cercare solo di sopravvivere di alcuni quadri dirigenti, peraltro non vincenti, fingendosi eredi di qualcosa di notevole, che scendono sul terreno dell’indifferenza, sul quale tutto va bene. Si teorizza, non a caso, che, in fondo, anche per i cattolici sia agevole accettare lo spontaneismo determinista dell’economicismo liberale che nei principi è identico a quello marxista, che Maritain chiamava preminenza della causalità materiale, e nell’individualismo.

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Indice dei nomi

Acquaviva, Claudio S.J., 18 Albertario, David, 37, 37n Angelini Giuseppe 15, 257n Aristotele, 164

Clausewitz, Karl von, 212, 227 Cohen, Warren I, 259n Colombo, Carlo, 41-42, 258n, 263n Colomer, Josep M., 192, 262n Congar, Yves M.-J., 17, 58 256n Corti, Carlo, 42 Croce, Benedetto, 74, 174

Bakunin, Mikhail A., 188 Balladore, Pallieri Giorgio, 42, 254, 264n Baran, Paul Alexander, 260n Barberini, Giovanni, 263n Bava Beccaris, Fiorenzo 37 Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, 237, 239, 249-250, 263n, 264n Bernanos, Georges, 19, 72, 256n Bianchi, Giovanni, 75 Bobbio, Norberto, 166-167, 231, 262n Boldrini, Marcello, 42 Bonifacio VIII, Benedetto Caetani, 118 Borgognone, Giovanni, 262n Brandt, Willy, 96 Braudel, Fernand, 260n Bruto, Marco Giunio, 226 Bush, George W., 7, 69, 214215, 219

D’Ondes Reggio, Vito, 37 Dahl, Robert, 63 De Gasperi, Alcide, 30-31, 33, 36, 154, 158, 164-165, 184, 257n De Rosa, Gabriele, 257 Depretis, Agostino, 164 Diogneto, 133, 172 Donat Cattin, Carlo, 224 Dossetti, Giuseppe, 54, 258n, 259n Einaudi, Luigi, 73 Elias, Norbert, 264n Engels, Friedrich, 97 Fanfani, Amintore, 42, 224 Ferrarese, Maria Rosaria, 86, 92, 260n Ferraris, Vittorio Luigi, 263n Feuerbach, Ludwig, 85 Fiordelli, Pietro, 264n Fonzi, Fausto, 257n

Calvez, Jean-Louis, 261n Candeloro, Giorgio, 257n, 259n Casaroli, Agostino, 263n Casavola, Francesco 224, 263n Cavour, Camillo Benso di, 36 Ceriani, Grazioso, 42 Chenu, Marie-Dominique, 58, 154

Gambasin, Angelo, 257n Garraty, John A., 263n

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Garzonio, Marco, 259n Gay, Peter, 263n Gemelli, Agostino, 41-42 Gentiloni, Ottorino, 38, 257n George, Susan, 78, 260n Giacchi, Orio, 42 Giannini, Guglielmo, 258n Giovagnoli, Agostino, 257n Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, 115-116, 122, 128, 145, 149-151, 158, 170, 200, 217219, 260n, 262n, Giovanni XXIII, Giuseppe Roncalli, 59, 149 Gonella, Guido, 154-155 Görres, Albert, 264n Gramsci, Antonio, 29, 42, 231 Gregorio XVI, Bartolomeo Alberto Cappellari, 34, 153 Grosoli, Giovanni, 38, 45, 258n Gui, Luigi, 224

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Linz, Juan J., 192, 262n Longinotti, Giovanni Maria, 258n Lorenz, Edward, 72 Luigi XIII, 18 Luttwak, Edward, 97 Malgeri, Francesco, 257n, 258n Malpensa, Marcello, 256n Mannheimer, Renato, 262n Maritain, Jacques, 13, 58-59, 85, 105, 129, 137, 162, 184, 186, 198, 234, 260n, 261n Martina, Giacomo, 257n Marx, Karl, 42, 85-86, 97, 154, 174, 181, 188, 231, 243, 258n, 259n, 260n McLuhan, Marshall, 72,81, 260n McNamara, Robert, 79 Meda, Filippo, 37, 165, 258n, 262n Meda, Luigi, 42 Messineo, Domenico, 263n Miglioli, Guido, 258n Minois, Georges, 17, 257n Mises, Ludwig Edler von, 188 Moro, Aldo, 23, 105, 155, 224, 226, 229, 231-232, 263n Moro, Thomas, 213, 263n Morozzo della Rocca, Roberto, 261n Mounier, Emmanuel, 198 Murri, Romolo, 38, 258n Mussolini, Benito, 42, 45-46

Hayek, Friedrich August, 188 Hegel, G. F. W., 88, 212, 260n Hine, David, 262n Innocenzo III, Lotario dei conti di Segni, 118 Journet, Charles, 58, 162, 255n Kautsky, Karl, 260n Kelsen, Hans, 116 Keynes, John Maynard, 101, 145, 147, 165 Kissinger, Henry Alfred, 69 Küng, Hans, 128

Napoleone I, 68, 226 Necchi, Ludovico, 41 Nozick, Robert, 188 Obama, Barak, 7 Oberti, Armando, 256n Olgiati, Francesco, 41-42, 258n, 259n, 262n Orfei, Ruggero 14, 16, 21-22, 28, 88 Osterhammel, Jürgen, 260n Ottaviano, Cesare Augusto, 183, 226

Lama, Luciano, 230 Lazzati, Giuseppe, 14, 51, 55, 161, 256n, 259n, 260n Lenin, Vladimir, 231, 260n Leone XIII, Gioacchino Pecci, 19, 34, 37, 159 Leoni, Bruno, 187-188

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Padoa Schioppa, Tommaso, 88 Paganuzzi, Giovanni Battista, 37-38 Paolo di Tarso (san), 11, 131, 174, 250 Paolo VI, G.B. Montini, 42, 67, 115, 127, 139, 149, 152, 162 Parola, Alessandro, 256n, 258n Pavan, Pietro, 55n Paynter, M. N., 259n Pelloux, Luigi, 37-38 Petersson, Niels, 260n Pietro (san), 11 Pio IX, Giovanni Maria Mastai-Ferretti, 34 Pio XI, Achille Ratti, 33 Pio XII, Eugenio Pacelli, 12, 33, 42 Piva, Francesco, 257n, 258n Pompei, Gian Franco, 157, 261n Popper, Karl Raimund, 188

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Saussure, Ferdinand de, 72 Saraceno, Pasquale, 42 Scabini, Pino, 260n Schlesinger, Arthur M. Jr, 165, 262n Scoppola, Pietro, 28, 256n, 257n, 261n Severino, Emanuele, 113 Sturzo, Luigi, 39-43, 45, 129, 131, 158, 162, 171, 184, 253, 255n, 257n, 258n, 261n Sweezy, Paul Malor, 260n Tauran, Jean Louis, 220 Thils, Gustave, 58 Tocqueville, Alexis de, 60-61, 68-69, 90, 259n Togliatti, Palmiro, 29 Tolomeo, 167 Tommaso d’Aquino, 16, 34, 136-138, 142-144, 159, 198 Toniolo, Giuseppe, 37, 154 Toynbee, Arnold, 74 Turoldo, David Maria, 259n

Rahner, Karl, 17, 248, 256n, 264n Reuven, Y. Hazan, 163 Riccardi, Andrea, 255n, 259n Richelieu, Armand-Jean du Plessis, 18 Roosevelt, Franklin Delano, 165, 262n Rothbard, Murray N., 188

Uggé, Albino, 42 Utz, F. Arthur, 261n Valenzuela, Arturo, 192, 262n Vassallo, Salvatore, 262n Vito, Francesco 42

Salamé, Ghassam, 259n Salviano di Marsiglia, 74 Salviati, Scipione, 30 Sangnier Marc 261n Sani, Giacomo, 262n

Wallerstein, Immanuel, 22, 80 256n, 260n Weber, Simone, 31

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Rapporto e ipotesi sul Movimento cattolico se vi sia una regressione della cultura sociale e politica dei cattolici italiani questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle Cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nell’aprile dell’anno duemila nove


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