Gli spazi della globalizzazione

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23-08-2012

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MontefalconeStudium Geografia e paesaggio

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Umberto Melotti Roberto Panizza Fabio M. Parenti

Umberto Melotti Roberto Panizza Fabio M. Parenti

Cop Global OK:Cop Global OK

Gli spazi della globalizzazione sotto la spinta di processi che acutizzano la tensione tra globale e locale, rende necessaria un’analisi che si muova all’interno della dinamica tra aree e flussi. Il libro si concentra sui fenomeni riconducibili entro questa dinamica: la storia e le trasformazioni della finanza internazionale, dalle prime attività creditizie, sino agli attuali meccanismi speculativi – spesso responsabili di drammatiche crisi economiche in vaste aree del mondo – i flussi migratori internazionali, la riorganizzazione geografica del lavoro, riflesso delle nuove dinamiche di sviluppo tecnologico. Nei decenni della globalizzazione sono questi gli elementi del quadro geoeconomico e politico mondiale (migrazioni, internazionalizzazione della finanza, trasferimenti di tecnologie) indispensabili al fine di una corretta comprensione di quelle geografie in via di definizione delle quali i saggi raccolti in questo volume offrono un’analisi articolata e complessa. Umberto Melotti (Milano, 1940) è professore ordinario di Sociologia Politica all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha fondato e dirige la rivista «Terzo Mondo». Fra le sue pubblicazioni: Sociologia della fame (Milano 1965 e 1966), Rivoluzione e Società (Milano 1965), Marx e il Terzo Mondo (Milano 1972), L’immigrazione, una sfida per l'Europa (Roma 1992); Etnicità, nazionalità e cittadinanza e L’abbaglio multiculturale (Roma 2000).

Gli spazi della globalizzazione

Le categorie tradizionali appaiono inadeguate a cogliere e descrivere gli spazi dell’agire umano dai confini sempre più incerti. La continua riorganizzazione e ristrutturazione di luoghi e regioni,

Flussi finanziari migrazioni e trasferimento di tecnologie a cura di Fabio M. Parenti

Roberto Panizza (Torino, 1940) dal 1981 è professore ordinario di Economia Internazionale alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Ha redatto alcune voci economiche del Grande dizionario enciclopedico Nova (Torino 2002) e curato per Rai2 (2001) le venti puntate di La storia della moneta: dall’economia primitiva all’euro. Autore di saggi apparsi su riviste e volumi collettanei, svolge attività di consulenza presso fondazioni e centri studi, nazionali e internazionali. Fabio Massimo Parenti (Roma, 1974) si è laureato in Geografia presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi su Sviluppo sostenibile tra riflessione globale e analisi locale in Vietnam, centro di successive ricerche sul campo. Ha pubblicato, oltre a interventi su riviste cartacee e on line, la monografia Sviluppo sostenibile e comunità rurali nel nord ovest del Vietnam (Torino 2002).

DIABASIS

€ 16,00

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In copertina: fotografia di Renato Cerisola (particolare)




Montefalcone Studium

Geografie e paesaggio Sezione diretta da Massimo Quaini


Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 315 1

Š 2004 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it


Umberto Melotti, Roberto Panizza, Fabio Massimo Parenti

Gli spazi della globalizzazione Flussi finanziari, migrazioni e trasferimento di tecnologie a cura di Fabio Massimo Parenti

D I A B A S I S


Gli autori ringraziano Massimo Quaini per aver voluto accogliere questo volume in Geografie e paesaggio, sezione da lui diretta della collana Montefalcone Studium.


Gli spazi della globalizzazione a cura di Fabio Massimo Parenti

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Parte prima LO SPAZIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE Fabio Massimo Parenti Premessa metodologica Lo “spazio” tra antropologia e politica Lo “spazio” tra geografia e nuova economia Oltre le generalizzazioni dicotomiche: un pianeta asimmetrico Regioni, luoghi, risorse e conflitti Le migrazioni: vecchi e nuovi flussi Stati e regioni Luoghi Conclusioni

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Parte seconda MOVIMENTI INTERNAZIONALI DI CAPITALI DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI Roberto Panizza

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Capitolo primo

La nascita e l’alternarsi dei grandi centri finanziari europei dall’origine fino alla prima guerra mondiale 50

Capitolo secondo

Il flusso internazionale di capitali dalla fine del gold standard al nuovo ordine economico di Bretton Woods 63

Capitolo terzo

Dalla crisi del sistema di Bretton Woods al trionfo dei princìpi monetaristi 77

Capitolo quarto

Le nuove frontiere della finanza negli anni Ottanta e Novanta 92

Capitolo quinto

Osservazioni conclusive sui flussi finanziari dell’inizio del terzo millennio


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Parte terza LE NUOVE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI Umberto Melotti

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Capitolo primo

Migrazioni internazionali e globalizzazione 114

Capitolo secondo

Politiche migratorie e culture politiche 131

Capitolo terzo

La comunitarizzazione delle politiche migratorie europee 139

Capitolo quarto

L’Italia nel processo delle nuove migrazioni internazionali 153

Parte quarta TECNOLOGIE, INDUSTRIALISMO E GLOBALIZZAZIONE Fabio Massimo Parenti

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Introduzione

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Capitolo primo

Tecnologie e industrialismo 170

Capitolo secondo

I paradigmi e le dinamiche tecnologiche nella globalizzazione 188

Capitolo terzo

Transnazionali, ICT e nuove geografie 204

Capitolo quarto

Conclusioni teoriche 221

Riferimenti bibliografici per argomento

227

Indice dei nomi


Parte prima

LO SPAZIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE Fabio Massimo Parenti



Premessa metodologica

Scopo di questo libro è indagare sul modo in cui si stanno riconfigurando negli ultimi decenni gli spazi politici, economici e sociali dell’agire umano. Si tenterà di rispondere a una duplice esigenza: contribuire a una maggiore comprensione delle dinamiche mondiali in corso e iniziare a costruire nuove categorie per leggere e interpretare un mondo in profonda trasformazione. Il testo si articola intorno ai tre fattori dello sviluppo e del sottosviluppo: capitale, lavoro e tecnologia. Fattori che vengono studiati nella loro dinamicità, sotto la forma dei flussi finanziari, dei movimenti di persone (migrazioni internazionali) e dei trasferimenti di tecnologie. La nuova divisione internazionale del lavoro, conseguenza della riorganizzazione dell’economia mondiale (tra nuove disuguaglianze e strutturazioni), emerge sia dal rapporto contraddittorio fra i movimenti di persone e quelli di capitale, sia dai cambiamenti intervenuti nei flussi di tecnologie. Un contesto in cui prevalgono relazioni asimmetriche, dove la galassia finanziaria si colloca sempre più al di sopra delle economie reali. Infatti, mentre le nuove tecnologie informatiche alimentano una realtà finanziaria mondiale legata sempre meno agli investimenti reali e sempre più alle speculazioni sugli indici di borsa, le migrazioni di persone continuano a seguire la mobilità degli impianti e delle produzioni reali (sempre più frammentate), anche come conseguenza di crescenti disuguaglianze a più livelli scalari. La finanza si presenta come un sistema “virtuale” sopra a un sistema reale, in un rapporto alto/basso che tende a eliminare la circolarità tra capitale e lavoro, contribuendo, in ultima istanza, alla riconfigurazione degli “spazi dell’agire umano”. La categoria “spazio” nell’epoca della globalizzazione è l’oggetto di questo saggio introduttivo. Le altre tre parti relative ai movimenti di capitali, di uomini e di tecnologie nel mondo completano questo studio degli aspetti più peculiari della globalizzazione. L’idea-guida, originaria, di questo lavoro è che la globalizzazione vada analizzata prescindendo da un’analisi di lungo periodo e debba invece essere affrontata partendo da uno sforzo sistematico di comprensione, concentrato sulle novità: le sue peculiarità, le sue caratteristiche strutturali e dinamiche. In una parola, la sua specificità. In una tale prospettiva, il tempo – dimensione inscindibile dallo spazio – è


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considerato secondo una concezione prevalentemente lineare (la freccia), che ha a che fare con l’irripetibilità degli eventi, piuttosto che con la loro ripetibilità, come avverrebbe invece in una concezione ciclica1. Cogliere il significato delle discontinuità che caratterizzano la globalizzazione, richiede, ovviamente, anche una sommaria presentazione delle condizioni passate, rispetto alle quali si è prodotto un cambiamento specifico. L’esigenza primaria, tuttavia, è quella di fornire uno strumento per comprendere il presente costruito e in via di definizione. Il presente – l’identità attuale della società – non può essere eccessivamente schiacciato dal passato: ogni generazione ha da rivendicare il proprio essere, la propria specificità, spezzando alcuni fili che lo collegherebbero con le generazioni precedenti, costruendo, nello stesso tempo, rapporti di continuità e di discontinuità2.

Da questo punto di vista si considera necessaria un’analisi geografica che – coerentemente con la sua essenza etimologica, cioè graphein, segno – tenti di individuare i segni e i di-segni dei principali processi attraverso i quali è possibile giungere a un’identificazione della globalizzazione e a una sua parziale “visualizzazione”. Tali processi sono studiati in termini di aree, in relazione tra loro tramite l’esistenza di flussi. L’intento è quello di riuscire a visualizzare aree, luoghi e flussi al fine di riflettere sulle caratteristiche interne a ogni processo e sulle ragioni geografico-politiche ed economiche che intervengono nell’intersezione fra i processi, ovverosia fra i rispettivi piani spaziali disegnati. Va sottolineato peraltro che l’esigenza di costruire un’immagine territoriale della globalizzazione si scontra, nel caso dei movimenti di capitali, con la quasi totale impossibilità di visualizzarne i flussi, se non in modo marginale3. Ciò nonostante, conoscere il nuovo funzionamento della finanza mondiale consente di ragionare sul modo in cui, al di là di una sua rappresentazione geografica “oggettiva”, i suoi meccanismi influiscano sulle condizioni di vita, in termini di strutturazioni e de-strutturazioni territoriali. Nella dialettica tra globale e locale è ormai noto che a una parziale integrazione mondiale (soprattutto per le merci e i capitali) – tecnologicamente fondata – si affianca un acuirsi delle divisioni legate all’emergere o ri-emergere di istanze localiste, che possono esser lette come reazione ai processi dominanti della globalizzazione, percepiti o vissuti come esclusione. Non a caso l’antropologo Geertz afferma che «la molteplicità delle culture è un dato certo, anzi in aumento», e che sono «i rifiuti e le fratture che oggi delineano il paesaggio delle identità collettive»4. A fronte di un contesto di tale complessità, quanto può essere oggettiva l’analisi geografica e socioeconomica dei processi della globalizzazione che qui presentiamo? Gli esseri viventi, e la materia in genere, esistono nello spazio e nel tempo. Meglio, la loro natura è intrinsecamente spaziale, così come la loro configura-


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zione varia nel tempo, per cui il legame fra materia, tempo e spazio possiede una dimensione oggettiva5. Anche in relazione a ciò, un’analisi geografica, come quella proposta in questa sede, è mossa in parte da una necessità di rappresentazione oggettiva degli “spazi antropici” ri-disegnati dalle migrazioni, dalla finanza e dalle tecnologie alla scala globale. Ma è altrettanto vero che si tratta pur sempre di una rappresentazione, di una ricerca tesa a costruire un’immagine di processi economico-politici (propriamente umani) che, per quanto complessa e seriamente concepita, ha più a che fare con categorie economiche e politiche culturalmente derivate (nel nostro caso il significato e l’utilità della categoria “spazio” con le sue articolazioni) piuttosto che oggettivamente assolute. È il punto di vista antropico, non oggettivo, ma legato all’immaginazione (nel senso della produzione di immagini), a fornire originalità al lavoro. Al riguardo Massimo Quaini ci fornisce un’affascinante interpretazione che non è incompatibile con una decifrazione realistica del mondo e con una visione “materialistica”: […] immaginazione che, come insegna Paracelso, è la produzione magica di un’immagine e, per estensione, la forza magica per eccellenza, l’azione creatrice e produttrice. Questa nozione dell’immaginazione come intermediario magico tra il pensiero e l’essere, incarnazione del pensiero nell’immagine e posizione dell’immagine nell’essere, è una concezione che gioca un ruolo fondamentale nella filosofia rinascimentale. Nelle immagini si incarnano il nostro pensiero, il nostro desiderio, i nostri sogni. Ma, soprattutto, le immagini appartengono alla stessa magia naturale che spiega l’intero universo. Anche le immagini fanno parte dell’universo dei corpi, del mondo visibile e tangibile della terra e dei cieli, espressione di un’entità invisibile, intangibile che Paracelso chiama Astrum e che potremmo definire “anima del mondo”6.

Di seguito tratteremo alcune differenti concezioni relative allo “spazio”, per poi delineare una sintesi geografica, che contribuisca a individuare quali “spazi” vengano disegnati a scala globale dai processi oggetto di studio. Naturalmente, come ben sanno i geografi, prendere la scala planetaria come oggetto d’analisi privilegiato comporta inevitabilmente un elevato grado di astrazione, che però si ridurrà con l’attenzione posta sulle aree considerate “nevralgiche” per ciascun processo analizzato, cioè sui “luoghi” di intersezione e/o coincidenza tra i processi. Per capire come la categoria “spazio” possa essere riconsiderata nell’epoca della globalizzazione, il pensiero geografico deve oggi, forse ancor di più che in passato, fondersi con altri campi del sapere. Lo “spazio” tra antropologia e politica La categoria “spazio”può essere considerata una produzione dell’intelletto e in quanto tale variabile in relazione ai contesti culturali in cui si vive. Al riguardo sembrerebbe naturale supporre che il nostro contesto culturale “occidenta-


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le” implichi una cognizione globale (planetaria) dello “spazio”, che dipende largamente dal diffuso accesso alle nuove tecnologie. Essa è tuttavia solo una delle tante forme percettive dello “spazio” (tanto nel mondo “occidentale”, quanto in “altri” mondi). Si pensi, più in generale, alla duplice propensione umana alla ricerca del calore domestico (del focolare) – uno spazio circoscritto carico di certezze – e al movimento, fisico e mentale, verso luoghi non conosciuti e spazi più ampi e indefiniti7. Attualmente non si può non rilevare che dappertutto esiste in maniera sempre più accentuata una tensione fra «mondo globale e mondi locali» e che la complessità della dialettica tra frammentazione e unione, integrazione e disintegrazione ci obbliga a non cadere in falsi determinismi e, soprattutto, a prevedere la sovrapposizione fra più forme percettive della categoria “spazio”. È necessario pertanto tenere nella dovuta considerazione una certa sensibilità antropologica. Da questa prospettiva lo “spazio” è un concetto il cui significato dipende dall’uso che se ne fa nell’ambiente sociale a cui si appartiene. Una data foresta è vissuta per esempio come un luogo sacro da un determinato gruppo di persone, mentre da altri è percepita esclusivamente come uno spazio ecologico ed economico. Nella Cina “tradizionale”, la città di Pechino rappresentava per le élites «un diagramma cosmico», mentre per le persone comuni contavano i singoli luoghi all’interno della città (templi, alberi, ponti ecc.)8. La variabilità della categoria “spazio” dev’essere quindi un punto di partenza imprescindibile, poiché si tratta di un concetto alterabile e mutevole, che non ci consente di individuare confini fissi9: non a caso parliamo di aree e di flussi. Nel complesso, l’intervento modificatore che una cultura esercita sull’ambiente e sui corpi (secondo la concezione indigena latina), in una parola, sulla natura, è un processo tramite il quale si va strutturando un particolare concetto di “spazio” come componente dell’identità (tale solo se differenziato da altre forme d’organizzazione spaziale). Le modalità in cui l’uomo interviene sulla natura riguardano proprio la strutturazione dei luoghi, cioè gli spazi in cui l’abitare, le abitudini, l’abbigliamento, le colture producono delle identità territoriali (forme di culturalizzazione della natura). Tale interpretazione deriva da un più ampio ragionamento di Francesco Remotti, il quale sostiene che «ogni società si distende in uno spazio, lo articola e lo organizza in certi luoghi, eleggendo o ritagliando certi ambiti specifici del suo territorio in quanto destinati a certe attività»10. Dal punto di vista antropologico lo “spazio” si presenta, quindi, come il risultato di un intervento modificatore sulla natura ad opera dell’uomo, nonché di un intervento modificatore su un gruppo sociale da parte di varie forme di potere. Siamo di fronte a uno spazio culturalmente caratterizzato e qualitativamente differenziato che ha sempre informato i luoghi. Un altro punto di osservazione è rappresentato dal rapporto tra spazio e politica. Carlo Galli, storico del pensiero politico11, dimostra che nell’evoluzione del concetto di spazio implicito nel pensiero politico si può distinguere


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in modo chiaro tra concezione premoderna, moderna e della globalizzazione. Nelle città e negli imperi premoderni è lo spazio, secondo Galli, a essere portatore di politica: uno spazio gerarchicamente organizzato, culturalmente qualificato, non determinato, né rappresentato con categorie rigide, come accade, invece, nell’epoca moderna, nel corso della quale è la politica a determinare lo spazio. Questa inversione del rapporto fra spazio e politica nascerebbe dalle reazioni formulate per rispondere alle crisi della spazialità politica agli albori della modernità (riconducibili alla rivoluzione copernicana in campo scientifico, alla riforma luterana in campo religioso e soprattutto alla conquista dell’America). La differenziazione geometrica di spazi lisci e omogenei diventa così la logica fondamentale (hobbesiana) dietro la nascita dello stato-nazione12, che rappresenterebbe perciò una risposta “moderna” alla paura o spaesamento prodotto “dall’altro”, dalle nuove terre, dalle nuove concezioni. Lo stato-nazione della modernità forgia pertanto categorie rigide come “interno” ed “esterno”, “particolare” e “universale”, ma allo stesso tempo, «nonostante la pretesa moderna che le geometrie della politica siano stabili e certe, le categorie spaziali della politica moderna risultano in realtà instabili e cangianti»13, per la presenza del soggetto e delle sue proiezioni universali (pur costretto e disciplinato dallo Stato): uno spazio liscio, dunque, ma in movimento; geometrico, ma variabile. A causa di queste caratteristiche contraddittorie, la spazialità politica nella tarda modernità entra in crisi – preparando la “rivoluzione” spaziale rappresentata dalla globalizzazione – e determina tentativi profondamente irrazionali di riqualificare lo spazio politico. Lo “spazio vitale” di Hitler, ad esempio, è divenuto lo strumento teorico per una giustificazione “scientifica” delle politiche razziali e d’espansione territoriale. Non a caso, la scuola geopolitica tedesca, che ha mutuato il concetto di “spazio vitale” (concezione dello Stato come organismo) dal pensiero di Ratzel, dal 1931 s’incorpò al nazismo14. Si può quindi affermare che i totalitarismi abbiano esemplificato, sia nel senso particolaristico del nazionalismo, sia in quello universalistico del comunismo, l’implosione delle contraddizioni interne agli spazi politici moderni. I confini rigidi e netti, secondo Galli, sono superati nella globalizzazione, che è presentata come portatrice di una spazialità di difficile definizione, ma che rappresenta «essenzialmente uno sconfinamento, uno sfondamento di confini, deformazione di geometrie politiche», nella quale è l’economia a dare senso allo spazio15. Considerando la finanza mondiale, potremmo parlare oggi di un’assenza di spazio, sia perché i suoi flussi avvengono attraverso le cosiddette “tecnologie dell’immateriale”, sia perché, come analizza in questo volume Roberto Panizza, l’uso delle tecnologie informatiche e l’assenza di normative trasparenti non consentono, come già ricordato, di visualizzare la maggior parte dei flussi finanziari che si dispiegano a ogni scala.


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In base alla prospettiva antropologica sopra presentata è possibile rilevare i limiti del pensiero politico analizzato da Galli (per ciò che concerne la modernità e la sua eredità). Un pensiero che ha prodotto categorie spaziali e una prassi politica non sufficientemente attente ai movimenti reali. Alla luce di ciò, la prassi politica dovrebbe ripartire – in accordo con l’analisi critica di Geertz – dalla concretezza dei fatti (andando oltre un’immagine divisoria del mondo in blocchi e superblocchi) e da una migliore interpretazione di ciò che dà senso alle convinzioni degli uomini. «Una politica che nell’autoaffermazione etnica, religiosa, di razza, linguistica o regionale non veda una mancanza di ragionevolezza arcaica o innata, da reprimere o da superare, una politica che non tratti questi generi di espressione collettiva come una spregevole follia o un abisso buio, ma sappia invece affrontarli come fa con la disuguaglianza, l’abuso di potere e altri problemi sociali». «Divergenza», «varietà» e «disaccordo» sono le categorie con le quali ci si deve confrontare16. Ce lo hanno insegnato anche alcune rivoluzioni che nel Terzo Mondo hanno portato a un superamento del colonialismo, che hanno «evidenziato la natura composita della cultura» e non hanno imitato il nazionalismo europeo che quelle culture negava17. Il superamento del colonialismo sembra esser stato, tuttavia, un fenomeno effimero o quanto meno parziale. Anche il Terzo Mondo è infatti sempre più frammentato, con aree in competizione tra loro per ricevere una quota maggiore di aiuti economici da parte delle nazioni ricche: «Sempre più pressanti e frequenti sono le richieste di “ricolonizzazione” di fatto, specie da parte di élites politiche omologate dall’Occidente al potere in molti Stati»18. Lo “spazio” tra geografia e nuova economia Lo “spazio” inteso come categoria geografica può essere visto, nella globalizzazione, come ciò che si crea a seguito dell’interazione dialettica fra due dinamiche sottostanti a ogni processo: quella legata agli “spazi dei luoghi” (antropologicamente intesi) e quella legata agli “spazi dei flussi” (economicamente e politicamente considerati). Ciò, in termini più generici e astratti, mette in rapporto locale e globale. Al riguardo Massimo Quaini, uno dei maggiori teorici della geografia in Italia, invita a ragionare sulla «necessaria dialettica del chiuso (luoghi) e dell’aperto (flussi), del confine e della sua negazione, senza la quale subentra la crisi pericolosa del ripiegamento identitario»19. Un’interazione, quella tra luoghi e flussi, «[…] che continua a informare e diversificare i nostri luoghi»20. Nonostante la dilatazione dello spazio dei flussi, è nei luoghi che si produce una riconfigurazione “visibile” della dialettica tra i due tipi di spazio, il cui rapporto attuale viene letto da Manuel Castells in termini di polarizzazione fra due logiche disgiunte. L’accentuata polarizzazione è, per Castells, finalizzata a garantire il funzionamento del meccanismo fondamentale per la dominazione: il controllo.


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«Il capitale circola, il potere comanda e la comunicazione elettronica vortica attraverso i flussi di scambio tra snodi lontani ma selezionati, mentre l’esperienza frammentaria rimane confinata nei luoghi […]. Circoscrivendo il potere allo spazio dei flussi, consentendo al capitale di sfuggire al tempo, e dissolvendo la storia nella cultura dell’effimero, la società in rete disincarna i rapporti sociali, […]»21. Da una parte, nei luoghi, prevale ancora il legame sociale e con il territorio (seppure spesso fin troppo destrutturato) che si esplica attraverso rapporti per così dire “termici” (ossia relazioni energetico-materiali, in cui intervengono atomi, temperature e pressioni). Dall’altra, nei flussi, prevale il dominio della tecnologia “immateriale” delle comunicazioni a distanza e dell’informazione (ove gli atomi sono sostituiti dai bit), delle merci e dei capitali. Si tratta di «una separazione tra il potere e l’esperienza vissuta, essendo questi situati in spazitempo differenti»22. Come osserva Jean Ziegler, la globalizzazione […] porta a uno sviluppo strettamente localizzato dei singoli centri di affari in cui sono installate le grandi società, le banche, le assicurazioni, i servizi di marketing e di distribuzione, i mercati finanziari […]. La globalizzazione disegna così sulla faccia della Terra una specie di scheletrica rete che unisce alcuni grandi agglomerati, al di fuori della quale si assiste all’“avanzata dei deserti”. Stiamo entrando nell’epoca dell’“economia arcipelago”, un modello “a velocità multiple” che conduce alla progressiva distruzione di tutti i tipi tradizionali di società e di socialità e segna, senza dubbio per lungo tempo, la fine del sogno di un mondo infine unificato, riconciliato con se stesso e in pace23.

Uno dei principali attori che alimenta e che contribuisce a definire il nuovo assetto mondiale è costituito proprio dalle società transnazionali, le quali creano le strutture di potere oligopolistiche dell’“economia arcipelago”. Le società transnazionali sono infatti aumentate nel corso degli ultimi decenni, non solo numericamente – passando dalle 7 mila (1970) alle 63 mila del 2001 – ma anche e soprattutto in dimensione. Ciò ha innescato una concorrenza feroce tra di loro, con effetti a vastissimo raggio. Cinquantuno delle cento economie più importanti del mondo sono rappresentate da grandi imprese transnazionali, ciascuna delle quali supera la ricchezza di diverse nazioni messe insieme: le tre più grandi multinazionali hanno un capitale pari alla ricchezza di 70 Paesi24. Tutto ciò è in sintonia con la nascita e l’operare dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (conosciuta con la sigla inglese WTO), che detiene un potere straordinario al di fuori delle stesse Nazioni Unite, poiché può sanzionare dei Paesi in base alla sola denuncia di un’impresa. È la prima volta nella storia che gli interessi di un singolo Stato possono essere messi sullo stesso piano degli interessi di un’impresa25, che spesso gode di maggiori privilegi e di migliori trattamenti. Quando uno Stato decide di applicare restrizioni commerciali per questioni


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legate alla salute, all’ambiente e alla tutela di specie viventi (si pensi ai casi della carne agli ormoni, della tutela dei delfini e delle tartarughe, degli OGM ecc.), nella maggior parte dei casi vede i suoi provvedimenti (spesso inerenti al recepimento di altri Trattati internazionali) disconosciuti dal WTO. L’Organizzazione – tramite gli organi preposti alle dispute – chiama lo Stato messo sotto accusa, e non l’accusatore, a dimostrare in modo incontrovertibile l’evidenza del rischio, annullando quindi qualsiasi principio di precauzione e, in ultima istanza, di sovranità (cfr. box Il potere del soggetto privato e il WTO). Di fronte a ciò, non è per nulla esagerata la posizione espressa da Umberto Allegretti, il quale afferma causticamente che forse non c’è miglior prova della superiorità che hanno, nella nostra epoca, gli interessi economici rispetto agli altri obiettivi umani e di come essi abbiano la forza di piegare i meccanismi giuridici alla codificazione legale dell’economicismo filosofico-antropologico proprio di questo tempo26.

Pertanto, seppure i negoziati vengano svolti formalmente dai rappresentanti degli Stati, sono in realtà le società transnazionali i soggetti che intervengono a monte nel processo decisionale. La posizione dell’Unione Europea, ad esempio, viene preparata nell’ambito del “Comitato 133”, in cui oltre agli alti funzionari dei vari Paesi si trovano gli agenti delle imprese globali. Ed è sulla base dei documenti elaborati in tali sedi – in cui l’azione di lobbing è sostanziale – che si svolgono i negoziati ufficiali27. Va ricordato peraltro che la competizione forte tra gruppi economico-finanziari, facenti capo ad aree geografiche diverse, è inevitabilmente condizionata dalle istanze politiche dei vari gruppi di Paesi. Questo – come è stato dimostrato in occasione del vertice di Cancùn – potrebbe fare in modo che alcuni validi princìpi del WTO, come quelli del «trattamento speciale e differenziato» (che permetterebbe ai PVS di adottare misure protezionistiche) e quelli delle pratiche antidumping (contro l’operato dell’Unione Europea, degli USA e del Giappone), vengano finalmente applicati28. Se consideriamo l’intreccio fra la potenza delle società transnazionali, gli interessi particolaristici o, comunque, il malfunzionamento espresso dagli organismi internazionali (WTO, FMI, BM, le politiche sottese all’attività di alcune Agenzie delle Nazioni Unite ecc.) e l’espansione delle economie criminali29, abbiamo una prima conferma di quanto le cose siano complesse. Anche se la maggior parte delle imprese cui si sta facendo riferimento hanno origine nei Paesi del Nord del mondo, la loro azione “glocale” richiede un’attenzione particolare per gli effetti che, sul territorio, si esplicano attraverso l’interazione tra governi, organismi sovrannazionali, imprese ed economie locali. La concentrazione di potere economico e politico riduce gli spazi di partecipazione democratica al livello globale dei flussi, creando rotture, resistenze e nuovi processi identitari al livello locale in cui si svolge la nostra vita.


Il potere del soggetto privato e il WTO

Un esempio, tra i tanti possibili, è quello della compagnia francese “Suez”, che, insieme alla “Vivendi”, controlla il 40% del mercato mondiale di distribuzione dell’acqua. Nel 1997 questa multinazionale si aggiudicò un appalto a Manila, dove era stato avviato un progetto di privatizzazione delle acque. La concessionaria locale della “Suez” ha avuto una pessima performance, benché il prezzo dell’acqua nella capitale filippina fosse aumentato del 500%. A questo punto la “Suez” decise di chiedere al governo un aumento delle tariffe, maggiori garanzie sui prestiti e la riduzione del numero di utenti da servire. Non contenta, la società ha chiesto al governo una compensazione di 200 milioni di dollari per i danni causati alla “ casa madre” dal cattivo operato della filiale locale. Ancora una volta, la domanda di risarcimento (di un’impresa nei confronti di un governo) è finita all’arbitrato del WTO, che tratta il governo filippino alla stregua di un soggetto privato (senza la possibilità che i comitati locali possano essere rappresentati) [A. Tricarico, Evian, l’acqua dei G8, in «il manifesto», 31 maggio 2003].

La polarizzazione di cui parla Castells non elimina dunque il rapporto dialettico di azione e reazione tra le due logiche spaziali: esso permane nelle intersezioni fra relazioni orizzontali (nei flussi) e relazioni verticali (nei luoghi). I processi globali, infatti, si articolano prevalentemente in relazioni orizzontali fluide e dinamiche, che dipendono pur sempre sia da fattori materiali (tecnologie e costruzioni dipendono dall’accesso alle risorse naturali), sia da azioni e comportamenti “effettivi” che si dispiegano in luoghi precisi (anche se blindati e recintati). Tra il livello più concreto dei fattori materiali spazialmente determinati e quello più sfuggente dei flussi (anche quando si tratta di merci o persone) si creano conflitti e contrapposizioni, ma, soprattutto, interazioni che è obbligatorio tentare di comprendere. È nella loro dialettica che si formano i nuovi campi spaziali dell’esistenza degli uomini. Oltre le generalizzazioni dicotomiche: un pianeta asimmetrico Siamo di fronte a una realtà in cui i processi della globalizzazione disegnano una geografia delle condizioni di vita profondamente asimmetrica. Ogni popolo è coinvolto nei processi in atto. Tuttavia, mentre solo alcune persone ne beneficiano in termini di opportunità e benessere (si pensi che nel 1998 le tre persone più ricche del mondo avevano una ricchezza superiore al PIL dei 48 paesi più poveri al mondo – UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano, 1998) tanti altri ne subiscono le conseguenze in termini prevalentemente negativi (basti menzionare il significativo peggioramento delle condizioni di vita dei popoli dell’Africa subsahariana negli ultimi 25 anni). Naturalmente, i livelli di disuguaglianza sono mol-


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teplici e in linea generale dipendono dal “grado di accesso” alle risorse materiali e immateriali. Anche per questa ragione, al di là dei giudizi di valore sulle tendenze più recenti, l’asimmetria del nuovo assetto mondiale richiede di dotarsi di punti di vista nuovi, che prendano innanzi tutto le distanze da classificazioni dicotomiche troppo semplicistiche, come quelle “Nord-Sud” ed “Est-Ovest”30. È doveroso ricordare, tuttavia, che il punto di vista qui proposto non vuole annullare totalmente il valore di dati aggregati che mostrano la disuguale distribuzione di ricchezza e proprietà tra l’emisfero nord e quello sud. È importante infatti sapere che Stati Uniti, Canada, Europa occidentale e Giappone sono i Paesi d’origine delle più grandi e potenti transnazionali del mondo. E a questi Paesi – quindi alle loro imprese globali – è ascrivibile circa il 70% del commercio mondiale31. O, più in particolare, che l’85% degli investimenti nella ricerca farmaceutica mondiale interessa le malattie che colpiscono i Paesi ricchi, dove non a caso si realizzano il 90% delle vendite di medicinali32; questo, nonostante che la diffusione di malattie infettive coinvolga soprattutto i Paesi più poveri, dove muore la maggior parte delle persone contagiate (il 97% sul totale mondiale)33. Un altro esempio riguarda il mercato delle armi: i primi dieci produttori mondiali del Nord rappresentavano nel 2000 il 91,2% del mercato34, mentre i conflitti degli anni Novanta si concentrano prevalentemente nell’emisfero sud. È pur vero, altresì, che il tradizionale flusso di armi dal nord produttore al sud consumatore si è articolato in un’infinità di flussi. «Da un lato, alcuni di quei sistemi d’arma, o parti di essi, che erano tradizionalmente commerciati da nord a sud, muovono oggi in direzione opposta […]. Dall’altro, gli stessi o altri sistemi d’arma muovono direttamente da sud a sud […]»35. Così, mantenere le categorie “Nord-Sud” può essere utile, ma non sufficiente: è necessario cercare di andare oltre, ponendo lo sguardo su “regioni e luoghi”. Le categorie “Nord-Sud”, che si richiamano appunto ai forti squilibri socioeconomici, accentuatisi negli ultimi decenni a ritmi senza precedenti36, non sono in grado di rendere adeguatamente conto delle sacche di povertà in crescita nel mondo ricco. In Gran Bretagna, per esempio, il 15% della popolazione vive sotto la soglia di povertà relativa in condizioni molto variabili di esclusione sociale ed economica (circa 7 milioni e mezzo di persone, ovvero quasi l’equivalente della popolazione della Bolivia o dell’Austria). E negli USA la percentuale di chi vive in condizioni di povertà relativa sul totale della popolazione è ancora più alta del 15%, che già equivarrebbe a più della popolazione complessiva dell’Argentina. Un dato che si comprende bene, se si considera l’iniqua distribuzione del reddito negli USA, dove il 30% del PIL è in mano al 10% della popolazione, con una struttura piramidale molto accentuata: nel 1998 lo 0,01% della popolazione (13 mila famiglie) aveva un reddito pari al 3% del PIL nazionale, equivalente a quello dei 20 milioni di nuclei familiari più poveri. Se il calcolo si estende all’1% più ricco37, vediamo che questo possiede il 16% del reddito lordo federale (percentuale raddoppiata negli ultimi 30 anni)38. Di conseguenza, non è strano che uno statunitense su cinque sperimenti almeno una volta nella vita, con la pro-


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pria famiglia, la vita per strada (nel ricco Massachusset ci sono, oggi, almeno 80 mila persone che vivono in questa condizione). Per quanto concerne l’Italia i dati ISTAT del 2002 segnalano che il 12,4% della popolazione, ovvero più di sette milioni di persone, vive in condizioni di povertà39. Così come nel Regno Unito, nel Giappone e in altri Paesi tra i più industrializzati vi sono situazioni di forte disuguaglianza e iniquità, aumentate negli ultimi decenni. Infatti, come ci ricorda Joseph Halevi, «sono 28 anni che in Europa e in Giappone non ci sono state riprese economiche di rilievo […] in questo contesto è preferibile parlare di una recessione che acuirà la stagnazione […]»40. Basti pensare che i disoccupati negli Stati più industrializzati sono passati da 25 milioni nel 1990 a 39 milioni nel 200141. Allo stesso modo, servono nuove categorie d’analisi per interpretare l’esistenza delle tante “isole occidentali” all’interno del Sud del mondo. In India esiste una classe media che ha consumi di livello occidentale, circa 80 milioni di persone, ovvero l’equivalente della popolazione della Germania. In Sudafrica ci sono alcuni milioni di persone che hanno lo stesso tenore di vita degli austriaci, e così via. Inoltre, come spiegare e interpretare i dati dell’India che, pur essendo il secondo produttore mondiale di software (dopo gli USA), ha il 50% della sua popolazione analfabeta? In effetti, nonostante la rilevante crescita annua del PIL (di circa il 6-5% annuo negli anni Novanta), dal 1980 a oggi vi è stato un aumento del numero di affamati (il 53% dei bambini sono malnutriti), che la configura come l’area che insieme all’Africa sub-sahariana concentra il maggior numero di affamati del mondo42. Per non parlare della Cina, in cui, nonostante i consistenti investimenti esteri, permangono i tradizionali squilibri territoriali tra regioni dell’Est e dell’Ovest e più di 200 milioni di persone vivono in condizioni di “povertà estrema”. Nel Sud del mondo esistono élites nazionali che concentrano molto potere nelle proprie mani, ma che non coincidono solamente con le classi dirigenti nazionali. In Zimbawe, i due terzi della popolazione è rurale (circa 8 milioni e mezzo di persone), ma solo lo 0,5% degli abitanti (70.000 persone) possiede il 70% del territorio e, tra questi, solo 4000 bianchi possiedono un terzo della terra coltivabile. In Brasile, uno dei casi di maggiore iniquità nell’assetto della proprietà fondiaria, solo il 3% della popolazione possiede due terzi della terra coltivabile43, a fronte di una popolazione rurale di oltre 30 milioni di persone44. Tra questi, ci sono 4,5 milioni di famiglie contadine senza terra, nonostante circa 153 milioni di ettari restino incolti45. Le analisi centrate sulla dicotomia “Nord-Sud” forniscono, a nostro parere, un’immagine troppo semplificata del mondo, non aiutando a comprendere i livelli intermedi di disuguaglianza, oppure gli scambi commerciali e le migrazioni di persone che, per esempio, avvengono al livello regionale all’interno dei due emisferi. Solo da questo punto di vista si potrebbe convenire con Carlo Jean, secondo il quale «mentre la distribuzione degli interessi politico-strategici nelle varie aree


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si può raffigurare con cerchi più o meno continui e omogenei a seconda della loro distanza (e del peso internazionale di un Paese), quella degli interessi economici è a pelle di leopardo»46. Anche la dicotomia “Est-Ovest” (in particolare nella veste Europa/Asia), tanto antica quanto generica, non appare una categoria analitica soddisfacente. A sostegno di tale distinzione vi è spesso stata una spiegazione di tipo antropologico-culturale, dalla quale si sono derivate con leggerezza le differenze tra i sistemi economici dei due blocchi. L’Occidente (al di là dei numerosi “isolotti occidentali”), individuabile nel Nord America, nell’Unione Europea, nel Giappone, nell’Australia e in alcune aree dell’Est asiatico (regioni in cui si è verificata una forte crescita del capitalismo industrialista – pur con tutte le differenze storiche e culturali)47, esprime una pluralità d’identità, forgiate anche, ma non solo, dalla compenetrazione tra Oriente e Occidente. Infatti ogni persona e più in generale ogni società forma la propria identità tramite affiliazioni plurime (ad esempio professionali, politiche e religiose) che sono a loro volta connesse a una diversità di fenomeni sempre più intrisi d’esperienze “d’altri mondi”. Tutto ciò crea idee e percezioni di spazio non facilmente assimilabili e anche in questo caso dipendenti dal grado di accesso all’informazione e più in generale a esperienze “altre”. Certamente esiste una diversità di valori, ma le tradizioni culturali sono assai diversificate da regione a regione, con un dinamismo che è variabile anche nel tempo; per questo la ricerca di formule univoche, riferite all’Oriente o all’Occidente, risulta fuorviante. L’analisi di Amartya Sen ci ricorda come, nel caso del Giappone prima e di molti altri Paesi asiatici poi, il “successo” del capitalismo non sia spiegabile con i soli valori importati dall’Occidente48 o con quelli tipicamente “orientali”. L’attenzione rivolta dagli studiosi all’influenza della tradizione samurai nello sviluppo del Giappone; o le analisi dell’evoluzione dell’impresa familiare per spiegare in seguito lo sviluppo socioeconomico di nuovi Paesi dell’Asia orientale; o, infine, le interpretazioni incentrate sulla disciplina legata al confucianesimo – quando nuovi territori venivano coinvolti in un processo di crescita capitalistica – sono tutti elementi non adeguati a una reale comprensione del ruolo dei valori nel determinare il processo economico49. Come spiegare, pertanto, con le interpretazioni sopra menzionate, la crescita della Thailandia, il cui retroterra culturale è buddista e non confuciano? E l’Indonesia, con un presente prevalentemente islamico e un passato, e in parte anche un presente, buddista e induista? Per non parlare del sub-continente asiatico che, sempre considerato lento per tradizione, è diventato all’improvviso un’area di dinamismo economico (attualmente con tassi di crescita del PIL più elevati di quelli “occidentali”). La dinamica geografica (culturale ed economica) e la variabilità/incertezza della concezione europea dell’Asia offrono, così, buoni motivi per dubitare della dicotomia Europa/Asia50. Questa contrapposizione è in realtà inadeguata a identificare i movimenti


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spaziali dei processi globali (tra loro in relazione), che producono effetti diversi sui territori antropizzati e, quindi, sulle condizioni di vita delle persone. Regioni, luoghi, risorse e conflitti Lo spazio geografico mondiale può essere visto come un mosaico fluido e mutevole di macroregioni sovrannazionali, articolate in microregioni sub-nazionali. Dalle possibili comparazioni tra aree di superficie variabile, che insistono sui diversi continenti, si osservano dinamiche locali connesse a quelle globali. Vediamo, pertanto, alcune esemplificazioni che, alle varie scale regionali, ci parlano dei processi esaminati in questo libro. La macroregione ecologico-culturale rappresentata dal Medio Oriente ha una estensione interregionale (o, meglio, interstatuale), ed è caratterizzata da numerosi legami culturali (maggioranza araba, islamismo, strutture sociali di tipo clanico e tribale) e geo-ecologici (ambienti bioclimatici di tipo desertico e di prateria, terre d’origine di una ricca biodiversità agricola e concentrazione delle maggiori riserve petrolifere del mondo). Si tratta di caratteristiche antropiche e naturali che, in linea generale, sono riconducibili a un complicato rapporto fra contiguità geografica e centralità storica di questa macroregione, la quale, peraltro, si compenetra anche con quella mediterranea. Quest’ultima macroregione rappresenta, dal punto di vista dell’economia globale, sia la maggiore area d’attrazione turistica, per le favorevoli condizioni climatiche e per l’esistenza di grandi patrimoni artistici e archeologici, sia un’importante area di traffico d’armi, al livello regionale come a quello globale, soprattutto in direzione nord-sud. Il Mediterraneo è, nondimeno, uno spazio in cui avvengono, in direzione opposta a quella delle armi, intensi scambi di materie prime energetiche (gas naturale e petrolio in primis). Da non dimenticare, infine, le crescenti migrazioni di uomini che si spostano dalla sponda sud a quella nord. Da una prospettiva economica più strettamente regionale, invece, quest’area geografica è caratterizzata dalla presenza di un gran numero di piccole e medie imprese, che sono specializzate in settori quali l’agroalimentare e l’artigianato (spesso delle vere e proprie economie informali), da strutture demografiche piramidali con persone in prevalenza giovani e, non in ultimo, da strutture sociali molto complesse, definite dall’intreccio tra appartenenze famigliari e claniche. Un insieme d’attività e di modi di produzione/riproduzione economica e sociale che ne fa, secondo la definizione di Braudel, una vera «economia mondo». Nonostante gli elementi in comune, entrambe le aree geografiche sono interessate da squilibri demografici (per esempio tre quarti della popolazione dei Paesi mediterranei vive nella sponda sud); e da fratture, conflitti e disordini (Palestina-Israele, Iraq, Kurdistan, Cipro, crisi albanese e guerra del Kosovo, per citare i più conosciuti e importanti) che non consentono di mettere a frutto le potenzialità culturali, ecologiche ed economiche per un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni coinvolte.


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Questi squilibri non sono propriamente o esclusivamente legati alle dinamiche “interne”. Basti pensare ai flussi di materie prime, che entrano nell’economia globale tramite la gestione da parte delle grandi corporation; agli interventi armati di Stati Uniti e Regno Unito per questioni petrolifere e geopolitiche (questioni che motivano, peraltro, la presenza di imprese di moltissimi altri Paesi, spesso appoggiate dai rispettivi governi); alla concentrazione di gran parte dei Paesi OPEC; e al ruolo della capitale saudita (Ryad), in cui sono localizzate imponenti filiere finanziarie51. Non secondari, infine, gli interventi dei vari organismi finanziari internazionali, che hanno condizionato (in negativo), negli ultimi decenni, i singoli governi nazionali tramite le “politiche d’aggiustamento strutturale”52. Un discorso simile si potrebbe fare per l’Africa equatoriale o il Sud-Est asiatico: macroregioni che presentano al loro interno una forte frammentazione, spesso alimentata dai flussi dei processi globali. Sul versante delle microregioni, invece, stati-nazione appartenenti a tre continenti diversi, come la Repubblica Democratica del Congo, l’Indonesia, Papua Nuova Guinea e la Colombia, per esempio, sono legati dal fatto di possedere da soli il 10% delle foreste vergini ancora esistenti al mondo53 e quindi essere dotati di aree ecologiche di grande interesse economico. Per tali motivi, queste regioni si configurano come aree sub-nazionali “nevralgiche”, in cui la presenza di miniere, giacimenti di petrolio, legname, ha attirato nel corso dei decenni investitori stranieri che, in collaborazione con gli imprenditori e i governi nazionali, si sono appropriati o hanno preso in gestione territori da sfruttare. Come risulta dallo studio di Michael Renner, le attività estrattive hanno determinato l’espropriazione e la devastazione delle terre, il consumo e l’inquinamento delle acque e, più in generale, l’impoverimento di quegli ecosistemi da cui dipendevano le economie agricole delle popolazioni locali. Le reazioni dei movimenti indigeni hanno determinato spesso un continuo acuirsi delle tensioni, che sono sfociate in veri e propri conflitti (fosse comuni, stupri, torture) con migliaia di morti associati a ogni impianto. Non mancano, peraltro, gli esempi di giacimenti e strutture estrattive custodite con eserciti privati e/o governativi finanziati dalle corporation straniere: a. Impianto per l’estrazione di gas, gestito dalla Exxon Mobil, nella regione di Aceh in Indonesia. b. Impianto per l’estrazione del petrolio, gestito dall’Occidental Petroleum, in Colombia. c. Miniera d’oro a cielo aperto (la più grande del mondo), gestita dalla società Freeport, nella provincia indonesiana di Papua ovest54. d. Miniera di rame a cielo aperto (la più grande del mondo), gestita dalla Rio Tinto, nell’isola di Bougainville in Papua Nuova Guinea. e. Impianti per l’estrazione di petrolio, gestiti dalla Shell e da altre compagnie occidentali, nel delta del fiume Niger in Nigeria55.


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I benefici economici? Tutti lontano dalle popolazioni locali, che non hanno mai avuto nulla in cambio, se non in modo illegale, oltre alle distruzioni e alle privazioni56. Va detto, inoltre, che un conflitto con la relativa escalation di violenza è l’ideale per i gruppi che intervengono nel saccheggio delle risorse. Come scrive Roberto Panizza: Tutte le guerre civili in Africa e i movimenti terroristici (come quelli che operano in Algeria o in Sudan, per citare i più famosi) hanno avuto come obiettivo principale la tutela e la salvaguardia degli interessi economici delle compagini che sfruttano le risorse minerarie locali57.

In altre parole, una condizione di guerra circoscritta, più o meno riconosciuta al livello internazionale, nasconde in parte attività che sarebbero a tutti gli effetti criminali e fenomeni di corruzione e contrabbando trasversali a soggetti che riescono a fare affari nel caos e grazie al caos58. Non è forse un caso che la produzione dell’oppio in Afghanistan (primo produttore al mondo) sia risalita drasticamente dopo l’intervento delle potenze occidentali. Secondo l’UNDCP59, la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è salita del 657% nel 2002 (rispetto al 2001, l’anno dell’intervento bellico) e sembra che nel 2003 tale coltura si sia estesa a un’area di 80 mila ettari (quando nel 2001 si stimò che l’area di coltivazione fosse scesa a circa 7600 ettari)60. Nel complesso, per quanto riguarda sia le macroregioni, sia le microregioni si tratta di sistemi di varie dimensioni che vengono condizionati in misura diversa dai singoli Stati, dalle organizzazioni sovrannazionali, dalle banche, dalle società transnazionali, dalle organizzazioni criminali e da gruppi locali di varia natura. Pertanto, al di là delle strutture statuali, tali “formazioni geografiche” regionali (sopra e sotto gli Stati) sembrano essere particolarmente interessanti nello studio di quei processi che si svolgono nella doppia spazialità della globalizzazione: quella dei luoghi (nodi) e quella dei flussi (reti). Anche se in misura differente, come abbiamo visto, ogni area citata ha in comune il fatto di possedere una o più zone d’interesse, per la presenza di materie prime intese in senso ampio: l’acqua, i combustibili fossili, le foreste, le pietre preziose, i minerali ecc. L’attrazione che queste regioni esercitano su investitori e “gruppi d’interesse globali” si associa alla proliferazione di gruppi di potere “locali”, all’instabilità degli equilibri politici e allo sviluppo di conflitti a varia intensità, legati strettamente allo sfruttamento delle risorse naturali. Riassumendo: a una zona-bacino di risorse corrisponde di frequente una condizione di disordine locale e di guerra civile61, a sua volta alimentata da traffici più o meno ampi di armi. In tali contesti i soggetti economico-politici del mercato globale svolgono i propri affari commerciali e finanziari. Un cerchio che si chiude, dunque, producendo un circolo vizioso che connette le risorse ai conflitti


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al livello locale, nell’ambito di flussi globali che concernono il traffico di armi, così come le attività commerciali. Dal punto di vista delle società transnazionali, che come abbiamo visto sono tra gli attori più rilevanti a scala globale, si rileva il ruolo determinante svolto dalla domanda mondiale di beni e servizi nell’orientare la loro azione. Le grandi corporation infatti rispondono a domande specifiche, provenienti da varie aree del pianeta, per cui anche una richiesta relativamente limitata, ma spazialmente diffusa e temporalmente improvvisa, determina una domanda di mercato individuata come globale e a cui si risponde con interventi frettolosi per sostenere il nuovo ciclo produttivo62. L’intervento delle multinazionali, con la connivenza di istituzioni governative, coinvolge “luoghi” e, più genericamente, aree che vengono invase da uno dei “flussi” della globalizzazione, che ne decide il destino. Le migrazioni: vecchi e nuovi flussi L’apertura di un nuovo impianto d’estrazione, o di nuove attività produttive “esterne” a un dato territorio, è anche causa di movimenti interregionali e locali di persone. È il caso delle migrazione di giavanesi verso aree del Borneo e di Papua ovest (ex Irian) o di ugandesi e ruandesi verso le aree d’estrazione del coltan (minerale utilizzato nelle produzioni hi-tech) in Congo: tutti movimenti di persone che hanno alimentato e continuano ad alimentare tensioni interetniche. L’asimmetria spaziale che caratterizza la globalizzazione emerge, dunque, in maniera significativa anche dall’analisi dei movimenti di persone. Sono circa 180 milioni i migranti del mondo, e non si muovono solamente, come si crede, dalle “periferie” verso i Paesi ricchi o, per meglio dire, verso quelle aree (distribuite a macchia di leopardo) la cui economia può richiedere qualsiasi tipo d’impiego (semplice o specializzato a diverso livello di qualificazione). Esistono, infatti, flussi consistenti di uomini (il 60-65% del totale dei migranti) che viaggiano da un Paese in Via di Sviluppo a un altro63, spinti dalle cangianti e flessibili opportunità di lavoro che i processi della globalizzazione contribuiscono a determinare più o meno direttamente, selezionando in modo dinamico aree e luoghi, adatti a competere di volta in volta sul mercato mondiale64. Così «la Costa D’Avorio, con le sue piantagioni di cacao, da anni dilaniata dalla guerra civile, attrae molti più lavoratori dell’Italia»65. Guardando poi ai flussi di persone che si muovono dal Nicaragua verso la Costa Rica, dal Bangladesh verso l’India, dallo Zimbawe, dalla Zambia e dal Malawi verso il Sud Africa, abbiamo ulteriori elementi per comprendere il funzionamento e l’organizzazione spaziale delle economie locali che, specializzandosi, cercano di rimanere aggrappate alle maglie del sistema globale. Un’altra regione a elevato grado d’attrazione è costituita dai Paesi del Golfo Persico, dove lavora una quota crescente di persone provenienti, oltre che dalla Palestina, da moltissime regioni dell’Asia meridionale e sud-orientale66. Si tratta di movimenti all’interno dell’emisfero Sud che, insieme a quelli più “tra-


Migrazioni per motivi economici negli anni Novanta, Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p. 54.

dizionali”, confermano l’esistenza di vari livelli intermedi di disuguaglianza su scala globale. Le politiche nazionali elaborano e applicano legislazioni più o meno vincolanti nel regolare i flussi. Tuttavia lo Stato non sembra essere un soggetto in grado di regolamentare, al fine di mitigarle, le disuguaglianze e le asimmetrie prodotte nello spazio dei flussi, sopra e sotto gli Stati, anche se deve fronteggiare i problemi “interni” causati dai fenomeni migratori67. Fattori determinanti, quali le esigenze delle imprese (basso costo del lavoro, normative sindacali e ambientali “comprensive”, regime fiscale favorevole ecc.) che sfruttano i divari socioeconomici tra aree geografiche e la competizione sul mercato mondiale, si impongono attraverso strutture organizzative mobili che utilizzano in parte anche quelle degli Stati (considerati uno tra i diversi strumenti a disposizione per perseguire gli interessi economici, commerciali e finanziari dei soggetti privati). Stati e regioni Il dibattito sulla globalizzazione ha fatto emergere una grandissima varietà di tesi sul nuovo assetto mondiale, incentrate soprattutto sul modo di considerare il ruolo dello stato-nazione. Dall’esamina della letteratura sulla globalizzazione elaborata da Held e McGrew68, è possibile individuare due posizioni opposte. Da una parte vi è il


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gruppo dei «globalisti», che riconosce nella globalizzazione una nuova fase della storia dell’uomo in cui la scala e la forma dei processi socioeconomici rendono lo Stato un soggetto “in via d’estinzione” o, comunque, non più in grado di gestire la situazione emergente. Dall’altra parte vi è invece il gruppo degli «scettici», che tendono a sottolineare come il concetto di globalizzazione non abbia precisi riferimenti spaziali e che i governi nazionali conservano un ruolo centrale nell’allocazione delle risorse. Per questi ultimi il termine globalizzazione ha una valenza ideologica, intesa a celare le nuove modalità dell’imperialismo occidentale. Tuttavia, se ci si cala nella più concreta complessità delle analisi, si rileva che fra le due categorie poste agli estremi esistono molte interpretazioni ricche di sfumature, per cui spesso le analisi si intersecano e si sovrappongono. La riflessione teorica che abbiamo proposto in questa introduzione si trova in una posizione intermedia fra i «globalisti» e gli «scettici». Essa è più spostata verso la sponda globalista quando individua nella fluidità e dinamicità dei processi globali il motore della trasformazione delle relazioni fra il territorio e gli spazi socioeconomici e politici dell’agire umano. Diviene, invece, più vicina agli scettici quando enfatizza il valore che il luogo o, più in generale, lo spazio geografico, continua ad avere (sempre più frequentemente a prescindere dai confini nazionali). Non possiamo pertanto affermare che i gruppi politici dirigenti nazionali e i loro apparati istituzionali siano “in via d’estinzione”. Tuttavia il loro raggio d’azione è spesso dipendente e limitato dalle decisioni e dai comportamenti di élites che non hanno nazionalità, da istituzioni soprannazionali/globali che non hanno al loro interno elementi significativi di democraticità (nel FMI, ad esempio, gli USA detengono il 17% dei voti, che dipendono dal potere finanziario di ciascun Paese) e da movimenti di opinione pubblica che hanno una pluralità d’identità, per lo più indipendenti da appartenenze politico-amministrative69. Come avviene nel caso di regioni a scala territoriale diversa (cfr. par. 5), gli stessi sistemi economici nazionali sono “vittime” della dinamica dei flussi. Basti pensare, per esempio, alla crisi finanziaria di un dato sistema economico nazionale (ne abbiamo purtroppo conosciute molte negli ultimi 10 anni), conseguente a operazioni speculative sulla sua valuta (swap); operazioni che, a loro volta, vengono eseguite dalle banche transnazionali in accordo con le banche locali (e con l’appoggio del FMI)70. Gli effetti di tali operazioni sono dirompenti sulle diverse economie alle varie scale. Secondo Manuel Castells, gli stati-nazione si adattano nella struttura e nel funzionamento alle logiche dominanti nello spazio dei flussi, diventando, così, essi stessi dei network71. Lo Stato, categoria geopolitica per eccellenza della modernità, non scompare, ma cambia ruolo, si modifica per sopravvivere a una generalizzata perdita di legittimità e di potere72. Castells parla inoltre di una doppia tendenza che sta attraversando gli Stati nell’epoca della globalizzazione (la


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network society). La prima è quella verso la creazione di istituzioni sovrannazionali e internazionali con ruoli, funzioni e dimensioni molto varie (nel caso dell’UE ci sono ancora difficoltà a superare l’impostazione intergovernativa); la seconda è quella di decentralizzare i processi decisionali e le risorse al livello regionale sub-nazionale e locale. Il risultato è che la legittimità e il ruolo dello Stato dipendono sempre di più da quanto esso sia flessibile rispetto ai processi che più coinvolgono e conformano le persone in termini di paure, opportunità, tradizioni, controllo e non controllo: processi che si dispiegano nei flussi a scala globale e si coniugano nei sistemi locali/nodi di connessione. Va detto, peraltro, che esiste un cambiamento strutturale più radicale, che si pone al di là della sfida statuale a sviluppare maggiore capacità d’adattamento (flessibilità) all’economia mondiale. Quest’ultima, infatti, si sta organizzando in “città-stato” (luoghi) e “stati-regioni” (regioni), i cui rapporti si esplicano al livello panregionale o globale. Sono questi nuovi “contesti spaziali” a limitare il potere degli Stati, nella misura in cui questi ultimi disturbano gli interessi e la logica dei nuovi attori globali73. A conferma di ciò, Allen J. Scott ha cercato di dimostrare «l’avvento di una parziale disgregazione delle economie nazionali e della loro riconfigurazione in un mosaico globale di regioni». In questa nuova economia capitalista globale – egli sostiene – le regioni sub-nazionali «stanno evolvendo come centri vitali della regolamentazione economica e dell’autorità politica e stanno divenendo, come corollario, il quadro di riferimento per nuovi tipi di comunità sociale»74. Nonostante queste affermazioni, Scott osserva, tuttavia, che lo stato-nazione rimane ancora il centro del potere nel mondo attuale, anche se tale potere si va ridefinendo su una scala geografica diversa da quella nazionale. Luoghi Nell’interpretazione che distingue le relazioni orizzontali (spazio dei flussi) da quelle verticali (spazio dei luoghi) è necessario riconoscere la progressiva trasformazione delle seconde. Quaini scrive in proposito che se oggi la dialettica locale/globale viene rappresentata nella forma nodo/rete, dobbiamo anche riconoscere che nella descrizione possiamo distinguere due scale: una globale, in cui le reti connettono i nodi che sono i sistemi locali, e una locale, in cui questi nodi si rivelano a loro volta essere reti i cui nodi sono i singoli soggetti, gli attori locali75.

Possiamo allora parlare di un dominio delle relazioni orizzontali e di una profonda trasformazione di quelle verticali. Se è vero che il rapporto tra società e territorio è andato radicalmente trasformandosi a partire dalla estensione del processo d’industrializzazione, coinvolgendo un numero crescente di regioni e di “città mondo”, cos’è che simboleggia la trasformazione dei rapporti con il proprio ambiente?


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In accordo con Massimo Quaini, si può sostenere che la preparazione dei rifiuti domestici e il loro abbandono nei cassonetti cittadini simboleggiano i residuali rapporti con il territorio presenti nelle città odierne, in cui il processo produttivo è stato completamente decentrato76. Una tendenza, quella del decentramento produttivo, che, pur non essendo una peculiarità degli ultimi decenni, è andata accentuandosi proprio in virtù di quel dominio dei rapporti orizzontali che si dispiega a tutte le scale, in relazione ai nuovi sviluppi tecnologici. Tuttavia queste affermazioni generali sono ben lontane dal descrivere il complesso delle relazioni verticali che si esplicano nei diversi territori. Tant’è vero che, oltre ai modi d’uso e gestione del territorio visti in precedenza in relazione ai processi globali connessi alla nuova divisione della produzione/del lavoro e alla finanziarizzazione dell’economia, in tanti luoghi permangono verticalità e orizzontalità alternative alle logiche fin qui descritte. In particolare si possono ritrovare là dove insiste ed è distribuita la vasta popolazione rurale del pianeta, che rappresenta ancora la maggior parte della popolazione del mondo. Molte delle esperienze locali “diverse”, le cui logiche esprimono una gestione locale degli spazi e globale del tempo77, sono analizzate nell’ambito di un’ampia letteratura sullo sviluppo sostenibile78. L’esempio di seguito riportato nel box Relazioni alternative descrive solo alcune delle caratteristiche di funzionamento a ciclo chiuso di microecosistemi rurali, nell’ambito dei quali i rifiuti rappresentano delle risorse (ri-surgere) e il riciclo il motore del loro funzionamento complessivo. Quanta differenza dai “nostri” sistemi di vita! Noi siamo abituati a entrare in contatto con dei prodotti, e non con delle risorse di cui poco o nulla conosciamo. Quanta alterità infine tra circuiti opposti! Da una parte nel circuito “corto”, in cui «il produttore è in contatto ravvicinato con il consumatore (fino a coincidervi), garantendo un travaso non solo materiale, ma anche culturale e percettivo degli alimenti, di cui si può conoscere composizione e processo di ottenimento»79. Dall’altra, nel circuito “lungo” globale, la distanza geografica, culturale e cognitiva separa chi produce da chi consuma e quest’ultimo da ciò di cui si nutre. Il risultato è che l’eccesso di intermediazioni, di concentrazione su pochi prodotti e di un elevato consumo di risorse energetiche (trasporti, rifiuti non riutilizzabili e massiccio uso della chimica) favorisce l’aumento tanto del degrado ambientale quanto dei meccanismi di sfruttamento dei contadini. È anche vero, d’altra parte, che la realtà è molto più articolata di quello che si può ricavare da descrizioni sintetiche. Infatti, nei Paesi industrializzati esistono esperienze che sperimentano sistemi di vita (produzione e riproduzione) sostenibili. Ma si tratta di dinamiche minoritarie che almeno per il momento non riescono a produrre un cambiamento di rotta generalizzato. Luoghi e regioni più o meno rimodellati dai processi globali non perdono, quindi, l’incisività di pratiche che, a scale più grandi, producono forti legami con il territorio. Gli uomini si identificano con i luoghi – spazi in cui la cultura cambia, modifi-


Relazioni alternative nei villaggi vietnamiti In diversi villaggi del Vietnam è stato sviluppato, insieme ad altri sistemi agroecologici, un modo di produzione eco-produttivo domestico che è stato chiamato con l’acronimo VACR, dalle parole vietnamite Vuon (giardino per la coltivazione), Ao (stagno), Chuong (recinto per il bestiame) e Ruong (Foresta) (variabile in rapporto alle regioni in cui viene applicato). Si tratta di un sistema multifunzionale in cui si rileva una stretta connessione fra differenti attività agricole, che vanno dalla coltivazione di piccoli appezzamenti di terra per la risicoltura o per la gardening cultivation all’acquacoltura (stagno), e dalla gestione di parti di foresta all’allevamento. Le varie attività sono connesse da flussi energetici e materiali intorno alle singole abitazioni: i residui organici degli animali (interrati per la conservazione) sono utilizzati per concimare i campi e nutrire i pesci; le biomasse residue dei raccolti della frutta, dei legumi e di altre specie coltivate sono trasformate in mangimi per gli animali; la melma dello stagno è impiegata come fertilizzante naturale; ed infine, i maiali, i polli e le anatre, nonché le uova, la frutta, la verdura e le erbe medicinali sono destinati all’alimentazione e alla cura della famiglia, oltre che a scambi sociali basati sulla reciprocità. In tali contesti, gli uomini e le donne contribuiscono con ruoli diversi – alle volte inter-scambiati – ad organizzare, nello spazio intorno all’abitazione, l’ecosistema VACR tramite le risorse disponibili al suo interno (risorse naturali: acqua, suolo, animali, vegetali e residui-rifiuti / risorse umane: l’oculato impiego dei vari componenti dell’unità domestica) [Pham Xuan Nam et al., Rural Development in Vietnam, Social Sciences, Hanoi 1999; F.M. Parenti, Sviluppo sostenibile e comunità rurali nel nord ovest del Vietnam, L’Harmattan Italia, Torino 2002]. Una serie di attività, dunque, in cui i rapporti verticali con l’ambiente circostante si combinano in modo bilanciato ed integrato con le relazioni sociali ed economiche orizzontali.

ca e interviene sul territorio – al punto da dettare l’appartenenza a una diversa etnia. Così avviene, ad esempio, che la componente che vive in pianura dell’etnia Zafimaniry del Madagascar, distribuita su territori forestali collinari e pianeggianti, dichiara di essere diventata Betsileo (il nome dell’etnia attigua che vive in zone completamente disboscate), proprio per l’importanza predominante data alle caratteristiche ambientali in cui vive80. Va da sé che le stesse realtà che abbiamo definito come “alternative”, in cui prevalgono relazioni socio-economiche più incentrate nei luoghi, non sono esenti da modificazioni culturali indotte dalle trasformazioni economiche alla scala globale81.


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Conclusioni La complessità “spaziale” della globalizzazione è strettamente legata alla dinamicità e alla flessibilità di innumerevoli processi, che, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, si esplicano effettivamente o potenzialmente su scala planetaria. Non siamo tuttavia di fronte a uno “spazio unico”, bensì a un’articolazione spaziale di non facile interpretazione e rappresentazione. È possibile infatti individuare “spazi” dai confini politici incerti/indeterminati, ma economicamente e socialmente definibili, al di qua e al di là delle “categorie geografiche tradizionali”. Regioni e luoghi si rinnovano soprattutto in ragione dei cambiamenti che intervengono nelle relazioni dialettiche tra flussi finanziari, migrazioni umane e trasferimento di tecnologie. Se è vero che, come sottolinea Henry Way-chung Yeung, le nuove spazialità sono dei prodotti geografici della globalizzazione economica (da considerarsi in senso ampio come riorganizzazione scalare delle attività umane)82, dobbiamo però riconoscere l’esistenza di tre presupposti geografici fondamentali che sono all’origine degli sviluppi più recenti: 1. l’esistenza di differenze spaziali in termini di salari, di livelli di produttività, di capitali di rischio, e via dicendo, la cui natura viene prima accentuata e poi superata, dando origine a nuove spazialità; 2. la modificabilità delle scale geografiche sotto la spinta dei processi che, acutizzando la tensione tra i livelli scalari estremi (globale/locale), riorganizzano, ristrutturano, ricombinano e ricostituiscono luoghi e regioni. 3. le costruzioni sociali dello spazio nei discorsi sulla globalizzazione, che sarebbero, secondo Yeung, economicamente e politicamente motivate, perché intese a creare legittimazione intorno ai poteri attualmente dominanti. La scarsa teorizzazione intorno alla scala globale ci sottometterebbe pertanto alla visione politico economica di tipo “neoliberale”, in auge con l’ascesa dei “neoconservatori” nei Paesi più ricchi83. La categoria “spazio” è peraltro variabile in virtù di elementi antropologici, oltre che politici ed economici, non riconducibili esclusivamente ai processi mondiali che operano nello “spazio dei flussi”. E, soprattutto, esiste anche una molteplicità di spazi economici, politici e culturali diversi da quelli dominanti. È necessario, dunque, tenere nella dovuta considerazione il modo in cui i tre processi qui analizzati, e i corrispettivi spazi geografici da loro disegnati, si coniugano sul territorio in maniera dinamica. Se la fisica ci insegna che senza differenze di temperatura e di pressione non ci sarebbe alcun movimento e se la biologia dimostra che senza differenze tra gli organismi viventi non ci sarebbe evoluzione, perché la geografia, che ci parla dell’interazione fra l’uomo e l’ambiente naturale, dovrebbe fare eccezione? Nel nostro caso si tratta infatti di studiare dei processi in fieri, non sempre determinabili in senso geografico, il cui movimento è dato proprio a partire da differenze spaziali mutevoli.


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Note 1. Non trascureremo tuttavia di considerare il fatto che in ogni cultura le due concezioni (lineare e ciclica) sono diffusamente mescolate. 2. F. Remotti, Luoghi e corpi, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 85. 3. Per la finanza sono visualizzabili solo i vecchi flussi dal Giappone agli Stati Uniti e dagli USA verso alcuni Paesi oggetto dei loro investimenti diretti. Per il resto, il mercato dei derivati, che rappresenta ormai l’80% delle operazioni finanziarie, non consente più di visualizzare alcunché, dato che tali movimenti finanziari possono essere svolti con un pc dalla propria abitazione in qualsiasi parte del mondo (al riguardo si veda il saggio di Roberto Panizza sui flussi finanziari). 4. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, il Mulino, Bologna 1998, pp. 59, 62. 5. G. Cotti-Cometti (a cura di), Alcune cose sulla geografia, Cesviet, Milano 1988. 6. M. Quaini, La mongolfiera di Humboldt, Diabasis, Reggio Emilia 2002, p. 51. 7. Alcuni spunti interessanti su questo tema si possono trovare in Yi-Fu Tuan, Cosmos and Hearth, a Cosmopolite’s Viewpoint (1996), trad. it. Il cosmo e il focolare. Opinioni di un cosmopolita, Elèuthera, Milano 2003. 8. Ivi, p. 37, 38. 9. F. Remotti, op. cit. 10. Ivi, p. 31. Inoltre, per una veloce rassegna sulle diverse concezioni antropologiche dello “spazio” cfr. F. Remotti, U. Fabietti, Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna 2001. 11. L’analisi di Galli non ha come oggetto «il pensiero dello spazio», ma «lo spazio nel pensiero». L’intento dello studio di Galli si collega in parte agli approcci di geopolitica più recenti, in cui viene data priorità alle rappresentazioni che i soggetti politici hanno delle relazioni politiche alle diverse scale, in funzione dei loro valori, dei loro interessi, del loro futuro e di quello del mondo (al riguardo si veda C. Jean, Manuale di geopolitica, Laterza, Bari 2003): anche in questo caso si tratta di studi sullo spazio implicito nel pensiero. Tuttavia, Galli non si concentra sulle tematizzazioni tra spazio e politica, ma sull’importante ruolo dello spazio, «come dimensione imprescindibile dei concetti con cui il pensiero politico costruisce i propri concetti» (un’analisi che, a nostro avviso, è teorico-categoriale e non fenomenologica). Per una soddisfacente letteratura degli studi umanistici che hanno affrontato il nesso tra spazio e politica si rimanda al libro dello stesso Carlo Galli, Spazi politici, il Mulino, Bologna 2001. 12. Il processo che ha condotto alla nascita dei primi Stati territoriali risale al 1648, quando il trattato di Westfalia afferma il principio della sovranità territorialmente definita e riconosce un sistema geopolitico interstatale. Naturalmente, un processo tutto europeo, che solo nel corso del XX secolo si estese alla quasi totalità del pianeta. 13. C. Galli, op. cit., p. 53 14. M.P. Pagnini, Introduzione alla storia della geografia politica, in G. Corna Pellegrini, E. Dell’Agnese, Manuale di geografia politica, NIS, Roma 1995, pp. 229-261. Ricordiamo che la geopolitica nasce dall’opera del politologo svedese Kjellen, verso la fine della prima guerra mondiale, mentre Ratzel, con la sua opera del 1897, è considerato il fondatore della geografia politica. 15. C. Galli, op. cit., pp. 113-137. 16. C. Geertz, op. cit., pp. 52-53. 17. Ivi, p. 64. 18. C. Jean, op. cit., p. 162. Per esempi sulla totale subordinazione di alcuni despoti africani (macchiatisi di gravi crimini) ai dettami delle istituzioni internazionali, di singoli governi nazionali o, più semplicemente, del loro desiderio di potere e ricchezza, si rimanda al testo di J. Ziegler, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatizzazione del mondo, Tropea, Milano 2003, pp. 66-69. 19. M. Quaini, op. cit., p. 324. 20. Ibid. 21. M. Castells, End of Millenium (2000), trad. it. Volgere di millennio, in L’età dell’informazione: politica, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano 2003, p. 418. 22. Ivi, p. 327.


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23. J. Ziegler, op. cit., pp. 30-31. 24. Dati tratti da World Watch Institute, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002; R. Bosio, Verso l’alternativa, EMI, Bologna 2001; N. Hertz, The Silent Takeover. Global Capitalism and the Death of Democracy, trad. it. La conquista silenziosa. Perché le multinazionali minacciano la democrazia, Carocci, Roma 2001. 25. Questo organismo internazionale, inoltre, pur essendo composto da quasi tutti i paesi del mondo, prende le sue decisioni in condizioni di assenza di democrazia: il processo decisionale dipende da un numero ristretto di paesi (QUAD) composto da Canada, Giappone, Stati Uniti e Unione Europea (in campo agricolo, la Pac dell’Unione Europea e il Farm Bill degli USA sono le politiche prevalenti in competizione/cooperazione tra loro). Non è un caso che non ci siano rappresentanti dei sindacati o dei cittadini. 26. U. Allegretti, Diritti e Stato nella mondializzazione, Città Aperta, Troina (EN) 2002, p. 155. 27. J. Ziegler, op. cit., pp. 143-149. 28. Cfr. L. Castellina, Il sud riprende la parola, in «La rivista del manifesto», V, n. 43, ottobre 2003, pp. 38-41. 29. Sull’espansione delle economie criminali globali si veda M. Castells, op.cit., pp. 187-229. 30. Ricordiamo che le categorie “Nord-Sud” nascono per distinguere i Paesi più industrializzati (7 più la Russia) da un gruppo di Paesi del Terzo Mondo (77 più la Cina) alla vigilia della prima Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo del 1963 (dopo il completamento dei processi di decolonizzazione). 31. Questo dato dell’OECD riferito alla metà degli anni Novanta è stato tratto da A.J. Scott, Regions and the World Economy. The Coming Shape of Global Production, Competition and Political Order (1998), trad. it. Le regioni nell’economia mondiale. Produzione, competizione e politica nell’era della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2001. 32. Il «British Medical Journal» ha ricordato, per esempio, che negli ultimi 10 anni sono stati realizzati 1370 nuovi farmaci, di cui solo 13 destinati alle malattie tropicali. A questa logica, poi, si abbina l’ostinazione a mantenere una eccessiva rigidità sui relativi brevetti, per evidente influenza dei colossi farmaceutici. 33. A.M. Merlo, Salute e povertà: il falso accordo, in «il manifesto», martedì 3 giugno 2003. 34. Vediamone la ripartizione sulla base dell’origine delle aziende: statunitensi per il 57%, britanniche per l’11,5%, francesi per l’8,1%, russe per il 6%…). S. Finardi, C. Tombola, Le strade delle armi, Jaca Book, Milano 2002, p. 32. 35. Ivi, p. 54. 36. Citiamo solo alcuni studi recenti e autorevoli. Robert Wade, riferendosi a studi basati su dati della World Bank, mette in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze del reddito si sia accelerato negli ultimi venticinque anni. Dal suo articolo – apparso sull’Economist di fine aprile 2001 – emerge che, dal 1988 al 1993, è aumentata la quota del reddito mondiale detenuto dal 10% della popolazione più ricca (dal 48% al 52%) ed è diminuita, invece, quella detenuta dal 10% della popolazione più povera (dallo 0,80% allo 0,64%). Inoltre, possiamo ricordare i dati storici rilevati dall’UNDP: tra il 1960 e il 1991 il rapporto tra la ricchezza in mano al 20% dei più ricchi e al 20% dei più poveri della Terra è passato da 30 a 1 a 61 a 1 (un rapporto che alla fine degli anni Novanta è divenuto di 82 a 1). Un altro studio, che suffraga la crescita di disuguaglianze socioeconomiche e soprattutto il loro acuirsi negli ultimi vent’anni, è quello del CEPR (Center for Economic and Policy Research) pubblicato nel 2000. Tale studio, mettendo a confronto i periodi anni Sessanta-Ottanta e Ottanta-Duemila ed elaborando i dati su ben 116 Paesi, dimostra il declino sociale ed economico soprattutto dei Paesi più poveri (per una sintesi ragionata dello studio si veda F.M. Parenti, C. Santori, La globalizzazione accresce il benessere?, in «Madrugada», XII, n. 45, marzo 2002). 37. Tra cui vi è una minoranza che controlla i media e che guida le scelte politiche del Congresso attraverso le lobby. 38. P. Krugman, The End of Middle Class, in «New York Times Magazines», 2002; id., Il grande bluff dei tagli alle tasse, in «Internazionale», X, n. 509, 10/16 ottobre 2003, pp. 30-37. 39. Per determinare il livello di povertà si calcola il livello medio dei consumi pro capite. Gli istituti di statistica nazionali considerano povera una famiglia di due persone con una spesa media men-


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sile significativamente inferiore alla spesa media pro capite (in Italia, nel 2002, questa soglia era di 823 euro). J. Halevi, Deflazione, l’ultima invenzione, in «il manifesto», giovedì 29 maggio 2003. Dati dell’OECD tratti da J. Ziegler, op. cit., p. 106. World Watch Institute, State of the World ’01, Edizioni Ambiente, Milano 2001. World Watch Institute, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002. Data base della FAO al sito <www.fao.org>. Ricordiamo inoltre che lo Zimbawe e il Brasile sono i Paesi che presentano, al livello mondiale, la più iniqua distribuzione del reddito in rapporto alla popolazione: il 47% del PIL è detenuto dal 10% della popolazione (si veda il Rapporto del Social Watch del 2002). J. Ziegler, op. cit., p. 107. C. Jean, op. cit., p. 71. Va detto che tali regioni sono in transizione verso ciò che Manuel Castells chiama l’informazionalismo: nuovo paradigma socio-tecnologico (scientifico-culturale) che sussume l’industrialismo. Sono molti gli autori che riconoscono l’esistenza di diversi tipi di capitalismo: per esempio fra quello del Giappone e quello degli Stati Uniti. Sulla complessità della formazione di realtà specifiche può risultare utile riportare ciò che sostiene Sapelli: «Il divenire storico concreto, e lo stesso universo del mondo simbolico e quindi della cultura che si interseca con le pratiche economiche e le co-determina, è assai più vario e complesso. La società ad economia monetaria del nuovo capitalismo di inizio millennio, per esempio, continua a dar vita a due forme generali di relazioni sociali. La prima è quella dello scambio, e non soltanto quella di mercato […]. La seconda comprende quella del baratto e quella del dono, inteso come obbligazione a rendere e non come pratica altruistica. […]». G. Sapelli (a cura di), Antropologia della globalizzazione, Mondadori, Milano 2002, p. 13. A.K. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002. Ivi. F.M. Parenti, Guerra: piccole verità, tante domande, <www.nonluoghi.it>, 11 marzo 2003. L’impatto sociale a volte drammaticamente negativo di tali politiche è stato riconosciuto anche nell’ambito delle Nazioni Unite. Si veda A. Adepoju (a cura di), The Impact of Structural Adjustment on the Population of Africa: the Implications for Education, Health and Employment, United Nations Population Fund, Portsmouth 1993. Cfr. anche B. Amoroso, Europa e Mediterraneo, Dedalo, Bari 2000. Negli anni Novanta lo sfruttamento illegale del legname ha contribuito a far registrare in questi Paesi i più alti tassi di deforestazione. Ex colonia olandese che divenne provincia indonesiana nel 1969. La contrapposizione tra esercito indonesiano e fazioni autoctone per l’indipendenza di Papua ovest è affrontata in D. Faure, La guerriglia dimenticata, in «Le Monde diplomatique», settembre 2002. M. Renner, Rompere il legame tra risorse e conflitti, in World Watch Institute, State of the World ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002, pp. 215-243. Ivi. R. Panizza, La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari e terzo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002, p. 58. Il superamento della guerra fredda, l’espansione del commercio e delle reti finanziarie internazionali hanno molto facilitato l’accesso ai mercati, amplificando le relazioni spaziali fra risorse e conflitti. United Nations Drug Control Programme. Per un approfondimento dei legami fra gruppi narcoterroristici, servizi segreti e mercato globale cfr. M. Chossudovsky, War and Globalization (2002), trad. it. Guerra e globalizzazione, Torino, EGA, 2002. Naturalmente ci sono state altre questioni che hanno motivato l’intervento bellico, come quelle relative agli smeraldi, ai progetti di oleodotti strategici e al “puntellamento” geopolitico della Cina. Troppe volte diabolicamente orchestrata dalle fazioni dominanti, che fanno leva su istanze religiose ed etniche.


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62. Per i conflitti africani legati alla domanda dei prodotti hi tech, e non solo, si veda M. Renner, op. cit. Per un panorama più generale, cfr. anche M.T. Klare, Resources Wars: The New Landscape of Global Conflict, Metropolitan Books, 2001. Sulle industrie estrattive, si veda il recente Rapporto della Banca Mondiale Extractive Industries Review, <www.eireview.org>. Infine, per gli effetti distruttivi sulle comunità locali derivanti dalle attività d’agricoltura industriale intensiva, si veda V. Shiva, Stolen Harvest. The Hijacking of the Global Food Supply, trad. it. Vacche Sacre e Mucche Pazze, Derive e Approdi, Roma 2000. 63. UN, Population Division, 2002. 64. Ciò determina un movimento alternato di creazione e di distruzione di strutture economiche territoriali, nel momento in cui queste ultime sono coinvolte con diversa intensità nella rete globale. Così le reti globali connettono nodi che si sviluppano proporzionalmente alla loro rilevanza e che, in base a ciò, vengono integrati nella struttura dell’economia transnazionale a lungo termine o, al contrario, in modo effimero e passeggero. 65. A. Morelli, In cammino in cerca di lavoro, in «altreconomia», n. 36, febbraio 2003. 66. Ivi. S. Castles, M.J. Miller, The Age of Migration, The Guilford Press, New York 2003. 67. C’è una notevole variabilità nel modo in cui i singoli Stati intervengono sui fenomeni migratori. In questo libro, Umberto Melotti analizza in dettaglio l’influenza delle culture politiche dei Paesi a sistema capitalistico più avanzato sulla gestione dei flussi migratori. 68. D. Held, A. McGrew, The Great Globalization Debate: An Introduction, in The Global Transformations Reader (2000), trad. it. Globalismo e antiglobalismo, il Mulino, Bologna 2001. 69. «I governanti e i leader politici non hanno il monopolio dell’interpretazione dei valori e delle priorità interne» (A.K. Sen, op. cit., p. 77), e questo è tanto più vero nell’epoca della globalizzazione. 70. R. Panizza, op. cit., pp. 50-66. 71. M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito della network society, Feltrinelli, Milano 2001, p. 128. 72. Si veda anche E. Wallerstein, Historical Capitalism with Capitalist Civilization (1995), trad. it. Capitalismo storico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000. 73. C. Jean, op. cit. 74. A.J. Scott, op. cit., pp. 14-19. 75. M. Quaini, op. cit., p. 288. 76. Per un approfondimento si veda ancora M. Quaini, op. cit., pp. 286-288. Tra l’altro, stiamo parlando di un’attività, quella dello smaltimento dei rifiuti, che è funzionale ai processi economici capitalistici, i quali non a caso si basano sull’inefficienza merceologica. Con cognizione di causa Giorgio Nebbia (che ha insegnato chimica e merceologia) ricorda che «una merce ben progettata, ben fabbricata, che continua a lungo a svolgere la propria funzione, è quanto di più indesiderabile si possa immaginare per il venditore. Da qui lo sviluppo di una vera scienza dell’inefficienza, della pericolosità»; G. Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano 2002, p. 26. 77. M. Quaini, op. cit., p. 330. 78. Segnaliamo, tra i testi più significativi tradotti in italiano, M.A. Altieri, Agroecology (1987), trad. it. Verso un’agricoltura biologica, Muzzio, Padova 1991; V. Shiva, Monocultures of the Mind (1993), trad. it. Monoculture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; B. Halweil, Un’agricoltura per il bene pubblico, in WWI, State of the world ’02, Edizioni Ambiente, Milano 2002. Spesso tale letteratura va rintracciata in riviste specializzate di organizzazioni non governative internazionali, che raccolgono sul campo le esperienze locali. 79. L. Colombo, Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, Jaca Book, Milano 2002. 80. V. Lanternari, Ecoantropologia, Dedalo, Bari 2003, pp. 68-70. 81. Queste relazioni tra cultura ed economia si realizzerebbero secondo Giulio Sapelli nella continua ridefinizione della divisione sociale del lavoro. Cfr. G. Sapelli (a cura di), op. cit., introduzione. 82. H.W. Yeung, Questioning the Uneven Terrains of Economics Globalization, paper, Clark University, ottobre 2001. 83. Ivi.


Parte seconda

MOVIMENTI INTERNAZIONALI DI CAPITALI DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI Roberto Panizza



Capitolo primo

La nascita e l’alternarsi dei grandi centri finanziari europei dall’origine fino alla prima guerra mondiale

1.1 Le città-stato italiane e i primi flussi finanziari internazionali È con la fine del Medioevo che i mercati finanziari cominciarono a strutturarsi e a generare massicci flussi finanziari tra i diversi Paesi: le attività commerciali e manifatturiere si svilupparono a tassi di crescita molto elevati e crebbero anche gli scambi internazionali di merci. Nel frattempo, gli italiani, per primi, definirono la terminologia di una nuova scienza, per l’appunto l’economia, mentre – sempre ad opera di un altro italiano, fra’ Luca Pacioli – si gettarono le basi della moderna contabilità aziendale e della ragioneria: si inventò la tecnica di registrazione contabile della “partita doppia”, che – nonostante i suoi limiti e i tentativi di sostituirla – è ancora oggi usata universalmente. L’accumulazione di elevate ricchezze attraverso l’attività commerciale e manifatturiera stimolò lo sviluppo di operazioni finanziarie che si spinsero sempre più lontano dai confini nazionali: furono le città-stato italiane a distinguersi in queste attività finanziarie che mobilitarono ingenti risorse, dapprima in Europa e successivamente, dopo la scoperta delle Americhe, anche nel nuovo mondo. A distinguersi furono in ordine di tempo Siena, Firenze e Genova. Venezia, invece, pur avendo un ruolo importantissimo sul piano degli scambi commerciali non sviluppò mai un’attività puramente finanziaria, disgiunta cioè dal sostegno dei propri commerci. Furono uomini d’affari senesi1 quelli che definirono i primi grandi accordi di natura finanziaria in Europa, in particolare in Inghilterra e nei regni del Nord: essi agirono quali esattori papali e si formarono una notevole esperienza nel gestire le più grandi masse di capitali allora circolanti nel mondo, rappresentati appunto dalle offerte dei fedeli e dal pagamento delle indulgenze (indirizzate verso Roma) e dai trasferimenti dal Vaticano alle diocesi straniere. L’alta finanza, però, fu piuttosto un’invenzione della città di Firenze, che consolidò questo suo potere tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo: le sue monete cominciarono a circolare in Europa accettate dovunque, a seguito della crescita dell’attività commerciale. Tale posizione dominante si completò quando ormai l’espansione commerciale era giunta al termine. Inizialmente la forza dei fiorentini si fondò su due elementi: da un lato, essi avevano sostituito i senesi come banchieri del Papa e per questo gestivano un’enorme massa di denaro che circolava in tutta Europa, insieme al commercio di natura religiosa per conto di Roma. Dall’altro, essi commercializzavano lane pregiate per conto di Firenze. L’espansione dell’at-


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tività finanziaria dei banchieri fiorentini procedette di pari passo con l’ampliamento delle zone di approvvigionamento delle lane e della loro commercializzazione: Francia, Paesi Bassi, Inghilterra. I banchieri fiorentini erano soliti chiedere lana a garanzia dei prestiti concessi e questo funzionò egregiamente con i privati2. I prestiti, invece, concessi a molti regni d’Europa, venivano dati senza garanzie e la decadenza delle famiglie dei Bardi e dei Peruzzi, illustri banchieri fiorentini, cominciò proprio quando Edoardo III, re d’Inghilterra, si dichiarò insolvibile rispetto all’enorme massa di denaro prestato, equivalente a 1.365.000 fiorini. Tale cifra superava il valore di tutte le lane lavorate e prodotte in Firenze nel corso di un anno: era il 1339 e la crisi finanziaria che ne seguì travolse le stesse attività industriali dei produttori fiorentini di lane e tessuti e si ripercosse con gravi conseguenze in tutta Europa3. Dalle ceneri di questo immane fallimento finanziario si consolidò, tuttavia, una famiglia di origine modesta che poi avrebbe dominato la scena dei mercati del credito in Europa: quella dei Medici. Essi organizzarono una fitta rete di corrispondenti in tutta Europa, dove aprirono presso le maggiori città delle loro filiali4. Anch’essi fecero affidamento sulla protezione del potere pontificio, che cercò, in questo modo, di compensare l’enorme indebitamento contratto con le banche dei Medici, a seguito delle elevatissime spese della corte papale. Non era, però, solo la Curia romana a necessitare dell’assistenza finanziaria della Casa fiorentina, ma numerose altre corti d’Europa furono costrette a fare ad essa ricorso, soprattutto per il sostegno finanziario delle loro continue guerre5. Nel caso dei Medici, però, edotti dalla grave crisi d’insolvenza che aveva travolto quasi un secolo prima i Bardi e i Peruzzi, fu lo scoppio della pace, paradossalmente, a travolgere le loro fortune. Con il formarsi dei primi grandi Stati-nazione i Medici, infatti, scelsero la via di mediare con i loro finanziamenti i contrastanti interessi all’interno dell’Europa. L’evolversi del quadro storico impose loro di destinare una quota crescente delle proprie risorse all’attività di consolidamento della loro città-stato e della difesa della stessa: tuttavia, il progressivo abbandono dell’attività manifatturiera procedette di pari passo con la loro decadenza come piazza finanziaria. Anche le fortune di Genova come centro finanziario furono legate alla prima crisi che travolse Firenze e i suoi più celebri banchieri, i Bardi e i Peruzzi. Genova colse un elemento importante di quella fase storica, cioè l’importanza di dotarsi di una struttura, la Casa di San Giorgio, che – creata nel 1407 – aveva come obiettivo il controllo delle finanze pubbliche da parte dei creditori privati: mentre Venezia consolidava il potere statale a tutela delle proprie attività commerciali, Genova consolidava la valorizzazione del capitale privato a scapito del perseguimento di una struttura statale potente. Il livello di sofisticazione di un’istituzione come la Casa di San Giorgio era tale che occorse attendere quasi tre secoli per assistere alla nascita di un’istituzione, la Bank of England, con simili prerogative. L’originalità di questa istituzione e l’individuazione di strutture sempre più flessibili nel mondo della finanza ha fatto dire a Braudel6 che quella di Genova fu la prima vera esperienza di struttura tipica del capitalismo finanzia-


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rio, che precedette quella olandese della seconda metà del Settecento, di oltre trecento anni, e quella britannica della seconda metà dell’Ottocento, di oltre quattro secoli. Essa si fondava sull’idea, originale per quel tempo, della necessità di difendere la stabilità della moneta contro l’incontinente richiesta dei governi di svilirne il valore. Le tecniche di gestione dei pagamenti erano anch’esse all’avanguardia per il tempo, con l’uso dei giroconti, mentre circolavano in misura molto consistente assegni con la girata e lettere di cambio. Su piano politico, agli inizi del Cinquecento, i banchieri genovesi investirono abbondanti risorse finanziarie per sostenere i loro colleghi, Függer e Welser7, nella loro azione finalizzata a convincere i principi tedeschi ad appoggiare l’elezione di Carlo V, re di Spagna, a imperatore. La storia ufficiale identifica l’età di Carlo V con l’epoca dei Függer, ma dietro le quinte erano in realtà i banchieri genovesi che sostenevano l’intero sistema di alta finanza del tempo. Non a caso, i banchieri genovesi sopravvissero alla grande casa tedesca dei Függer, travolta dalla relativa limitatezza delle proprie attività mercantili e finanziarie (il commercio dei metalli, come argento e rame, e il finanziamento dei principi tedeschi, per avere in cambio concessioni e protezione). Furono i genovesi i veri finanziatori del governo spagnolo, anche se non corsero alcun rischio di insolvenza, grazie all’intermediazione dei Függer, e da questa posizione privilegiata finirono, dal 1557 al 1627 (periodo che viene definito da Braudel il «secolo dei genovesi»)8 per esercitare un indiscusso, anche se discreto, controllo sulle finanze dell’intera Europa. Essi riuscirono, attraverso le fiere – in particolare quelle di Piacenza – a raccogliere dai piccoli risparmiatori italiani grandi masse di denaro che vennero poi utilizzate a finanziare l’impero spagnolo. Garantendo la collocazione sui mercati europei delle grandi quantità di argento (che senza continuità e a intermittenza affluivano dalle Americhe nel porto di Siviglia) e il rifornimento finanziario costante alla corona spagnola, Genova consentì al re Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V, di perseguire la sua politica imperiale con continuità. I genovesi assunsero anche progressivamente il controllo del mercato dei cambi e delle assicurazioni marittime9. Furono soltanto la decadenza dell’impero spagnolo e le lotte intestine per il potere tra le città-stato italiane e i regni europei a decretare la fuoriuscita dei genovesi dall’alta finanza mondiale, sostituiti dagli olandesi. 1.2 La seconda fase di dominio finanziario mondiale: quella olandese La fortuna dell’Olanda nel corso del XVII secolo si fondò sulla decadenza del potere delle città-stato italiane e sul progressivo esaurirsi degli approvvigionamenti per l’Europa centrale provenienti dal Mediterraneo, unitamente allo sviluppo crescente dei commerci con il Baltico: accanto a quello del grano aveva un notevole peso il commercio del ferro svedese. I mercanti e i banchieri olandesi erano ben consci che non potevano reinvestire i grandi profitti accumulati in quell’attività nell’espansione della stessa, dato che non c’erano margini per accrescere in modo redditizio quegli scambi e si proposero come gli intermediari di tutte


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le attività commerciali in Europa, emulando in questo i veneziani. Dai genovesi, invece, appresero l’importanza della mediazione politica tra le nascenti monarchie europee e del ruolo discriminante della finanza. Attraverso la Borsa di Amsterdam10 i profitti ottenuti su piano commerciale vennero mobilitati a sostenere il finanziamento di numerose iniziative in Europa e a raccogliere il denaro inoperoso proveniente dagli altri Stati europei. Presso questa borsa vennero quotate le azioni delle più grandi Compagnie commerciali olandesi, che ottennero dal loro governo concessioni di ogni genere per esercitare attività commerciali e finanziarie nei possedimenti d’oltremare. Fu grazie a queste società commerciali che l’Olanda rafforzò, nel corso del Settecento, il suo potere nei commerci e la sua supremazia nella finanza. La grande novità organizzativa, alla quale le Compagnie si ispirarono, fu quella di essere riuscite a internalizzare i costi relativi alla loro difesa e sicurezza: provvedevano cioè direttamente alla loro protezione e tutela, senza doversi appoggiare alle varie autorità dei territori in cui operavano. Le Compagnie erano gestite come delle imprese private, e non come l’espressione commerciale del potere imperiale11. Esse, internalizzando i costi della loro protezione, furono anche in grado di ridurli e di ottenere, di conseguenza, maggiori utili rispetto al sistema tradizionale che imponeva di procurarsi la protezione, di volta in volta, attraverso il pagamento di tasse e tributi alle autorità. Fu probabilmente questo artifizio organizzativo a consentire ai mercanti e banchieri olandesi di accrescere la velocità e la consistenza di accumulazione dei loro guadagni rispetto ai colleghi genovesi, anche se in questo modo le Compagnie che organizzavano la propria difesa e protezione finirono per accentuare la confusione tra strutture governative pubbliche e strutture imprenditoriali di libero mercato. Il sistema olandese attribuiva a una struttura organizzativa privata una prerogativa pubblica, quella della tutela della sicurezza. Lo Stato olandese accettò che le Compagnie si armassero, consentendo loro, in tal modo, di allargare notevolmente il loro raggio d’azione12. In tal senso il modello olandese è più simile a quello veneziano che non a quello genovese. La debolezza di questi ultimi nel gestire i flussi di capitali internazionali era proprio dovuta, paradossalmente, alla notevole sofisticazione degli strumenti utilizzati: i capitali si muovevano attraverso lettere di cambio. Alla fine, però, i governanti spagnoli, che erano i loro principali clienti, preferirono un trasferimento fisico di denaro sotto scorta armata che ne garantisse l’arrivo a destinazione e per questo vennero scelte le Compagnie di trasporto olandesi, che avevano a loro disposizione un sistema di protezione molto efficiente e temibile. L’assetto proprietario delle Compagnie era quello delle società per azioni e ciò consentì ad Amsterdam di divenire rapidamente il centro di tutte le attività finanziarie e commerciali che si svolgevano in Europa. La Borsa di Amsterdam consentì di riciclare enormi masse di capitali, trasferendoli da investimenti poco redditizi a quelli ad alta redditività: questo attirò una massa enorme di risorse finanziarie da tutti gli altri Paesi europei, di cui beneficiarono soprattutto le imprese olandesi13.


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Agli inizi del Settecento, però, molti altri Stati, soprattutto del Nord Europa, tra i quali la Prussia, la Russia, la Svezia e la Danimarca-Norvegia, iniziarono a mirare con una certa sistematicità al perseguimento di “saldi attivi” delle loro bilance dei pagamenti: ad essere penalizzata da questa politica mercantilistica fu soprattutto l’Olanda, che intorno al 1720 dovette scegliere se proseguire la propria politica commerciale, a rischio di compromettere anche l’attività finanziaria, o di concentrarsi sugli interventi propri dell’alta finanza, trascurando l’attività mercantile: la scelta cadde su questa seconda alternativa14. Ai banchieri olandesi ricorse la maggior parte dei regnanti d’Europa, a cominciare da quelli inglesi, per fronteggiare i loro deficit di bilancio e questo costrinse i primi a non prendere posizione nei vari conflitti che divisero l’Europa: quando decisero di sbilanciarsi e appoggiarono la Francia nel sostegno alla rivolta delle colonie americane contro gli inglesi pagarono a caro prezzo questa presa di posizione. Gli inglesi scatenarono contro di loro un’ennesima guerra, che portò alla distruzione totale di quella che era stata la gloriosa flotta olandese e a perdite territoriali notevoli, come l’isola di Ceylon. Questa sconfitta su piano militare fu anche l’inizio dell’uscita di scena di Amsterdam come centro della grande finanza europea. Le banche olandesi, in particolare la Hope&Co15, aiutarono ancora gli Stati Uniti ad acquistare nel 1803 la Louisiana dal re di Francia, scontando a quest’ultimo obbligazioni emesse per l’occasione, ma lo fecero già in accordo con la famosa merchant bank inglese, la Baring, e questo segnò il progressivo passaggio dell’egemonia finanziaria dalla piazza di Amsterdam a quella di Londra. La sconfitta segnò anche la fine delle grandi Compagnie commerciali olandesi, troppo propense a sfruttare la condiscendenza delle autorità interessate a garantire loro privilegi e diritti esclusivi. In Gran Bretagna, invece, dietro la spinta delle radicali critiche di Adam Smith, la corona britannica si convinse a non assecondare più tutte le richieste delle grandi società commerciali, prima fra tutte quella delle Indie. Quando il grande economista inglese mise in guardia dal consentire un ruolo eccessivo dello Stato in economia, ebbe proprio presente l’enorme tutela accordata dai governi del suo Paese alle grandi società commerciali16, che finirono per dettare le regole dei mercati, snaturando i princìpi della concorrenza. Lo Stato, infatti, era troppo debole per poter fronteggiare le enormi pressioni fatte dalle Compagnie per ottenere privilegi e protezione: indispensabile premessa per creare un libero mercato concorrenziale era proprio quella di ridimensionare il potere di questi operatori monopolistici, che impedivano il formarsi di condizioni effettive di libera concorrenza all’interno dei diversi mercati mondiali. 1.3 L’alta finanza si sposta sulla piazza di Londra: il ruolo centrale del gold standard Nel corso del XVIII secolo la piazza di Amsterdam e quella di Londra rivaleggiarono nel contendersi il primato di centro finanziario mondiale. Poi, paradossalmente, la vittoriosa guerra delle colonie d’America contro la madre patria, spalleggiata dalla Francia e dall’Olanda, provocò – a seguito della furiosa reazione britannica – la fine della potenza marinara olandese e della centralità


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della sua piazza finanziaria. Questo non significò – come ha notato acutamente Braudel17 – la fine del capitalismo olandese, ma semplicemente il venir meno della sua centralità nel contesto economico del tempo. L’afflusso di capitali si spostò conseguentemente verso la piazza di Londra e questo consentì alle autorità britanniche non solo di pagare agevolmente gli interessi sull’elevato debito pubblico, ma diede loro anche la possibilità di finanziare le vittoriose guerre contro la Francia napoleonica e il consolidamento delle colonie d’oltremare. La centralità della piazza finanziaria londinese dipese da diversi elementi18: in primo luogo dal fatto che l’Inghilterra era stata la regione nella quale si era realizzata la prima rivoluzione industriale, che aveva assicurato la maggiore competitività dei beni manufatti prodotti dalle imprese in essa ubicate. In secondo luogo, non poteva essere trascurato il ruolo dei possedimenti imperiali, che consentivano l’approvvigionamento a prezzi preferenziali delle materie prime. In terzo luogo, infine, non si poteva neppure prescindere dal ruolo svolto dal sistema a base aurea, che nel Regno Unito durò ininterrottamente per oltre cento anni, dalla fine delle guerre napoleoniche fino alla prima guerra mondiale. Fu, infatti, un’attenta gestione del sistema di gold standard che consentì di volta in volta, a seconda delle esigenze, di attrarre capitali o di respingerli, ad assicurare a Londra la centralità negli scambi finanziari mondiali19. I meccanismi d’intervento ai quali le autorità britanniche fecero ricorso per gestire i movimenti di capitali furono, in primo luogo, la manovra del tasso di cambio della sterlina che, quando era favorevole, contribuiva ad attrarre capitali e, quando era sfavorevole, contribuiva a espellerli. Inoltre, quando il tasso di cambio non era sufficiente a convincere gli investitori a spostare i loro capitali verso Londra, le autorità britanniche ricorrevano alla manovra del tasso di sconto: se questo aumentava e sui capitali concessi a prestito gli interessi salivano, ciò costituiva un forte incentivo a trasferirli sulla piazza di Londra20. Il conseguente afflusso di oro, inoltre, consentiva un aumento delle emissioni monetarie e di ciò si avvantaggiavano tutte le attività industriali del regno e i progetti di sfruttamento delle colonie21. Nel sistema finanziario del XIX secolo due ordini di flussi caratterizzarono il mantenimento del suo equilibrio: flussi di capitali in entrata e in uscita sulla piazza di Londra, in corrispondenza, rispettivamente, ai periodi di espansione e ai periodi di recessione22, e flussi di oro, anch’essi in entrata e in uscita, a seconda delle sue quotazioni. Ambedue questi flussi garantirono all’intero sistema costituito dai Paesi più sviluppati una notevole stabilità sia delle quotazioni dei cambi, sia delle ragioni di scambio. Per tutti gli altri Paesi, non in grado di aderire all’accordo di standard aureo, si manifestarono elevate instabilità dei cambi, con forti svalutazioni che finirono anche per deteriorare le loro ragioni di scambio. Questo contribuì a creare forti deficit delle loro bilance dei pagamenti, che a loro volta indebolirono i sistemi bancari locali, favorendo una fuoriuscita di capitali verso le piazze finanziarie più solide, con conseguente indebolimento anche delle strutture creditizie e finanziarie locali23. Il rispetto delle regole imposte dal gold standard


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contribuì ad armonizzare le politiche monetarie dei vari Paesi che vi aderirono e ad assicurare uno stabile equilibrio all’intero sistema economico mondiale24. I primi problemi relativi a una corretta gestione delle riserve auree nacquero quando gli Stati Uniti si proposero come economia leader in forte crescita, in seguito al rapido e impetuoso sviluppo del loro sistema produttivo e commerciale: da quel momento essi divennero importatori netti di oro, che veniva poi trasferito a milioni di risparmiatori privati e all’intero sistema di banche del Paese. Per compensare la continua fuoriuscita di oro verso gli Stati Uniti, la Gran Bretagna studiò un particolare artifizio, sottraendo a sua volta oro alle colonie in cambio di massicci trasferimenti di argento. Ciò contribuì a rafforzare il valore della sterlina e a indebolire la solidità delle monete locali. Questo consolidamento della sterlina, nello stesso tempo, contribuiva a svalutare il cambio delle monete concorrenti, come la rupia indiana, e a mantenere in un continuo stato di inflazione l’economia delle colonie25. Tuttavia, i rigidi meccanismi di gestione del gold standard, che imponevano di accrescere la circolazione monetaria soltanto in presenza di un aumento di riserve a base aurea, ebbero degli effetti deflattivi sull’intero sistema mondiale. Il trend discendente dei prezzi, in questo arco di tempo, fu elevatissimo (- 40%)26 e dal 1873 al 1896 alla deflazione si accompagnò anche una grave recessione: è significativo che gli unici Paesi che non ne vennero colpiti furono i due Stati, Germania e Stati Uniti, che usarono con molta spigliatezza – al fine di neutralizzare gli impatti negativi del sistema a base aurea – la gestione delle loro strutture creditizie e della moneta bancaria. In particolare, la Germania ricorse alla banca-mista per finanziare le enormi immobilizzazioni tecniche richieste dall’espansione dell’industria pesante27, mentre gli Stati Uniti si affidarono all’anarchia di un sistema bancario non sottoposto ad alcun controllo da parte di un’autorità centrale: tale libertà nell’utilizzo del credito consentì, senza eccessive formalità burocratiche, di finanziare la conquista del West e la costruzione delle ferrovie28. Per tutti gli altri Paesi sviluppati e per molte delle colonie prevalsero, invece, le spinte recessive che un simile sistema legato all’oro finiva per creare. Fu a causa di questi rigidi vincoli che – sul finire del secolo – accanto all’oro molti Paesi con bilance dei pagamenti spesso deficitarie cominciarono ad accumulare valute convertibili in oro, come la sterlina, nella forma di crediti a breve, sanzionando in tal modo il passaggio di fatto a un sistema di gold exchange standard, non più fondato esclusivamente sull’oro, ma anche su monete in esso convertibili. Ciò fu reso possibile grazie all’egemonia esercitata dalla Gran Bretagna, Paese che emetteva la valuta-chiave, sull’intero sistema monetario internazionale. Sotto la guida accorta della Bank of England, la piazza di Londra divenne il più importante centro internazionale per lo scambio di titoli di credito provenienti da tutto il mondo, compensando in tal modo l’iniziale assenza di banche di deposito, già nate in Scozia, ma che non erano state prese in considerazione dal Bank Act del 184429. Per contro, nacquero molti intermediari finanziari come le discount houses e i bill brokers, che avevano come compito, in


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primo luogo, quello di raccogliere il denaro dalle contee più ricche e di scontare, con esso, le cambiali delle contee che necessitavano di maggiore liquidità e, in secondo luogo, quello di pagare in anticipo, ai commercianti di tutto il mondo, le merci da essi scambiate prima ancora del loro arrivo a destinazione. Si formò in questo modo, forse, il maggior mercato del credito del XIX secolo, il London discount market 30, all’interno del quale anche il ruolo delle banche di deposito nell’erogazione di prestiti esteri fu molto rilevante, come risulta dalla tabella 1. Tab. 1 Investimenti esteri dei maggiori Paesi prestatori tra il 1825 e il 1913 (in milioni di dollari)

Come si evince dalla tabella, i prestiti erogati dalle istituzioni britanniche furono circa il doppio rispetto a quelli concessi dagli altri Paesi erogatori e la loro destinazione finale fu Canada, Australia, Nuova Zelanda, Unione Sud Africana, America Latina e Malesia31. Questo accadde anche in seguito al crescente protezionismo europeo dopo il 1815, a causa del diffondersi della recessione. Dopo Londra, la seconda piazza finanziaria era quella di Parigi, che traeva la sua forza dal finanziamento soprattutto della Russia zarista. Infine, la terza piazza europea più importante era quella di Francoforte, che operava in stretto collegamento con Amburgo e Berlino, specializzata nel finanziamento della costruzione della rete ferroviaria di molti Paesi, di cui acquistava, all’emissione, i titoli obbligazionari32. 1.4 La crisi della potenza finanziaria inglese alla vigilia della prima guerra mondiale Le cause della decadenza della piazza finanziaria di Londra e, di conseguenza, dell’alta finanza inglese, cominciarono a manifestarsi nell’ultimo decennio del XIX secolo, a partire dal fallimento di una grande e storicamente molto nota merchant bank, la Casa Baring33. Si trattava di un istituto di credito intorno al quale si era formata la potenza finanziaria britannica, travolto da un eccesso di prestiti a lungo termine concessi alle autorità argentine, divenuti inesigibili a seguito della rivoluzione scoppiata in quel Paese: dato che la banca in questione si finanzia-


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va a breve per prestare a lungo termine, il suo stato di insolvenza divenne ben presto manifesto. Già quindici anni prima, nel 1876, era fallita un’altra società, specializzata nello sconto di cambiali, la Overend&Gurney: la Bank of England in quell’occasione non intervenne per salvare la casa di sconto, lasciando che scoppiasse una crisi di fiducia verso la City, i cui costi furono molto elevati e si ripercossero sull’intera comunità finanziaria34. Nel caso della Baring, invece, a causa della sua fama passata, la Banca centrale intervenne massicciamente per salvare l’istituto, ma tutti i suoi sforzi si rivelarono vani in seguito a elevatissimi prelievi di due importanti istituti centrali, quali la Banca di Russia e quella di Spagna. Neppure l’impegno profuso dai Rothschild, i grandi banchieri che avevano pienamente compreso l’importanza dell’impegno anche politico al fine di assicurarsi un ruolo prioritario all’interno del sistema finanziario mondiale, riuscì a fare qualcosa di positivo per salvare la celebre banca commerciale. A pesare negativamente in quel fine secolo furono le divisioni interne tra le diverse istituzioni che operavano nella City di Londra e che avevano persino l’ardire di non considerare la Bank of England nel suo ruolo di prestatore di ultima istanza e di detentore delle riserve del sistema: anche la sua funzione nel campo dello sconto delle cambiali era stata notevolmente ridimensionata. Queste rivalità tra le diverse istituzioni, che avevano reso celebre la piazza finanziaria londinese nel suo ruolo di supervisore dei meccanismi di controllo dell’intero sistema finanziario internazionale e della liquidità da esso creata, era un segnale di debolezza legato al fatto che la recessione mondiale aveva drasticamente ridotto la formazione di utili da parte delle stesse. Naturalmente dietro alle difficoltà crescenti della piazza di Londra, a seguito dei contrasti che la dilaceravano, ci furono altre cause di natura reale e finanziaria: tra le prime va ricordato il progressivo venir meno della priorità delle manifatture inglesi a livello mondiale. A indebolire la loro posizione aveva contribuito la crescita, in Europa, della Germania, specializzatasi nello sviluppo dell’industria pesante35, e quella degli Stati Uniti, che, per ragioni legate alla vastità del territorio, furono costretti a sviluppare – accanto alle tradizionali industrie manifatturiere – anche quella pesante, a seguito della costruzione delle ferrovie e dello sviluppo dei traffici marittimi36. La crescente debolezza delle industrie manifatturiere inglesi veniva compensata con il consolidamento di posizioni sempre più monopolistiche nel commercio con le colonie37: un grande aiuto a questa presenza quasi esclusiva delle merci inglesi venne offerto dal controllo quasi totale nelle colonie del sistema bancario e di quello dei trasporti, che assunsero un ruolo prioritario nel finanziamento e nella commercializzazione dei prodotti della madrepatria. Parallelamente al crescente indebolimento della concorrenzialità dei prodotti inglesi, a causa della scelta strategica di tenersi ancorati a produzioni tradizionali ormai mature, fecero seguito anche le crescenti esportazioni di capitali, principalmente verso le colonie e verso gli Stati Uniti. Mentre dalla seconda metà del XIX secolo Londra intermediava capitali da tutto il mondo per finanziare i commerci e le attività impren-


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ditoriali, a partire dall’ultimo decennio del secolo divenne essa stessa esportatrice netta di capitali. Tra le cause di natura finanziaria che condussero all’indebolimento della piazza di Londra, ci fu, da un lato, la concentrazione dell’attività bancaria in Gran Bretagna, che portò alla crescita delle dimensioni, ma anche all’intolleranza di qualsiasi forma di controllo e di regolamentazione da parte della Bank of England e, dall’altro, il consolidarsi di altre piazze finanziarie, in particolare di Parigi, di Berlino e di New York. Quest’ultima divenne sempre più un polo di attrazione dei capitali internazionali e il vero mercato del cambio tra dollaro e sterlina, dal quale dipendeva gran parte dei finanziamenti alle esportazioni statunitensi. Inoltre, la piazza di New York si trasformò in un grande collettore di oro, sia per il Tesoro statunitense, sia per i privati: l’acquisto di oro era finanziato dai surplus della bilancia commerciale e proveniva dalla piazza londinese, che continuava a mantenere il monopolio quasi totale della sua commercializzazione. Londra, poi, alla fine del secolo XIX, finì per svolgere funzioni di Banca centrale anche per l’economia americana, aiutandola a superare i momenti più difficili, legati alla stagionalità dei raccolti, dato il peso notevole che le produzioni agricole avevano tanto per il mercato interno statunitense che per le loro esportazioni38. Le forti oscillazioni della domanda di liquidità da parte degli Stati Uniti e il continuo assorbimento di oro costrinsero le autorità inglesi a frequenti modificazioni nella struttura dei tassi d’interesse, che non contribuirono certamente ad assicurare stabilità a quella piazza, aggravandone piuttosto le sue difficoltà. A questo proposito, è sorta tra gli studiosi una disputa circa il fatto che le autorità londinesi, pur di mantenere ancora una parvenza di centralità sui mercati finanziari mondiali, abbiano accettato di scaricare tutti i costi legati all’esercizio di questo ruolo sull’economia interna. In tal modo gli oneri del riequilibrio sono caduti in parte sull’economia britannica e in parte su quella di altri Paesi, come l’India, da essa strettamente dipendenti39. Non bisogna dimenticare che gran parte delle fortune della piazza londinese erano legate al fatto che essa finiva per riciclare tutti i surplus delle bilance dei pagamenti di molti Paesi, non soltanto di quelli aderenti al Commonwealth. È stato però anche rilevato che l’economia britannica si espandeva a seguito della crescita dell’economia mondiale e anticipava il rallentamento della stessa. Questo starebbe a provare che la difesa del prestigio di Londra come piazza finanziaria mondiale ha finito per prevalere rispetto agli interessi dell’industria britannica: come venne denunciato più volte da Keynes, la Gran Bretagna ha sempre sacrificato sull’altare degli interessi finanziari il proprio sistema industriale e questa è una politica ancora oggi perseguita40. Nonostante questa scelta impegnativa, il sistema finanziario inglese venne travolto, nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, da una crisi molto seria, che finì per compromettere – qualche anno più tardi – la stessa posizione egemonica della Gran Bretagna all’interno del sistema economico e finanziario mondiale. Una delle cause remote di tale crisi va identificata nel massiccio processo di concentrazione tra le banche di deposito avvenuto ai danni di tutte le al-


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tre istituzioni finanziarie, come le antiche merchant bank, le Case di sconto e la stessa Bank of England. Alle tradizionali banche del panorama finanziario britannico (quelle commerciali e le Case di sconto) si sostituirono progressivamente le potentissime e sempre più integrate banche di deposito, in grado di svolgere tutta l’ampia gamma di servizi bancari41: tali istituti, a differenza dei loro omologhi tedeschi, non si preoccuparono mai di instaurare un solido e sistematico rapporto con l’ industria britannica, impegnati com’erano nel finanziamento dei commerci mondiali e nei trasferimenti di capitali nelle aree geografiche che – a causa dell’impetuoso sviluppo economico – presentavano una più alta redditività. Fu questa forte esposizione delle grandi banche inglesi verso l’estero – che fece della piazza di Londra il maggior creditore internazionale – a far scoppiare la crisi alle prime minacce di guerra, nell’estate nel 191442. Si registrò, infatti, una corsa ad accaparrarsi fondi su questa piazza, mentre le grandi banche di deposito decisero – come evidenziò un illustre contemporaneo, John Maynard Keynes – di chiudere improvvisamente tutte le linee di credito nei confronti del resto del mondo43. Di fronte a questo drastico taglio dei finanziamenti da parte dell’unico creditore di ultima istanza del tempo e in presenza delle enormi difficoltà di trasportare oro nella City, a causa della flotta sommergibile tedesca, i debitori internazionali cercarono di vendere i titoli da loro detenuti presso le banche londinesi, ma le massicce vendite da parte di queste ultime sulla Borsa di Londra finirono per farla collassare e questo fu molto grave, dato che anche le borse degli altri principali centri finanziari si erano trovate in difficoltà ed erano state costrette a chiudere. D’altra parte la politica delle banche di deposito, finalizzata a indebolire ed esautorare la Bank of England dai suoi compiti istituzionali di controllore dell’intero sistema finanziario, aveva condotto a una situazione molto negativa, rappresentata da un sistema al cui vertice mancava praticamente un prestatore di ultima istanza. Fu, dunque, l’eccessiva espansione verso l’estero di una struttura finanziaria praticamente acefala ad affossare, alla vigilia della guerra, il prestigio della piazza finanziaria più importante del mondo44. Ancora una volta l’illusione di poter dare vita a un sistema fondato esclusivamente sulla forza delle istituzioni che operano al suo interno liberamente, escludendo la presenza di un’istituzione che vigili sui comportamenti dei singoli operatori e assicuri le necessarie garanzie, finì per travolgere persino quegli istituti che erano stati paladini nello sponsorizzare un siffatto sistema. Si trattava, in fondo, di una prima, pesante sconfitta dell’ideologia che sosteneva la centralità dell’azione individuale in economia, a prescindere da qualsiasi intervento regolatore da parte delle pubbliche autorità.


Capitolo secondo

Il flusso internazionale di capitali dalla fine del gold standard al nuovo ordine economico di Bretton Woods

2.1 I movimenti di capitali internazionali tra le due guerre mondiali La crisi finanziaria del 1914 e lo scoppio della grande guerra chiusero un’epoca: quella caratterizzata da un sistema monetario a base aurea e dalla supremazia della piazza di Londra su tutti gli altri mercati finanziari del mondo. I consistenti trasferimenti di prestiti dagli Stati Uniti verso gli alleati nel corso della guerra ebbero degli effetti importantissimi, condizionando non solo le vicende militari, ma consentendo a questo Paese di ipotecare il ruolo di nuova potenza finanziaria egemone45. La guerra costrinse anche all’abbandono di due istituzioni mitiche del secolo XIX e precisamente il gold standard e il liberismo economico esasperato, che lasciava ai mercati ogni decisione in campo economico. Le esigenze del conflitto imposero una pianificazione delle decisioni economiche e il venir meno delle libertà che – all’interno dei mercati – avevano caratterizzato i decenni precedenti. Se si pensa che in quegli stessi anni la Russia zarista era travolta dalla rivoluzione bolscevica, che impose un sistema centralizzato di scelte e abolì la proprietà privata, si capiscono le preoccupazioni del tempo da parte dei paladini del liberismo a oltranza46. Terminata la guerra, la questione delle riparazioni tedesche fissate a un livello intollerabile per la Germania – secondo l’opinione di Keynes – creava le basi per nuove spinte destabilizzanti dell’intero sistema finanziario mondiale47. Questo avrebbe comportato, sempre secondo il grande economista di Cambridge, o l’impossibilità per i tedeschi di pagare o – se avessero rispettato gli impegni – la necessità di accumulare un surplus della bilancia commerciale talmente elevato da costituire un serio pericolo per il commercio britannico e per quello di tutti gli altri Paesi usciti vincitori dalla guerra. La previsione formulata da Keynes naturalmente si avverò: dopo la grande inflazione del 1921-23, che travolse la repubblica di Weimar48, la Germania attuò, sotto la guida di Hjalmar Schacht, una forte deflazione, che contribuì a portare rapidamente in attivo la sua bilancia commerciale49: inoltre, prestiti a medio-lungo termine provenienti dagli Stati Uniti, contribuirono a completare il risanamento dell’economia tedesca, nonostante gli elevati oneri pagati come danni di guerra. Dopo la questione delle riparazioni tedesche, che nei primi anni Venti contribuirono ad attivare i flussi finanziari mondiali, a partire dalla metà del decennio si presentò un altro problema rilevante: dietro pressione di Montagu


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Norman e Benjamin Strong50, rispettivamente governatori della Bank of England e del Federal Reserve System, la maggior parte degli Stati europei venne indotta – dopo la parentesi della guerra – ad aderire nuovamente a un sistema a base aurea, anche se nella versione meno rigida del gold exchange standard. Anzi, molti Paesi, tra i quali la Gran Bretagna e l’Italia, proposero un ritorno all’oro con un tasso di cambio ancora più rivalutato rispetto a quello prebellico, quasi che la prima guerra mondiale non avesse costituito alcun problema per le loro rispettive economie51. A convincere molti Paesi a questa scelta – che poi si rivelò qualche anno più tardi assolutamente fallimentare – furono essenzialmente massicci prestiti concessi da banche statunitensi per portare a termine questa operazione52. Tab. 2 Prestiti americani e britannici negli anni Venti

Fonte: B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande Depressione, 1919-1939, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1994, p. 193.


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La circostanza che fossero capitali statunitensi e non britannici a sostenere l’ambizioso progetto di ritorno alla convertibilità aurea, che si sommava al fatto che fossero sempre capitali d’oltreoceano a consentire la soluzione del problema del pagamento dei danni di guerra tedeschi, segnalò al mondo intero le gravi difficoltà nelle quali si dibatteva la piazza finanziaria londinese: la sua definitiva e ufficiale uscita di scena si ebbe nel 1931, con la dichiarazione di inconvertibilità in oro della sterlina53. Si trattava della peggiore delle rese senza condizioni per un Paese che aveva sollecitato tutti gli altri a un ritorno alla convertibilità ed era, al contempo, la manifestazione di un fallimento dovuto a una serie di errori clamorosi in cui erano incorse le autorità britanniche, nonostante le puntuali critiche mosse da Keynes54. Questi stessi errori ebbero, poi, un ruolo cruciale nel provocare la crisi del 1929, che fu non solo di tipo borsistico, ma anche strutturale. Nel frattempo, nel corso della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano accresciuto la competitività dei loro prodotti e i ricorrenti avanzi della loro bilancia dei pagamenti li avevano trasformati da Paese debitore della Gran Bretagna – quando Londra svolgeva per loro la funzione di Banca centrale – in Paese creditore del mondo, in grado di finanziare le riparazioni e i debiti di guerra dei Paesi europei. Questo riciclo del surplus della loro bilancia dei pagamenti fu la condizione che assicurò stabilità all’intero sistema economico internazionale del tempo. Ai movimenti di capitali statunitensi a medio-lungo termine che affluirono dagli Stati Uniti verso l’Europa corrispose un flusso a brevissimo termine di direzione opposta e di natura essenzialmente speculativa. Questi capitali vennero definiti “vaganti”, dato che si movevano tra le varie piazze finanziarie mondiali alla ricerca di profitti speculativi e, ogni volta che si spostavano, creavano seri problemi alle riserve auree o valutarie dei rispettivi Paesi55. Tab. 3 Prestiti netti a breve e a lungo termine degli Stati Uniti, 1926-31 (in milioni di dollari)

Fonte: B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard” e la Grande Depressione 1919-1939, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1994, p. 284.


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Fu nel 1925 che cominciò a scoppiare la febbre speculativa in borsa, dove gli operatori comperavano titoli allo scoperto, facendosi prestare il denaro necessario oltre a quello di cui già disponevano: nonostante l’aumento del tasso di sconto, che venne portato dal Federal Reserve System al 5%, al fine di disincentivare questo tipo di acquisti a riporto, non si arrestò la domanda di credito, tanto che alcuni broker specializzati prendevano a prestito il denaro a quel tasso per poi prestarlo a loro volta al 12% agli speculatori56. È chiaro che remunerazioni così elevate costituirono una forte attrattiva per i capitali a breve europei, che attraversarono in massa l’Atlantico, alimentando il gioco della speculazione. L’euforia dei mercati era tale che si rivelarono inutili i tradizionali strumenti utilizzati dalle autorità monetarie per raffreddare l’economia e neppure il mondo politico ebbe il coraggio di chiedere al Federal Reserve System di proibire le operazioni allo scoperto, dato che sarebbe stato accusato di voler sabotare un momento di grande prosperità per tutti. Tuttavia, la stretta monetaria adottata dalla Fed nel 1928, se non ebbe effetti consistenti per raffreddare il clima di euforia interno agli Stati Uniti, generò conseguenze molto gravi a livello del sistema finanziario internazionale, dato che ridusse notevolmente il volume dei prestiti americani all’estero. Questo mise in crisi il principale meccanismo di stabilizzazione del sistema stesso. Per questa ragione le economie dei Paesi importatori di capitali cominciarono a rallentare e le autorità furono costrette a rigide politiche monetarie che contrastavano con l’euforia dei mercati : nell’autunno del 1929 si manifestò la crisi di fiducia negli investimenti borsistici e iniziò il grande crollo delle quotazioni57. Le banche furono le istituzioni che pagarono il tributo più alto alla crisi del 1929, che finì per propagare i suoi effetti negativi ai principali Paesi europei. In alcuni di questi, come l’Austria, la situazione di insolvenza di grandi banche, come il Credit-Anstalt58, attivò tutta una serie di interventi di sostegno da parte sia delle autorità, sia di gruppi privati, come la Casa Rothschild, che divideva con questo istituto alcune filiali estere: questa crisi travolse anche lo scellino austriaco e ingenerò numerose fughe di capitali stranieri dall’Austria. Anche la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania e, soprattutto, la Germania vennero colpite dal fenomeno della massiccia fuoriuscita di capitali stranieri59. Vennero richiamati circa 300 milioni di marchi di crediti esteri concessi alle grandi banche tedesche e questo, a sua volta, provocò la fuoriuscita di oro e riserve dalla Reichsbank, l’istituto di emissione tedesco. Anche negli Stati Uniti il crollo di borsa e le difficoltà in cui si dibattevano privati cittadini e banche contribuì a inaridire i flussi di prestiti verso l’estero60: questo fenomeno fu particolarmente grave, dato che era proprio su questi ultimi che si poggiava, a livello internazionale, il pareggiamento di tutti i conti. Alla crisi del ’29 seguirono politiche di autarchia, che interessarono non soltanto l’economia reale, con una consistente diminuzione delle esportazioni mondiali, ma anche i movimenti di capitali. In fondo, la rottura e il venir meno di quello che Polanyi definì «il filo d’oro» intorno al quale tutto il sistema finanziario internazionale ruotava e che ne garantiva l’unità


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finì per disgregare l’economia mondiale e per imporre l’individuazione di un nuovo ordine monetario61. Alla fine degli anni Trenta, con l’approssimarsi delle nuove minacce di guerra, i capitali europei presero nuovamente la via degli Stati Uniti, con ammontari sempre più massicci62. Tali capitali vennero investiti quasi tutti nell’acquisto di oro e tutto ciò si verificò nonostante il fatto che una delegazione di illustri banchieri centrali europei (tra i quali il governatore della Bank of England, Montagu Norman, quello della Reichsbank , Hjalmar Schacht, e il vicegovernatore della Banca di Francia, Charles Rist) avessero chiesto alle autorità americane di abbassare il costo del denaro, al fine di rendere il dollaro meno competitivo e appetibile per gli investitori europei. La loro richiesta venne accolta, ma non contribuì ad arginare l’emorragia di capitali, oltre che di oro, dal vecchio continente verso gli Stati Uniti, che si accingevano a consolidare la centralità dei loro mercati finanziari. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, in base all’accordo lend-lease del marzo del 1941, si impegnarono a fornire ai loro alleati armamenti ed equipaggiamenti militari, posticipando i pagamenti degli stessi alla fine della guerra, mentre i tedeschi crearono per le loro truppe di occupazione il Reichcreditkassenscheine, una speciale banconota che circolava solo nelle zone di guerra esterne alla Germania. Si trattava dell’introduzione – dai due opposti schieramenti del fronte – di strumenti finanziari innovativi, che avrebbero dovuto assicurare un flusso adeguato di capitali nei diversi territori coinvolti nel conflitto63. 2.2 Movimenti di capitali nel nuovo sistema monetario di Bretton Woods Ancora prima della fine del conflitto, gli Stati Uniti convocarono nel 1944 a Bretton Woods (New Hampshire) una conferenza che avrebbe dovuto definire il nuovo assetto del sistema monetario del dopoguerra. Nonostante le proposte innovative avanzate rispettivamente dai plenipotenziari della Gran Bretagna (J.M. Keynes) e degli Stati Uniti (H.D. White), l’accordo finale non tenne conto del nuovo spirito che avrebbe dovuto caratterizzare in futuro i rapporti monetari e finanziari tra gli Stati e trionfò il principio della centralità del dollaro, della scarsità dei mezzi finanziari a disposizione dei Paesi in difficoltà, della gestione da parte di banche private degli squilibri delle bilance dei pagamenti e, infine, della posizione privilegiata dei Paesi in surplus rispetto a quelli in deficit64. Tali accordi si rivelarono ben presto un vincolo troppo rigido per i Paesi europei (vincitori e vinti) che dovevano fronteggiare le difficoltà della ricostruzione postbellica, non disponendo praticamente più di riserve. Inoltre, le poche di cui disponevano, invece di essere spese per finanziare la ripresa economica e la crescita, dovevano essere bruciate per mantenere una parità con il dollaro che concedeva solo limitatissimi margini di oscillazione. Le conseguenze negative del nuovo sistema creato a Bretton Woods non tardarono a farsi sentire, con una grande recessione che bloccò le economie europee e finì per riflettersi negativamente anche sulla stessa economia americana.


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Questo grave stato dell’economia europea, unitamente alla minaccia rappresentata dalla vicinanza dell’Unione Sovietica, indusse le autorità statunitensi a varare un massiccio piano di aiuti all’Europa che prese il nome di Piano Marshall65. Esso prevedeva il trasferimento di capitali verso il vecchio continente, finalizzati all’acquisto di impianti, macchinari e manufatti statunitensi, che avrebbero assicurato la ripresa dell’attività produttiva. Inoltre, con buona pace dei più conservatori che si lamentavano per il fatto che il denaro dei contribuenti americani finisse all’Europa, la maggior parte delle somme stanziate dal Piano solo formalmente usciva dagli Stati Uniti, dato che i destinatari finali erano proprio le imprese statunitensi che cedevano i beni d’ investimento e quelli di consumo: in tal modo veniva delegato agli imprenditori europei il compito di decidere quali imprese statunitensi dovessero essere privilegiate. Tale progetto, inizialmente rivolto anche agli alleati sovietici, consentì agli Stati Uniti – dopo il ritiro dei Paesi socialisti dal piano di assistenza – di ridefinire anche il sistema di alleanze, con l’uscita dell’Unione Sovietica e l’entrata della Germania. Il programma prevedeva l’erogazione, in quattro anni, inizialmente di 30 miliardi di dollari, poi ridotti a 16. Il consuntivo finale fu di 12,5 miliardi. I Paesi che ricevettero l’aiuto si fecero poi pagare in valuta locale dai fruitori finali dei beni e degli impianti ricevuti, il che consentì a quei governi di accumulare notevoli somme di denaro destinate alla stabilizzazione monetaria e al sostegno della politica industriale. Attraverso il Piano Marshall le autorità statunitensi riuscirono anche a definire il tipo di sviluppo che avrebbe interessato l’economia europea nel secondo dopoguerra, quasi esclusivamente orientato alla produzione di beni manifatturieri. Inoltre, la quota di aiuti trasferita non sottoforma di impianti o di beni di consumo, ma come finanziamenti per risanare i disavanzi delle bilance dei pagamenti, venne gestita da un organismo creato appositamente e chiamato l’Unione europea dei pagamenti (Epu), con 500 milioni di capitale iniziale che, nonostante l’esiguità della cifra, si dimostrarono del tutto adeguati: la costituzione dell’Epu66 ebbe il merito di aiutare i Paesi europei a ragionare in termini di crescente integrazione delle loro economie, a cominciare dal settore monetario e finanziario. Il massiccio trasferimento verso l’Europa di queste risorse in merci, beni capitali e mezzi di pagamento permise senza sforzi eccessivi di completare i progetti della ricostruzione industriale dei Paesi europei, che furono in grado, dopo breve tempo, di affrontare il boom economico che caratterizzò gli anni Cinquanta67. Prima, però, del conseguimento della completa stabilizzazione, alcune valute come la sterlina, il marco tedesco e altre di minore importanza, svalutarono nel settembre del 1949, a riprova che i cambi quasi rigidi imposti a Bretton Woods costituivano un grave problema per i Paesi europei. La lira, da parte sua, a seguito di una politica monetaria molto rigorosa, che si tradusse in un aggravamento di una situazione economica già di per sé poco prospera, riuscì a contenere la svalutazione entro il 7%. Oltre a quello dei cambi, l’altro problema che caratterizzò quegli anni del secondo dopoguerra fu la sistematica carenza di liquidità su piano internazionale:


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l’abbandono del sistema a standard aureo e il passaggio – che richiese tempo per la sua completa realizzazione – al sistema creato a Bretton Woods e fondato sulla centralità del dollaro (ancora poco presente nelle riserve della maggior parte dei Paesi europei68) rendevano scarsissime le disponibilità di mezzi di pagamento. Il dibattito tra gli economisti del tempo era proprio incentrato su questa carenza di mezzi liquidi, che ci fa un po’ meravigliare oggi, quando l’unico problema che non esiste proprio è quello della disponibilità di mezzi liquidi. La situazione era particolarmente grave perché in quegli anni i prestiti tra Stato e Stato erano usualmente concessi sempre più in natura e sempre meno in denaro, sull’esempio del Piano Marshall, con i singoli governi che poi si attivavano per collocare sul mercato i beni ricevuti in contropartita, facendoseli pagare dai percettori finali69. Inoltre, tutta la liquidità in valuta presente sul mercato veniva in gran parte incamerata dalle banche centrali per ricostituire le loro riserve che scarseggiavano proprio di dollari. In quegli anni l’unica fonte di liquidità, accanto ai trasferimenti del governo degli Stati Uniti, era quella offerta dalle banche private americane, spaventate, tuttavia, dai controlli valutari che ancora permanevano in Europa. Poi, nel prosieguo del tempo, due fenomeni contribuirono ad accrescere le disponibilità di dollari su piano internazionale. Il primo era legato alla guerra di Corea, che scoppiò nel 1950 e comportò un notevole esborso di dollari da parte dell’amministrazione statunitense70. Il secondo, sempre condizionato dal nuovo ruolo egemone assunto dagli Stati Uniti sulla politica mondiale, derivava dalle crescenti spese per il mantenimento delle basi militari in giro per il mondo, per le operazioni di intelligence legate a interventi in vari Paesi per sostenere o per rovesciare governi locali e per esborsi legati alla situazione di “guerra fredda” contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati. Questo flusso di denaro stanziato dall’amministrazione statunitense divenne sempre più massiccio e portò anche a un deficit crescente della bilancia dei pagamenti del Paese, nonostante il sistematico surplus della bilancia commerciale, cioè degli scambi di beni e servizi. La forte competitività dei prodotti americani, che assicurava elevati avanzi della bilancia commerciale, veniva quindi penalizzata dalle spese militari e strategiche necessarie per assicurare agli Stati Uniti il ruolo di leader mondiale71. Unica contropartita di questa scelta strategica fu la corsa al riarmo della maggior parte degli Stati europei, giustificata da un eventuale scontro con l’Unione Sovietica: l’Europa acquistò soprattutto armi sofisticate e aerei militari dall’industria bellica statunitense, contribuendo in tal modo a far rimpatriare per lo meno una parte della massiccia fuoriuscita di dollari72. Sempre come effetto della guerra di Corea, si verificò un altro fenomeno che incise profondamente sull’andamento dei flussi di capitali: la minaccia di ritorsioni da parte del governo americano sui depositi detenuti dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati presso banche statunitensi, che indusse le autorità di quei Paesi a spostare i loro fondi verso l’Europa. Esse avevano due esigenze che dovevano essere soddisfatte contemporaneamente: la prima era quella di evitare preoccupanti congelamenti delle loro riserve valutarie, mentre la seconda era rappresen-


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tata dalla volontà di non rinunciare a detenere dollari, dato che era la valuta in teoria e di fatto al centro del sistema monetario internazionale e che assicurava le maggiori garanzie di non perdere il suo valore. La conciliazione di questi due obiettivi venne assicurata dalle banche londinesi, che accettarono depositi in dollari, fuori dagli Stati Uniti. Questi dollari che non potevano restare inoperosi, vennero a loro volta prestati a operatori che necessitavano di indebitarsi in quella valuta. Nacque, così, dapprima in modo embrionale e successivamente in misura sempre più massiccia, un mercato di dollari commercializzati fuori dalla madrepatria, che accettava depositi in questa valuta e poi li prestava internazionalmente. Si formava, in questo modo, un secondo mercato del dollaro, accanto a quello vero e proprio ubicato negli Stati Uniti, che prese il nome di mercato dell’eurodollaro73. Fu questo mercato, pertanto, che consentì di fronteggiare la grande carenza di liquidità internazionale, di cui si è parlato più sopra74. Tale mercato venne alimentato oltre che dai capitali di proprietà dei Paesi socialisti, anche e soprattutto dai capitali statunitensi, che lasciavano il Paese alla ricerca di maggiore redditività, dato che la Regulation Q75 imponeva di contenere, a livelli più bassi rispetto a quelli dei mercati internazionali, gli interessi pagati sui depositi. Tale provvedimento, che induceva i capitali americani ad abbandonare la piazza statunitense, era giustificato solo dal fatto che le autorità degli Stati Uniti volevano allontanare dal Paese capitali inoperosi, che, se lasciati in loco, avrebbero potuto alimentare una forte inflazione. Così l’Europa beneficiò di questi massicci trasferimenti di capitali americani, che si andarono a collocare naturalmente sul mercato dell’eurodollaro. Inoltre, dato che negli Stati Uniti il costo del denaro, soprattutto per operazioni a breve termine, era molto basso, accadde che molti operatori europei prendessero a prestito a breve termine in quel Paese per poi investire gli stessi capitali sul mercato europeo a lungo termine, lucrando sui differenziali dei tassi. Infine, i risparmiatori americani erano soliti investire i loro risparmi acquistando titoli obbligazionari europei, più redditizi rispetto a quelli americani: il fenomeno divenne talmente macroscopico che le autorità americane decisero – al fine di frenare i flussi di denaro dagli Stati Uniti verso l’Europa – di introdurre una tassa su tali trasferimenti, definita l’Interest Equalization Tax, che perequava, dopo il prelievo, gli interessi pagati sui titoli europei a quelli statunitensi76. Questi due provvedimenti, Regulation Q e imposta di perequazione, sembrano tra loro contraddittori: in realtà, in un breve arco di tempo, gli scenari erano notevolmente cambiati. In un primo tempo le autorità statunitensi favorirono la fuga verso l’Europa di capitali eccedentari che cercavano investimenti remunerativi77, poi, però, quando l’emorragia di questi capitali divenne eccessiva e soprattutto si consolidarono le strategie europee per il loro utilizzo, queste stesse autorità decisero di disincentivare siffatta emorragia di risorse finanziarie, con un’apposita imposta. D’altra parte più passava il tempo dalla fine della guerra, più cresceva il disavanzo della bilancia dei pagamenti americana e più era il dollaro ad avere difficoltà nel mantenere le originarie parità definite a Bretton Woods con le valute europee.


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Si consolidò, in ogni caso, il mercato dell’eurodollaro, che alimentò l’offerta di liquidità rappresentata da dollari statunitensi all’Europa e al resto del mondo. Esso consentì di effettuare soltanto operazioni di valore molto elevato, con un minimo di un milione di dollari. La base di questo mercato fu costituita da una rete di banche di diversi Paesi che detenevano conti in dollari, di proprietà di cittadini non residenti negli Stati Uniti, tutte collegate tra loro grazie alle tecnologie, che divennero, col tempo, sempre più sofisticate: telefono, telex, swift, sino ad arrivare a Internet78. Tale mercato non previde l’obbligo di detenere riserve a fronte degli impieghi e questo fece gridare allo scandalo i ben pensanti, che parlarono di un’immane “piramide di carta”79, destinata ad andare incontro alle peggiori crisi di liquidità: invece il mercato resse alla perfezione, grazie alla grande professionalità e al senso di responsabilità di chi lo guidava e, nel corso di quasi mezzo secolo di attività, non è stato mai colpito dal minimo intoppo, né coinvolto in nessuno scandalo, smentendo decisamente coloro che, a dispetto dei loro prestigiosi incarichi, hanno capito ben poco delle funzioni e delle potenzialità della moneta. L’afflusso di questi capitali non ebbe neppure un impatto inflazionistico per le economie europee, dato che venne totalmente impiegato nello sviluppo di progetti industriali o addirittura nel finanziamento degli squilibri di bilancio pubblico di molti Paesi europei: anche questo impone un ripensamento di certe teorie, come quelle monetariste, che definiscono un rapporto acritico tra quantità di moneta presente su una piazza e livello di inflazione80. In tal caso, dato che esistevano delle realtà operative che necessitavano di finanziamenti, questo afflusso anomalo di denaro, che avrebbe dovuto creare un’inflazione a due cifre decimali, in realtà ha sostenuto esclusivamente lo sviluppo economico dell’Europa. Tra l’altro, a questo mercato attinsero le grandi imprese multinazionali statunitensi che si trasferirono in Europa all’inizio degli anni Sessanta, al fine di evitare eventuali barriere esterne create dalle autorità della nascente Comunità economica81. In tal modo, Londra riconquistò quelle posizioni di leadership nell’erogazione di capitali privati alle imprese di tutto il mondo e di controllo sulla liquidità mondiale. Le autorità statunitensi non videro positivamente il riemergere della piazza di Londra come centro di controllo della liquidità privata e si attivarono per riportare a Washington per lo meno la centralità nella creazione della liquidità pubblica. 2.3 Il processo d’integrazione europea e le conseguenze sui flussi finanziari mondiali Nel frattempo, il processo d’integrazione economica e monetaria dell’Europa, iniziato nel 1957 con la firma del Trattato di Roma, cominciò a manifestare i suoi effetti sui mercati finanziari mondiali. Intanto, nel 1958, si ristabilì tra tredici valute dell’Europa occidentale il ritorno alla completa convertibilità, che significò la fine dei controlli sui cambi e assicurò una maggiore mobilità per i capitali espressi in valute diverse, un tempo costretti a ricorrere ai mercati valutari clandestini. Il sistema multilaterale di pagamenti si era consolidato, dopo l’Accordo monetario europeo, siglato nel 1955 a Parigi, tra i Paesi aderenti al-


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l’Oece, l’Organizzazione europea per la cooperazione economica, creata al fine di coordinare la distribuzione degli aiuti del Piano Marshall82. Tali processi d’integrazione assicurarono all’economia europea una forte crescita, che in alcuni Paesi come l’Italia e la Germania fece addirittura parlare di “miracoli” economici: furono questi tassi elevati di sviluppo che consentirono l’accumulazione di alti profitti e la conseguente creazione di abbondante liquidità, che pose fine, per lo meno per gli operatori privati, a una sua carenza strutturale che aveva caratterizzato i decenni passati. Fu sempre in questo periodo che il valore della massa liquida investita in operazioni finanziarie cominciò a superare il valore del totale delle transazioni commerciali: oggi, come è noto, la prima supera di oltre cento volte la seconda. Inoltre, fu proprio negli anni Sessanta che i rigidi vincoli di cambio imposti con gli accordi di Bretton Woods e che avevano condizionato negativamente la crescita delle economie europee negli anni della ricostruzione stavano creando problemi alle autorità statunitensi: la quotazione del dollaro era infatti eccessiva rispetto al cambio delle valute europee e non rispettava più il peso effettivo dell’economia statunitense nei confronti di quelle dei Paesi europei, che si erano nel frattempo notevolmente sviluppati83. La forza eccessiva del dollaro, a livello di cambio, creò numerosi flussi di capitali, soprattutto a lungo termine, dagli Stati Uniti verso l’Europa. Si trattava della conseguenza delle scelte strategiche delle multinazionali americane, che approfittavano della sovravalutazione del dollaro per condurre la loro politica di creazione di nuovi impianti produttivi in Europa. D’altra parte, questi flussi in uscita resero ancora più scarsa la disponibilità di liquidità negli Stati Uniti, già di per sé penalizzati dalla Regulation Q, tanto che le grandi banche americane cominciarono ad attingere liquidità dalle loro filiali europee. Per contrastare questo andamento e rendere più costose queste operazioni, le autorità americane furono indotte a introdurre su queste passività delle banche statunitensi verso le proprie filiali europee l’obbligo di mantenere una riserva del 10% sul totale dell’operazione e questo rese più oneroso il ricorso a siffatto artifizio84. D’altra parte, l’eccessivo sovradimensionamento del cambio della moneta americana costituiva anche un forte deterrente che disincentivava le imprese europee dall’espandersi negli Stati Uniti: per questi motivi i flussi di capitale a lungo termine erano monodirezionali e si movevano dagli Stati Uniti verso l’Europa, anche a causa del massiccio deficit della bilancia dei pagamenti statunitense. Contemporaneamente, grazie alla crescente liquidità che si accumulava sui mercati europei e alle notevoli oscillazioni delle valute e dei tassi d’interesse, crebbero in misura elevata anche i movimenti speculativi a breve termine dei capitali, quasi sempre finalizzati a lucrare su possibili oscillazioni dei cambi o dei rendimenti del denaro. La destabilizzazione creata da tali movimenti era notevole soprattutto in uscita, dato che incidevano sulle riserve valutarie, ma anche in entrata, perché rischiavano di accrescere in misura eccessiva la liquidità delle banche. Tali pericoli giustificavano il sistema di controlli su questi movimenti finanziari,


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mantenuti dalle autorità monetarie dei singoli Paesi a dispetto dei processi di liberalizzazione. Negli Stati Uniti, per esempio, venne introdotto a metà degli anni Sessanta il Programma di restrizione dei crediti volontari all’estero (1964), con cui le autorità monetarie chiesero alle banche commerciali di non espandere oltre il 5% i propri impieghi al di fuori del Paese85. Infine, l’eccessiva sovravalutazione del dollaro scatenò una corsa alla conversione di dollari in oro e tale corsa caratterizzò anche il comportamento delle autorità pubbliche di diversi Paesi: per esempio, il presidente francese Charles De Gaulle seguì sistematicamente questa politica, chiedendo la conversione della valuta americana in oro, al prezzo ufficiale di 35 dollari per oncia86. In questo periodo ai flussi di dollari che rientravano negli Stati Uniti corrispondevano flussi di oro che si andavano a collocare nelle riserve delle principali banche centrali dei Paesi più industrializzati. Per evitare un aumento del prezzo dell’oro, che avrebbe alimentato la speculazione, la maggior parte delle autorità europee, tra le quali inizialmente c’era anche la Francia, costituirono nel 1961 il pool dell’oro, con l’obiettivo specifico di tenerne basso il prezzo, al fine di non scatenare una corsa al rialzo delle sue quotazioni: sul mercato di Londra l’oncia d’oro non superò mai il prezzo di 35,35 dollari87. Tuttavia, al crescere delle pressioni su tale mercato, il pool cessò ufficialmente di operare nei primi mesi del 1968, quando le banche centrali rinunciarono ai loro interventi sui mercati dell’oro: tre anni più tardi, nell’agosto del 1971, gli Stati Uniti erano costretti a rinunciare definitivamente alla convertibilità del dollaro in oro. Fu sempre nel corso degli anni Sessanta che le autorità monetarie statunitensi iniziarono politiche di collaborazione con numerose banche centrali europee, al fine di sostenere il valore del dollaro con linee di credito a breve termine definite di stand by (quando non c’era l’obbligo dell’utilizzo delle stesse) o di swap (quando veniva già definita l’operazione inversa, una volta trascorso un certo lasso di tempo): naturalmente le preoccupazioni manifestate dalle autorità statunitensi nei confronti della tenuta del dollaro disincentivarono movimenti di capitali verso la moneta americana. Mentre la liquidità a disposizione di imprese e operatori privati cresceva rapidamente e non costituiva più un problema impellente, la liquidità disponibile per le autorità centrali era ancora molto scarsa e queste ultime dovevano ingegnarsi con vari artifizi per accrescerla, per lo meno nel breve periodo. Fu questo uno degli obiettivi del Gruppo dei 10 e in particolare, al suo interno, del “rapporto Ossola”, che evidenziò l’inadeguatezza delle riserve disponibili presso le più importanti banche centrali, in gran parte derivanti esclusivamente dai disavanzi della bilancia dei pagamenti statunitense88. Dalla tabella 4 risulta che le spese militari, gli aiuti e i prestiti e le altre transazioni imputabili alla pubblica amministrazione statunitense contribuirono a mantenere deficitaria la bilancia dei pagamenti89. Come si evince sempre dalla stessa tabella, solo la vendita di armi agli alleati europei, oltre al rimborso dei prestiti e alle esportazioni finanziate dal governo, sostenevano l’attivo, lasciando però un saldo marcatamente negativo. Tra l’altro, nelle esportazioni qui analizzate erano


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incluse quasi esclusivamente le vendite di beni capitali sponsorizzate dal governo statunitense. Infatti, le pressioni politiche contribuivano a far vincere a imprese americane diversi contratti per la vendita di beni capitali e i numerosi episodi di corruzione denunciati in quel periodo sono la prova migliore che i criteri di scelta non erano condotti sulla base dell’effettiva competitività, ma per rendersi graditi all’amministrazione americana90. Tab. 4 Disavanzo della bilancia statunitense imputabile alle operazioni governative nel periodo 1960-1970 (in milioni di dollari)

Fonte: Survey of Current Business, vari bollettini trimestrali.

L’altro grande flusso di capitali in questo periodo era rappresentato dagli investimenti esteri diretti statunitensi (tab.5), sempre in crescita nonostante le limitazioni introdotte dalle autorità statunitensi in quel periodo. Tab. 5 Investimenti esteri diretti negli Usa e flussi di capitale a lungo termine nel periodo 1960-1970 (in milioni di dollari)

Fonte: Survey of Current Business, vari bollettini trimestrali.

Come risulta dalla tabella 5, il rimpatrio dei profitti accumulati all’estero dalle multinazionali aveva un valore mediamente doppio rispetto a quello della fuoriuscita di capitali per investimenti esteri diretti e, quindi, ogni intervento finalizzato alla riduzione di tali investimenti avrebbe finito per inaridire anche i flus-


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si di profitti che rientravano nel Paese, la maggior parte dei quali era legata all’industria petrolifera. Senza contare la quota di esportazioni statunitensi indotte dagli stessi investimenti. I flussi in uscita dei capitali a lungo termine erano giustificati dalla ricerca di una remunerazione più elevata per questi investimenti di portafoglio, mentre il massiccio afflusso di capitali dall’Europa e dal Giappone trovava la sua giustificazione nella paura degli investitori europei e giapponesi circa una possibile degenerazione della guerra fredda con l’Unione Sovietica: essi erano disposti ad accettare una minore remunerazione pur di garantirsi la sicurezza degli investimenti oltreoceano. Alla fine degli anni Sessanta divennero sempre più evidenti le carenze di un sistema finanziario internazionale che per procurarsi i mezzi liquidi necessari doveva fare quasi esclusivo affidamento sugli squilibri della bilancia dei pagamenti statunitense: era chiaro che una situazione del genere avrebbe finito per deteriorarsi e per manifestare tutte le sue contraddizioni più profonde, che non a caso esplosero nel decennio successivo.


Capitolo terzo

Dalla crisi del sistema di Bretton Woods al trionfo dei princìpi monetaristi

3.1 La crisi degli anni Settanta e il flusso di capitali verso il Terzo Mondo La grave crisi che interessò, nel corso degli anni Settanta, il sistema economico mondiale incise profondamente anche sull’andamento dei flussi finanziari internazionali. Si trattava di una crisi imputabile essenzialmente a cause di natura esogena, anche se i teorici di formazione neoclassica vollero leggerla come il fallimento finale di tre decenni trascorsi nel rispetto dei princìpi keynesiani. Il decennio si aprì con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, nell’agosto del 1971, cui seguì, tre mesi più tardi, la sua svalutazione91 e il passaggio da un sistema di cambi fissi, imposto dagli accordi di Bretton Woods, a uno fondato su cambi flessibili92. Questo indebolimento della moneta sino ad allora al centro di tutte le transazioni commerciali e finanziarie mondiali indusse dapprima i produttori di petrolio e poi anche quelli di tutte le altre materie prime ad accrescerne il prezzo di vendita in dollari, al fine di compensare la perdita di potere d’acquisto della moneta con la quale erano pagati. Di fatto, però, l’adeguamento dei prezzi finì per eccedere di gran lunga la svalutazione del dollaro, che fu soltanto del 10%93, mentre nel caso del petrolio i prezzi originali vennero moltiplicati fino a venti volte94. Contemporaneamente la contrazione dei consumi a livello mondiale, generata dalla recessione, mise in crisi anche i vecchi sistemi di produzione di massa, definiti fordisti, che facevano affidamento esclusivamente su automatismi di tipo meccanico, propri del sistema di produzione fordista95. Questo creò seri problemi per tutte quelle imprese che producevano beni d’investimento, ancora legate alle vecchie tecnologie meccaniche. Solo le imprese che si dotarono tempestivamente delle nuove tecnologie elettroniche riuscirono a superare brillantemente la crisi. Per le altre iniziò, invece, un lento e irreversibile processo di decadenza. Questo, in sintesi, il quadro molto riassuntivo di quanto accadde in quel decennio di grave recessione ed elevata inflazione, tanto che venne coniato – per descrivere quella tipica situazione – il termine di stagflazione96, intesa come situazione di ristagno economico in presenza di un’elevata inflazione: le due realtà non erano in contraddizione tra loro, dato che l’inflazione era esclusivamente generata da fenomeni esterni, cioè dall’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime. Era, dunque, compatibile la presenza di una realtà di crisi, che avrebbe dovuto comportare una riduzione dei prezzi, con un’elevata inflazione generata esclusivamente dal notevolissimo aumento dei costi.


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Il rallentamento del ciclo in Occidente e il ristagno delle vendite di beni capitali nei Paesi più sviluppati indussero le grandi banche transnazionali statunitensi a sostenere progetti di industrializzazione nel Terzo Mondo: veniva così finanziato, in dollari, l’acquisto di macchinari o di impianti a costi relativamente contenuti. A offrire queste tecnologie erano le imprese produttrici di beni capitali statunitensi, piegate dalla recessione, con il supporto finanziario delle banche transnazionali che si impegnavano a monitorare la gestione aziendale di quegli investimenti97. Tale scelta comportò il trasferimento ai Paesi in via di sviluppo di capitali denominati in dollari, con questa specifica destinazione d’uso – l’acquisto da parte loro di impianti industriali. Vogliamo evidenziare questo dato per smentire certe scorrette illazioni che furono fatte successivamente, circa un uso poco economico delle risorse ricevute: le somme concesse in prestito ai Paesi del Terzo Mondo, che – a distanza di un decennio – furono coinvolti dallo scoppio della crisi debitoria, non furono sprecate nell’acquisto di beni superflui o di lusso, ma vennero usate per l’acquisto di beni strumentali e per finanziare progetti di industrializzazione. A invogliare verso questa scelta c’erano due elementi estremamente favorevoli: la debolezza del dollaro a partire dal 1971 e i bassi tassi d’interesse gravanti su tali prestiti98. Le politiche monetarie perseguite dalle autorità dei principali Paesi più industrializzati erano, infatti, ancora ispirate ai princìpi della “via finanziaria allo sviluppo”, che imponevano come scelta prioritaria il rigido controllo sulla definizione del costo del denaro, proprio al fine di stimolare i processi di crescita e di non gravare, in modo eccessivo, sugli investimenti produttivi99. D’altra parte, le grandi banche transnazionali disponevano di una liquidità eccedentaria, generata da elevati flussi finanziari in entrata: si trattava delle enormi disponibilità dei Paesi produttori di petrolio, a seguito dell’elevatissimo aumento del suo prezzo, che si posizionavano presso queste grandi banche statunitensi. Si era di fronte al noto fenomeno del riciclaggio dei petrodollari, generato a seguito del vistoso aumento delle entrate dei prodotti energetici100. Accadeva, così, un fenomeno paradossale: l’economia mondiale era in crisi a causa dell’aumento spropositato dei prezzi delle materie prime e ciò riduceva drasticamente le occasioni d’investimento, accrescendo – a sua volta – le giacenze liquide presso le grandi banche private dei Paesi più ricchi. Le notevoli risorse drenate ai Paesi sviluppati per il pagamento dei rifornimenti petroliferi e delle materie prime dovevano trovare una loro collocazione remunerativa: la scelta cadde, da un lato, sull’oro, che ancora ricopriva un ruolo di mezzo di pagamento internazionale e le cui quotazioni salirono rapidamente da 35 (il vecchio prezzo fissato dopo la crisi del ’29) fino a 875 dollari per oncia101; dall’altra sul trasferimento di tali somme su conti correnti presso le banche più importanti del mondo, principalmente statunitensi, le quali, tuttavia, in assenza di impieghi adeguati o le trattennero in forma liquida o le prestarono per finanziare l’industrializzazione dei Paesi del Terzo Mondo. Questa grande liquidità, in parte inutilizzata, contribuì in quegli anni a mantenere bassi sia i


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livelli dei tassi d’interesse, sia le quotazioni del dollaro, che finirono per uniformarsi a livello mondiale, grazie alla crescente liberalizzazione dei movimenti di capitale102. La debolezza del dollaro, tuttavia, suscitò la speranza, presso alcune autorità di governo di altri Paesi sviluppati, di poterlo scalzare dal ruolo di moneta chiave per la maggior parte delle transazioni reali e finanziarie del mondo. In corsa per raccoglierne l’eredità c’era in primo luogo la sterlina, che non aveva mai accettato di essere stata estromessa dal proprio ruolo egemone all’inizio degli anni Trenta103: la City di Londra si era sempre proposta come principale piazza finanziaria mondiale e a questo obiettivo le autorità britanniche avevano sempre sacrificato le scelte più favorevoli al sistema industriale del Paese, anche a costo di indurre a gravi sacrifici soprattutto le classi lavoratrici. Questa politica comportava un afflusso di capitali da tutto il mondo alla ricerca di investimenti remunerativi: una scelta che non significava però necessariamente un consolidamento della sterlina come moneta al centro del sistema monetario mondiale104. Paradossalmente gli operatori erano spaventati dalle quotazioni troppo sovrastimate del cambio della sterlina, frutto di accorti interventi di politica monetaria da parte delle autorità, oltre che dall’inadeguatezza del suo sistema bancario a fronteggiare le esigenze finanziarie di tutto il mondo: si trattava di banche troppo specializzate a gestire i portafogli degli investitori e la loro liquidità eccedente, ma meno pronte a sostenere finanziariamente progetti che comportassero un elevato impiego di capitali in giro per il mondo. Era questa carenza che impediva di sostenere in misura adeguata il ruolo centrale della sterlina105. Vista l’impossibilità di rilanciare il disegno imperiale per la moneta britannica, non rimanevano che altri due Paesi ad aspirare a gestire posizioni egemoniche a livello mondiale: la Germania e il Giappone106. Questi due Paesi, pur distanti geograficamente, presentavano notevoli analogie che li rendevano abbastanza simili tra loro. Ambedue rifiutavano un’immagine del capitalismo senza regole e individualista, centrato sul dominio incondizionato dei liberi mercati. In entrambi i casi veniva privilegiato, invece, il modello definito renano, che pretendeva di regolamentare i mercati, al fine di evitare i sistematici fallimenti degli stessi107; le decisioni venivano prese non in termini individualistici, ma come risultato della contrattazione sociale, che coinvolgeva tutte le forze e i soggetti interessati; il sistema bancario, infine, non poteva muoversi alla ricerca dei propri profitti in contrasto con gli interessi del sistema industriale, ma doveva continuare a svolgere il suo compito di servizio a sostegno delle attività produttive. Questi, in estrema sintesi, i princìpi a cui si ispirava il capitalismo regolamentato di Germania e Giappone, e già questa impostazione ideologica insospettiva tutti i sostenitori del modello liberistico radicale circa un eventuale utilizzo, a livello mondiale, delle loro rispettive monete. Esisteva, tuttavia, un altro elemento che rendeva praticamente impossibile la centralità di marco e yen: i due Paesi che emettevano queste monete pre-


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sentavano sistematicamente elevati surplus nelle loro bilance dei pagamenti. Questo faceva sì che i marchi e gli yen a disposizione sulle piazze valutarie mondiali fossero molto scarsi rispetto alle effettive esigenze dei mercati. Si riproponeva, per questi due Paesi, l’impossibilità a ricoprire un ruolo egemone su piano valutario a causa del paradosso di Triffin: secondo questo grande economista, non è pensabile che la moneta di un Paese possa ricoprire un ruolo centrale all’interno del sistema monetario internazionale se la sua bilancia dei pagamenti è sistematicamente in surplus108. Un attivo della bilancia significa che un Paese accumula riserve valutarie, ma non mette a sua volta a disposizione dell’economia mondiale la liquidità necessaria, espressa nella propria moneta. Gli Stati Uniti, invece, nonostante la debolezza intrinseca del dollaro, rispondevano in maniera egregia alla condizione imposta dal paradosso di Triffin, dato che a fronte di un surplus della bilancia commerciale – che stava a testimoniare la loro superiorità su piano commerciale, con l’affermarsi dei loro prodotti nella competizione mondiale – presentavano un forte disavanzo della loro bilancia dei pagamenti non per intrinseca debolezza, ma per le enormi spese rappresentate da basi militari ubicate all’estero, da operazioni di intelligence in varie parti del mondo e dal sostegno finanziario a governi giudicati amici che si impegnavano nella lotta contro il comunismo. Si trattava, dunque, di un deficit, che era però espressione del ruolo di dominio mondiale svolto dalla potenza statunitense109. Accadde così che, proprio nel decennio di oggettiva debolezza del dollaro, a causa della sua cessata convertibilità in oro e della sua svalutazione, esso si affermava a causa della sua presenza, quantitativamente molto rilevante, su tutte le piazze del mondo: era debole – è vero – ma era l’unica moneta supportata da un sistema bancario in grado di finanziare le operazioni di ammontare molto elevato che si presentavano a livello mondiale. Fu così che la fine del sistema di Bretton Woods e il passaggio a un sistema di cambi flessibili rafforzarono la posizione del dollaro110. Le autorità monetarie statunitensi, avvalendosi del diritto di signoraggio, conseguirono una libertà assoluta nella creazione della moneta mondiale, iniziando a stampare dollari in abbondanza111, con i quali acquistarono tutte le risorse di cui necessitavano. Marco e yen, se si esclude un discreto successo sul piano delle emissioni obbligazionarie (tab. 6), dovettero rinunciare ai loro piani egemonici anche perché, in particolare le autorità tedesche, invece di costruire intorno alla loro moneta un consenso europeo sempre più ampio, lavorarono attivamente per ridurre drasticamente l’area del marco, non perdendo occasione per escludere dalla stessa Paesi importanti come la Gran Bretagna, l’Italia o la Francia. Affermatasi l’area del marco solo a livello molto locale, con Paesi come l’Olanda e la Danimarca, era chiaro che la valuta tedesca non poteva ambire a un ruolo di dominio egemonico sul mondo112.


Tab. 6 Valute di emissione delle obbligazioni nel periodo della grande debolezza del dollaro, 1973-78 (in milioni di dollari)

Fonte: Morgan Guarantee Trust Co., World Financial Markets.

Pur distrutto nella sua credibilità, il dollaro si ripropose negli anni Settanta al centro del sistema monetario internazionale grazie alla forza dei suoi numeri: praticamente erano solo dollari quelli che circolavano nelle principali piazze valutarie del mondo e qualsiasi operazione di una certa rilevanza non poteva prescindere dal loro impiego. Il marco uscì così sonoramente sconfitto da questa lotta per il dominio dei mercati valutari a causa della scarsa avvedutezza della politica perseguita dalle sue autorità, che non riuscirono ad affermarne la supremazia, nonostante la sua forza intrinseca113. Era ancora una volta l’incapacità delle autorità tedesche a gestire i rapporti con i propri partner europei che condannava il marco a restare una valuta marginale rispetto al sistema monetario internazionale: esse erano erroneamente convinte che sarebbe stato sufficiente indebolire i rivali per affermare la propria centralità. In realtà, una politica corretta non avrebbe dovuto creare timori intorno alla moneta tedesca, che in quel modo finiva invece per rendere la vita difficile alla maggior parte degli altri Paesi europei114: l’unico risultato che per la Germania possiamo definire positivo fu rappresentato dal fatto che la prova di forza voluta dalle autorità tedesche contro i concorrenti europei finì per disincentivare gli investimenti esteri diretti, che provenivano da Stati Uniti e resto del mondo, dal collocarsi in Paesi, come l’Italia, dei quali era stata evidenziata la debolezza su piano valutario. 3.2 La forte svalutazione della lira e la fuga dei capitali dal nostro Paese Non fu, però, solo colpa delle autorità tedesche la grande debolezza della lira italiana nel corso degli anni Settanta. Esistevano, oggettivamente, elementi di debolezza che affliggevano la nostra moneta e ne indebolivano il cambio: tuttavia, a dare man forte alle autorità tedesche nell’evidenziare il divario crescente tra marco e lira, intervennero anche le autorità italiane che – assecondando le pres-


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sioni provenienti dalla grande industria – perseguirono una politica di artificiosa svalutazione della lira115. Si trattò – a mio vedere – di uno dei periodi più squallidi della storia economica dell’Italia, coperto ancora oggi da una omertà preoccupante: di quegli eventi non esiste alcuna traccia ufficiale in nessuno dei documenti che sono stati trasmessi alla storia. Si è trattato di una operazione complessa, portata avanti con la complicità della Banca d’Italia e di alcuni dei suoi governatori, che cercheremo di descrivere in modo semplificato, nonostante la complessità della situazione. Tale breve parentesi è giustificata, nel contesto di questo saggio, dal fatto che ha condizionato pesantemente l’andamento dei flussi finanziari da e per il nostro Paese. Prima di descrivere l’operazione in questione, occorre fare alcune precisazioni: innanzi tutto occorre sottolineare come la lira non fosse una delle valute più forti su piano internazionale e presentasse, anzi, elementi oggettivi di debolezza. Tuttavia, tra questo dato di fatto e la realtà che ne seguì – nell’arco di due decenni – e che fece registrare una perdita di valore della lira che oscillava intorno a dieci volte rispetto al marco, non esiste alcun legame giustificabile in termini economici. Anche perché, ed è questa la seconda osservazione che desideriamo fare, le quotazioni dei cambi si registrano sui mercati valutari, dove vengono raccolte tutte le offerte e le domande della moneta in questione: ora la lira, per sua fortuna o sfortuna, non è una delle monete abbondantemente presenti su queste piazze e, quindi, una sua forte svalutazione è possibile conseguirla solo se – con una operazione ben guidata – si riesca a fare affluire artificiosamente su quei mercati una massa di lire in misura molto più elevata rispetto a quella che affluirebbe spontaneamente, come risultato di operazioni di import-export o di natura finanziaria. Il trucchetto che veniva utilizzato per conseguire questo obiettivo, grazie alla complicità delle autorità del tempo, era molto semplice, anche se – per realizzarlo – implicava il ricorso a un grave illecito. L’intera operazione si configurava nel modo seguente: le banche italiane cedevano a potenti banche straniere non le riserve eccedenti di loro proprietà (tale operazione sarebbe stata, infatti, di loro diritto, anche se eticamente riprovevole), ma parte delle lire presenti nei depositi dei loro clienti. Queste enormi somme in lire, rappresentate proprio dai depositi dei risparmiatori, venivano cedute per un brevissimo arco di tempo alle grandi banche transnazionali, le quali – una volta avutane la disponibilità – le offrivano sulle principali piazze valutarie mondiali. La lira, in seguito a queste enormi vendite, perdeva di valore e questo induceva molti altri operatori che avevano disponibilità in lire, a cederle, alimentando la spinta alla svalutazione116: a fine seduta le grandi banche che in inizio di giornata avevano dato avvio alle vendite di lire, incassando dollari o altre monete pregiate, a fine giornata utilizzavano queste valute pregiate, incassate alla mattina, per riacquistare lo stesso ammontare di lire che avevano ceduto all’inizio di seduta, sborsando, tuttavia, una somma molto inferiore, a causa della svalutazione della lira nel frattempo intercorsa. Una volta riacquistate le li-


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re, esse le riconsegnavano alle banche italiane che, qualche ora prima, avevano messo a loro disposizione quelle ingenti somme. Tale operazione a brevissimo termine, di cessione di lire e di relativo riacquisto, è chiamata tecnicamente swap e veniva ripetuta praticamente tutti i giorni operativi sulle principali piazze valutarie mondiali117. In che cosa consisteva l’enorme guadagno tratto da queste operazioni? Nella differenza di quotazioni alle quali venivano vendute le lire alla mattina e quelle alle quali venivano riacquistate le stesse lire al pomeriggio: alla mattina la lira aveva ancora una quotazione elevata e, quindi, si otteneva dalla sua vendita una certa somma di dollari o di marchi, mentre al pomeriggio la lira aveva perduto di valore e lo stesso ammontare di lire poteva essere riacquistato con una somma in dollari o marchi decisamente inferiore rispetto a quella incassata alla mattina. I dollari e i marchi che rimanevano nelle mani degli speculatori venivano poi equamente divisi tra banche straniere e banche italiane. L’illiceità di questa operazione – al di là di considerazioni di tipo etico, circa la legittimità di giocare contro la valuta del proprio Paese – consisteva nel fatto che depositi di ignari risparmiatori venissero usati temporaneamente per far perdere di valore proprio a quelle lire in cui i depositi stessi erano espressi. Questo racconto potrebbe essere giudicato come la descrizione di un brutto sogno, dato che non esiste alcun documento in proposito e nessun economista di destra o di sinistra, a eccezione del sottoscritto, ha avuto il coraggio di denunciare un simile imbroglio. L’unico elemento che ci consente di far luce su questa squallida vicenda è rappresentato da un brutto episodio che ha coinvolto il governatore della Banca d’Italia del tempo, il professor Paolo Baffi118. Quando Guido Carli, il predecessore di Baffi, lasciò la Banca d’Italia senza più alcuna riserva in cassa – con la lira che era stata oggetto di pesanti attacchi speculativi del tipo di quelli descritti e che si era, quindi, svalutata a tassi molto simili a quelli che colpiscono le valute dei Paesi dell’America Latina – il suo successore, proprio Paolo Baffi, ebbe il coraggio di prendere un provvedimento molto semplice, ma oltremodo efficace, per bloccare quel pericoloso gioco di artificiosa svalutazione della nostra moneta, quello cioè di proibire le operazioni swap contro di essa, di durata inferiore ai sette giorni119. Si trattò di un provvedimento che bloccò esclusivamente quelle operazioni illecite sopra descritte, che così gravi danni avevano arrecato al nostro Paese. Una volta introdotto questo provvedimento, la speculazione al ribasso contro la lira cessò da un giorno all’altro e con essa si ridusse drasticamente anche l’inflazione, senza bisogno di ricorrere a provvedimenti restrittivi, particolarmente dannosi per i singoli cittadini. Questo consentì alla Banca d’Italia di abbassare anche i tassi d’interesse, che avevano superato la soglia del 20%, pregiudicando la crescita dell’economia del nostro Paese. L’intervento del governatore Baffi si rivelò risolutivo nei confronti dei problemi che affliggevano l’Italia ormai da un quinquennio, legati alle continue svalutazioni del cambio della lira e alla conseguente inflazione. Fu, però, a que-


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sto punto che emerse tutta l’ipocrisia delle nostre autorità, che dicevano – pur sapendo di mentire – di avere come obiettivo prioritario la lotta contro i due flagelli appena ricordati, la svalutazione della lira e la conseguente inflazione120. I successi conseguiti da quell’intervento risolutivo, e cioè il blocco delle operazioni swap a breve termine che alimentavano, in modo artificioso e irrealistico, svalutazione e inflazione, non piacque, tuttavia, ai grandi potentati industriali che dominavano il nostro Paese e continuavano – tra l’altro – a lucrare attraverso il gioco delle sovrafatturazioni delle importazioni e delle sottofatturazioni delle esportazioni121. Una “provvidenziale” comunicazione giudiziaria tolse di scena il governatore, mentre un mandato di arresto eliminò anche il direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Il successore di Paolo Baffi (che morì di dolore qualche anno più tardi) si affrettò a ripristinare il provvedimento che consentiva alle banche di accrescere di diversi multipli le spinte svalutative contro la lira, provocate dall’uso illegittimo dei depositi dei loro clienti per speculare ai danni della nostra moneta. Tale artifizio venne utilizzato sino al 1992, nel corso dell’ultimo attacco speculativo contro la nostra moneta, che costrinse il ministro del Tesoro del tempo, Carlo Azeglio Ciampi, a bruciare inutilmente per difendere la lira l’equivalente di 75.000 miliardi di riserve (espresse in lire). La storia ci insegna che sarebbe bastato un provvedimento che avesse proibito gli interventi speculativi swap, a brevissimo termine, contro la nostra moneta, per bloccare la speculazione e salvare le riserve. Ci siamo soffermati su questo evento, in primo luogo per spezzare l’omertà che lo circonda e per riabilitare la grande figura di Paolo Baffi, che ebbe il coraggio – come già qualche anno prima il ministro del Commercio estero Rinaldo Ossola – di scontrarsi contro gli interessi lobbistici di certi gruppi industriali, che sulla debolezza della lira avevano costruito i loro profitti e soprattutto la loro politica di multinazionalizzazione. Rinaldo Ossola, in particolare, aveva “commesso l’errore” – che lo portò ad essere rapidamente sostituito all’interno dell’esecutivo – di risanare, contro ogni più rosea previsione, i conti della nostra bilancia commerciale, riportata in pareggio proprio negli anni dell’enorme aumento del prezzo del petrolio: questo suo impegno, che avrebbe dovuto essere molto apprezzato, consistette nel recarsi personalmente a trattare con i Paesi produttori di petrolio una serie di impegni da parte di questi ultimi per importazioni di manufatti e beni capitali prodotti dal nostro Paese, al fine di compensare i crescenti disavanzi dovuti agli elevati costi energetici122. Questo suo encomiabile comportamento divenne, invece, un grave punto di demerito in questo Paese dominato da un’imprenditoria medio-alta che cercava la competitività dei propri prodotti soltanto attraverso la svalutazione. Uscirono così di scena due personaggi che avrebbero potuto contribuire egregiamente a riscrivere le pagine peggiori della storia economica del nostro Paese e che avevano avuto l’unico torto di cercare di difendere il cambio della lira contro gli interessi lobbistici di certa grande imprenditoria italiana e, con esso, la credibilità dell’intero Paese.


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La forte debolezza della lira contribuì, invece, ad alimentare una massiccia fuga di capitali verso l’estero123 e a bloccare eventuali investimenti stranieri, a causa del clima di sfiducia che si era venuto a creare, internazionalmente, nei confronti del nostro Paese. I capitali che lasciarono l’Italia in quegli anni Settanta si indirizzarono soprattutto verso la Svizzera, le cui autorità, preoccupate da un afflusso di denaro di dimensioni molto elevate, corsero immediatamente ai ripari, proibendo l’acquisto di immobili su tutto il territorio nazionale a cittadini stranieri e obbligando le proprie banche a far pagare una sorta d’imposta penalizzante e proporzionale ai capitali versati, a tutti gli stranieri che decidevano di aprire un conto corrente nel Paese124. L’afflusso di capitali, tuttavia, non venne disincentivato e proseguì inarrestabile. Negli anni Ottanta si differenziarono le destinazioni finali di questi capitali, che si indirizzarono anche verso l’Austria, il Lussemburgo e la Gran Bretagna. C’è molta confusione sull’ammontare totale dei capitali fuoriusciti nel corso degli ultimi decenni dall’Italia e il recente provvedimento definito “scudo fiscale”, che incentiva i rientri, non ha affatto contribuito a far luce in proposito: sono rientrati solo il 10% circa dei capitali usciti a suo tempo e che – in base a una affermazione non ufficiale delle autorità monetarie, peraltro mai smentita – avrebbero dovuto essere, in termini relativi, vicini a un ammontare di circa due volte il valore del prodotto interno lordo annuo del nostro Paese. A mano a mano che il Pil cresceva si rivalutava anche la massa di capitali esportati. Questa fuoriuscita si tradusse, tuttavia, in un forte rallentamento della crescita del nostro Paese, tanto più grave se si fa riferimento al clima già di per sé molto depresso dell’economia mondiale, che caratterizzò tutto il decennio125. Un’ultima osservazione va fatta sulla politica del governo per contrastare, almeno a parole, le fughe dei capitali: diciamo “a parole”, perché nei fatti le autorità di governo videro sempre di buon occhio – al di là delle dichiarazioni ufficiali e retoriche – tutto ciò che contribuiva a indebolire la lira126. Vennero comminate pene severissime a chi esportava capitali, che quasi sempre finivano per colpire marginalmente solo coloro che trasferivano lire all’estero servendosi di mezzi primitivi, come il bagagliaio delle proprie autovetture: contro costoro ci furono alcuni processi plateali, nonostante l’esiguità degli ammontari esportati. Coloro, invece, che esportavano i capitali attraverso operazioni bancarie e che sfruttavano i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie informatiche, che iniziavano ad essere sperimentate, non erano oggetto di alcuna indagine giudiziaria e potevano esportare incontrastati i loro capitali. Era paradossale che lo Stato perseguisse quei risparmiatori che cercavano di tutelare i loro risparmi dalla loro erosione sistematica, condotta attraverso le illecite operazioni di swap che abbiamo descritto e che venivano effettuate con il consenso implicito di Banca d’Italia e del governo, mentre nulla veniva fatto in sede governativa per fermare quello scempio. Naturalmente questo tipo di politica, perseguita in quegli anni, danneggiò anche da un altro punto di vista il Paese, dato che disincentivò – come già si diceva in precedenza – gli investimenti esteri nel nostro territorio, tanto che l’Italia è rimasta ad uno degli ultimi posti in Europa relativamente all’afflusso di capitali stranieri, anche dopo l’en-


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trata nell’euro127. È superfluo ricordare che a mantenere alta la diffidenza verso il nostro Paese hanno contribuito, anche di recente, scandali come quelli della Cirio e della Parmalat, per cui – a differenza di tutti gli altri Paesi europei – la nostra economia non ha mai potuto beneficiare di un apporto consistente di capitali provenienti dall’estero. 3.3 La svolta monetarista alla fine degli anni Settanta e l’inversione dei flussi di capitale verso i Paesi in via di sviluppo dopo la crisi debitoria Gli anni Settanta stavano volgendo al termine con il loro carico di effetti negativi sull’economia mondiale, quando una serie di eventi finì per peggiorare ulteriormente il quadro macroeconomico. Le pesanti conseguenze della crisi petrolifera e dell’inflazione elevatissima che ne conseguì avevano fatto crollare ai minimi la fiducia dei consumatori, mentre la fine del sistema fordista di produzione128 – fondato su automatismi meccanici – e la sua sostituzione con sistemi di automazione elettronica, aveva contribuito ad accrescere, in quasi tutti i Paesi del mondo, la disoccupazione. Anche i mercati finanziari risentirono di quel clima: basti pensare che l’indice Dow Jones della Borsa statunitense, che nel 1960 aveva raggiunto quota 1000, alla fine degli anni Settanta era sceso a quota 800, tanto da indurre gli investitori a impiegare il loro denaro acquistando obbligazioni, per godere dei pur modesti tassi d’interesse. Questo diffuso malessere contribuì a sfiduciare, da parte dell’elettorato, le coalizioni progressiste al potere nei più importanti Paesi del mondo: laburisti in Gran Bretagna, democratici negli Stati Uniti e socialisti in Germania. I loro successori (conservatori in Gran Bretagna, repubblicani negli Stati Uniti e cristiano-democratici in Germania) si ispirarono, invece, ai princìpi del liberismo più radicale e imputarono tutti i guai del decennio appena concluso alle politiche keynesiane adottate dai loro predecessori a sostegno del ciclo economico, della domanda globale e del sistema welfaristico e redistributivo della ricchezza, a tutela delle classi più deboli129. Nel frattempo, quasi in concomitanza con la svolta elettorale in Gran Bretagna che portò alla nomina di Margaret Thatcher a primo ministro, negli Stati Uniti l’amministrazione democratica guidata dal presidente Jimmy Carter (poi dimostratosi anche recentemente un convinto assertore della pace e della democrazia), nominò inspiegabilmente a capo del Federal Reserve System, e cioè della Banca centrale statunitense, un conservatore fondamentalista come Paul Volcker130, che aveva fatto proprio il credo monetarista predicato da Milton Friedman e dalla Scuola di Chicago131: questa nomina, risultante probabilmente da pesanti pressioni sull’amministrazione democratica, giustificate dal rischio di un collasso delle quotazioni del dollaro e di una elevatissima inflazione, condizionò in misura gravemente negativa l’economia del tempo e generò una totale inversione dei flussi di capitali a livello internazionale. I princìpi estremistici ai quali s’ispirò il nuovo responsabile del Fed erano quelli classici del monetarismo: tenere sotto controllo da parte delle autorità centrali la quantità di moneta e lasciar definire i tassi d’interesse dalle leggi del mer-


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cato132. Questo significò una svolta radicale rispetto ai princìpi che avevano caratterizzato i tre decenni postbellici e che erano, invece, fondati su politiche di controllo dei tassi d’interesse, affinché il livello di questi ultimi non pregiudicasse, nei primi anni del secondo dopoguerra, la ricostruzione e, in seguito, le politiche di sviluppo133: in quei tre decenni la preoccupazione delle autorità era rivolta a creare le condizioni per “una via finanziaria allo sviluppo”, dove il basso livello del costo del denaro avrebbe facilitato gli investimenti e la crescita. La svolta monetarista si tradusse, invece, in una stretta monetaria molto rigida – finalizzata a combattere l’inflazione – che spinse i tassi d’interesse, ormai definiti soltanto dalle regole del mercato, a livelli elevatissimi134. Questa eccezionale remunerazione delle attività finanziarie, soprattutto quelle espresse in dollari, a cominciare dai titoli di Stato, attrasse una massa enorme di capitali dall’Europa e dal Giappone verso gli Stati Uniti, che contribuirono a rivalutare molto rapidamente il cambio del dollaro: quest’ultimo finì per abbandonare le basse quotazioni fatte registrare negli anni Settanta e per ricuperare terreno nei confronti delle principali valute. Rispetto alla lira italiana il dollaro si rivalutò di quasi cinque volte, passando da un cambio di 560 lire per dollaro a uno che sfiorò le 2500 lire. Anche nei confronti delle più solide valute del mondo il dollaro si rivalutò seppur di percentuali più contenute rispetto a quelle della lira, mentre nei confronti delle valute più deboli del mondo il ricupero fu superiore alle 10-20 volte. Questa strategia allontanò definitivamente lo spettro di un collasso del dollaro, ormai sostenuto da un massiccio afflusso di capitali stranieri: questa rivalutazione eccessiva, però, generò un indebolimento irreversibile della competitività internazionale delle produzioni statunitensi135. Nel corso degli anni Ottanta si registrò, dunque, un’inversione dei flussi finanziari internazionali: le piazze statunitensi cominciarono nuovamente ad attrarre capitali in misura crescente. La dimensione di tale fenomeno fu estremamente elevata, dato che gli alti tassi d’interesse indussero molti soggetti in varie parti del mondo a rinunciare ad attività reali e produttive per abbracciare quella che John Maynard Keynes aveva definito «l’odiosa professione del rentier», cioè di colui che viveva di rendita garantita da investimenti esclusivamente finanziari136. Tali flussi in entrata di capitali proseguirono anche quando gli alti tassi d’interesse statunitensi contribuirono a creare la gravissima recessione dei primi tre anni dell’amministrazione Reagan, agli inizi degli anni Ottanta, mentre l’elevata rivalutazione del dollaro compromise le esportazioni e finì per invertire il trend della bilancia commerciale degli Stati Uniti che – a partire da quegli anni – registrò sistematici disavanzi sempre più vistosi, che non rispondevano ad alcun intervento di tipo correttivo. Nel frattempo, gli Stati Uniti, grazie agli effetti perversi della politica monetarista, da Paese creditore del mondo divennero il Paese più indebitato verso l’estero. Fortunatamente per gli Stati Uniti questi debiti crescenti furono coperti con la vendita di titoli come i Federal Funds, che vennero accettati soprattutto dalle autorità giapponesi. Questa situazione debitoria attivò inoltre un’altra serie di flussi finanziari che comportarono la fuoriuscita dagli Stati Uniti delle


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somme corrispondenti al pagamento degli interessi sui capitali presi a prestito: questi flussi contrari rispetto a quelli in cerca di investimenti profittevoli finirono per attenuare l’impatto di questi ultimi e, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, questo contribuì a rendere meno pesanti le pressioni sul dollaro, indebolendone di conseguenza il valore rispetto ai massimi raggiunti nel 1985. Non furono però solo gli Stati Uniti a peggiorare i loro conti e, quindi, la loro posizione debitoria, a seguito delle politiche monetariste perseguite: tutti i Paesi che presentavano una posizione iniziale debitoria videro peggiorare la stessa, a causa degli alti tassi d’interesse generati in seguito a quelle politiche, che finirono per deteriorare quella che fu chiamata la componente finanziaria del debito137. Ad aggravare la situazione contribuì anche il principio, sempre di ispirazione monetarista, in base al quale i vari governi non avrebbero più dovuto essere aiutati dalle rispettive banche centrali a finanziare il debito pubblico: si parlò in quell’occasione di “divorzio” tra banche centrali e tesorerie dei vari governi. Queste ultime, cioè, per finanziarsi avrebbero dovuto ricorrere direttamente ai mercati senza più alcuna assistenza da parte della banca centrale e questo contribuì ad accrescere enormemente i costi di finanziamento del debito138. Anche nei confronti dell’esplosione della crisi debitoria dei Paesi in via di sviluppo, nel 1982, è ormai chiaro che all’origine della stessa – al di là di casi isolati dovuti al cattivo uso delle risorse ricevute in prestito da parte degli operatori privati o delle autorità locali – ci furono le responsabilità delle politiche economiche ispirate al monetarismo139. La posizione debitoria di molti di questi Paesi aveva avuto origine – come si è ricordato più sopra – nel corso degli anni Settanta, quando le condizioni offerte loro per indebitarsi erano estremamente favorevoli: in quegli anni, infatti, la crisi dei Paesi industrializzati indusse le grandi banche a cercare nuovi mercati nel Terzo Mondo. Questa esigenza coincise, tra l’altro, con la concomitante crisi delle vendite dei produttori di beni capitali – anch’essi in difficoltà per la crisi – e tutto ciò favorì l’accettazione della proposta fatta a molti Paesi del Terzo Mondo di acquistare impianti produttivi, finanziati a ottime condizioni, con dollaro debole e bassi tassi d’interesse, da parte di banche private americane. Cinque o sei anni più tardi, però, al momento della restituzione del debito, la crescita molto elevata degli oneri del cosiddetto servizio – come risultato delle politiche monetariste, che contribuirono all’aumento elevatissimo dei tassi d’interesse e alla rivalutazione incontrollata del dollaro (valuta nella quale i Paesi in via di sviluppo si erano indebitati) – posero questi Paesi nella impossibilità di far fronte ai loro impegni: la maggior parte delle loro entrate, a seguito del pagamento delle loro esportazioni, non era infatti in dollari, bensì in valute di altri Stati anche sviluppati che, tuttavia, non si erano rivalutate come la moneta statunitense. Per cui, nonostante questi Paesi avessero cercato di rispettare per lo meno in parte il loro impegno, accadde che le somme trasferite erano assolutamente insufficienti a pagare il servizio del debito in dollari. Eppure si trattava, in ogni caso, di somme molto elevate, che fecero invertire la direzione dei capitali tra Paesi ricchi e Paesi indebitati a favore dei primi, in particolare gli Stati Uniti, che


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si trasformarono da offerenti di capitali in percettori degli stessi. Una massa enorme di capitali, sottoforma di pagamento del servizio del debito, lasciò i Paesi più poveri per trasferirsi verso le banche private o le tesorerie dei Paesi più ricchi. Di fronte a questi avvenimenti c’è da chiedersi se sia lecito che i mercati finanziari godano di una libertà assoluta, quando il suo uso finisce per creare dei veri e propri disastri di cui soffrono miliardi di individui. Una seconda domanda che ci si pone è di sapere se sia giuridicamente corretto il rispetto di un contratto di indebitamento, sottoscritto a condizioni totalmente diverse rispetto a quelle vigenti nel momento della restituzione del debito140: bassi tassi d’interesse e dollaro debole al momento della sottoscrizione del contratto e interessi quintuplicati o sestuplicati e dollaro rivalutato anche rispetto alle valute più solide del mondo, al momento della restituzione. A questo proposito, il diritto internazionale sostiene che i patti vanno rispettati (pacta sunt servanda) fintantoché gli impegni assunti siano rimasti gli stessi (rebus sic stantibus), mentre nel caso del debito del Terzo Mondo ci troviamo di fronte a una radicale modificazione delle condizioni di partenza141. Ne è conseguito il dramma di Paesi le cui scarsissime risorse sono quasi totalmente state impegnate a restituire delle somme che di fatto (se fossero state espresse in termini di altre valute forti, come marco, franco svizzero o sterlina, oppure se le condizioni di partenza non fossero cambiate così drasticamente) sarebbero già state ampiamente rimborsate. Di fronte a questa immensa tragedia, che è frutto del lato più oscuro della globalizzazione, ci si è posti il problema della riconversione o della remissione del debito. In alcune proposte recenti, i governi di Paesi che beneficiano di questa remissione devono trasferire a organizzazioni non governative operanti sul loro territorio somme equivalenti – in moneta locale – alle quote rimesse, che devono poi essere utilizzate per fronteggiare le situazioni più tragiche, come la morte per fame, la carenza di medicine e vaccini, la mancanza di asili e di scuole142. Si tratta di proposte molto più avanzate rispetto a quelle suggerite dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, che sostengono solo la cancellazione per i Paesi più indebitati143. Le prime iniziative descritte rispondono, invece, all’obiettivo di attivarsi energicamente per ridurre le condizioni di povertà, secondo il progetto PRGF (poverty reduction growth facilities) e per evitare che le somme rimesse vengano utilizzate per l’acquisto di armi o per la realizzazione di altre nefandezze da parte delle autorità locali, non più oberate dalla minaccia del pagamento del debito. È scandaloso che all’alba del terzo millennio ancora un miliardo e mezzo di persone soffrano per malnutrizione e che oltre trenta milioni muoiano, ogni anno, di fame: e molte di queste tragedie vanno imputate alle risorse enormi che questi Paesi devono destinare alla restituzione di un debito (tab. 7) il cui valore iniziale è esploso per cause non imputabili ai Paesi debitori. Come si evince dalla tabella, solo fino al 1982 il saldo netto dei movimenti di capitali è stato positivo: dopo quella data il saldo è divenuto negativo e i capitali hanno cominciato a defluire.


Tab. 7 Percentuale del rapporto tra trasferimenti netti verso i Pvs e flusso lordo di risorse*

* Il segno (-) indica un deflusso netto di capitali dai Paesi in via di sviluppo. Fonte: F. Bresolin, Il debito dei Paesi in via di sviluppo: fattore di crescita o di squilibrio?, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Studi e Ricerche, Editori del Grifo, Montepulciano 1993, p. 38.

Legato a questo problema c’è anche tutto il dibattito intorno a un nuovo concetto di povertà, che finisce per identificarsi con la mancanza totale di libertà. Finora i mass media ci hanno tempestato con un’idea di libertà che coincide con l’abbattimento di qualsiasi ostacolo, in grado di condizionare le strategie delle grandi multinazionali, delle finanziarie più potenti, di speculatori privi di scrupoli. Questa incontrastata libertà dei mercati è, tra l’altro, alla base della crisi debitoria dei Paesi del Terzo Mondo. Il concetto di libertà che oggi tende invece ad affermarsi è quello che considera un individuo o un Paese libero quando ha la possibilità di decidere delle proprie scelte e non debba dipendere per la sua sopravvivenza dalle scelte di altri, soprattutto se costoro sono gli stessi che si sono arricchiti alle sue spalle, sfruttando la sua situazione di intrinseca debolezza e di impossibilità di scegliere liberamente il proprio destino144. Non è quindi possibile sottrarre a un Paese in via di sviluppo risorse finanziarie quando questa fuoriuscita di capitali finisce per compromettere la sua possibilità di scelta, lede le sue necessità vitali e, conseguentemente, compromette totalmente la sua libertà145.


Capitolo quarto

Le nuove frontiere della finanza negli anni Ottanta e Novanta

4.1 L’innovazione finanziaria e i nuovi serbatoi di approvvigionamento del risparmio In questo capitolo esaminiamo le innovazioni finanziarie introdotte negli anni Ottanta, a seguito della rivoluzione monetarista, che modificarono radicalmente le forme di reperimento dei capitali e della concessione di credito, per finanziare le imprese private e anche le pubbliche amministrazioni: proprio in quegli anni, a seguito del cambiamento degli obiettivi della politica monetaria introdotti dai monetaristi, furono registrati in tutti i Paesi più industrializzati forti deficit dei bilanci pubblici, a seguito dell’esplosione della componente finanziaria del debito, costituita dal pagamento degli interessi e delle quote di ammortamento del capitale146. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, si andarono completando quei grandiosi processi di cambiamento che hanno interessato i mercati finanziari e hanno condizionato, di conseguenza, anche la direzione internazionale dei trasferimenti delle disponibilità liquide mondiali. Quello più macroscopico consistette nella sostanziale modificazione di sistemi caratterizzati, sia pur in misura diversa tra loro, dall’intermediazione bancaria, a cui veniva affidata la gestione dei flussi di risparmio e degli impieghi, in una realtà completamente diversa, all’interno della quale operatori specializzati trasformavano in cartelle o titoli negoziabili tutte le operazioni di erogazione del credito: questo significava che le procedure di concessione di finanziamenti si traducevano nella creazione di titoli rappresentativi delle stesse operazioni, che poi venivano venduti, sempre ad opera di questi intermediari, a risparmiatori non solo nazionali, ma anche di altri Paesi147. I mercati finanziari diventavano, dunque, punto di raccolta di tutti gli apporti di risorse liquide disponibili, che poi venivano convogliati verso chi ne avesse avuto necessità: tali operazioni si traducevano, poi, nell’emissione di titoli rappresentativi, scambiabili sui diversi mercati finanziari mondiali. Questo nuovo sistema di erogazione del credito stimolò l’innovazione sia di processo (attraverso l’applicazione di nuove tecnologie, che integrarono sempre più marcatamente i mercati), sia di prodotto (attraverso la creazione di nuovi strumenti rappresentativi di un credito), in modo da aiutare meglio gli operatori a tutelarsi contro l’instabilità creata dall’abbandono del sistema a cambi fissi e dalla crescente globalizzazione delle diverse economie nazionali. Inoltre, il rischio crescente che le attività di finanziamento del sistema industriale com-


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portava, rischio che gravava, in particolare, su tutti quegli intermediari non in grado di uniformare la struttura per scadenza del loro portafoglio, ha favorito questo fenomeno della titolarizzazione altrimenti definito della cartolarizzazione (securitization148, nella letteratura anglosassone), che ha segnato il passaggio dall’attività tradizionale dell’erogazione del credito, attraverso l’intermediazione bancaria, a quella molto più sofisticata di raccolta di mezzi liquidi attraverso l’emissione e la cessione di titoli. Tale processo, assicurando la trasformazione del credito, tradizionalmente non negoziabile, in attività finanziarie (per l’appunto i titoli rappresentativi), trasferibili e liquide, ha stimolato la creazione di nuovi strumenti classificati nella vasta categoria della commercial paper e delle back-up facilities149. La prima, in particolare, consentiva alle banche e agli intermediari finanziari di trasferire il rischio delle operazioni creditizie sui mercati finanziari internazionali, all’interno dei quali i titoli venivano collocati e trattati. Questo profondo rinnovamento si tradusse in una crescente esautorazione delle banche che non erano state in grado di rinnovarsi, come le Casse di risparmio statunitensi, che andarono incontro a numerosi fallimenti150. Una tale trasformazione finì anche per condizionare i flussi di capitali, sia a livello interno ad ogni singolo Paese, sia internazionalmente. Mentre un tempo il settore famiglie e il settore pubblica amministrazione si ponevano come fornitori netti di risparmio alle imprese, da sempre utilizzatrici finali di risorse finanziarie, a partire proprio dai primi anni Ottanta, per una serie molteplice di cause, a cominciare dalla rivoluzione monetarista, non solo il settore pubblico ha visto crescere progressivamente il proprio fabbisogno finanziario, ma anche le famiglie hanno visto ridursi e in certi casi annullarsi la propria capacità di risparmio. A fronte dei crescenti disavanzi finanziari dei settori che un tempo risparmiavano e che in quel decennio erano, invece, percettori netti di risorse liquide, si crearono frequenti fenomeni di affollamento e di contesa sui mercati finanziari delle insufficienti risorse liquide disponibili (fenomeno del crowding out151, nella letteratura anglosassone). Contemporaneamente sono progressivamente emerse nell’attività di formazione del risparmio nuove figure di investitori istituzionali, quali istituti pensionistici e assicurativi, fondi pensione e fondi d’investimento, che, appunto, disponevano di abbondanti risorse e cercavano forme di impieghi remunerativi. Inoltre, la crescente integrazione dei mercati a livello mondiale, il completamento dei processi di globalizzazione e la maggiore mobilità internazionale dei capitali, conseguente alla deregolamentazione dei mercati, hanno anche consentito di coprire i crescenti disavanzi settoriali interni ai singoli Paesi, con l’afflusso di capitali provenienti dall’estero. È naturale che questa lenta, ma progressiva trasformazione dei flussi finanziari nazionali abbia comportato la ricerca di nuovi e più efficienti strumenti finanziari da parte sia delle amministrazioni pubbliche – che si sono dimostrate molto attente a proporre sempre più sofisticati strumenti di raccolta per stimolare il risparmio – sia degli intermediari specializzati nel finanziamento alle famiglie, con una crescente tendenza alla titolarizzazione delle loro passività: invece di far-


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si carico direttamente del finanziamento e del relativo rischio, l’operazione di reperimento di fondi liquidi si trasformò nella vendita ad altri risparmiatori dei titoli rappresentativi della concessione di credito152. L’intermediario si accontentava di percepire una provvigione sull’operazione condotta a termine, ma si scaricava del rischio di eventuali fallimenti delle imprese finanziate, che cadevano esclusivamente sugli acquirenti dei titoli o delle obbligazioni, spesso ignari circa le conseguenze negative cui potevano andare incontro. Inoltre, il ricorso frequente da parte delle pubbliche autorità al finanziamento estero di sempre più elevati disavanzi interni (sia del bilancio pubblico, sia della bilancia commerciale) ha attivato a sua volta nuovi flussi finanziari a livello internazionale, che hanno alterato radicalmente i tradizionali assetti di questi mercati. Paesi come gli Stati Uniti, tradizionalmente creditori del sistema internazionale, si sono trasformati, nel giro di pochi anni, in debitori, mentre Paesi come quelli petroliferi, un tempo classificati come emergenti, si sono trasformati rapidamente, in seguito alle citate vicende del prezzo del petrolio, in offerenti netti di risparmio. Infine, economie nazionali che hanno cercato di affrancarsi dai vincoli del sottosviluppo, come quelle di numerosi Paesi dell’America Latina o dell’Africa, sono in realtà state travolte dalla crisi debitoria, che ha imposto loro la ricerca continua di soluzioni adeguate per trovare i finanziamenti necessari153. Il tentativo di conciliare le esigenze degli operatori delle aree fornitrici di risparmio, che devono convincersi a investire i loro capitali, con quelle degli utilizzatori finali del risparmio, impegnati nella ricerca di finanziatori dei loro disavanzi, ha favorito – come si diceva – la ricerca e l’individuazione di nuovi strumenti sempre più sofisticati e tali da soddisfare sia i creditori, attratti da elevate remunerazioni, sia i debitori, interessati dalle particolari clausole di favore inerenti al prestito. Tali sforzi d’innovazione, se all’inizio del decennio erano finalizzati unicamente alla soluzione del problema del finanziamento del debito del Terzo Mondo, nel prosieguo del tempo finirono per coinvolgere direttamente anche la questione della copertura del disavanzo statunitense da parte di investitori internazionali. La ricerca di novità all’interno dei tradizionali sistemi finanziari era anche dovuta al tentativo del sistema finanziario di rispondere sempre meglio alle esigenze di reperimento di adeguati strumenti di finanziamento di economie altamente industrializzate, in continua evoluzione. Le profonde trasformazioni tecnologiche e i nuovi processi di automazione elettronica, che coinvolsero più o meno direttamente i diversi settori del sistema industriale nei principali Paesi, modificarono sostanzialmente i tradizionali rapporti tra finanza e impresa. Le incognite legate ai processi di ristrutturazione e di impiego di nuove tecnologie furono sia di natura quantitativa, dato che divenne sempre più difficile quantificare il fabbisogno finanziario delle imprese, sia di natura qualitativa, dato che crebbe decisamente il rapporto tra rischio e rendimento. Tale crescita del rischio, relativamente a ogni nuovo investimento, era dovuta alla minore durata del ciclo di rinnovo del capitale produttivo e alle incogni-


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te circa le effettive potenzialità produttive di certi processi ad alta automazione, condizionati spesso dalla compatibilità tra un numero troppo alto di variabili per poter divenire profittevoli in un breve arco di tempo. Le crescenti difficoltà di valutare esaurientemente il capitale necessario e la maggior incertezza circa il fabbisogno finanziario delle imprese indussero gli intermediari finanziari a proporre nuovi strumenti in grado di generare posizioni debitorie meno rischiose e più adatte rispetto al mutato e più incerto contesto dei settori produttivi154. Attraverso i nuovi strumenti innovativi le banche e gli altri intermediari finanziari, invece di impegnarsi direttamente a fornire credito e finanziamenti, assicurarono al mutuatario, con la propria intermediazione, il reperimento sul mercato dei fondi necessari. Mentre nel corso degli anni Settanta le banche avevano perseguito come obiettivo prioritario l’aumento del volume dei propri attivi, nel corso degli anni Ottanta privilegiarono invece operazioni fuori bilancio, contenendo a loro volta i volumi e i rischi dell’attivo, con una strategia che le portò a operare secondo forme che non implicassero stringenti vincoli di capitale. Di fronte a una costante diminuzione dell’intermediazione bancaria tradizionale, caratterizzata dalla erogazione di credito, si svilupparono progressivamente anche forme di raccolta diretta di fondi sul mercato da parte dei mutuatari. Tale raccolta avveniva abitualmente attraverso l’emissione di titoli che assicuravano una molteplicità di possibilità per il mutuatario. L’estrema facilità di reperimento di strumenti adeguati alle necessità dei mutuatari si accompagnò anche a una notevole crescita del fabbisogno finanziario, sia a livello interno che su piano internazionale. Tutte queste trasformazioni sembravano aver accresciuto l’efficienza e la stabilità dei mercati finanziari: in realtà, studiando più a fondo il fenomeno e tenendo conto delle recenti esperienze legate ai vistosi fallimenti di molte imprese al di qua e al di là dell’Atlantico, è possibile individuare numerosi problemi che sono emersi a livello sistemico. Il fenomeno più grave di quel decennio riguardò le difficoltà sempre crescenti di gestione della politica monetaria da parte delle autorità di governo155. La determinazione degli effetti dell’innovazione finanziaria sugli aggregati monetari evidenziò l’impossibilità, in molti casi, di definire tali aggregati e accrebbe l’incertezza sul tipo di meccanismi di trasmissione che avrebbero legato gli impulsi monetari alla trasformazione del sistema reale. Pur nell’impossibilità di trarre conclusioni univoche, si deve ammettere che in quel decennio si ebbe una crescente perdita di efficacia della politica monetaria nazionale, soprattutto se perseguita attraverso i controlli diretti156. Questo implicò la necessità di ricorrere a misure di controllo indiretto, attraverso i tassi d’interesse e i tassi di cambio. Il declino dell’intermediazione bancaria tradizionale, riducendo il peso degli strumenti del controllo diretto, favorì la disaffezione nei confronti degli stessi. Anche la politica di definizione di obiettivi intermedi, perseguita con una certa sistematicità dalla fine degli anni Settanta, venne abbandonata, dato che la scelta di tali obiettivi, insieme a quelli finali, era molto legata all’idea di un sistema finanziario nazionale ed era quindi incompa-


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tibile con la crescente globalizzazione dei mercati. D’altra parte tutto ciò corrispose a una progressiva esautorazione degli Stati nazionali da quegli interventi in grado di condizionare i mercati finanziari157. Il fenomeno dell’innovazione finanziaria non ebbe una dimensione temporale ben definita: essa, tuttavia, apparve destinata a durare, essendo congeniale al processo stesso di evoluzione dei mercati finanziari. Questi, d’altra parte, finirono per perdere i loro connotati nazionali e per trasformarsi in mercati soprannazionali, caratterizzati da un’elevata mobilità dei capitali e da una disponibilità di strumenti che, se da un lato assicurarono una maggior tutela dei mutuatari contro ogni tipo di rischio, accentuarono invece l’instabilità globale del sistema, trasferendo i rischi, e quindi le eventuali perdite, sugli acquirenti finali dei titoli158. Dato che questi eventi fecero perdere in maniera crescente all’attività tradizionale di erogazione di finanziamenti le connotazioni di un fenomeno nazionale e le diedero una crescente connotazione mondiale, soltanto una regolamentazione concordata tra le autorità dei vari Paesi avrebbe potuto evitare preoccupanti manifestazioni di insolvenza e, quindi, di instabilità159. Infine, le innovazioni finanziarie più di successo per investitori e speculatori, cioè i contratti future, possono essere effettuati soltanto presso un numero molto ristretto di mercati (Londra, Chicago, New York e pochi altri) e questo ha contribuito a convogliare presso questi mercati masse enormi di capitali che non possono essere investititi se non in quelle piazze, creando forzati flussi di risorse liquide verso le stesse160. 4.2 La valutazione delle attività finanziarie al di qua e al di là dell’Atlantico: modello anglosassone contro modello renano A prescindere dalle esaltazioni apologetiche dei presunti successi dell’amministrazione Reagan e dei processi di innovazione che avevano interessato i mercati finanziari, l’economia statunitense, anche dopo la pesante recessione del triennio 1981-83, continuò a non prosperare: la crescita dell’occupazione fu di circa la metà rispetto a quella dell’amministrazione Carter (proporzionalmente agli anni di presidenza) e il disavanzo pubblico e quello estero crebbero esponenzialmente, tanto da indurre il presidente Reagan ad attenuare l’effetto negativo che il rispetto dei princìpi monetaristi comportava. L’osservanza di tali princìpi consentì – è vero – di sconfiggere l’inflazione, ma questo avvenne con un costo molto alto per il Paese, quello della recessione161. Le incomprensioni e le critiche verso la politica del presidente del Federal Reserve System, Paul Volcker, divennero sempre più evidenti e frequenti, tanto che quest’ultimo fu indotto a presentare le sue dimissioni: al suo posto venne nominato Alan Greenspan, anch’egli fedele ai princìpi monetaristi, ma non in termini così radicali come il suo predecessore e molto attento a lottare non solo contro l’ascesa dei prezzi, ma anche e soprattutto contro ogni segnale di recessione e ogni manifestazione di aumento della disoccupazione162. A partire da quella data venne perseguita una sistematica politica di abbassamento dei tassi d’interesse e anche il valore del dollaro, dopo il massimo raggiunto nel 1985, incominciò a ridi-


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mensionarsi. Nonostante, però, questi elementi oggettivi di debolezza, la corsa degli investitori internazionali verso l’acquisto di attività espresse in dollari continuò, provocando la sopravvalutazione delle quotazioni azionarie. Nel frattempo, come si diceva, le profonde innovazioni introdotte all’interno dei mercati finanziari, soprattutto negli Stati Uniti, invertirono radicalmente i tradizionali rapporti che intercorrevano tra imprese e risparmiatori163. La fiducia che caratterizzava un tempo questo tipo di rapporto lasciò spazio a una crescente disaffezione verso una determinata impresa: solo i risultati gestionali giustificavano il permanere della fiducia e per questo ebbe inizio una gara tra le imprese a presentare risultati di bilancio che giustificassero il persistente successo delle stesse. Era, infatti, sufficiente un trimestre non caratterizzato da crescita, perché venissero formulati dal mercato giudizi negativi sull’operato della stessa e dei suoi manager. Questi ultimi finirono per essere condizionati dall’“ossessione tirannica del breve periodo”, che non consentiva alcuna defezione neppure temporanea. Quello che interessava l’investitore non era lo stato di salute dell’impresa nel suo insieme e in un’ottica di lungo periodo, ma i risultati immediati rappresentati dai dividendi o dalle plusvalenze. Questo finì per privare le imprese della possibilità di affidarsi a un capitale stabile, che consentisse loro di formulare progetti di largo respiro. La colpa di queste trasformazioni è imputabile, paradossalmente, non tanto ai singoli investitori individuali, quanto piuttosto agli investitori istituzionali, come fondi pensione, fondi d’investimento e compagnie d’assicurazione, che a questo punto, anziché contribuire a stabilizzare i mercati, finirono per destabilizzarli. Anche nel caso di scalate ostili contro certe società, i gestori dei fondi pensione erano sempre pronti a schierarsi con i nuovi scalatori, dato che questi ultimi garantivano il conseguimento di più alte plusvalenze. La logica finanziaria orientata a strategie di breve periodo – che impose tagli alle spese meno urgenti, come quelle in ricerca e sviluppo oppure in formazione – finì per entrare in rotta di collisione con la logica industriale, portando come conseguenza a distanza di qualche tempo consistenti danni all’impresa164. Quest’ultima, valutata esclusivamente, dal mondo anglosassone, nella sua capacità di creare flussi di cassa (cash flow), era ben lontana da quello stereotipo di impresa intesa come comunità di interessi, in grado di suscitare sentimenti di affezione anche in periodi di relative difficoltà, come accadeva nelle realtà europee. Negli Stati Uniti, inoltre, il sistema di valutazione affidato alle agenzie di certificazione, che attribuivano un rating a ogni impresa, offriva uno stimolo in più per la presentazione di bilanci sopravvalutati, data la mancanza in quel contesto del deterrente fiscale esistente in Europa contro operazioni di questo tipo. La ricerca del continuo profitto immediato da parte delle imprese americane ha, tuttavia, impedito loro di elaborare piani industriali di sviluppo di lungo periodo e forse questa è stata la causa della grave crisi che ha finito per interessare da ormai qualche decennio il sistema produttivo statunitense. Si è, di fatto, avverato uno dei timori di John Maynard Keynes, quando metteva in guardia contro le situazioni in cui lo spirito della finanza aveva finito per surclassare lo spirito d’impresa.


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Il relativo indebolimento dell’economia statunitense, nella seconda metà degli anni Ottanta (tab. 8) evidenziato anche dal ridimensionamento del loro ruolo di primo piano nella fornitura di investimenti esteri diretti, rilanciò il modello renano, caratterizzato da progetti di medio-lungo periodo, che finì per imporsi rispetto a quello statunitense, condizionato dall’ossessione del breve termine e dalle soluzioni più di apparenza che di sostanza. Il modello renano – perseguito soprattutto da Germania e Giappone prima di tutto, ma anche da altri Paesi europei, come l’Italia – anziché privilegiare l’incontrollata deregolamentazione dei mercati, favorì, invece, un capitalismo regolamentato che evitasse i fallimenti dei mercati troppo liberi e incontrollati. Questa scelta, tuttavia, non evitò al Giappone l’innescarsi di una enorme speculazione sugli immobili e sulle quotazioni dei titoli della Borsa di Tokyo, che crollarono all’inizio degli anni Novanta, trascinando l’economia giapponese in una lunga recessione, che ancora oggi manifesta i suoi segni negativi165. Tab. 8 Gli investimenti esteri diretti a seconda delle fonti di provenienza nel periodo 1970-1990

Fonte: International Monetary Fund, Balance of Payments Statistics Yearbook, Washington (DC), vari anni.


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Se la Germania e il Giappone attrassero capitali a seguito della solidità della loro economia, gli Stati Uniti attrassero i risparmiatori con la varietà e l’originalità degli strumenti finanziari proposti. Non si crearono tuttavia tensioni sui mercati finanziari, dato che l’apporto di capitali era molto costante e proveniva da numerose nuove fonti ubicate in Paesi del mondo non più bloccati da norme restrittive, che avevano condizionato fino a qualche anno prima i movimenti di capitale. Nonostante, però, la quasi totale liberalizzazione dei movimenti di capitale a livello mondiale e l’esaltazione apologetica dell’amministrazione Reagan, i conti economici continuarono a peggiorare166: l’idea che quegli anni fossero stati caratterizzati da un boom derivava da una accorta propaganda che riusciva a presentare come successi dei veri e propri fallimenti, anche in questo caso nell’omertà più totale. È incredibile che settimanali come il britannico The Economist, sempre pronto a delegittimare quei governi che avessero fatto registrare anche un solo punto percentuale di peggioramento dei loro conti, abbia taciuto sul fatto che il disavanzo pubblico degli Stati Uniti fosse più che decuplicato negli anni della presidenza Reagan e che quello estero fosse cresciuto in misura esponenziale: queste roccaforti dell’ideologia del libero scambismo più radicale, non potevano denunciare i fallimenti della politica neoliberista167. Accadde così che tutti gli elementi negativi in economia vennero scaricati sull’amministrazione successiva, quella di George Bush senior e a nulla valse a quest’ultimo, in termini politici, il vistoso successo nella guerra del Golfo: il fallimento degli interventi correttivi in economia sanzionò la sconfitta del presidente alle elezioni per ottenere il secondo mandato. Nel frattempo, i conti dell’azienda statunitense continuarono a tenere grazie al flusso massiccio di risorse finanziarie provenienti soprattutto dal Giappone, il cui governo, facendosi carico del debito statunitense, ricompensò, per lo meno in parte, le spese sostenute da Washington per la sua difesa. Questo Paese riuscì, sin dalla fine della guerra, a evitare gli enormi esborsi per il riarmo imposti ai Paesi europei: secondo alcuni autori168 questa fu una delle cause della sua rapida e consistente crescita nei primi decenni del secondo dopoguerra. Tutte le risorse, anziché essere utilizzate in inutili spese per armamenti, vennero indirizzate allo sviluppo dell’economia. Questo comportò, tuttavia, una massiccia presenza militare degli Stati Uniti, che si fecero carico della difesa del Paese, ripagata con la sottoscrizione di una quota elevatissima di titoli destinati a coprire il disavanzo pubblico statunitense. 4.3 Il boom di borsa negli Stati Uniti negli anni Novanta e le crisi finanziarie nel Terzo Mondo Le prospettive degli anni Novanta sembravano presentare più ombre che luci, a seguito della pesante recessione che aveva condizionato gli ultimi quattro anni dell’amministrazione Bush senior: neppure la costosa guerra del Golfo e il cosiddetto keynesismo militare (cioè l’aumento del disavanzo pubblico per esigenze belliche) erano riusciti a risollevare le traballanti sorti dell’economia statunitense. I disastri compiuti dai provvedimenti ispirati al neoliberismo e al monetarismo,


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incentrati com’erano sul sostegno di una redistribuzione dei redditi in senso assolutamente asimmetrico e a favore esclusivo delle classi più ricche del Paese, avevano recato danni insanabili a un capitalismo di tipo consumistico – qual era quello statunitense – penalizzato dalla riduzione dei redditi dei ceti medi e di quelli meno abbienti169. La politica economica mirava, infatti, al contenimento di salari, stipendi e pensioni, che sono le fonti primarie per la spesa in beni di consumo. Inoltre, parte di quei redditi dipendeva dal successo in borsa dei titoli delle imprese di appartenenza o dal fondo pensione aziendale, e a sostegno di questi ultimi non tornava utile il clima depresso dei mercati finanziari. Anche i trasferimenti dallo Stato all’economia si erano drasticamente ridotti in nome dello Stato minimale predicato dai neoconservatori e nulla, se non l’impegno bellico, contribuiva a sostenere la domanda, troppo penalizzata dalle politiche neoliberiste. Fu a questo punto che il presidente Clinton, facendo esclusivo affidamento sulle eccezionali competenze del governatore del Federal Reserve System, Alan Greespan170, decise di sfruttare il potenziale redistributivo generato da un aumento molto elevato delle quotazioni azionarie presso lo stock exchange di New York: il sistema americano impone infatti ai gestori di fondi, quando i guadagni eccedono una data percentuale di aumento, di restituire parte degli stessi ai sottoscrittori. Accadde così che operai, impiegati e pensionati videro praticamente raddoppiati i loro redditi. Il trasferimento di quattrini nelle tasche di ampie fasce della popolazione dai redditi medio-bassi assicurò un solido sostegno alla domanda di beni di consumo. Ne seguì un lungo boom di borsa, sostenuto dai buoni risultati di bilancio delle imprese e dall’afflusso di capitali provenienti da tutto il mondo, che alimentarono un’eccezionale crescita delle quotazioni. Un tale miracolo, creato dai più tradizionali meccanismi keynesiani di redistribuzione della ricchezza, preoccupò i teorici più conservatori, che avevano sempre sostenuto nel corso della loro esistenza una teoria esattamente antitetica, e cioè che a garantire il massimo sviluppo per l’economia non fosse la redistribuzione della ricchezza a favore delle classi meno abbienti, bensì una redistribuzione asimmetrica a favore dei più ricchi, in quanto questi ultimi sarebbero i soli in grado di valorizzare al meglio i capitali di cui dispongono e di garantire, quindi, una rapida crescita dell’economia171. Sulla base di tali princìpi non si poteva, pertanto, imputare il boom di quegli anni alla old economy, cioè all’economia più tradizionale, ma alla new economy172, cioè a tutti quei settori innovativi nel campo della information and communication technology (ICT), oltre che ai processi di automazione elettronici che hanno spinto e sostenuto la crescita economica. Non si può negare il ruolo propulsivo di questi settori, ma se questa fosse stata la spiegazione, non si capirebbe perché con la fine del boom di borsa, e quindi dei processi di redistribuzione, si sia improvvisamente interrotta anche la crescita economica: la new economy avrebbe dovuto esercitare ancora il suo benefico effetto sull’intero sistema, anche se in misura più contenuta. Invece, con la fine dell’aumento delle quotazioni azionarie e con il loro successivo crollo è cessato improvvisamente lo stimolo alla domanda e l’economia,


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oltre che la borsa, è stata colpita da una pesante recessione. Si trattava, dunque, di un boom generato anche da altre cause molto meno sofisticate e legate più semplicemente alla maggiore disponibilità di denaro nelle tasche dei cittadini meno abbienti, beneficiati dalla redistribuzione degli utili di borsa da parte degli investitori istituzionali, che gestivano i fondi nei quali avevano investito. Al di là delle polemiche sulla vera causa del boom economico statunitense degli anni Novanta, certamente gli Stati Uniti tornarono a beneficiare di un forte afflusso di capitali che si era rallentato nel corso della congiuntura negativa che caratterizzò l’amministrazione Bush senior. Questo afflusso di risorse finanziarie contribuì anche a rafforzare il dollaro: gli speculatori erano attratti dalla possibilità di guadagnare in seguito a ulteriori rivalutazioni del biglietto verde. I tassi d’interesse, grazie all’accorta politica di Greenspan, si mantennero bassi e non costituirono, quindi, un freno per l’economia. Macroeconomicamente parlando, i forti surplus commerciali del Giappone e dei Paesi europei, nel loro complesso, ritornarono verso gli Stati Uniti come investimenti speculativi. Il boom di borsa di quegli anni contribuì, inoltre, a conseguire un altro traguardo positivo per il governo americano: anche se i forti guadagni effettuati nell’acquisto e nella vendita di titoli, i cosiddetti capital gains, erano tassati con un’aliquota molto bassa, grazie all’enorme massa di investimenti finanziari effettuati le entrate per l’amministrazione statunitense crebbero in modo talmente elevato da consentire di ripianare il tradizionale deficit pubblico interno. Sotto la presidenza Clinton, per la prima volta dopo molti anni, il bilancio annuale presentò addirittura un surplus, destinato ad avere vita breve non appena il presidente George W. Bush jr. vinse le elezioni. Il disavanzo estero, invece, non venne corretto neppure sotto l’amministrazione Clinton, anzi peggiorò, e soltanto l’afflusso di un’ingente massa di capitali speculativi provenienti da tutto il mondo finì per compensare in termini di movimenti di capitale il grande buco presente nella bilancia commerciale e delle partite correnti statunitense. Fu in questo decennio che anche il sistema previdenziale alternativo, centrato sui fondi pensione, riuscì a rimettere in sesto i propri conti disastrati dalla lunga recessione precedente: a dare un contributo decisivo ai guadagni dei fondi pensione fu soprattutto la grande esperienza di Alan Greenspan, il quale – prima della nomina alla presidenza del Fed – era un esperto gestore di fondi pensione e anche dopo la nomina continuò a svolgere consulenze in questo campo con una propria società. Cercando di descrivere quanto accadeva con un linguaggio poco tecnico, diciamo che, quando le quotazioni crescevano in modo eccessivo, Greenspan faceva un discorso molto pessimistico sull’eccessiva crescita delle quotazioni e questo era il segnale per i gestori dei fondi che era consigliabile vendere. La vendita tempestiva dei titoli da parte dei fondi veniva poi seguita anche da una massa di cessioni effettuate da tutti i risparmiatori più attenti: seguivano tre o quattro giorni di forti ribassi, che potevano superare il 5-6% dei valori precedenti e che, in altre circostanze, sarebbero potuti essere interpretati come l’inizio di un grande crollo di borsa. Dopo, però, giungeva l’ordine di acquisto con un


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discorso di Greenspan, che vedeva segnali positivi provenienti dall’economia: così nell’arco di pochi giorni i fondi pensione potevano riacquistare i titoli precedentemente venduti, a quotazioni molto più basse, che consentivano loro di accumulare ingentissimi guadagni in conto capitale. In tal modo i fondi potevano ricapitalizzarsi, sfruttando non solo gli aumenti delle quotazioni di borsa, ma anche e soprattutto i temporanei ribassi. Questo giochetto era possibile per il fatto che i fondi pensione controllavano oltre la metà di tutta la capitalizzazione della borsa statunitense. Mentre negli Stati Uniti i mercati finanziari riservarono grandi soddisfazioni agli investitori di tutto il mondo, gli unici Paesi che non beneficiarono del grande boom finanziario degli anni Novanta furono quelli in via di sviluppo, che dovettero registrare nel decennio considerato un ulteriore peggioramento della loro bilancia dei capitali. Se nel frattempo la loro posizione debitoria aveva tratto conforto sia dal ridimensionamento del dollaro alla fine degli anni Ottanta, sia dalla riduzione dei tassi d’interesse che aveva condizionato, a causa della recessione, gli anni della presidenza di Bush senior, con l’impressionante crescita delle quotazioni di borsa degli anni Novanta furono nuovamente penalizzati a causa della rivalutazione della moneta americana e della lievitazione, sia pur contenuta, del costo del denaro. Il saldo netto tra l’afflusso di capitali per aiuti e investimenti e il deflusso per il pagamento del servizio del debito fu in quel decennio negativo: i capitali defluivano dai Paesi più poveri del mondo verso i Paesi più ricchi nei confronti dei quali avevano contratto il debito, sottraendo a quelle già misere economie abbondanti risorse, a scapito delle spese per la lotta contro la sottoalimentazione e le carenze di strutture sanitarie e scolastiche173. Non veniva, invece, assolutamente ridimensionata la spesa per armamenti: essa era, infatti, l’unico investimento che garantisse la sopravvivenza delle oligarchie al potere nei diversi Paesi. Per questo non sono condivisibili quelle proposte che chiedono la cancellazione del debito senza alcun condizionamento, mentre vanno sostenute le campagne che rimettono il debito in valuta ai Paesi più poveri, ma pretendono in contropartita dai loro governi lo stanziamento di somme equivalenti a quelle condonate, espresse, però, in valuta locale, per finanziare in loco gli investimenti nella sanità, nella profilassi e nell’educazione. In tal modo la remissione del debito non diviene, per le borghesie locali, un’occasione per disporre di consistenti risorse da spendere in armamenti, se non addirittura nel sostegno di conflitti etnici e tribali. Molte delle economie dei Paesi più ricchi di risorse naturali del Terzo Mondo vennero inoltre travolte, nella seconda metà degli anni Novanta, anche da gravi crisi finanziarie, che ne sconvolsero le strutture produttive e gli assetti proprietari174. Le crisi cominciarono a manifestarsi a partire dal 1994. Il primo Paese ad esserne travolto fu il Messico, proprio alla vigilia del suo ingresso nel Nafta, l’accordo di libero scambio tra i tre Paesi dell’America settentrionale: Messico, Stati Uniti e Canada. È interessante notare che tali crisi (da quella messicana nel 1994-95175 a quelle del Sud-est asiatico nel 1997, della Russia nel 1998, del Brasile nel 1998-99,


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della Turchia nel 2000 e dell’Argentina nel 2001) si manifestarono tutte dopo il collasso dei regimi “socialisti” nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale. Infatti, finché il socialismo poteva costituire non solo ideologicamente, ma concretamente, un’alternativa al capitalismo, nessuna banca o impresa avrebbe mai rischiato di innescare una crisi finanziaria, con la carica destabilizzante che questa avrebbe comportato, dato che una simile strategia – pur assicurando lauti guadagni a chi la innescava – avrebbe potuto comportare una destabilizzazione politica molto pericolosa per gli equilibri geostrategici mondiali. Questo perché le conseguenze fallimentari che una crisi finanziaria avrebbe comportato, con la relativa recessione che ne sarebbe seguita e il conseguente aumento della disoccupazione, avrebbero potuto creare un clima di ostilità contro le istituzioni capitalistiche, inducendo qualche governo al passaggio di campo: dalla protezione e tutela statunitense a quella dell’Unione Sovietica. Questa sola minaccia disincentivò gli operatori privati (banche, finanziarie, imprese) dal destabilizzare Paesi soprattutto se già in precarie condizioni economiche: era, dunque, una remora di natura politica che disincentivava dal destabilizzare consolidati equilibri. Con la caduta dei sistemi socialisti, invece, il mero interesse economico finì per prevalere su qualsiasi ragionamento di tipo politico. Il copione che caratterizzò queste crisi non si modificò di molto e venne sperimentato già in Italia negli anni Settanta, anche se con intensità molto più contenuta rispetto alle crisi degli anni Novanta. Il segnale d’inizio della crisi era dato da un’improvvisa e forte diminuzione del cambio della moneta locale. Tale indebolimento non era generato da una reazione spontanea dei mercati contro quella valuta: fortunatamente per i Paesi in via di sviluppo le loro monete non circolano in abbondanza al di fuori dei confini nazionali. Ci sono delle riserve – in quantità modesta – detenute dagli Stati che mantengono rapporti commerciali con il Paese in questione; ci sono i conti in tali valute detenuti da qualche cittadino straniero, anch’esso coinvolto in attività commerciali con il Paese considerato; ci sono, infine, delle banconote detenute presso i cambiavalute, ma in quantità tali da non poter destabilizzare in modo così consistente il cambio della moneta oggetto di speculazione. Che cosa accade, allora, perché una mattina di un giorno ben definito inizi un massiccio attacco speculativo contro la valuta locale? La moneta locale, che non è presente in quantità elevata nei principali mercati valutari del mondo, viene offerta dalle banche locali, che la attingono dai depositi dei propri ignari clienti. Una volta presa questa massa di denaro in valuta locale, che non è loro, ma dei loro clienti, la swappano, cioè la trasferiscono per poche ore a grandi banche multinazionali, che a loro volta la vendono contro dollari sui mercati valutari: questo afflusso anomalo della valuta in questione sui mercati mondiali dei cambi affossa molto rapidamente le quotazioni della moneta locale. Questo induce altri ricchi operatori del Paese oggetto di attacco speculativo a liberarsi delle loro ricchezze finanziarie espresse in valuta locale e in un giorno la moneta può giungere a perdere oltre il 20% del suo valore, in seguito a siffatte operazioni. Alla sera, dopo non più di 7-8 ore dal primo attacco speculativo, le


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grandi banche transnazionali riacquistano la valuta locale per restituirla alle banche dalle quali l’hanno ricevuta: tra la mattina (inizio dell’operazione) e la sera (fine dell’operazione), il valore della moneta locale è però cambiato di una certa percentuale e questo rappresenta l’utile che viene equamente diviso tra banche multinazionali e banche locali. Alla mattina la moneta oggetto di attacco speculativo viene pagata una certa cifra in dollari, al pomeriggio la cifra in dollari necessaria a riacquistare la stessa quantità di valuta è molto inferiore: nelle mani degli speculatori rimangono dollari, mentre nelle mani dei “poveri” e ignari risparmiatori, che avevano inconsapevolmente reso possibile grazie ai loro depositi questa operazione, resta soltanto del denaro svalutato, sul quale ricchi esponenti del mondo della finanza hanno conseguito i loro utili. Come abbiamo già detto parlando dell’Italia, si tratta di operazioni assolutamente illegali, che configurano un reato: tuttavia, le autorità del Fondo monetario internazionale dicono che non è possibile coartare la libertà di chi vuole speculare e in tal modo violano consapevolmente quello che era il tradizionale principio dell’ottimo paretiano, che proibisce qualsiasi comportamento che finisca per compromettere la situazione di altri operatori sul mercato176. Si tratta di un ragionamento assolutamente assurdo: è come se non ci si potesse opporre alle rapine perché siffatto comportamento comprometterebbe la libertà dei rapinatori. Così, nell’ipocrisia generale e nella criminale connivenza del Fondo monetario internazionale, si realizza il primo atto di destabilizzazione del Paese. Il secondo atto è rappresentato dal crollo delle quotazioni dei titoli di borsa: è chiaro che gli investitori internazionali e i più ricchi operatori locali, una volta che si accorgono del crollo del valore della loro moneta, decidono di affrettarsi a disinvestire gran parte del loro patrimonio espresso in valuta locale e questo provoca un secondo crollo, questa volta nel mercato dei titoli177. A questo punto si diffonde il panico, alimentato dal fatto che ogni giorno che passa ci sono altri crolli, sia sul mercato valutario, sia su quello di borsa. Inoltre, il Fondo monetario internazionale, disattendendo quelle che sono le regole di buona condotta di un’autorità monetaria in presenza di una situazione di panico, anziché offrire liquidità al sistema, chiede il rimborso anticipato e immediato dei prestiti concessi: questa richiesta rende ancora più tragica la situazione e contribuisce a portare il Paese al collasso definitivo. Inoltre, per giustificare futuri interventi di sostegno all’economia in crisi, chiede che vengano rispettate le sue condizionalità: selvagge deregolamentazioni dei mercati, liberalizzazione di settori come la sanità o l’istruzione, rigidi controlli nell’erogazione del credito, indebolimento delle strutture della pubblica amministrazione178. In questo modo chiunque svolga un’attività industriale o commerciale deve fronteggiare un improvviso crollo della domanda nel proprio settore, generato dal clima di diffusa sfiducia verso il futuro: questo porta a sua volta a chiudere impianti e a licenziare. Crescono la disoccupazione e i fallimenti179, si intensificano le fughe di capitali dal Paese attaccato dalla speculazione e si innescano delle catene dagli effetti dirompenti su tutta l’economia. Quando i grandi potentati finanziari


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ritengono che il crollo del sistema sia adeguato e le imprese un tempo prospere sono in vendita a prezzi di realizzo, allora cambia l’atmosfera e arrivano imprese transnazionali pronte a investire. Vengono così acquisite le imprese migliori e le principali banche. A questo punto il Fondo monetario internazionale ritorna a elargire prestiti: la forma che giustifica le nuove elargizioni è quella che fa riferimento alla necessità di utilizzare quel denaro per fronteggiare gli squilibri strutturali della bilancia dei pagamenti. A dispetto di queste parole auliche, l’utilizzo di questi prestiti è radicalmente diverso: essi servono esclusivamente a rimborsare le grandi banche straniere che malauguratamente fossero rimaste coinvolte nel crack finanziario. Non un centesimo delle somme anticipate dal Fondo monetario rimane sul territorio, mentre le banche transnazionali sanno chiaramente di non correre alcun rischio. Tale comportamento del Fondo ha, quindi, un effetto altamente diseducativo, dato che sottrae le grandi banche internazionali a quello che dovrebbe essere il loro compito prioritario di monitoraggio degli investimenti effettuati nei vari Paesi in via di sviluppo: esse, infatti, finiscono per essere deresponsabilizzate nella loro attività di valutazione del credito, dato che sono certe che in qualsiasi modo vadano le cose saranno, in ogni caso, rimborsate. Esse, pertanto, non hanno più alcun interesse a valutare la solidità di un investimento, arrecando in questo modo un danno notevole al Paese ospitante, dato che non hanno più nessun interesse a segnalare la validità o meno dell’investimento. Quando il peggio si è compiuto, allora giungono le grandi compagnie multinazionali a raccogliere con pochi soldi quanto è sopravvissuto al disastro, e cioè le strutture produttive e finanziarie più importanti: questo era il vero obiettivo di tutta l’operazione. Una simile sequenza si è verificata in tutte le realtà quasi sempre relativamente prospere sulle quali si è abbattuta una crisi finanziaria. Da parte sua il Fondo monetario pubblica, poi, voluminosi rapporti in cui spiega che le imprese erano sottocapitalizzate, le banche sovraesposte, la moneta locale sopravvalutata. In parte hanno anche ragione: il problema, però, è che la crisi finanziaria è scoppiata a causa di un’illecita e anomala manovra speculativa contro il Paese180. Tutto il resto sono solo mistificazioni così facili da far circolare in questo mondo dove l’informazione riveste sempre più i panni di uno spettacolo. Un’ultima osservazione sul clima di sfiducia che circonda i Paesi attaccati con questi metodi brutali: gli investitori di tutto il mondo, dopo quanto è successo, diffidano dall’investire nel Paese, per cui si verificano due fenomeni penalizzanti (tab. 9). Il primo consiste in una spaventosa fuga di capitali, nel momento in cui scoppia la crisi di fiducia: per la sola Thailandia si calcola che nel 1997 siano usciti in poche ore oltre 200 miliardi di dollari. Il secondo è rappresentato dal fatto che, successivamente, per molti anni i capitali stranieri stentano ad arrivare nel Paese o, meglio, arrivano immediatamente quelli delle multinazionali che dopo i crolli delle quotazioni di borsa si impossessano a prezzi irrisori di banche e imprese locali, ma non arrivano i capitali che potremmo definire “buoni”, portati da nuovi investitori che decidono di insediarsi nel Paese e apportare ricchezza.


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Tab. 9 Trasferimento netto di risorse finanziarie ai Paesi in via di sviluppo e in transizione, 1994-2002 (in miliardi di dollari)

Fonte: UNCTAD, Trade and Development Report 2003, Geneva 2003, p. 26.

Come si vede dalla tabella, le aree più colpite sono state quelle dell’Asia Sud Orientale, dopo la crisi finanziaria del 1997, e quella dell’Asia Occidentale. A partire dall’anno 2000 sono state colpite da elevati deflussi di capitale anche l’Africa, l’America Latina e i Paesi in transizione. Non ci resta che indicare i mercati di destinazione finale dei capitali fuggiti: si tratta quasi esclusivamente delle piazze finanziarie di New York e Londra181 e questo ci chiarisce come mai in intere aree come l’America Latina, l’Africa e l’Asia Orientale non esista la benché minima condizione per trattenere il risparmio ivi generato.


Capitolo quinto

Osservazioni conclusive sui flussi finanziari dell’inizio del terzo millennio

5.1 Il crollo degli investimenti esteri diretti e l’elevato deflusso di capitali dai Paesi emergenti Dopo la crescita eccezionale dell’economia statunitense di fine millennio, molti analisti decretarono – forse prematuramente – il trionfo delle politiche neoconservatrici e monetariste, che erano state avviate dopo la grande rivoluzione reaganiana e thatcheriana degli inizi degli anni Ottanta. Come abbiamo già osservato più sopra, gli stessi studiosi avevano anche sentenziato la fine prematura del keynesismo e del suo sistema di interventi a sostegno del ciclo economico e della domanda globale. Paradossalmente, però, il 2000 rappresentò un anno di svolta radicale, che finì per rendere in poco tempo obsoleti i ragionamenti appena ricordati. Il nuovo millennio si aprì, infatti, con una crisi della borsa statunitense che sconvolse quel clima di fiducia che aleggiava anche presso tutte le altre borse più importanti del mondo: molti dei titoli più rappresentativi del listino e meno speculativi finirono per perdere fino a dieci volte il loro valore e solo la presenza di un uomo con l’esperienza di Alan Greenspan riuscì a evitare danni peggiori. Al governatore del Sistema della Riserva federale bisogna riconoscere di avere saputo frenare le spinte al rialzo, negli anni del boom, e di aver invece garantito un atterraggio morbido al sistema, negli anni della crisi, nonostante le perdite elevatissime registrate in tutti i comparti settoriali del listino. Questo crollo provocò la concentrazione di enormi masse di ricchezza nelle mani dei pochi che avevano saputo prevedere in tempo il ridimensionamento delle quotazioni e, al contempo, la distruzione di ricchezze virtuali per milioni di risparmiatori, aggravando in tal modo le nefaste conseguenze sui consumi dell’asimmetrica distribuzione della ricchezza. Il crollo di borsa provocò, inoltre, un indebolimento del dollaro, che divenne più manifesto dopo l’entrata effettiva in circolazione dell’euro, generando conseguenti deflussi di capitali dagli Stati Uniti. In concomitanza a questi fenomeni, il passaggio da un secolo all’altro fece anche registrare una forte riduzione degli investimenti esteri diretti a livello mondiale: pur cominciando il fenomeno a manifestarsi nel 2000, il grande crollo di questo tipo di investimenti si registrò un anno dopo, con un -51%, e proseguì nel 2002 con un -21%, testimoniando uno stato di malessere molto grave per l’economia mondiale, a seguito della sfiducia verso una futura crescita182. Nelle tabelle 10 e 11 sono riportati, rispettivamente, i flussi e i deflussi di capitali verso le aree


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e i Paesi elencati. Uno dei dati più significativi, a questo proposito, è rappresentato dal crollo degli investimenti indirizzati verso gli Stati Uniti, che sono scesi da 300,9 a 30,0 (tra il 2000 e il 2002) a conferma della fuga degli investitori dal Paese, a seguito della forte discesa delle quotazioni di Wall Street e dell’indebolimento del dollaro. Anche il flusso di investimenti esteri diretti verso il Regno Unito si è contratto notevolmente, nello stesso periodo di tempo, passando da 115,5 a 24,9. L’altro dato rilevante che si ricava, sempre dalla tabella 10, è l’esiguità degli investimenti esteri diretti indirizzati verso il Giappone e la Russia, che sono assolutamente sproporzionati rispetto alle dimensioni della loro economia. Tab. 10 Afflusso di investimenti esteri diretti verso i principali Paesi e aree del mondo, 1990-2002 (in miliardi di dollari)

* medie annuali Fonte: nostra elaborazione su dati UNCTAD, World Investment Report, Geneva, vari anni.

Nella tabella 11 sono invece indicati le aree e i Paesi dai quali provengono gli investimenti esteri diretti. Anche in questo caso si sono registrate notevoli diminuzioni di questi flussi finanziari in uscita. I dati disponibili giungono soltanto al 2001, ma registrano già un calo di quasi il 50% per gli investimenti provenienti dai Paesi sviluppati, con una diminuzione ancora più marcata (-60%) per quelli provenienti dall’Unione Europea, con un crollo di oltre l’85% per quelli del Regno Uni-


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to. Si sono invece mantenuti su livelli elevati, pur diminuendo, gli investimenti provenienti dagli Stati Uniti. Curiosamente in controtendenza l’Italia, che ha quasi raddoppiato nel 2001 i propri investimenti diretti all’estero, a causa del rilevante fenomeno della delocalizzazione produttiva delle imprese del nostro Paese. Tab. 11 Deflussi di capitali dalle aree e dai Paesi indicati 1990-2001 (in miliardi di dollari)

* medie annuali Fonte: nostra elaborazione su dati UNCTAD, World Investment Report, Geneva, vari anni.

Anche i Paesi in via di sviluppo sono stati interessati da questo impressionante crollo dei flussi finanziari sia in entrata, sia in uscita dai Paesi e dalle aree principali del mondo. Nel loro caso, però, la situazione era ancora peggiore, dato che è stato anche disincentivato l’indebitamento da parte del settore privato183. Inoltre, la congiuntura negativa ha finito per ridurre gli stessi trasferimenti ufficiali di capitali e, sempre relativamente ai Paesi in via di sviluppo, a partire dal nuovo secolo, si sono anche quasi azzerati gli investimenti di portafoglio, a di-


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mostrazione del clima di sfiducia che si è venuto a creare: dato che non è chiaro in che senso possa evolvere la congiuntura mondiale, gli investitori sono molto prevenuti ad assumere impegni in aree già di per sé ad alto rischio. I dati che abbiamo descritto sono quelli di un bollettino di guerra: le preoccupazioni sono, naturalmente, accresciute a fronte di previsioni sempre errate circa l’evolversi del ciclo economico. Ricordiamo che a partire dal 2000 i mass media hanno tempestato, in continuazione, l’opinione pubblica annunciando una imminente ripresa economica nei mesi a venire, poi sistematicamente smentiti dai fatti. L’errore che è stato commesso dai commentatori è quello di credere che il rallentamento dell’economia mondiale sia esclusivamente imputabile a una congiuntura avversa, mentre non si rendono conto che la natura di questa crisi è di tipo strutturale, come abbiamo già spiegato più sopra. Di fronte alla gravità di quanto è accaduto né le autorità di governo, né gli operatori privati, sembrano disposti a riconoscere le vere cause della crisi: piuttosto di ammettere il plateale fallimento delle politiche più radicali di ispirazioni liberista, sottratte a ogni forma di controllo, i sostenitori del libero mercato deregolamentato e autoregolantesi finiscono per rimandare a tempo indeterminato l’adozione di rimedi in grado di generare la ripresa: questa può, infatti, ripartire solo quando si riconosceranno le cause più profonde della recessione e se ne definiranno i rimedi. Da ciò è derivato, come si è osservato in precedenza, un inaridimento molto consistente dei flussi di capitale ed è per lo meno curioso che proprio quando sono cadute tutte le barriere che ostacolavano la loro libera circolazione i flussi finanziari si siano improvvisamente inariditi. Ne è derivato, di conseguenza, che i trasferimenti netti di risorse verso i Paesi del Terzo Mondo hanno invertito radicalmente la loro direzione: anziché muoversi dai Paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, a partire dal 1997 i flussi finanziari fuoriescono da questi ultimi per ritornare verso gli Stati più ricchi. Tale inversione di tendenza, manifestatasi inizialmente in sordina con un rientro di qualche miliardo di dollari, si è poi intensificata, raggiungendo l’elevatissima cifra di quasi 200 miliardi di dollari all’anno. Tutto ciò spiega come mai non si possa contare per nulla su una ripresa di questi Paesi a causa soprattutto dei drenaggi molto elevati di risorse finanziarie, ai quali sono stati sottoposti soprattutto a partire dal 1999184. Esiste un solo settore in cui i trasferimenti finanziari non presentano rallentamenti e che continua ad essere costantemente in crescita: si tratta del comparto della pura speculazione, anche se i dati relativi sono molto difficili da rilevare quantitativamente185. Ci riferiamo a una massa di denaro che supera, secondo gli esperti, i 2000 miliardi di dollari al giorno, indirizzati a operazioni di swap sulle valute e sui tassi d’interesse, alla sottoscrizione di contratti future, alla negoziazione di opzioni e di altri titoli derivati. È vero che possono essere contabilizzati più volte gli stessi capitali, che vengono investiti e disinvestiti a velocità molto elevata. In ogni caso, però, si tratta sempre di ammontari incredibilmente elevati, in grado di destabilizzare qualsiasi mercato borsistico,


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valutario o delle materie prime. È chiaro che di fronte a una simile cifra il totale degli investimenti esteri diretti diventa una cifra risibile. Un altro comparto che non ha subito nel suo complesso un rallentamento significativo è rappresentato dall’attività bancaria internazionale186, anche se alcuni tipi di operazioni, in particolare le attività verso centri off-shore, si sono notevolmente ridotte (per lo meno secondo le statistiche). Nella tabella 12 troviamo indicato l’ammontare relativo all’attività internazionale delle banche che aderiscono alla Banca dei regolamenti internazionali, distinte per Paese di appartenenza. Tab. 12 L’attività internazionale delle banche, 2001-2003 (in miliardi di dollari)

Fonte: nostra elaborazione su dati BRI, Evoluzione dell’attività sui mercati bancari e finanziari internazionali, Rassegna trimestrale, Basle, vari trimestri.

Come si evince dai dati, il Regno Unito ha un ruolo centrale nell’attività d’intermediazione (tenendo conto che l’Isola di Man e di Jersey risultano nelle statistiche in modo autonomo). È anche rilevante il ruolo delle Isole Cayman, uno dei principali centri off-shore (altrimenti definiti “paradisi fiscali”), così come sono notevoli i ruoli di Singapore, di Hong Kong e della Svizzera. Hanno, invece, un ruolo modestissimo nell’attività bancaria internazionale la Cina e l’Italia, mentre il Giappone, che ricopriva uno degli ultimi posti nella classifica dei percettori di capitali dall’estero, svolge una notevole attività bancaria internazionale.


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Un’osservazione finale su questi grandiosi trasferimenti di risorse su piano internazionale: tali operazioni non trasferiscono benessere generalizzato, ma generano esclusivamente concentrazione della ricchezza. Non creano neppure valore aggiunto, dato che il guadagno di un soggetto equivale esattamente alle perdite dei soggetti, per cui le fortune di pochi sono costruite sull’impoverimento di numerosissimi altri investitori meno fortunati. Il risultato macroeconomico di questa operazione è, dunque, rappresentato da un impoverimento generalizzato di chi ha investito nella finanza, che a sua volta crea recessione nell’economia reale. Abbiamo già accennato al fatto che le somme investite nella finanza non ritornano più all’economia reale, se non in misura marginale, interrompendo in tal modo il flusso circolare del reddito tra i diversi soggetti. 5.2 La nascita del mercato dell’euro in alternativa a quello del dollaro L’altro fenomeno che in questo inizio di secolo ha condizionato i mercati finanziari internazionali è stato l’introduzione della moneta unica europea, e cioè l’euro. A dispetto di quanti manifestavano la loro perplessità, l’Europa era andata avanti con determinazione, completando il processo d’integrazione monetaria187. Bisogna riconoscere che le autorità statunitensi non credettero a questo grandioso sforzo di unificazione monetaria, convinti com’erano che una moneta europea, per essere emessa, dovesse comportare una previa unificazione politica: ciò non era invece necessario e la storia ci presenta diverse testimonianze contrarie, a cominciare dalla famosa lira creata da Carlo Magno, che sopravvisse per quasi mille anni come unità di conto al di là delle notevoli divisioni politiche. Ci sono stati inoltre diversi altri esempi di monete sopravvissute a prescindere dal persistere di divisioni politiche. Gli unici ostacoli al processo d’integrazione europeo furono rappresentati dall’ostinazione britannica a tenersi fuori dalla moneta unica, seguita da Svezia e Danimarca, mentre certamente non ha contribuito a un passaggio più morbido verso l’integrazione monetaria neppure la volontà espressa dal direttorio rappresentato da Francia, Germania e Paesi Bassi, determinati a imporre delle condizionalità molto rigide per entrare nell’euro: tali condizionalità erano particolarmente penalizzanti per Paesi, come l’Italia, ancora molto lontani dai parametri fissati per aderire agli accordi di Maastricht188. La verità è che i tradizionali rivali europei dell’Italia non vedevano di buon occhio il nostro Paese, che – nonostante i conti poco in ordine – manteneva un tenore di vita ben più alto rispetto al loro a causa di quella componente dell’economia che è stata definita “sommersa”, in quanto clandestina, che non viene contabilizzata nei dati ufficiali, ma contribuisce a sostenere i livelli dei consumi, oltre che ad alimentare la fuga di capitali verso i centri finanziari più importanti del mondo. La convinzione dei nostri rivali d’oltralpe era che l’Italia non ce l’avrebbe mai fatta a rispettare quei parametri, che imponevano un livello d’inflazione di circa due terzi più basso del suo, un tasso di cambio stabile (mentre la lira era stata oggetto, come si è visto più sopra, di fortissime svalutazioni) e un riequilibrio dei conti pubblici, che imponeva un ridimensionamento del deficit di quasi quat-


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tro volte superiore rispetto a quello dei nostri concorrenti. Questi ultimi erano assolutamente tranquilli in proposito, dato che, anche nell’ipotesi più favorevole che il nostro Paese fosse riuscito con drastiche politiche restrittive a rispettare formalmente i parametri imposti dal patto di convergenza, questo sforzo avrebbe comportato un collasso per l’economia: dunque, o l’Italia non entrava nell’euro, o, se vi fosse entrata, lo avrebbe fatto a condizioni così penalizzanti che la sua economia non avrebbe potuto reggere in termini competitivi. Invece, nulla di tutto questo è avvenuto: l’Italia è riuscita a rispettare i parametri imposti e, una volta entrata nell’euro, ha retto molto meglio dei suoi concorrenti francesi, tedeschi e olandesi, che ancora oggi soffrono della forte recessione generata proprio da quelle condizioni troppo restrittive e penalizzanti che si erano autoimposti189. La ragione di questo eccezionale successo del nostro sistema economico è molto meno nobile di quanto non si voglia far credere. Il nostro Paese è infatti entrato nell’euro, sopravvivendo alle sue rigide condizionalità, grazie al consistente rientro di quei capitali che erano usciti negli anni Settanta e Ottanta per evitare i danni generati dalle politiche compiacenti verso la svalutazione della lira, perseguite dalle nostre autorità, conniventi con la speculazione senza scrupoli sostenuta da una parte della grande industria italiana. Al momento della necessità, la media e alta borghesia ha attinto a questi capitali per pagare le imposte straordinarie introdotte per risanare i conti pubblici e per stabilizzare il cambio della lira e, di conseguenza, la nostra bilancia dei pagamenti. Oggi, sono i nostri concorrenti a pagare i duri costi della pena del contrappasso e a subire l’umiliazione, soprattutto la Francia, di vedere gli investitori italiani più abbienti acquistare le più prestigiose proprietà immobiliari nei posti più esclusivi del loro Paese e quelli meno abbienti rilevare proprietà nelle megalopoli costruite di recente sulla Costa Azzurra. Nel 1999, una volta varato l’euro con la partecipazione anche dell’Italia, le autorità statunitensi non disdegnarono e forse pilotarono l’azione della speculazione internazionale contro la moneta unica, in quegli anni presente in forma esclusivamente virtuale di unità di conto: tale speculazione portò l’euro a perdere in un brevissimo arco di tempo oltre il 40% del suo valore originario. Da un cambio di 1,18 dollari per euro si scese rapidamente a un cambio di 0,80, e questa fortissima svalutazione disincentivò chiunque avesse avuto l’idea di utilizzare la moneta europea in alternativa al dollaro. In questo frangente, però, le autorità americane sbagliarono completamente le loro strategie: l’Europa era giunta al varo della moneta unica stremata dai rigorosi vincoli che si era imposta. A questo punto un euro forte avrebbe inferto all’economia europea un duro colpo, innescando una pericolosa recessione. Invece, paradossalmente, la speculazione, indebolendo notevolmente l’euro, fece un favore inatteso al sistema industriale e produttivo in generale, che – nonostante la moneta unica – riuscì a migliorare la propria competitività e a non subire ulteriori traumi. Dopo tre anni (1999-2001) di esistenza virtuale, mantenuto a livelli di grande debolezza, dal primo gennaio 2002 l’euro divenne una moneta circolante, che finì per affermarsi progressivamente sui mercati mondiali, ricuperando molto rapidamente il suo valore nei confron-


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ti del dollaro, che a sua volta subì l’umiliazione di una forte svalutazione: tale tendenza, a metà del primo decennio del secolo, non sembra essersi ancora esaurita. Questa svalutazione della moneta americana ebbe tuttavia scarsi effetti sull’economia del Paese: la struttura delle sue esportazioni si è dimostrata poco elastica rispetto a un ridimensionamento così rilevante del cambio e questo segnala la scarsa capacità di competere dell’industria statunitense. Crebbero, invece, i rischi già corsi alla fine degli anni Settanta di un collasso della moneta americana a causa dell’eccessivo indebitamento degli Stati Uniti, utilizzato per coprire i disavanzi del bilancio pubblico e della bilancia dei pagamenti. Per quanto riguarda i flussi internazionali di capitali da e per l’Europa, dopo l’avvento dell’euro la loro direzione fu essenzialmente legata al tasso di cambio nei confronti del dollaro190: in epoca di euro debole, i flussi erano prima di tutto verso la piazza di Londra, che sfruttava a proprio favore il fatto che la sterlina – tenutasi fuori dalla moneta unica – poteva pagare tassi più alti rispetto all’euro, favorendone la rivalutazione. L’altra destinazione tradizionale era verso gli Stati Uniti, che in questo periodo commercializzavano, tra l’altro, anche titoli obbligazionari di Paesi come l’Argentina, che successivamente si sono rivelati inesigibili. Una volta che l’euro si è invece rivalutato, il flusso – in direzione contraria – dei capitali non è stato altrettanto consistente, dato che molti risparmiatori preferivano non abbandonare le posizioni in dollari a causa delle forti perdite subite a seguito del ridimensionamento del suo valore: la vendita delle posizioni in dollari avrebbe significato per il risparmiatore la materializzazione della perdita subita. Quale che ne sia il valore, l’euro costituirà sempre più, nei prossimi anni, una valida alternativa al dollaro e la contesa tra queste due valute finirà per dominare i futuri scenari finanziari mondiali. Grazie alla moneta unica, infatti, il mercato dei capitali europei ha acquisito spessore, profondità, concentrazione e liquidità. Siamo così giunti al termine di questo lungo excursus sull’andamento dei principali flussi finanziari, dall’età delle città-stato italiane sino all’avvento dell’euro. Abbiamo visto piazze finanziarie in ascesa e altre in declino e l’insegnamento che possiamo trarre da questi fatti è che la prosperità di un sistema finanziario è sempre legata a una struttura economica efficiente: in questi ultimi decenni, però, il mondo della finanza si è reso completamente autonomo da quello dell’economia reale e il successo della piazza di Londra o dell’Isole Cayman supporta questo ragionamento. La libertà di movimento dei flussi finanziari è oggi eccessiva e presuppone una regolamentazione. Di recente si sono manifestati troppi esempi dalle conseguenze nefaste che sono proprio frutto di questa eccessiva libertà. Abbiamo visto come in questo lungo arco di tempo tutti i tentativi di eccedere nel proporre un sistema totalmente libero da ogni forma di vincolo, che risponda esclusivamente a interessi individuali, siano miseramente falliti. È stato l’eccesso d’individualismo delle banche di deposito inglesi, all’inizio del XX secolo, a decretare la fine dell’egemonia britannica, così come è stata la volontà di privilegiare eccessivamente gli interessi delle grandi ban-


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che statunitensi a far fallire dopo pochi anni il sistema creato a Bretton Woods; infine, sono stati gli interessi incondizionati di pochi operatori privati a trascinare nella recessione intere aree geografiche del mondo. Ognuno di questi fallimenti ha avuto delle ripercussioni sull’intero sistema mondiale, e questo è tanto più vero oggi quando i processi di globalizzazione si sono quasi completamente realizzati. Per uscire dalla grave crisi in cui l’eccesso d’individualismo ha condotto l’economia mondiale occorre scoprire l’importanza della regolamentazione degli interessi individuali: tutte le iniziative solidaristiche o quelle di redistribuzione del reddito, come il Piano Marshall, hanno poi assicurato lunghi anni di benessere per tutti coloro che ne sono stati coinvolti. Note 1. Cfr. F. Cardini, M. Cassandro e altri, Banchieri e mercanti di Siena, Monte dei Paschi di Siena, Roma 1987. 2. Cfr. R. Cox, Foundations of Capitalism, Philosophical Library, New York 1959, p. 163 sgg. 3. Cfr. G. Luzzato, Breve storia economica dell’Italia medievale. Dalla caduta dell’Impero romano all’inizio del Cinquecento, Einaudi, Torino 1970. 4. Cfr. R.W. Goldsmith, Sistemi finanziari premoderni, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1990, in particolare il capitolo: “Il sistema finanziario della Firenze dei Medici”, pp. 169-198. 5. Cfr. R. de Roover, The Rise and Decline of the Medici Bank: 1397-1494, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1963. 6. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. III, I tempi del mondo, trad. it., Einaudi, Torino 1982, pp.140-155. 7. Cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it., Einaudi, Torino 1982, pp. 603-605. 8. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), cit., vol. III, p. 140. 9. Cfr. G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Giuffrè, Milano 1971. 10. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), cit., vol. II, I giochi dello scambio, trad. it., Einaudi, Torino 1982, pp. 73-77. 11. Cfr. ivi, pp. 445-448. 12. Cfr. C.R. Boxer, The Dutch Seaborn Empire, 1600-1800, Knopf, New York 1965. 13. Cfr. R.W. Goldsmith, op.cit., in particolare il capitolo “Il sistema finanziario delle Province Unite all’epoca della Pace di Münster”, pp. 231-264. 14. Cfr. J. Israel, Dutch Primacy in World Trade, 1585-1740, Clarendon Press, Oxford 1989. 15. Cfr. M.G. Buist, At Spes non fracta:Hope&Co, 1700-1815. Merchant Bankers and Diplomats at Work, Martinus Nijhoff, The Hague 1974. 16. Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, 1776, trad. it., Isedi, Milano 1973, pp. 437-438. 17. Cfr. F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., vol. III, p. 254 sgg. 18. Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996, cap. 3, “Industria, impero e l’accumulazione capitalistica ‘senza fine’”, pp. 213-314. 19. Cfr. F.W. Fetter, Development of British Monetary Orthodoxy, 1797-1815, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965. 20. Sulla discrezionalità della politica monetaria britannica si veda A.I. Bloomfield, Monetary Policy under the International Gold Standard, 1880-1914, Federal Reserve Bank of New York, New York 1959. 21. Cfr. P.B. Whale, The Working of the Prewar Gold Standard, in B. Eichengreen (a cura di), The Gold Standard in Theory and History, Methuen, New York 1985, pp. 49-61.


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22. Cfr. A.I. Bloomfield, Short-term Capital Movements under the Pre-1914 Gold Standard, in «Princeton Studies in International Finance», n. 31, 1963. 23. Cfr. R. Triffin, Europe and the Money Mudle, Yale University Press, New Haven 1957. 24. Cfr. W.M. Scammel, The Working of the Gold Standard, in B. Eichengreen (a cura di), The Gold Standard, cit., pp. 103-119. 25. Cfr. M. De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914, Einaudi, Torino 1979, cap. IV. 26. Cfr. W. Layton, Introduction to the History of Prices, Macmillan, London 1914. 27. Cfr. J. Riesser, The Great German Banks and their Concentration in Connection with the Economic Development of Germany, National Monetary Commission, Washington (DC) 1911. 28. Cfr. C.A. Goodhart, The New York Money Market and the Finance of Trade, 1900-1913, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965. 29. Cfr. J. Clapham, The Bank of England. A History, vol. II, 1797-1914, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1944. 30. Cfr. W.T. King, History of the London Discount Market, Routledge, London 1936. 31. Cfr. J.P.P. Higgins, S. Pollard (a cura di), Aspects of Capital Investment in Great Britain, 17501850, Methuen, London 1971. 32. Cfr. Ch.P. Kindleberger, The Formation of Financial Centers: A Study in Comparative Economic History, in «Princeton Studies in International Finance», n. 3, 1974. 33. Cfr. J. Clapham, op. cit., pp. 325-336. 34. Cfr. ivi, pp. 261-263. 35. Cfr. R.J. Hoffman, Great Britain and the German Trade Rivalry, 1875-1914, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1933. 36. Cfr. A.L. Levine, Industrial Retardation in Britain, 1880-1914, Basic Books, New York 1967. 37. Cfr. S.B. Saul, Studies in British Overseas Trade, 1870-1914, Liverpool University Press, Liverpool 1960. 38. Cfr. E.W. Kemmerer, Seasonal Variations in the Relative Demand for Money and Capital in the United States: A Statistical Study, Government Printing Office, Washington (DC) 1910. 39. Cfr. G.S. Graham, Imperial Finance, Trade and Communication, 1895-1914, in The Cambridge History of the British Empire, vol. III, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1967. 40. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1931-9: World Crisis and Policies in Britain and America, in The Collected Writings of John Maynard Keynes, Cambridge University Press, London 1971-1989, vol. XXI, p. 74 sgg. 41. Cfr. R.S. Sayers, The Bank of England, 1891-1944, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1976, vol. I, cap. 5. 42. Cfr. M. De Cecco, op. cit., cap. VIII. 43. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-19, The Treasury and Versailles, in The Collected Writings, cit., vol. XVI, p. 212. 44. Cfr. M. De Cecco, op. cit., p. 56. 45. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-1919. The Treasury and Versailles, in The Collected Writings, cit., vol. XVI, cap. 3, “Inter-allied Finance, 1917-1918”. 46. Sulle preoccupazioni della borghesia europea si veda, Ch.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, trad. it., De Donato, Bari 1979. 47. Cfr. J.M. Keynes, Activities 1914-1919. The Treasury and Versailles, in The Collected Writings, cit., vol. XVI, cap. 5, “The Peace Conference”, e il vol. XVIII, The End of Reparations. 48. Cfr. R. Dornbusch, Lessons from the German Inflation Experience of the 1920s, in R. Dornbusch, S. Fischer, J. Bossons (a cura di), Macroeconomics and Finance: Essays in Honor of Franco Modigliani, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987. 49. Cfr. H. Schacht, The Stabilization of the Mark, Adelphi, New York 1927. 50. Dalle biografie di questi due grandi banchieri centrali si possono trarre utili informazioni sulle vicende finanziarie del tempo: si veda, E. Clay, Lord Norman, 1957, ristampa, Arno Press, New York 1979, e L.V. Chandler, Benjamin Strong: Central Banker, The Brookings Institution, Washington (DC) 1958.


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51. Cfr. D. Moggridge, The Return to Gold, 1925: The Formulation of Economic Policy and Its Critics, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1969. 52. Cfr. per la Gran Bretagna e per la Francia, S.V.O. Clarke, La collaborazione tra banche centrali dal 1924 al 1931, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1984, e per l’Italia, G.G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo, Feltrinelli, Milano 1980, cap. II. 53. Cfr. B. Eichengreen, Gabbie d’oro. Il “gold standard“ e la Grande Depressione, 1919-1939, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 353-363. 54. Cfr. J.M. Keynes, The Economic Consequences of Mr. Churchill, 1925, ristampato in The Collected Writings, cit., vol. IX. 55. Cfr. H.W. Arndt, The Economic Lessons of the Nineteen-Thirties, 1944, ripubblicato da Frank Cass, London 1972, pp. 283-295. 56. Cfr. D.M. Aldcroft, From Versailles to Wall Street, 1919-1929, University of California Press, Berkeley 1977, cap. 8, The Boom of the Latter 1920s. 57. Cfr. J.K. Galbraith, Il grande crollo, trad. it., Boringhieri, Torino 1972. 58. Cfr. A. Schubert, The Credit-Anstalt Crisis of 1931, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1990. 59. Cfr. B. Eichengreen, op. cit., cap., “Crisi e opportunità”. 60. Cfr. Ch. Kindleberger, The World Depression, 1929-1939, University of California Press, Berkeley 1973. 61. Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, 1944, trad. it.,Einaudi, Torino 1974, pp. 332-333. 62. Cfr. A.I. Bloomfield, Capital Imports and the American Balance of Payments, 1934-39, University of Chicago Press, Chicago 1950. 63. Cfr. Ch. Kindleberger, Storia della finanza in Europa occidentale, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1987, parte V. 64. Cfr. A. Van Dormael, Bretton Woods. Birth of a Monetary System, Macmillan, London 1978, cap. 17. 65. Cfr. E.A. Rossi (a cura di), Il Piano Marshall e l’Europa, Istituto per l’Enciclopedia italiana, Roma 1993. 66. Cfr. B. Tew, International Monetary Cooperation, 1945-1960, Hutchinson University Library, London 1962, cap. VIII-IX. 67. Cfr. Ch. Kindleberger, Lo sviluppo economico europeo e il mercato del lavoro, trad. it., Etas Kompass, Milano 1969. 68. Cfr. G. Haberler, Dollar Shortage, in S.E. Harris (a cura di), Foreign Economic Policy for the United States, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1948. 69. Cfr. H.B. Price, The Marshall Plan and its Meaning, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1955. 70. Cfr. B.G. Hickman, Growth and Stability of the Postwar Economy, Brookings Institution, Washington (DC) 1960, cap. 5. 71. Cfr. R.F. Mikesell, The United States Balance of Payments. The International Role of the Dollar, American Enterprise Institute, Washington (DC) 1970. 72. Cfr. F.L. Block, The Origins of International Economic Disorder. A Study of United States International Monetary Policy from World War II to the Present, University of California Press, Berkeley 1977, cap. 4. 73. Cfr. H.V. Prochnow (a cura di), The Eurodollar Market, Rand McNally, Chicago 1970. 74. Cfr. Ch. Kindleberger (a cura di), Europe and the Dollar, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1966. 75. Cfr. T.F. Cargill, S. Royama, Il processo di trasformazione dei sistemi finanziari. Le esperienze giapponese e statunitense a confronto, trad. it., Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1991, p. 106 sgg. 76. Cfr. B. Tew, L’evoluzione del sistema monetario internazionale, trad. it., Il Mulino, Bologna 1984, p. 127 sgg. 77. Cfr. R.F. Mikesell (a cura di), United States Private and Government Investment Abroad, University of Oregon Press, Eugene (Oreg.) 1962. 78. Cfr. G. Bell, Mercato dell’eurodollaro e sistema finanziario internazionale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1970.


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Cfr. G. Carli, L’eurodollaro: una piramide di carta?, in «Mondo economico», 1971, n. 14. Cfr. R. Parboni, Moneta e monetarismo. Da Keynes a Friedman, Il Mulino, Bologna 1984, parte II. Cfr. S. Hymer, Le imprese multinazionali, trad. it., Einaudi, Torino 1974. Cfr. R. Panizza, Euro 2002. Verso l’appuntamento con la moneta unica, Selcom editoria, Torino 1998. 83. Cfr. A.E. Eckes, A Search for Solvency. Bretton Woods and the International Monetary System, 1941-1971, University of Texas Press, Austin 1975. 84. Cfr. T.F. Cargill, S. Royama, op. cit., p. 112 sgg. 85. Cfr. B. Tew, op. cit., cap. IX. 86. Sulle tensioni che si crearono negli anni Sessanta tra la Francia di De Gaulle e gli Stati Uniti si veda H. Kissinger, The Troubled Partnership, Anchor, Garden City (NY) 1966. 87. Cfr. R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis, Yale University Press, New Haven 1961. 88. Cfr. B. Tew, op. cit., cap. XII. 89. Cfr. S. Melman, The Permanent War Economy, Simon & Schuster, New York 1974. 90. Cfr. G. Patterson, Discrimination in International Trade, Princeton University Press, Princeton 1966. 91. Cfr. R. Solomon, The International Monetary System, 1945-1976. An Insider View, Harper & Row, New York 1977. 92. Cfr. W.M. Corden, Inflazione e tassi di cambio. La dinamica dell’economia internazionale, trad. it., Boringhieri, Torino 1981. 93. Cfr. S. Biasco, L’inflazione nei paesi capitalistici industrializzati. Il ruolo della loro interdipendenza, 1968-1978, Feltrinelli, Milano 1979. 94. Cfr. R. Fried, Ch.L. Schultz (a cura di), Higher Oil Prices and the World Economy, Brookings Institution, Washington (DC) 1975. 95. Cfr. A. Michelsons (a cura di), Tre incognite per lo sviluppo. Strutture di mercato, scelte tecnologiche e ruolo delle istituzioni nell’ultimo decennio, Franco Angeli, Milano 1985, parte I. 96. Cfr. M. Marconi (a cura di), La stagflazione, Il Mulino, Bologna 1985, con testi di J. Tobin, N. Kaldor, J. Meade e una completa bibliografia. 97. Cfr. R. Burlando (a cura di), Trasferimenti di tecnologie e finanziamenti ai paesi in via di sviluppo, Franco Angeli, Milano 1989. 98. Cfr. R. Panizza, All’origine del debito estero dei Paesi del Terzo mondo, in AA.VV., Principi generali del diritto e iniquità dei rapporti obbligatori: aspetti giuridici del debito internazionale dei Paesi latino americani, CNR Progetto Italia-America Latina, Roma 1991. 99. Cfr. J. Tobin, Policies for Prosperity: Essays in a Keynesian Mode, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987. 100. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi internazionale, Etas Libri, Milano 1980. 101. Cfr. G.F. Warren, Gold and Prices, Garland Science, Cape Town 1983. 102. Cfr. Ch.A. Coombs, Trent’anni di finanza internazionale da Bretton Woods ad oggi, trad. it., Etas Libri, Milano 1977, cap. 12. 103. Cfr. R.M. Gardner, Sterling-Dollar Diplomacy, McGraw Hill, New York 1969. 104. Cfr., anche se il libro è stato pubblicato qualche anno prima dello scontro valutario mondiale, S. Strange, Sterling and British Policy. A Political Study of an International Currency in Decline, Oxford University Press, London 1971. 105. Cfr. B.J. Cohen, The Future of Sterling as an International Currency, Macmillan, London 1971. 106. Si veda, relativamente al marco, O. Emminger, The D-Mark Conflict Between the Internal and External Equilibrium, 1948-1975, in «Princeton Essays in International Finance», n. 122, 1997, e relativamente allo yen, G. Tavlas, Y. Ozeki, The Japanese Yen as an International Currency, in «IMF Working Papers», WP/91/2, Washington (DC) 1991. 107. Cfr M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1993. 108. Cfr. R. Triffin, Il sistema monetario internazionale. Ieri, oggi e domani, trad. it., Einaudi, Torino 1973, p. 97 sgg. 109. Cfr. S. Amin, Re-Reading the Postwar Period. An Intellectual Itinerary, Monthly Review Press, New York 1994, cap. IV,


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110. Cfr. H.R. Heller, M.S. Khan, The Demand of International Reserves under Fixed and Floating Exchange Rates, in «IMF Staff Papers», Washington (DC) 1978. 111. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi, cit., p. 14 sgg. 112. Cfr. R. Parboni, Il conflitto economico mondiale. Finanza e crisi internazionale, Etas Libri, Milano 1985, cap. 8, “Finis Europae?”. 113. Cfr. D. Marsh, The Bundesbank: The Bank that Rules Europe, Heinemann, London 1992. 114. Cfr. M. Stewart, The Age of Interdipendence, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1984, cap.6. 115. Cfr. R. Parboni, Finanza e crisi, cit., Appendice A e B. 116. Per avere un’idea del disastro creato dalla spirale svalutazione-inflazione, si veda Ufficio Italiano dei Cambi, I cambi delle principali valute in Italia 1918-1993, Laterza, Bari 1995. 117. Non esiste praticamente alcun riferimento bibliografico a questo tipo di operazioni, relativamente alla lira italiana. Ho cercato di descrivere quanto accadde nella Prefazione alla I e alla II edizione del libro di A.C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin Tax, trad. it., EGA, Torino 1999. 118. Cfr. P. Baffi, Testimonianze e ricordi, Scheiwiller, Milano 1990. 119. Un accenno molto velato alla proibizione delle operazioni swap a brevissimo termine lo si trova in Banca d’Italia, Relazione del Governatore sull’esercizio 1976, Roma 1977, par. Il cambio. 120. Cfr. Ufficio Italiano dei Cambi, Aspetti giuridici e principali aspetti tecnici del controllo dei cambi, Laterza, Bari 1994. 121. Cfr. G. Gandolfo, Esportazioni clandestine di capitali e sovrafatturazioni delle importazioni, in «Rassegna Economica», 1977, novembre-dicembre. 122. Cfr. R. Ossola, F. Campagna, Il ruolo del credito all’esportazione nel commercio estero italiano, Banca di Roma, Roma s.d. 123. Sul problema delle fughe di capitali negli anni Settanta e Ottanta si veda J. Cuddington, Capital Flights: Estimates, Issues and Explanation, in «International Studies in International Finance», 1986, n. 58. 124. Cfr. OECD, Regulation Affecting International Banking Operation (of Banks and non-Banks in France, Germany, Netherlands, Switzerland, the United Kingdom), Paris 1978. 125. Cfr. sugli effetti delle fughe dei capitali sull’economia, M. Kahler (a cura di), Capital Flights and Financial Crisis, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998. 126. Cfr. F. Tutino, Mercato dei cambi e speculazione sulla lira, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988. 127. Cfr. IMI, Il controllo dei cambi e gli investimenti di capitali esteri in Italia, Ufficio Studi IMI, Roma, s.d. 128. Cfr. M.J. Piore, Ch.F. Sabel, Le due vie della produzione industriale: produzione di massa e produzione flessibile, trad. it., Isedi, Torino 1987. 129. Cfr. R. Skidelsky (a cura di), The End of the Keynesian Era: Essays in the Disintegration of the Keynesian Political Economy, Holmes and Meier, New York 1977, rivelatosi poi poco profetico a fronte del drammatico fallimento delle politiche neoliberiste più radicali. 130. Cfr. W.R. Neikirk, Volcker. Portrait of the Money Man, Congdon & Weed, New York 1987. 131. Cfr. R. Parboni, Moneta e monetarismo. Da Keynes a Friedman, Il Mulino, Bologna 1984. 132. Cfr. M. Friedman (a cura di), Studies in the Quantity Theory of Money, University of Chicago Press, Chicago 1956. 133. Cfr. J. Tobin, op. cit. 134. Cfr. N. Kaldor, Il flagello del monetarismo, trad. it., Loescher Editore, Torino 1981. 135. Cfr. P. Krugman, The International Role of the Dollar: Theory and Prospect, in J. Bilson, R. Marston (a cura di), Exchange Rate Theory and Practice, University of Chicago Press, Chicago 1984. 136. Keynes ha attaccato molte volte la figura del rentier: tra le tante citazioni si può fare riferimento a J.M. Keynes, Activities 1940-6: Shaping the Post-War World. Employment and Commodities, in The Collected Writings, cit., vol. XXVII, p. 214. 137. Cfr. R. Panizza, Gli effetti perversi sul debito pubblico delle politiche di risanamento degli anni Ottanta, in «Diritto ed Economia», 1993, n. 2-3. 138. Cfr. M. Arcelli (a cura di), Politica monetaria e debito pubblico, UTET, Torino 1990. 139. Cfr. R. Panizza, L’impatto delle politiche monetariste degli anni Ottanta sul debito estero dei


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paesi in via di sviluppo, in S. Schipani (a cura di), Debito internazionale. Princìpi generali del diritto, Cedam, Padova 1995. 140. Cfr. S. Schipani, Princìpi generali da applicare al diritto internazionale: bilancio dei risultati acquisiti e prospettive di ricerca, in D.A. Gutiérrez, S. Schipani (a cura di), Il debito internazionale, Mursia, Milano 1998. 141. Cfr. S. Marchisio, Derechos Humanos y derechos de los pueblos frente a la deuda externa de América Latina, in S. Schipani (a cura di), op. cit. 142. Cfr. R. Moro, Il debito estero: una relazione perversa, in «Politica internazionale», 2000, n. 3. 143. Cfr. The World Bank, Global Development Finance, Washington (DC) 1999, il cap. 5, “Debt Restructuring”. 144. Cfr. A. K. Sen, Inequality Reexamined, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1992. 145. Cfr. M. Deaglio, Post Global, Editori Laterza, Roma-Bari 2004, par. 3.2, “Povertà come ‘non libertà’”. 146. Cfr. L.J. Santow, The Budget Deficit: The Cause, the Costs, the Outlook, New York Institute of Finance, New York 1988. 147. Cfr. Bank for International Settlements, Recent Innovations in International Banking, Basle 1986. 148. Cfr. W.A. Thomas, Securities Markets, Philip Allan, Hemel Hemstead (UK) 1989. 149. Cfr. G. Szego, F. Paris, G. Zambruno, Mercati finanziari e attività bancaria internazionale, Il Mulino, Bologna 1988, cap. VIII. 150. Cfr. A. Roselli, La finanza americana tra gli anni Ottanta e i Novanta. Instabilità e riforme, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1995, cap. VI, “La crisi delle ‘savings and loan associations’”. 151. Cfr. B. Friedman, Crowding Out or Crowding In? Economic Consequences in Financing Government Deficits, in «Brookings Papers on Economic Activity» 1978, n.3. 152. Cfr. R. Panizza, L’innovazione finanziaria, in «Osservatorio economico» 1987, n. 3. 153. Cfr. R. Panizza, Condizionamenti esogeni ed endogeni nell’accresciuta posizione debitoria dell’America Latina: i termini di una discussione, in D.A. Gutiérrez, S. Schipani (a cura di), op. cit. 154. Cfr. A. Roselli, op. cit., cap. 8, “Strutture e tendenze innovative dei mercati finanziari”. 155. Cfr. Bank for International Settlements, Financial Innovations and Monetary Policy, Basle 1984. 156. Cfr. R.C. Bryant, International Financial Intermediaries: Underlying Trends and Implications for Government Policies, in Y. Suzuki, H. Yomo (a cura di), Financial Innovation and Monetary Policy: Asia and the West, University of Tokyo Press, Tokyo 1986. 157. Cfr. S. Strange, Mad Money, when the Markets Outgrow Governments, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1998. 158. Cfr. J. Eatwell, L. Taylor, Global Finance at Risk. The Case for International Regulation, The New Press, New York 2000. 159. Cfr. H. Helleiner, Post-globalization: Is the Financial Liberalization Trend Likely to Be Resolved?, in R. Boyer, D. Drache (a cura di), States against Markets: The Limits of Globalization, Routledge, New York 1996. 160. Cfr. S. Szego, F. Paris, G. Zambruno, op. cit., p. 411 sgg. 161. Cfr. S. Bowles, D.M. Gordon, T.E. Weisskopf, After the Waste Land. A Democratic Economics for the Year 2000, M.E. Sharpe Inc., Armonk (NY) 1990. 162. Cfr. D.M. Jones, The Politics of Money. The Fed under Alan Greenspan, New York Institute of Finance, New York 1991. 163. Cfr. H. Kaufman, Interest Rates, Markets and the New Financial World, Times Book, New York 1986. 164. A illustrare lucidamente i guai di una strategia fondata sull’apparenza e sul breve periodo si veda, M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, cit., cap. III, “La finanza e la gloria”. 165. Cfr. E. Chancellor, Un mondo di bolle. La speculazione finanziaria dalle origini alla “New economy”, Carocci, Roma 2000, cap. IX, “Il capitalismo kamikaze”. 166. Cfr. D.P. Calleo, Bankrupting America: How the Federal Budget Is Impoverishing the Nation, W. Morrow & C., New York 1992. 167. La tesi, secondo la quale il peggioramento dei conti pubblici e della bilancia dei pagamenti fu


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Roberto Panizza

generato dalle politiche monetariste finalizzate a combattere l’inflazione, è formulata in R. Heilbroner, P. Bernstein, The Debt and the Deficit, W.W. Norton & C., New York 1989, p. 27 sgg. 168. Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo, cit., p. 443 sgg. 169. Cfr. W.C. Peterson, Silent Depression. Twenty- Five Years of Wage Squeeze and Middle-Class Decline, W.W. Norton & C., New York 1994. 170. Cfr. B. Woodward, Maestro. Greenspan’s FED and the American Boom, Simon & Schuster, New York 2000. 171. Cfr. T. Persson, G. Tabellini, Is Inequality Harmful for Growth?, in «The American Economic Review», vol. 84, 1984, n. 3, pp. 600-621. 172. Cfr. P. Rampini, New Economy. Una rivoluzione in corso, Laterza, Bari 2000. 173. Cfr. R. Moro, La riduzione della povertà: “Nuova Frontiera” dell’impegno internazionale e luogo strategico dell’azione dell’organizzazione della società civile, in Ministero Affari Esteri, IPALMO (a cura di), Debito dei paesi poveri: quali politiche per il dopo cancellazione, Laterza, Bari 2004. 174. Cfr. F. Saccomanni, Tigri globali, domatori nazionali. Il difficile rapporto tra finanza globale e autorità monetarie nazionali, Il Mulino, Bologna 2002, cap. V, La crisi della finanza globale. 175. Cfr. P. Krugman, Economisti per caso, trad. it., Garzanti, Milano 2000, parte 5, Il ballo degli speculatori. 176. Cfr. A.K. Sen, The Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», 1970, pp. 152-157. 177. Cfr. P. Krugman, Crisis: The Price of Globalization?, in Global Economic Integration: Opportunities and Challenges. A Symposium, Federal Reserve Bank of Kansas City, Kansas City 2000. 178. Cfr. M. Chossudovsky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, trad. it., EGA, Torino 1998, parte I. 179. Cfr. sulle conseguenze sociali della crisi E. Lee, The Asian Financial Crisis. The Challenge for Social Policy, International Labor Office, Geneva 1999. 180. Scherzando, sono solito dire ai miei studenti che è come se qualcuno mi gettasse giù da un balcone e, portato moribondo all’ospedale, mi diagnosticassero che avevo le arterie indurite, il cuore stanco e il fegato stressato: è tutto vero, ma l’osso del collo me lo sono rotto esclusivamente perché qualcuno mi ha scaraventato giù dal balcone. 181. Cfr. V. Valli, L’Europa e l’economia mondiale. Trasformazioni e prospettive, Carocci, Roma 2002, par. 2.4, La globalizzazione finanziaria. 182. Cfr. UNCTAD, World Investment Report 2003. FDI Policies for Development: National and International Perspective, Geneva 2003. 183. Cfr. World Bank, Global Development Finance, Washington (DC) 2003. 184. Cfr. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, Geneva 2003, cap. II, Financial Flows to Developing Countries and Transition Economies. 185. Cfr. M. Deaglio, Postglobal, cit., par. 3.1, Una premessa: la scarsa bontà degli strumenti di misura economica. 186. Cfr. Banca dei Regolamenti Internazionali, Evoluzione dell’attività sui mercati bancari e finanziari internazionali, Rassegna trimestrale, Basle 2003. 187. Cfr. P. De Grauwe, Economia dell’integrazione monetaria, Il Mulino, Bologna 1997. 188. Cfr. U. Triulzi, Dal mercato comune alla moneta unica, Seam, Roma 1999. 189. Cfr. G. Vitali (a cura di), Imprese e mercati nell’Europa della moneta unica, UTET, Torino 2001. 190. Cfr. C.A. Bollino, P.C. Padoan (a cura di), Il circolo virtuoso. Commercio e flussi finanziari in un’Europa allargata, Il Mulino, Bologna 1993.


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Capitolo primo

Migrazioni internazionali e globalizzazione

Sin dagli inizi dell’età moderna le migrazioni internazionali hanno concorso alla formazione del sistema mondiale, che della globalizzazione è la necessaria premessa. Gli stessi Stati Uniti d’America, la potenza ormai da tempo mondialmente egemone, sono sorti da tali migrazioni, così come il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e tutti i Paesi dell’America più o meno propriamente definita latina. Anche molti Paesi dell’Asia e dell’Africa, ove pure la popolazione autoctona era molto più consistente, hanno conosciuto una significativa immigrazione europea durante la loro colonizzazione e gli effetti si fanno tuttora sentire. Rispetto al passato vi è stato però un cambiamento fondamentale. Per quattro secoli e mezzo, dalla scoperta dell’America alla seconda guerra mondiale, i flussi migratori andavano in prevalenza dal centro del sistema mondiale in formazione, l’Europa, alle sue periferie: le Americhe, l’Africa, l’Asia, la lontana Oceania. All’indomani della seconda guerra mondiale, nel quadro della trasformazione epocale di quegli anni (che videro l’affermazione della potenza americana, la divisione del mondo in due grandi blocchi politici, economici, ideologici e militari, la fine dei grandi imperi coloniali con l’accesso all’indipendenza di quasi tutti i Paesi asiatici e africani, la costituzione dello Stato d’Israele, con l’inizio del conflitto palestinese, e lo scoppio di grandi rivoluzioni sociali in molti Paesi del Terzo Mondo, fra cui la Cina in Asia, l’Algeria in Africa e Cuba in America Latina), si ebbe l’inversione della direzione fondamentale dei flussi, che cominciarono ad andare sempre più dalle periferie del sistema mondiale al suo centro (che comprendeva ormai gli Stati Uniti). Il fattore di fondo sotteso al rovesciamento della tendenza secolare è stato il diverso andamento dei trend demografici nel centro e nella periferia: un dato di grande rilevanza, che indusse a individuare in questa “nemesi storica” del colonialismo l’inizio di un processo destinato a ridisegnare la mappa etnografica del mondo. 1.1 Le tre fasi delle migrazioni post-belliche in Europa Dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri l’Europa ha conosciuto tre diverse fasi migratorie. La prima fase (1945-1973) comprende migrazioni intercontinentali e migrazioni continentali. Le prime furono essenzialmente determinate dai “fattori di espulsione” (push factors) nei Paesi di esodo, fra cui le grandi crisi politiche ed eco-


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nomiche che accompagnarono la decolonizzazione. Ricordo, per l’impero britannico, i sanguinosi scontri che hanno portato alla divisione prima dell’India e del Pakistan e poi del Pakistan occidentale e del Pakistan orientale, cui si devono decine di milioni di profughi, e le drammatiche violenze in Africa orientale, che causarono la fuga o l’espulsione delle rilevanti minoranze europee e asiatiche ivi insediate. Né si possono dimenticare le fughe verso Hong Kong, ancora colonia britannica, nei momenti di crisi della Repubblica Popolare Cinese. Per l’impero francese, basti richiamare gli effetti delle guerre d’Indocina (1946-54) e di Algeria (1955-62), che portarono all’abbandono in massa di quei Paesi da parte non solo dei coloni francesi, ma anche dei nativi che avevano collaborato con loro e dei dissidenti dei regimi autoritari che vi si costituirono. Simili per molti aspetti furono le migrazioni di quel periodo verso gli altri Paesi coloniali: il Belgio (per il Congo, in crisi profonda dopo la sua indipendenza, e il Ruanda e il Burundi, scossi da sanguinosi conflitti etnici destinati a riaccendersi periodicamente), i Paesi Bassi (per l’Indonesia e il Suriname) e, un poco più tardi, il Portogallo (per la Guinea-Bissau, Capo Verde, l’Angola e il Mozambico). L’Italia stessa conobbe a più riprese migrazioni dalle sue ex colonie, in relazione alle vicende che hanno sconvolto la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e la Libia. Le migrazioni continentali si dovettero invece, oltre che ai fattori di espulsione nelle aree di esodo, di natura demografica, economica e anche politica (soprattutto per la Spagna, il Portogallo e la Grecia), ai fattori di attrazione (pull factors) nei Paesi di approdo, fra cui il richiamo di manodopera per la ricostruzione post-bellica e il lungo periodo di espansione che la seguì. Queste migrazioni continentali hanno interessato quasi tutti i Paesi europei, ma con una netta distinzione di ruoli fra quelli dell’Europa meridionale e quelli dell’Europa centro-settentrionale: i primi costituirono le aree di esodo e i secondi le aree di approdo. Nei Paesi dell’Europa meridionale non sono però mancate migrazioni interne che ne riproducevano in parte la logica. La seconda fase (1973-1982) si apre con la grande crisi del 1973-74, precipitata dall’aumento del costo del petrolio, ma dovuta in realtà all’esaurirsi della funzione trainante delle attività produttive che avevano caratterizzato la precedente fase espansiva. Mentre in Europa tendono a venir meno le migrazioni continentali, i movimenti migratori si estendono nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro che comincia a profilarsi appunto in questi anni come parziale risposta alla crisi1. Ne consegue una situazione contraddittoria: da un lato i tradizionali Paesi europei d’immigrazione chiudono le loro frontiere a ulteriori arrivi per motivi di lavoro; dall’altro la crisi inasprisce le situazioni espulsive nei Paesi di esodo, causando conflitti sociali e repressioni cruente (basti ricordare i colpi di Stato in Cile e in Argentina, con le loro decine di migliaia di desaparecidos, l’aggravarsi della dittatura militare in Brasile, le guerre civili in America centrale, la trasformazione del regime cubano in una vera e propria dittatura, il nuovo conflitto israelo-arabo, l’inasprirsi degli scontri etnici in Ruanda e Burundi, Etiopia, Eritrea, Somalia e Sri Lanka e la repressione contro le minoranze nel Vietnam riunificato). Ai migranti per motivi economici si aggiun-


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gono così numerosissimi migranti per motivi politici. È in questo contesto che divengono Paesi d’immigrazione anche i Paesi dell’Europa meridionale, che, essendo stati sino ad allora dei Paesi di emigrazione, non avevano chiuso le loro frontiere. Anche fuori dell’Europa si aprono però dei nuovi poli migratori: i Paesi petroliferi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale e occidentale (fra cui la Libia e la Nigeria), il pur riluttante Giappone, ormai terza potenza industriale del mondo, e i nuovi Paesi industriali, a partire dalle quattro ben note “tigri asiatiche” (Hong Kong, Singapore, Taiwan e la Corea del Sud). La terza fase inizia nel 1982, con la ripresa economica di quegli anni, ed è tuttora in corso, nonostante le alterne vicende della congiuntura economica e l’impatto di pur straordinarie vicende storiche (il crollo del muro di Berlino, la crisi e l’implosione dell’Unione Sovietica e dei suoi Paesi satelliti, la guerra del Golfo, con le sue conseguenze in Medio Oriente e in Europa, la crisi dei Balcani e, da ultimo, dopo un periodo di solo apparente assestamento, gli attentati alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington e le azioni militari intraprese in nome della guerra al terrorismo). In questa fase le migrazioni internazionali tendono a generalizzarsi e a intensificarsi su scala planetaria, nell’ambito di quelle ulteriori trasformazioni economiche, politiche, sociali e culturali cui ci si suol riferire col termine di “globalizzazione”. In questa fase si aggravano i fattori espulsivi in molti Paesi di esodo. In Africa, in particolare, vengono meno le speranze e le illusioni del periodo della decolonizzazione e dei primi anni dell’indipendenza. La crisi economica e la disgregazione sociale, incrudelite a volte da insensati conflitti, inducono alla fuga crescenti masse di giovani, disposti ad affrontare ogni rischio, come confermano le reiterate tragedie che colpiscono quelli che cercano di attraversare il Mediterraneo su stracariche “carrette del mare”. Fra questa fase e la precedente, al di là delle differenze, esiste peraltro una continuità: la globalizzazione si sovrappone infatti ai processi della nuova divisione internazionale del lavoro, da cui si distingue soprattutto per la pervasività e la rapidità delle trasformazioni, dovute in gran parte allo sviluppo delle nuove tecnologie e al ruolo assunto dall’economia finanziaria. 1.2 Le relazioni fra globalizzazione e migrazioni internazionali Fra globalizzazione e migrazioni internazionali esiste una complessa relazione. Senza alcuna pretesa di esaustività, ne sintetizzerò qui alcuni elementi. Da una parte il processo di globalizzazione tende a incrementare le migrazioni internazionali, anche se non tutte le sue componenti agiscono in tal senso. In particolare: a) gli accresciuti contatti reali e virtuali diffondono nella popolazione dei Paesi a un grado di sviluppo intermedio la sensazione di deprivazione relativa, che, ancor più della povertà assoluta, motiva le nuove migrazioni internazionali; b) le grandi multinazionali, il commercio, il turismo e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa controllati o influenzati dai Paesi occidentali favoriscono nei Paesi in via di sviluppo la “socializzazione anticipata” ai valori e ai


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modelli di comportamento delle aree più sviluppate: un processo che ancora nella prima fase delle migrazioni post-belliche era ritenuto possibile solo nel caso dei flussi interni2. Tale socializzazione, che stimola le migrazioni, risulta peraltro assai più facile per ciò che concerne le “mete” che non i “mezzi”, con conseguente incremento di devianza e criminalità. Le migrazioni sono anche favorite dalla scolarizzazione di massa, d’impronta spesso occidentalizzante, che diffonde un’almeno elementare conoscenza delle più diffuse lingue veicolari. All’accresciuta distanza geografica fra i Paesi di emigrazione e i Paesi d’immigrazione non corrisponde così più necessariamente una maggior distanza culturale dei migranti, che va indagata caso per caso; c) i contraddittori processi di sviluppo avviati nei Paesi di esodo dall’esportazione di attività produttive (che a lungo termine possono ridurre la propensione a emigrare, creando in loco maggiori possibilità di occupazione), sul breve e sul medio periodo più spesso l’incrementano, destrutturando l’organizzazione sociale esistente; d) la diffusione in tempo reale delle informazioni relative a opportunità di guadagno, sistemazioni abitative anche precarie, possibilità d’ingresso regolare e clandestino, tolleranza dell’irregolarità e della stessa criminalità, forme di accoglimento e di assistenza, regolarizzazioni e sanatorie ecc., promuove le nuove migrazioni internazionali; e) l’accresciuta facilità degli spostamenti, grazie alla riduzione dei costi e dei rischi (quando almeno non siano gestiti da organizzazioni criminali), consente reiterati tentativi migratori e rende possibili migrazioni temporanee un tempo impensabili; f) la facilitazione delle rimesse monetarie anche illegali ai Paesi di origine costituisce un ulteriore incentivo alle migrazioni per motivi economici. D’altra parte le migrazioni internazionali concorrono al processo di globalizzazione in vari modi. In particolare: a) costituiscono una parziale alternativa all’esportazione della produzione in Paesi ove il costo del lavoro è minore o la sostituiscono in quelle attività in cui tale esportazione è difficile o addirittura impossibile; b) moltiplicano nei Paesi d’immigrazione l’offerta di beni e di servizi “esotici”: prodotti alimentari e medicinali, cucina, musica ecc., per tacere delle prestazioni sessuali da parte di soggetti diversi dai fenotipi localmente prevalenti; c) introducono nei Paesi d’immigrazione lingue, culture, religioni, usi e costumi diversi da quelli locali; d) concorrono alla formazione di società multirazziali, multietniche, multiculturali, multilinguistiche e multireligiose nei Paesi d’immigrazione, con tutte le relative potenzialità, ma anche con tutti i relativi problemi; e) stimolano il consumo di prodotti stranieri sia nei Paesi d’immigrazione, sia nei Paesi di emigrazione;


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f) contribuiscono, con le rimesse degli emigrati, ad aumentare il potere di acquisto dei Paesi di emigrazione, favorendone l’inserimento nel mercato mondiale; g) diffondono nei Paesi di origine degli immigrati, col ritorno temporaneo o definitivo di questi, i modelli di vita e di consumo dei Paesi d’immigrazione, integrando l’azione dei mezzi di comunicazione, della pubblicità e del turismo. Di conseguenza concorrono a quell’omologazione culturale che costituisce uno dei più vistosi aspetti della globalizzazione.


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Capitolo secondo

Politiche migratorie e culture politiche

Per quanto concerne la gestione dell’immigrazione nei Paesi di approdo notevole è l’influenza delle loro culture politiche. Ciò risulta tanto più chiaro se, in contrasto con le riduttive definizioni correnti, per cultura politica s’intenda l’insieme delle idee fondamentali che in un determinato Paese orientano la prevalente concezione dello Stato, del popolo e della nazione, le relazioni esplicitamente o implicitamente istituite fra loro e quindi le relazioni fra etnicità, nazionalità e cittadinanza, i princìpi che regolano l’acquisizione di quest’ultima e i diritti e i doveri che ne conseguono3. La cultura politica ha in effetti profondamente influenzato le politiche migratorie di tutti i principali Paesi d’immigrazione. Proprio per questo le politiche migratorie di alcuni di loro hanno configurato dei distinti modelli. Converrà dunque richiamare la situazione dei principali Paesi d’immigrazione, mettendone in luce il rapporto fra politica migratoria e cultura politica. 2.1 Francia In Francia l’immigrazione è un fatto importante. Nel 2000, su quasi 60 milioni di abitanti, vi vivevano, nonostante le numerosissime naturalizzazioni intercorse, 3.263.000 stranieri, pari al 5,6% della popolazione, come risultato di un processo immigratorio iniziato già nell’Ottocento. La politica migratoria è stata a lungo caratterizzata da un assimilazionismo etnocentrico: una risposta dettata dalla sua cultura politica a un’immigrazione utilizzata per fronteggiare non solo occasionali carenze di manodopera, ma una cronica crisi demografica, pericolosa anche per i suoi riflessi sul piano militare. La Francia, che alla vigilia della rivoluzione del 1789 era il Paese europeo più popoloso, nei primi decenni del secolo seguente subì il contraccolpo delle guerre rivoluzionarie e delle guerre napoleoniche. Così, quando, dopo il 1820, cominciò la sua industrializzazione, emerse una consistente domanda di forza-lavoro inappagata dall’offerta interna: una situazione che si è protratta, tra alti e bassi, sino ai giorni nostri, date anche le successive falcidie causate dalle varie guerre combattute in Europa e nelle colonie. Ciò ha favorito un’immigrazione che la società francese ha cercato d’integrare nell’unico modo concepibile in un Paese che si rappresentava come una grande nazione omogenea e s’identificava profondamente con un forte Stato accentrato, che non riconosceva al proprio interno né


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nazionalità minoritarie né gruppi etnici locali e contrastava con vigore ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra le istituzioni e i cittadini (ai quali d’altra parte assicurava i diritti sanciti dalla Rivoluzione, della cui tradizione, laica e giacobina, la sua componente repubblicana si è sempre considerata erede). L’integrazione, in questo contesto, presupponeva necessariamente un’assimilazione alla cultura del Paese. In concreto, il progetto francese prevedeva che gli immigrati, non che utilizzare la loro identità etnico-culturale come una risorsa per un’integrazione non subalterna, l’abbandonassero completamente per diventare dei “buoni francesi”: un processo che presupponeva l’assimilazione per quanto concerneva la lingua, la cultura e, possibilmente, la stessa mentalità. In cambio lo Stato estendeva loro tutti i diritti, facendone dei suoi cittadini, grazie alla cosiddetta “naturalizzazione”. D’altra parte anche gli immigrati che non potevano o non volevano naturalizzarsi mettevano al mondo dei figli francesi. Sin dal 1889 in materia di cittadinanza vigeva infatti lo jus soli, limitato soltanto di recente (1993) e per un breve periodo. L’assimilazione era del resto favorita dal fatto che la Francia attingeva allora ai serbatoi di manodopera degli altri Paesi latini e cattolici. Ma questi si sono da tempo esauriti e la maggior parte degli immigrati giunge ormai da aree più lontane: il Maghreb, di lingua araba e di religione musulmana; l’Africa occidentale, di prevalente religione animista o musulmana; il Sud-Est asiatico, di tradizione buddista o confuciana. Se anche si tratta per lo più di aree che hanno conosciuto la colonizzazione francese, il progetto assimilatore si scontra con la maggior distanza culturale di questi immigrati, nonostante gli effetti dell’omologazione culturale e della socializzazione anticipata. A ciò si aggiunga la loro più evidente diversità etnica, la loro rilevante consistenza numerica e la loro frequente presenza in nuclei d’intere famiglie o addirittura in comunità etniche che difendono la propria identità. D’altra parte la “sindrome da invasione”, emersa sin dagli anni Ottanta specialmente per ciò che concerne la componente arabo-islamica della nuova immigrazione, ha determinato delle reazioni xenofobe, che hanno trovato espressione, fra l’altro, nella proposta di rivedere in senso restrittivo lo stesso codice della cittadinanza. Questa proposta, avanzata dall’estrema destra, ma fatta propria anche da forze più moderate, fu parzialmente accolta nel 1993 dalla maggioranza di centro-destra da poco tornata al potere. Aspre furono peraltro le reazioni di chi, fedele al vecchio “modello repubblicano d’integrazione”, ne giudicava le conseguenze nefaste non solo per gli immigrati, ma per la stessa repubblica. Così, col ritorno al governo delle sinistre (1997), la vecchia normativa fu sostanzialmente ripristinata. Nel dibattito francese si continua pertanto a tematizzare l’“integrazione degli immigrati”: un’espressione il cui primo termine rappresenta poco più di un eufemismo per la vecchia “assimilazione”, mentre il secondo continua a ridurre gli stranieri a soggetti senza storia e senza cultura, pronti a entrare nella grande macchina assimilatrice della società francese. Questa macchina, però, da tempo perde molti colpi. Fra le cause, oltre alla


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stessa maggior resistenza dei nuovi immigrati all’assimilazione, va ricordata la crisi delle vecchie agenzie di socializzazione (la scuola, l’esercito, la fabbrica, i sindacati, i partiti), nonché la difficoltà per la Chiesa di far sentire la propria voce ai musulmani, che dell’immigrazione recente costituiscono la componente più numerosa. Sul piano delle politiche sociali, d’altra parte, prevale ancora il rifiuto degli interventi specifici per gli stranieri. La preferenza è per interventi diretti a tutti coloro che presentino determinati problemi, anche se ben raramente quest’impostazione “universalistica” costituisce una risposta efficace alle particolari difficoltà degli immigrati. Le conseguenze sono state gravissime. Come ebbe a osservare uno dei più autorevoli sociologi francesi, anche per questo la Francia conosce una forte carenza d’integrazione sociale, che ostacola la stessa pur perseguita assimilazione culturale4. 2.2 Regno Unito Nel Regno Unito, su quasi 60 milioni di abitanti, nel 2000 vivevano circa 2.500.000 stranieri, più del 4% della popolazione. Questa situazione, come quella della Francia, era il risultato di un’immigrazione di lunga data, anche se meno antica. Peraltro la politica migratoria britannica differisce profondamente da quella francese, così come diversa è la sua cultura politica: una cultura pragmatica, che riconosce i particolarismi etnici e culturali, promuove l’autonomia e il decentramento e valorizza il ruolo delle formazioni sociali intermedie. Lo stesso forte etnocentrismo comune ai loro progetti assume forma diversa: universalistica in Francia, ove emerge la pretesa che gli immigrati di qualsiasi razza e cultura abbiano a divenire dei “buoni francesi”; particolaristica nel Regno Unito, ove prevale la convinzione che anche gli immigrati dei Paesi più vicini per storia e cultura mai potrebbero diventare dei “buoni britannici”. Di conseguenza li si accetta per quello che sono, cercando però di limitarne gli effetti sullo stile di vita britannico. A definire tale orientamento ha concorso anche un’immigrazione di natura almeno in parte diversa. Nel Regno Unito l’arrivo degli stranieri non ha mai svolto una funzione demografica importante ed è stato anche meno motivato da un’inappagata domanda di lavoro. A determinarla sono state soprattutto le vicende storiche dei Paesi di esodo e, più in particolare, le crisi politiche ed economiche dei Paesi del Commonwealth. Di conseguenza è stato anche un fatto assai meno individuale, che ha assunto spesso la fisionomia di un vero e proprio movimento di massa alla ricerca di un rifugio (come nel caso degli indo-pachistani, negli anni Quaranta e Cinquanta, o degli asiatici insediati in Africa orientale, negli anni Sessanta, o dei cinesi e dei vietnamiti fuggiti a Hong Kong negli anni Settanta e Ottanta). Inoltre nel Regno Unito da più tempo l’immigrazione proviene da lontano: le ex-colonie delle Indie occidentali, dell’Asia e dell’Africa, dato anche che sino al 1962 i loro originari potevano entrare nel Regno Unito senza particolari formalità. Da più tempo, quindi, in quel Paese gli immigrati costituiscono uno stock che si differenzia notevolmente dagli autoctoni in termini razziali, etnici e culturali.


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Queste popolazioni trapiantate (perché di ciò in effetti si tratta nella maggior parte dei casi) hanno potuto formare nel Regno Unito le loro comunità, diventate poi dei punti di riferimento per gli interventi delle autorità amministrative. Inoltre nel Regno Unito la distinzione fra cittadini e non cittadini è sempre stata meno netta che in altri Paesi, per la presenza di una categoria, quella degli originari del Commonwealth, a sua volta differenziata secondo la provenienza, la data di arrivo nel Regno Unito, l’eventuale ascendenza britannica, le eventuali pregresse prestazioni per l’amministrazione britannica ecc. Inoltre gli immigrati dal Commonwealth regolarmente residenti godono del diritto di voto attivo e passivo sia alle elezioni amministrative, sia alle elezioni politiche. Quest’impostazione, che pure è stata a lungo capace di far fronte alla situazione, rivela da tempo i suoi limiti. Le comunità più consistenti sollecitano infatti un cambiamento, con la rinuncia all’egemonia da parte della componente autoctona, mentre la “seconda generazione” degli immigrati esprime il suo disagio per un sistema che, pur concedendo dei riconoscimenti alle comunità, relega gli individui che ne fanno parte in una posizione subalterna, enfatizzandone la “diversità”. In proposito va sottolineato che il dibattito sulla presenza straniera (che in Francia verte sull’“integrazione degli immigrati”, senza distinzioni di razza e di etnia) nel Regno Unito ruota invece intorno alle “relazioni di razza e di etnia” (racial and ethnic relations) e il problema più discusso è quello dei diritti delle minoranze etniche e razziali. Ma la stessa terminologia impiegata, spesso del tutto inappropriata, lascia intravedere una tendenza a razzializzare e a etnicizzare i problemi. Peraltro, per far fronte a discriminazioni e razzismo, sin dagli anni Sessanta sono state adottate delle importanti misure. In particolare il Race Relations Act del 1976, esteso da un emendamento del 2000 a tutte le pubbliche amministrazioni, bandisce ogni forma di discriminazione e promuove l’“uguaglianza delle opportunità” fra i gruppi etnici. Eppure ancora agli inizi degli anni Novanta non si poteva escludere una degenerazione della situazione in presenza5. Non tutti i rischi sono stati scongiurati, né sono mancati anche negli ultimi anni dei gravi conflitti, ma oggi si può forse guardare al futuro con più ottimismo, date anche le trasformazioni in corso nella cultura politica del Paese. 2.3 Germania La Germania è da molti decenni il Paese europeo con il più alto numero assoluto d’immigrati: 7.336.000, nel 2002, poco meno degli abitanti dell’Austria, su una popolazione di 82,6 milioni, pari all’8,9%. Eppure ha a lungo rifiutato di riconoscersi come un Paese d’immigrazione, con una formula reiterata per anni dai suoi governanti: Deutschland ist kein Einwanderungsland. In realtà la Germania era diventata un Paese d’immigrazione già alla fine dell’Ottocento e nel secondo dopoguerra, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, aveva addirittura intrapreso un’attiva politica di reclutamento all’estero della manodopera. I pur numerosissimi immigrati furono dunque a lungo configurati come dei semplici “lavoratori ospiti” (Gastarbeiter), destinati a una permanenza solo tem-


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poranea. Quel sistema era però già entrato in crisi alla metà degli anni Settanta. La citata chiusura delle frontiere a ulteriori arrivi di lavoratori (1973) aveva infatti indotto molti immigrati a fermarsi nel Paese e a farsi raggiungere dai famigliari. La classe politica ha però evitato di prenderne atto e di elaborare per loro un vero progetto d’integrazione. Sino a pochi anni fa la politica perseguita in Germania poteva dunque essere sintetizzata più facilmente in termini negativi che positivi: né integrazione, né segregazione6. In realtà gli immigrati sono a lungo restati degli “stranieri” con cui si poteva convivere anche per un lungo periodo, ma senza confusioni di status. Nonostante qualche concessione in data relativamente recente (1993), l’acquisizione della cittadinanza era assai difficile, sia per la prima generazione d’immigrati (la naturalizzazione presupponeva quindici anni di permanenza legale nel Paese per gli adulti e otto anni per i giovani dai 17 ai 23 anni), sia per la seconda (lo jus soli non fu introdotto che nel 2000). In via di principio i giovani nati in Germania da genitori immigrati erano destinati a restare stranieri in quello che era il loro solo Paese e, nonostante la citata riforma, le naturalizzazioni concesse a qualsiasi titolo risultavano quattro volte meno numerose che in Francia, benché gli immigrati fossero quasi il doppio. Questa impostazione era dettata da una precisa cultura politica. La Germania, ultimo dei grandi Paesi europei a costituirsi in Stato nazionale, ha sempre concepito la nazione non in termini soggettivi ed etico-politici, come in Francia, ma in termini oggettivi ed etnico-culturali: un fatto di sangue e di terra (Blut und Boden), in cui nativamente si esprime la pretesa specificità del popolo tedesco (Deutsches Volk). Anche dopo la costituzione dello Stato nazionale, per le note vicende storiche (fra cui, nel secondo dopoguerra, la sua sofferta divisione), l’appartenenza a tale popolo è stata sempre privilegiata rispetto all’appartenenza a una determinata entità politica (come ha dimostrato anche la rapida riunificazione dei due Stati tedeschi, già politicamente, economicamente, militarmente e ideologicamente contrapposti, propiziata da grandi manifestazioni caratterizzate dal grido Wir sind ein Volk: «Siamo un solo popolo»). Proprio per questo i profughi tedeschi provenienti dai territori orientali del Reich passati alla Polonia e all’Unione Sovietica (i Vertriebene), i transfughi dalla cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca (gli Übersiedler) e persino i discendenti dei tedeschi trapiantatisi molte generazioni or sono nei Paesi dell’Europa orientale (gli Aussiedler) sono sempre stati considerati nella Repubblica Federale Tedesca come dei potenziali cittadini. D’altra parte tale concezione ha ispirato la tendenza a tutelare la pretesa omogeneità etnico-culturale del popolo tedesco e a contrastarne il dissolvimento. La prima preoccupazione della politica migratoria tedesca è stata a lungo quella di tracciare la distinzione tra gli autoctoni e gli stranieri7. Ancora inizi degli anni Novanta si dava per scontato che la presenza di questi ultimi sul suolo tedesco dovesse essere solo temporanea e si cercava di prevenirne il radicamento. Nel 1973 era stata ventilata una loro “integrazione temporanea”, ma la trasformazione dell’immigrazione cominciata proprio in quell’anno rese del tutto inadeguate le mi-


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sure previste a tal fine. Da un lato il consolidamento delle presenze pregresse comportò una complessificazione della popolazione immigrata. Dall’altro cominciò il periodo dell’immigrazione clandestina e irregolare, dell’aumento del tasso di disoccupazione fra gli stessi immigrati legali e dell’arrivo in massa dai Paesi del Terzo Mondo di veri e sedicenti “rifugiati”. Sul finire degli anni Ottanta il tracollo dei Paesi dell’Est rovesciò poi sulla Repubblica Federale Tedesca delle ondate di profughi senza precedenti in tempo di pace: oltre un milione e mezzo di persone, con un saldo netto di circa un milione, fra il 1989 e il 1990, prima dell’unificazione dei due Stati tedeschi, tra Übersiedler e Aussiedler. Dopo l’unificazione (1990) l’afflusso degli Aussiedler continuò a un ritmo elevato e il numero dei rifugiati di altra origine aumentò, mentre cominciarono anche le migrazioni interne dai nuovi ai vecchi Länder. Difficoltà di convivenza emersero un po’ dappertutto e, a partire dalle aree della Germania orientale, in grave crisi, si moltiplicarono le esplosioni di razzismo e di xenofobia. Il modello dell’estraniazione degli immigrati, nato in un’altra epoca storica, sembrava del resto fatto apposta per coltivare pregiudizi, odi e rancori. Successivamente vi furono dei segni di resipiscenza, ma le stesse più autorevoli dichiarazioni in favore di un’integrazione degli stranieri residenti da anni nel Paese rivelavano una concezione piuttosto riduttiva: l’integrazione era vista infatti non come la conseguenza dello sviluppo di normali relazioni sociali fra persone di origine diversa, ma come un processo guidato dall’alto, nel prevalente interesse della componente tedesca, che avrebbe dovuto trarre dalla situazione il vantaggio di assicurarsi l’apporto dei lavoratori stranieri senza riconoscere loro pieni diritti di cittadinanza. Un rilevante passo in avanti è stato compiuto nel 1999, con la riforma della legge sulla cittadinanza, approvata non senza contrasti dalla nuova maggioranza rosso-verde. Questa legge, entrata in vigore il 1° gennaio 2000, operando una significativa rottura con la consolidata tradizione sopra illustrata, ha riconosciuto per la prima volta ai giovani nati in Germania da immigrati stranieri il diritto di accedere alla cittadinanza del Paese. Più recentemente (22 marzo 2002) la stessa maggioranza ha votato una legge sull’immigrazione, che è stata però annullata dalla Corte Costituzionale prima della sua entrata in vigore per un’indebita forzatura nel computo dei voti alla Camera dei Länder e non è stata ripresentata per il timore di una sua bocciatura. 2.4 Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo La cultura politica ha esercitato un’influenza importante sulla politica migratoria anche in altri Paesi. Gioverà iniziare questa rapida rassegna dai tre Paesi del Benelux, che sono stati alcune delle più tradizionali mete migratorie dell’Europa occidentale. Il Belgio (30.518 km2, con poco più di 10 milioni di abitanti) è stato spesso considerato un Paese artificiale, inventato dalla diplomazia ottocentesca per risolvere il problema di un’area contesa fra le principali potenze europee per le risorse naturali e la posizione strategica. Ma il Paese ha una sua identità, cui con-


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corrono elementi diversi. Fra quelli premoderni va ricordata la religione cattolica, che determinò il rifiuto della sua componente fiamminga di unirsi ai protestanti di lingua olandese degli attuali Paesi Bassi e quello della sua componente francofona di lasciarsi inglobare nello Stato laicista francese. Fra quelli moderni ha giocato un ruolo importante il contributo che il Paese ha dato sin dagli inizi al processo d’integrazione che ha portato all’Unione Europea, di cui Bruxelles è diventata la capitale di fatto. Nel Belgio l’immigrazione iniziò nella fase della ricostruzione post-bellica. In un primo tempo vi fu un’immigrazione europea (in primo luogo di italiani) per le attività meno gradite alla popolazione locale, fra cui il lavoro nelle miniere. Più tardi vi fu l’arrivo di africani dalle ex colonie (Congo, Ruanda, Burundi) squassate da distruttivi conflitti. Infine è diventata importante anche l’immigrazione dal Nord Africa, e più in particolare dal Marocco. Complessivamente, secondo i dati del 2001, gli immigrati sono 862.000 e la loro percentuale sulla popolazione, l’8,4%, è una delle più alte in Europa. I tre quarti sono però cittadini comunitari, in gran parte da tempo residenti, e ciò riduce i problemi. La legge di “naturalizzazione rapida”, entrata in vigore nel maggio 2000, ha favorito l’acquisizione della cittadinanza da parte di un numero crescente di stranieri (che sono arrivati ai 60.000 l’anno, contro i 10.000 scarsi degli anni Ottanta e i 30.000 della fine degli anni Novanta). Agli inizi del 2004 l’elettorato amministrativo, senza eleggibilità, è stato esteso agli extracomunitari legalmente residenti da almeno cinque anni. I Paesi Bassi sono un’altra nazione costituitasi grazie a un fattore religioso. Si è infatti formata per effetto delle guerre di religione che videro nelle sue regioni l’affermazione del protestantesimo calvinista. Nel 2001, su poco più di 16 milioni di abitanti, vi erano 700.000 immigrati regolari (di cui il 30% comunitari), pari al 4,3% della popolazione, ma a questo numero si dovrebbero aggiungere gli originari delle ex colonie che al momento della loro indipendenza hanno optato per la cittadinanza olandese. Questa consistente immigrazione si deve anche alla collocazione geografica del Paese, situato all’incrocio di importanti vie di comunicazione, e al suo retaggio storico di Paese aperto ai movimenti di rifugio e centro di un impero coloniale assai vasto, che giunse a comprendere uno dei più grandi Paesi asiatici, l’Indonesia, alcune isole delle Antille e una parte della Guyana. Dopo una fase in cui, proprio come in Germania, si volle negare ideologicamente il carattere immigratorio del Paese, per gestire l’immigrazione è stata adottata una pionieristica politica di pluralismo culturale. Recentemente la politica migratoria e di rifugio è diventata più restrittiva. Il Lussemburgo è un granducato dalle caratteristiche decisamente premoderne, anche se la sua economia è in gran parte post-moderna. Il suo piccolo territorio (2600 km2) ospita infatti diverse istituzioni comunitarie, molte organizzazioni finanziarie e numerose sedi di imprese multinazionali, attratte da una legislazione assai favorevole. Anche per questo il Lussemburgo è diventato il Paese dell’Unione Europea con la più alta percentuale d’immigrati (su meno di


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450.000 abitanti, nel 2001 vi erano 162.000 immigrati, pari al 37% della popolazione). Si tratta però, per l’86% (anche in questo caso la percentuale più alta), di cittadini comunitari (il primo gruppo straniero è stato a lungo quello degli italiani, cui sono subentrati i portoghesi). Situato all’incrocio della cultura francese e della cultura tedesca, il Lussemburgo ne ha subito l’influenza. Il francese e il tedesco sono utilizzati tuttora come lingue ufficiali, accanto al lussemburghese, la parlata francone riconosciuta nel 1984 come “lingua nazionale”. Questo singolare trilinguismo caratterizza l’identità del Paese ed è considerato un elemento importante anche per valutare l’integrazione degli immigrati, che peraltro tendono a imparare soltanto la lingua che ritengono più utile o meno difficile (che per i più è il francese), anche se ciò li esclude dagli impieghi pubblici, che richiedono la conoscenza delle tre lingue. Per la cittadinanza vige lo jus sanguinis. Peraltro una nuova legge (entrata in vigore il 1° gennaio 2002) ha allargato le maglie della naturalizzazione, sostituendo al precedente requisito di un’almeno parziale assimilazione quello di un’“integrazione sufficiente”, che prevede la conoscenza di una sola delle tre lingue sopra citate, purché accompagnata da qualche nozione di lussemburghese. Recentemente (2003) il diritto di voto amministrativo è stato esteso agli extracomunitari regolarmente residenti da almeno cinque anni. 2.5 Spagna e Portogallo Spagna e Portogallo si spartiscono la penisola iberica, una terra che fu oggetto di un’intensa romanizzazione sin dalla sua conquista (iniziata nel III secolo a.C.), con la sola eccezione dell’area più settentrionale, corrispondente al Paese Basco. La penisola conobbe poi una lunga serie di invasioni barbariche e una protratta dominazione araba, che ne fece per secoli una terra di frontiera e di contatto fra cristiani e musulmani. La liberazione dai mori avvenne dall’XI al XV secolo, attraverso una serie di parziali ricuperi territoriali entrati nell’epos della penisola col nome di Reconquista. Appunto nel corso di questo processo si è forgiata l’identità culturale dei due Paesi iberici. La Spagna, che fu tra i primi Paesi europei a costituirsi in Stato nazionale, si presenta oggi come una supranación, cioè una “nazione di nazioni” differenti. La Costituzione del 1978 ha garantito l’autogoverno alle diverse regioni storiche, accogliendo almeno in parte le rivendicazioni da tempo avanzate da alcune di loro, fra cui la Catalogna e il Paese Basco. La Spagna è diventata un Paese d’immigrazione in tempi relativamente recenti. Si è trattato a lungo di un’immigrazione in gran parte clandestina, proveniente dall’America Latina e dal vicino Marocco. Una serie di sanatorie ha poi portato il numero degli immigrati regolari a quasi 900.000 nel 2000, su una popolazione di poco più di 41.000.000 di abitanti, pari al 2,2%. Più di un terzo è però costituito da cittadini di Paesi dell’Europa centro-settentrionale, in gran parte pensionati trasferitisi sulle coste del Mediterraneo o nelle Canarie alla ricerca di un clima più mite e di un costo della vita inferiore. Fra i regolari, il pri-


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mo gruppo nazionale è quello dei marocchini, ormai oltre 200.000. Sul finire del 2000 è stata approvata una nuova legge sull’immigrazione, assai più rigida della precedente, per contrastare la formazione di ulteriore irregolarità (nel 2003 il numero degli irregolari è stato stimato fra i 600.000 e gli 850.000). La consistente presenza di musulmani (circa 500.000), in un Paese che si è formato come nazione proprio in opposizione al mondo islamico, suscita diffuse diffidenze, che concorrono a ostacolare l’integrazione. Naturalmente i gravissimi attentati di matrice islamica dell’11 marzo 2004 hanno aggravato la situazione. Il Portogallo, costituitosi in Stato sovrano dopo la liberazione del suo territorio dai mori (1263), poté salvaguardare la propria indipendenza dalla Spagna e recuperarla, dopo un periodo di assoggettamento (1580-1640), grazie a un insieme di fattori diversi. Fra questi, la lunga alleanza con l’Inghilterra e l’eccezionale vocazione marittima, che ne consentì la straordinaria proiezione transoceanica, culminata nella formazione di un vasto impero coloniale. Anche per questo l’idea portoghese di nazione ha finito per privilegiare la dimensione etnico-culturale, che al tempo del regime salazarista (1932-1974) ha ispirato quell’ideologia lusitana che avrebbe dovuto consolidare i rapporti con le colonie e le ex colonie. Dopo la “rivoluzione dei garofani” (25 aprile 1974), il Portogallo entrò a far parte dell’Europa comunitaria, assieme alla Spagna (1986), in un periodo in cui, da grande Paese di emigrazione qual era stato per secoli, aveva già cominciato a diventare un Paese d’immigrazione. Il quadro è piuttosto complesso: a una consistente immigrazione di ritorno, proveniente sia dalle ex colonie, sia dai Paesi europei, si accompagna infatti un’immigrazione di extracomunitari, per lo più irregolari, provenienti dal Brasile e dalle ex colonie africane. Dopo la sanatoria del 2001, il numero degli immigrati stranieri regolari ha raggiunto le 350.000 unità, su circa 10.000.000 di abitanti, pari al 3,5% della popolazione. La nuova legge sull’immigrazione, approvata nel luglio 2000, prevede condizioni di particolare favore per chi risieda in Portogallo dalla nascita o dall’età di dieci anni o abbia figli minorenni. 2.6 Grecia La Grecia, situata nella parte più meridionale dei Balcani, in una terra montagnosa che si protende nel Mediterraneo con varie penisole, si è costituita in Stato nazionale nel 1830, in confini che comprendevano un quarto della popolazione di lingua greca di allora, grazie a un’insurrezione contro i turchi, sostenuta dalle potenze occidentali interessate a ridimensionare l’Impero ottomano. Il nuovo Stato, senza continuità storica con la Grecia dell’antichità classica, si richiamò al retaggio culturale di quest’ultima. Ma, a definirne l’identità, concorre anche la religione ortodossa, che aveva assicurato la distinzione della sua popolazione dal cristianesimo occidentale prima e dal mondo islamico poi. L’irredentismo panellenico operò per estendere i confini dello Stato a tutti i territori abitati da popolazioni ellenizzate ancora sotto il dominio ottomano. Ma, dopo una serie di importanti successi, il Trattato di Losanna (1923), stipulato fra le


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potenze vincitrici della prima guerra mondiale e la nuova Turchia, che aveva sconfitto la Grecia in un conflitto locale (1920-21), sancì una “pulizia etnica” che obbligò i greci stanziati in Asia Minore (circa un milione e mezzo) a trasferirsi nel territorio riconosciuto alla Grecia e i turchi della Macedonia, dell’Epiro e di Creta (circa mezzo milione) a trasferirsi in quello riconosciuto alla Turchia. Il quadro fu completato da uno scambio di popolazione con la Bulgaria, di dimensioni più contenute (circa 100.000 persone per parte), e da spostamenti spontanei che interessarono i greci dell’Albania, della Romania e della Macedonia serba e i valacchi dell’Epiro e della Macedonia greca. L’emigrazione ha rappresentato per la Grecia una costante e spesso dura necessità. Sin dall’antichità le scarse risorse del suo territorio hanno determinato una consistente emigrazione, che ha portato alla fondazione di numerosissime colonie e a una diaspora mercantile in tutte le principali città del Mediterraneo. Negli ultimi due secoli a questi flussi si sono aggiunte le migrazioni transoceaniche. Solo fra il 1881 e il 1915 partirono per le Americhe oltre 320.000 greci, su una popolazione passata in quegli anni da 1.700.000 a 2.600.000 unità. Dopo la prima guerra mondiale l’emigrazione continuò, sia pur per numeri più contenuti, per la pressione costituita dai citati scambi di popolazione. Nel secondo dopoguerra il movimento riprese a un ritmo sostenuto: in vent’anni, fra il 1955 e il 1975, emigrarono 1.200.000 persone, di cui il 60% verso i Paesi industriali dell’Europa centro-occidentale. Nella seconda metà degli anni Settanta, anche per la crisi economica che colpì quei Paesi, l’emigrazione si contrasse fortemente e aumentarono i rientri, determinando saldi migratori per la prima volta attivi dopo le migrazioni forzate degli anni Venti Nel 1980 vivevano negli Stati Uniti quasi un milione di cittadini di origine greca, secondo i dati ufficiali americani (1.250.000, secondo quelli greci). In Unione Sovietica nel 1989 (data del suo ultimo censimento) i cittadini di nazionalità greca erano 360.000. In Europa occidentale vivono oggi oltre 600.000 greci, con una forte concentrazione in Germania. In Australia ne vivono regolarmente oltre 420.000 e in Canada quasi 200.000. Altri 120.000 vivono in Africa, 50.000 in America Latina e 30.000 in Israele. Ciò nondimeno, a partire dagli anni Settanta, anche la Grecia è diventata un Paese d’immigrazione. Fra il 1971 e il 1981 il numero degli stranieri legalmente residenti nel Paese si è quasi raddoppiato, passando da 94.000 a 181.000, mentre almeno 60.000 erano i clandestini. L’immigrazione è poi continuata, con picchi che hanno raggiunto i 70-80.000 arrivi regolari l’anno agli inizi degli anni Novanta. Si è così arrivati nel 2000 a più di un milione d’immigrati su circa 10.500.000 abitanti. Gli immigrati regolari erano 655.000, pari al 6,2% della popolazione, mentre gli irregolari erano valutati ad almeno 400.000, prima della sanatoria del maggio-agosto 2001. Il gruppo più consistente è costituito dagli albanesi. Numerosi sono i “greci etnici” provenienti dall’Albania e dalle ex repubbliche sovietiche. Per loro è previsto un trattamento più favorevole di quello riservato agli altri immigrati. Fra questi vanno ricordati i polacchi, giunti sin dagli inizi degli anni Ottanta per la crisi economica del loro Paese; i serbi, arri-


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vati per lo più dalla Bosnia, con motivazioni di rifugio politico; i curdi, provenienti dalla Turchia e dall’Iraq; i palestinesi, attratti dalla buona accoglienza loro riservata per accattivarsi i Paesi arabi in vista delle decisioni internazionali sul futuro di Cipro. Non mancano però i normali immigrati economici, fra cui i filippini e i cingalesi, in gran parte donne dedite al lavoro domestico. 2.7 Austria L’Austria si è costituita in Stato nazionale moderno dopo la prima guerra mondiale (1918) e ha ricuperato la propria indipendenza, perduta per l’Anschluss con la Germania nazista, al termine della seconda (1945), anche se è poi restata occupata per un decennio dalle quattro potenze vincitrici. Il Paese, di dimensioni modeste (84.000 km2), ha un numero di abitanti limitato (circa 8.000.000 nel 2000) e una densità relativamente bassa (95 ab. per km2), per la sua natura montagnosa. La piccola Austria di oggi è però l’erede di un grande impero multietnico, multinazionale e multiculturale, cui costantemente rimandano le sue memorie. È stata infatti il cuore del Sacro romano impero (dal 1493) e poi dell’Impero austriaco (dal 1806) e dell’Impero austro-ungarico (dal 1867). A Vienna hanno così fatto capo per secoli genti di lingue e culture diverse. In passato l’Austria è stata anche il baluardo del cattolicesimo in Europa orientale, sia contro il protestantesimo, sia contro l’islamismo (fermato alle porte di Vienna nel 1683). Paese di illuminate riforme nel Settecento, divenne nell’Ottocento il bastione della reazione e intervenne, in “santa alleanza” con la Prussia e la Russia zarista, a reprimere i movimenti nazionali che agitarono l’Europa per oltre un secolo. Ma proprio lo spiccato carattere multinazionale del suo Impero ne fece uno straordinario laboratorio per lo studio delle nazionalità. Di particolare rilievo fu il contributo dei suoi studiosi di orientamento marxista, fra cui Otto Bauer (1907), che guardò originalmente alla nazione come a una «comunanza di destino» forgiata da una plurisecolare storia condivisa. Al confronto della sua vivacissima cultura del primo Novecento, l’Austria del secondo dopoguerra appare un Paese sin troppo ripiegato su sé stesso: un piccolo Stato monoetnico racchiuso fra le sue montagne e isolato anche dal punto di vista politico, perché ridotto al ruolo di una provincia periferica dell’Occidente in uno dei più delicati confini coi Paesi del Patto di Varsavia. Col tracollo dei regimi dell’Est e la crisi balcanica, anche l’Austria è però diventata un Paese d’immigrazione, in gran parte non richiesta. Ciò ha alimentato reazioni xenofobe, frammiste alle rivendicazioni identitarie. Nel 2003 l’Austria, su 8.067.000 abitanti, contava 709.000 stranieri, poco meno del 9% della popolazione, per l’86% extracomunitari (in ciò seconda solo all’Italia, dove però la percentuale degli stranieri era un quarto della sua). I più sono presenti per motivi di lavoro, ma molti sono i rifugiati. Le naturalizzazioni, stimolate dalla difficoltà di trovare lavoro per chi sia privo della cittadinanza, sono abbastanza numerose (circa 25.000 all’anno).


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2.8 Svezia La Svezia è per dimensioni (circa 450.000 km2) il terzo Paese dell’Unione Europea, dopo la Francia e la Spagna. I due terzi più settentrionali della sua superficie sono però quasi disabitati e solo il restante terzo, dal clima più mite, è abbastanza densamente popolato. Qui vive il 90% dei suoi 9 milioni di abitanti, con forti addensamenti nelle aree urbane di Stoccolma, Göteborg e Malmö, e ciò rende poco significativa la sua bassa densità media (22 ab./km2). La popolazione autoctona è piuttosto omogenea, tanto dal punto di vista etnico quanto da quello religioso (domina nettamente il luteranesimo della Chiesa nazionale), a parte le due piccole minoranze dei finnici (circa 30.000) e dei lapponi (circa 10.000), che vivono nella regione settentrionale. Il Paese, in virtù della sua neutralità, ha attraversato quasi indenne le due grandi guerre mondiali e si è così potuto dedicare alla costruzione di una società del benessere che lo colloca da tempo, per “sviluppo umano”, al terzo posto nel mondo, preceduto solo da due altri Paesi nordici, la Norvegia e l’Islanda. Il modello sociale cui si deve tale successo è stato introdotto dalla socialdemocrazia, al governo sin dagli anni Trenta con pochi intervalli. Fino ad allora la Svezia era stata un Paese di emigrazione, soprattutto verso gli Stati Uniti (1.200.000 persone tra il 1850 e il 1920, un quinto dei suoi abitanti di quel tempo). L’immigrazione iniziò già negli anni Trenta e si accelerò nel dopoguerra, stimolata dal suo rapido sviluppo. Almeno agli inizi la politica migratoria del Paese fu decisamente aperta. Del resto i numeri erano piuttosto contenuti (negli anni Cinquanta circa 10.000 arrivi l’anno) e gli immigrati provenivano in gran parte dai vicini Paesi nordici, con cui la Svezia aveva stretto rapporti che avrebbero portato alla costituzione di un mercato comune del lavoro (1954). Nei due decenni successivi l’immigrazione aumentò considerevolmente (negli anni Sessanta gli arrivi furono dai 30.000 ai 60.000 l’anno) e nel 1972, al tempo della “crisi del petrolio”, la Svezia, a richiesta dei suoi potenti sindacati, fu il primo Paese a chiudere le frontiere all’immigrazione per motivi di lavoro. Ma ciò non ne determinò un arresto totale, perché il blocco non poteva concernere i cittadini dei Paesi nordici. Nel 1980 i lavoratori nati all’estero arrivarono così a circa 500.000 (pari al 10% della forza-lavoro), la metà dei quali con cittadinanza svedese acquisita per naturalizzazione. Nel frattempo era cresciuto anche il numero dei rifugiati dai Paesi del Terzo Mondo (iraniani, iracheni, cileni, argentini, peruviani, curdi ed eritrei). Il numero delle domande di asilo crebbe ancora nel decennio seguente, sino ad arrivare a oltre 170.000 fra il 1992 e il 1994 (in gran parte originari dell’ex Jugoslavia). Del resto, per motivi umanitari, la Svezia accettava anche domande di asilo non rispondenti ai requisiti previsti dalla Convenzione di Ginevra. Così alla metà degli anni Novanta su 8,8 milioni di abitanti arrivò a contare quasi un milione di nati all’estero e le “persone di origine straniera” (cioè quelle che avevano almeno un genitore nato all’estero) erano 1,6 milioni, quasi un quinto dei suoi abitanti (gli “stranieri” però erano molti di meno: ancora nel 2003 non arrivavano a 500.000, circa il 5% della popolazione).


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La politica per gli immigrati è stata sin dagli inizi abbastanza originale. Pur prevedendo un legame fra permesso di soggiorno e permesso di lavoro, la Svezia trattava i suoi immigrati non come “lavoratori ospiti”, ma come persone di pari dignità e assicurava loro diritti economico-sociali uguali a quelli dei suoi cittadini. Inoltre, dal 1975, furono loro riconosciuti anche dei diritti culturali, nell’ambito di un dichiarato “multiculturalismo” che trovò attuazione soprattutto nelle scuole. A monte di questa impostazione vi era una specifica cultura politica, che si era andata definendo contestualmente all’affermarsi del welfare State. In Svezia in effetti si pensa che i cittadini, per tutti i loro possibili bisogni (dovuti a vecchiaia, malattia, incidenti ecc.), debbano contare non già sui famigliari o sugli amici, ma su istituzioni pubbliche deputate a dispensare le necessarie prestazioni, concepite come diritti di “cittadinanza sociale”. Quando nel Paese fecero la loro comparsa gli immigrati, tale impostazione fu applicata anche a loro, dato anche che la cittadinanza non era concepita come un chiaro e netto confine. Da un lato vigono norme assai liberali per la sua acquisizione (bastano cinque anni di residenza legale, ridotti a due soli per i cittadini dei Paesi nordici). Dall’altro non è richiesta neanche per l’elettorato amministrativo attivo e passivo (dal 1975 bastano tre anni di permanenza legale). In realtà il permesso di residenza, soprattutto se permanente, configura una condizione intermedia fra quella dello straniero e quella del cittadino, con rilevanti conseguenze giuridiche. 2.9 Svizzera La Svizzera è uno dei Paesi europei con il maggior numero relativo d’immigrati: 1.485.000, nel 2003, pari al 20,3% della popolazione, la percentuale più alta dopo quella dei due piccolissimi Stati del Liechtenstein e del Lussemburgo. Pur di dimensioni limitate, tanto per estensione (41.000 km2) che per popolazione (poco più di 7.350.000 abitanti), la Svizzera comprende cantoni di lingua diversa (circa il 64% della popolazione parla tedesco, il 20% il francese, il 6,5% l’italiano, lo 0,5% il ladino retoromancio), alcuni di prevalente religione cattolica e altri di prevalente religione protestante. Il Paese è caratterizzato da una singolare cultura politica. Fondamento della nazione è la fedeltà alla Costituzione (1848), che, assicurando l’autonomia dei cantoni, consente di trascendere, nel momento stesso in cui le riconosce, le particolarità etnico-culturali presenti nella Confederazione e, più in particolare, le pur importanti differenze linguistiche e religiose, che avevano alimentato in precedenza sanguinosi conflitti. La cittadinanza si acquista tramite l’appartenenza a uno di questi cantoni. Per gli stranieri è però assai difficile (e anche costoso) ottenerla, dato anche che assicura dei consistenti benefici economici, mentre è più facile conseguire la residenza permanente e i relativi diritti. La paura dell’Überfremdung (l’“inforestieramento”) ha sollecitato varie iniziative referendarie intese a espellere gli immigrati e a bloccare l’immigrazione. Tali iniziative sono però sempre state respinte a maggioranza. Da ultimo,


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nel 2000, è stata sconfitta anche la proposta di limitare il numero degli immigrati al 20% della popolazione, il che avrebbe comportato una chiusura pressoché totale all’immigrazione, poiché in quell’anno gli stranieri già ne rappresentavano il 19,8%. La Svizzera, Paese costituzionalmente neutrale, sede europea dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sede principale della Croce Rossa internazionale, dell’Ufficio internazionale del lavoro e dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni, fa, d’altro canto, ben più che la sua parte per l’accoglienza dei rifugiati, secondo la Convenzione firmata oltre cinquant’anni fa (1951) in una delle sue principali città, Ginevra. 2.10 Stati Uniti d’America Gli Stati Uniti, Paese d’immigrazione originaria, hanno conosciuto nel corso del tempo migrazioni e politiche migratorie diverse. Dopo l’arrivo dall’Inghilterra dei primi coloni (1607) e poi dei “padri pellegrini” che l’avevano lasciata per motivi religiosi (1620), vi furono ben presto arrivi da molti altri Paesi e già nel Settecento si pensava che vi si stesse formando un “uomo nuovo” per effetto della fusione di genti di origine diversa8. Con la continuazione delle immigrazioni, che comportò arrivi sempre più numerosi di irlandesi, tedeschi, polacchi, italiani, russi, greci ecc., di religione cattolica, ebraica e ortodossa, prevalse però poi la convinzione che i nuovi venuti dovessero “assimilarsi” alla componente wasp (cioè bianca, anglosassone e protestante), costituita dai discendenti dei “padri fondatori” (l’“assimilazione” non fu però mai ipotizzata né per gli indiani d’America, né per i discendenti degli africani portati come schiavi nel Nuovo Mondo). Tuttavia non scomparve mai del tutto l’idea che l’americano dovesse costituire un quid novi et pluris rispetto alle originarie identità degli immigrati e questa idea ispirò agli inizi del Novecento la forte metafora del melting pot, il crogiuolo ove si compie la fusione dei metalli. Già subito dopo la prima guerra mondiale ci si dovette però rendere conto dell’esistenza di hyphenated Americans, cioè di “americani col trattino” (gli italo-americani, i polacco-americani, i russo-americani, i greco-americani, gli ispano-americani, gli ebrei-americani, per lo più provenienti dall’Europa orientale ecc.), che conservavano in parte le identità originarie. Fu questo poi anche il caso degli afro-americani, prima neppure considerati, degli “ispanici” dell’America Latina, degli arabi del Nord Africa e del Medio Oriente e degli asiatici provenienti da Cina, Giappone, Vietnam, Corea, Filippine ecc. Alcune di queste componenti si rivelarono però resistenti alla “fusione” e si parlò per loro di unmeltable ethnics, cioè di “etnici non amalgamabili”. Il revival etnico degli anni Sessanta suscitò del resto forti rivendicazioni identitarie. Anche per questo il Paese ha finito per ridefinirsi in chiave multietnica e multiculturale, anche se con taluni eccessi di zelo che hanno suscitato legittime preoccupazioni9. Non mancano del resto i problemi. Dagli anni Sessanta l’immigrazione è sempre stata assai consistente e la quota della popolazione nata all’estero ha superato nel 2000 il 10%. I nuovi immigrati tendono a concentrarsi in ghetti ur-


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bani, ove si accumulano le tensioni ed esplodono di tanto in tanto distruttive forme di conflittualità (basti qui ricordare il caso di Los Angeles, messa a ferro e fuoco per sei giorni nel 1992 da gruppi etnici esasperati e violenti, con oltre 600 incendi e 50 morti). Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 l’entusiasmo per il multiculturalismo si è molto raffreddato, mentre si sono moltiplicati i riferimenti allo “scontro delle civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo che era stato teorizzato qualche anno prima da un politologo di Harvard in un libro molto discutibile10. Ma di ciò non c’è da stupirsi: habent sua fata libelli. 2.11 Canada Il Canada è un altro Paese d’immigrazione originaria che, a conclusione di un lungo processo storico, ha ridefinito la sua politica per gli immigrati e la sua stessa identità in chiave multiculturale. La sua cultura politica è peraltro ben diversa da quella degli Stati Uniti anche per effetto dell’assai più prolungata influenza britannica in gran parte del Paese e della persistente influenza francese in alcune sue parti. D’altra parte la scelta del multiculturalismo ha rappresentato anche una risposta, parziale e non da tutti condivisa, a uno dei suoi principali problemi: la sua storica suddivisione in un’area anglofona e in un’area francofona. Si aggiunga che la provincia prevalentemente francofona, il Québec, è da tempo agitata da fermenti indipendentisti, anche se l’ultima iniziativa referendaria per la sua sovranità (1995) è stata respinta di stretta misura col voto determinante dei cittadini di recente immigrazione, fra cui quelli di origine italiana, terza componente storica della popolazione. Qualche riferimento geografico e storico può aiutare a inquadrare la situazione. Il Canada, che ha un territorio più vasto di quello degli Stati Uniti (9.975.000 km2), è abitato da meno di 32 milioni di persone (2003), dei quali più di 10 milioni, circa un terzo, di origine non britannica né francese. La densità è ancora di soli 3 abitanti per km2 (anche se la popolazione è concentrata per il 90% nella cosiddetta “fascia utile”, una striscia lungo il suo confine meridionale profonda solo 300 km) e il suo reddito medio annuo pro capite è uno dei più alti del mondo: 28.600 dollari nel 2002. Colonizzato inizialmente dai francesi, il Canada passò sotto il dominio britannico dopo la guerra dei sette anni (1763). I coloni francesi ottennero però che fossero rispettate la loro lingua e la loro cultura e fossero confermati i privilegi della Chiesa cattolica. All’unione fra la parte francofona e la parte anglofona fu data forma confederale nel 1867. Lo sviluppo del Paese, accelerato dalla scoperta dell’oro del Klondike (1896), stimolò l’immigrazione. Un più duraturo impulso allo sviluppo provenne poi dalla costruzione delle grandi ferrovie. Ciò portò all’interno, assieme ai cinesi (giunti per la ricerca dell’oro e il lavoro alle ferrovie) e agli europei (tedeschi, ucraini, russi, ungheresi, scandinavi ecc., giunti per motivi più vari), anche dei consistenti gruppi di francofoni provenienti dalla costa orientale.


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Diventato indipendente nel 1931, il Paese conobbe dopo la seconda guerra mondiale un ulteriore periodo sviluppo, che richiamò molta manodopera anche qualificata (oltre tre milioni d’immigrati fra il 1946 e il 1968). Al censimento del 1971 la popolazione risultò così composta non più soltanto di anglofoni (44,6%) e di francofoni (28,7%), ma anche di consistenti gruppi d’immigrati di altra origine (26,7). Fu questa accresciuta diversità, in un contesto caratterizzato da una notevole disponibilità di risorse, a ispirare la scelta multiculturale. Nei primi novant’anni di vita della Confederazione era prevalsa la convinzione che gli immigrati dovessero assimilarsi nella nazione canadese, concepita come eminentemente bianca e anglosassone. Per questo l’immigrazione di colore era contrastata, mentre era favorita quella dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. L’emanazione del Canadian Bill of Rights (1960), che bandiva ogni discriminazione per razza, sesso, origine, colore e religione, comportò un cambiamento delle norme federali sull’immigrazione (1962). Gli immigrati dai Caraibi, dall’Africa e dall’Asia aumentarono considerevolmente e la popolazione di origine non britannica né francese arrivò a costituire il 42% degli immigrati nel 1991. A ciò si accompagnò il passaggio a una politica di pluralismo culturale. Nel 1971 il premier Pierre Elliot Trudeau annunciò il «multiculturalismo nel quadro del bilinguismo», cui seguì il riconoscimento del diritto delle popolazioni autoctone all’autogoverno. Questa rottura col passato fu poi formalizzata nel 1988 dal Canadian Multiculturalism Act. Il multiculturalismo era inteso come un programma di azione inteso a favorire la convivenza e la collaborazione nel mutuo rispetto dei numerosi gruppi etnici presenti nel Paese. Ma non fu accolto da tutti con favore. I francofoni, in particolare, non hanno nascosto la loro ostilità per una politica ritenuta in contrasto col loro primo obiettivo, la survivance come “nazione”. Molti di loro considerano addirittura offensivo il multiculturalismo, che li pone sullo stesso piano dei gruppi etnici sorti dalle recenti immigrazioni, ignorando quello status privilegiato cui credono di aver diritto per la loro particolare consistenza e il loro plurisecolare insediamento nel Paese. D’altra parte nelle province anglofone il paesaggio etnico, ben lungi dal configurarsi come almeno tendenzialmente ugualitario, costituisce ancora un “mosaico verticale”, al cui vertice vi sono i canadesi di origine britannica, un po’ più sotto quelli di origine francese, verso la metà quelli di altra origine europea e molto più in basso le minoranze etniche visibili e i gruppi indigeni. Ma il mosaico è decisamente dinamico11. 2.12 Australia L’Australia è un’altra ex colonia britannica che trae origine da un processo immigratorio di lunga durata, caratterizzato da ondate di genti di provenienza diversa. La popolazione (quasi 20 milioni di abitanti, su un territorio di 7.683.000 km2, peraltro solo in piccola parte abitabile) è in netta prevalenza di origine europea ed è tuttora costituita per quasi un quarto d’immigrati recenti, per gestire i quali si è da tempo optato per una politica multiculturale.


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Peraltro, come in Canada, a lungo prevalse la difesa del carattere “bianco” del Paese. Per questo fu contrastata l’immigrazione dei cinesi, la cui pressione cominciò a farsi sentire subito dopo la scoperta dei giacimenti auriferi del Nuovo Galles del Sud (1851) e di Victoria (1856) e furono espulsi i braccianti melanesiani in precedenza introdotti per il lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. A questo orientamento razzista si accompagnò una politica assimilazionista, ispirata al principio dell’anglo-conformity. Il rifiuto dell’immigrazione asiatica e la preferenza per quella dell’Europa centro-settentrionale persistette anche dopo la seconda guerra mondiale, con l’intento di forgiare una «razza unita», come affermò ancora alla fine degli anni Sessanta il ministro australiano dell’immigrazione12. Per le sua necessità di forza-lavoro, non più appagata dall’offerta europea, l’Australia aveva allora già cominciato ad aprirsi alle nuove correnti migratorie. Ciò la portò poi a optare per una politica d’integrazione caratterizzata dall’accettazione della diversità culturale almeno nella sfera privata (1966). Pochi anni dopo giunse l’affermazione del carattere «multirazziale e multiculturale» del Paese, nel rispetto dei princìpi di una società democratica (1973). Si trattava di un’autentica svolta, ispirata alla politica canadese. Ma il governo laburista australiano diede al suo multiculturalismo un carattere più schiettamente sociale di quello del Canada, varato da un governo liberale. Ciò comportò un notevole incremento dei costi e crescenti resistenze nella popolazione. Di conseguenza a tale politica fu poi dato un colpo di freno, accompagnato da una nuova chiusura all’immigrazione soprattutto asiatica.


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Capitolo terzo

La comunitarizzazione delle politiche migratorie europee

Da qualche anno si assiste in Europa a una convergenza delle politiche migratorie. Ciò si deve anche alla loro incipiente comunitarizzazione, nell’ambito del processo d’integrazione europea. Gioverà richiamare che già negli anni Cinquanta Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo avevano costituito le prime comunità europee, cui aderirono poi anche Regno Unito, Irlanda e Danimarca (1973), Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986), Svezia, Austria e Finlandia (1995). Ciò portò alla formazione di un grande “mercato comune”, che prevedeva anche la libera circolazione dei loro lavoratori. Il 14 giugno 1985 Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo sottoscrissero l’Accordo di Schengen, cui poi aderirono, a eccezione del Regno Unito e dell’Irlanda, tutti gli altri Paesi dell’attuale Unione Europea. Si trattava di un’iniziativa aperta ai soli Stati membri, ma quando vi aderirono la Svezia e la Finlandia i suoi effetti furono estesi alla Norvegia e all’Islanda, loro associate da un precedente patto regionale. L’accordo, che divenne operativo il 26 marzo 1995 per sette Paesi e in una data successiva per i restanti (per l’Italia il 26 ottobre 1997), prevedeva l’eliminazione dei controlli alle frontiere fra i Paesi aderenti e la loro sostituzione con controlli alle loro frontiere con altri Paesi. L’immigrazione era presa in considerazione per gli aspetti più direttamente pertinenti alla sicurezza e all’ordine pubblico. Nel frattempo la Convenzione di Dublino, sottoscritta il 15 giugno 1990 da 11 Stati europei (che divennero 12 l’anno seguente, con l’adesione della Danimarca), provvide a definire alcune questioni relative all’asilo, con l’intento di giungere a un’armonizzazione delle normative. La convenzione entrò in vigore il 1° settembre 1997. 3.1 Dal Trattato di Maastricht al Trattato Costituzionale Un decisivo impulso al processo d’integrazione europea fu dato dal Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, che istituì fra gli Stati comunitari l’Unione Europea, un’organizzazione dall’orientamento più schiettamente politico e dalle competenze più vaste. Il trattato previde l’instaurazione di un’unione economica e monetaria, con l’introduzione di una “moneta unica”, estese le funzioni del Parlamento europeo e istituì la “cittadinanza europea” per i cittadini degli Stati membri. L’Unione Eu-


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ropea poggia su tre “pilastri”: il primo, costituito dalle materie già di competenza delle preesistenti comunità, opera col metodo soprannazionale, che attribuisce agli Stati membri un ruolo solo secondario; gli altri due, che comprendono materie in precedenza di competenza esclusiva degli Stati (la politica estera e la sicurezza comune il secondo, la giustizia e gli affari interni il terzo), utilizzano il metodo intergovernativo che lascia l’ultima parola ai rappresentanti degli Stati. L’immigrazione, pur riconosciuta come «questione d’interesse comune», fu inserita nel terzo pilastro. Il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999, trasferì però dal terzo al primo pilastro quasi tutta la cooperazione per la giustizia e gli affari interni, fra cui l’azione comune in materia d’immigrazione e di asilo, pur prevedendo un quinquennio di transizione dalla sua entrata in vigore. Un protocollo allegato al trattato operò l’inserimento nell’Unione Europea anche dell’acquis di Schengen, che fu ripartito fra il primo e il terzo pilastro. Quel protocollo non fu però sottoscritto dal Regno Unito e dall’Irlanda, che non avevano aderito allo stesso accordo di Schengen, e dalla Danimarca, che si riservò di accettare le singole decisioni. La comunitarizzazione è restata dunque imperfetta e a geometria variabile. Peraltro ha aperto una fase nuova, caratterizzata dalla convergenza delle politiche degli Stati membri. Il Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999) riconobbe esplicitamente la necessità di una politica comune in tema di asilo e immigrazione e sollecitò un avvicinamento delle legislazioni nazionali relative all’ammissione e al soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi. Secondo il Consiglio, bisognava operare sulla base di una valutazione della situazione demografica ed economica sia dei Paesi dell’Unione, sia dei Paesi di origine dei flussi, senza trascurare i legami storici esistenti fra alcuni di loro. In concreto, bisognava contemperare gli interessi degli uni e degli altri e favorire l’immigrazione legale anche per contrastare quella clandestina. A tal fine fu caldeggiato il ricorso al partenariato con i Paesi di provenienza e di transito e il riconoscimento agli immigrati di un “equo trattamento” che prevedesse per quelli da tempo legalmente residenti diritti e doveri “analoghi” a quelli dei cittadini dell’Unione. Per quanto concerne l’asilo, richiamato il doveroso rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951, fu riconosciuta l’opportunità di forme di protezione “sussidiaria” per le persone bisognose di tutela non rientranti nella sua definizione dei “rifugiati”. Il documento conclusivo sottolineò l’esigenza di un «accostamento generale al fenomeno migratorio» che prendesse in considerazione anche lo sviluppo dei Paesi di origine e superasse l’“opzione zero” che aveva a lungo caratterizzato la politica migratoria dei principali Paesi membri. Nello stesso spirito l’Agenda sociale europea, approvata dal Consiglio di Nizza (7-8-9 dicembre 2000), precisò che la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale doveva essere integrata da azioni intese a garantire la parità di trattamento a tutti i cittadini dei Paesi terzi legalmente residenti nell’Unione. La parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica è poi diventata


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una norma di legge in tutti i Paesi membri per effetto di una precedente direttiva del Consiglio dell’Unione. Nel frattempo la Commissione europea aveva adottato due importanti “comunicazioni” sull’asilo e sull’immigrazione (22 novembre 2000). In materia di asilo, la Commissione affermò la necessità di raggiungere un punto di equilibrio tra il rispetto dell’ammissione umanitaria e la lotta contro l’immigrazione illegale. In materia d’immigrazione proclamò che l’integrazione degli immigrati regolari deve costituire una priorità per l’Unione Europea, «realtà di per sé pluralistica, arricchita da una varietà di tradizioni culturali e sociali, la cui diversità è destinata ad aumentare in futuro»13. Secondo la Commissione, occorreva rispettare tali differenze, senza però dimenticare i princìpi e i valori che forse troppo ottimisticamente dava per condivisi da tutti gli europei: «i diritti e la dignità dell’uomo, la valutazione positiva del pluralismo e il riconoscimento che l’appartenenza alla società si basa su una serie di diritti, ma comporta altresì una serie di responsabilità per tutti gli appartenenti, nazionali o immigrati che siano». L’indicazione era per una strategia integrata che guardasse all’immigrazione come a un processo multidimensionale e di ampio respiro e prevedesse interventi in più direzioni, compresa la cooperazione allo sviluppo, volano importante per contenere i fattori espulsivi presenti nei Paesi di esodo. Questo orientamento trovò una conferma al Consiglio europeo di Laeken (14-15 dicembre 2001), il cui risultato più significativo fu però la convocazione di una Convenzione incaricata di stendere un progetto di Costituzione europea. Il più importante sviluppo di questo periodo si ebbe al vertice di Copenaghen (12-13 dicembre 2002), che sancì l’allargamento dell’Unione a 25 Stati, con l’ammissione, entro il primo semestre del 2004 di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta e Cipro. L’adesione di Romania e Bulgaria fu invece rimandata al 2007, per la loro insoddisfacente situazione economica, mentre l’apertura di un negoziato ufficiale con la Turchia fu rinviata a data da determinare non solo per i motivi esplicitamente addotti (la sua situazione politica ed economica, la questione di Cipro e il trattamento delle minoranze), ma anche per la sua imbarazzante connotazione di Paese islamico e il suo carattere di grande Paese di emigrazione (la Turchia, che conta 67 milioni di abitanti, che ne farebbero il secondo Paese più popoloso dell’Unione, ha oltre 3 milioni di emigrati in Europa, per i 2/3 in Germania, ove i suoi cittadini costituiscono il primo gruppo straniero). Il vertice di Salonicco (19-20 giugno 2003) riconobbe l’«assoluta priorità» della problematica migratoria e sottolineò l’esigenza di combattere l’immigrazione clandestina e di aprirsi maggiormente a quella legale. In tale contesto affermò l’opportunità di operare per l’integrazione dei migranti regolari con stanziamenti più adeguati. Per quanto concerne l’elaborazione di una politica comune in materia di immigrazione clandestina, frontiere esterne, rimpatrio dei clandestini e cooperazione con i Paesi terzi, caldeggiò la definizione di un’impostazione coerente, a livello dell’Unione, dell’identificazione biometrica. Sol-


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lecitò inoltre la Commissione a esaminare la possibilità d’istituire una struttura operativa specifica per rafforzare il controllo delle frontiere esterne. Anche per il rimpatrio degli immigrati illegali, di competenza degli Stati membri, propose un rafforzamento della cooperazione, con eventuali strumenti comunitari. In questi anni, peraltro, l’Unione Europea ha dovuto fare i conti con l’esacerbarsi dello scontro tra fondamentalismo islamico e Occidente, per gli attentati dell’11 settembre 2001 e gli interventi militari americani in Afghanistan e in Iraq, con la partecipazione del Regno Unito e il sostegno di altri Paesi dell’Unione, fra cui l’Italia e la Spagna, e del più importante Paese candidato, la Polonia. Questi eventi drammatici hanno indotto le istituzioni europee a riesaminare anche la politica dell’immigrazione nell’ottica della sicurezza, pur sottolineando la necessità di non penalizzare gli immigrati provenienti da determinati Paesi. In questo contesto, caratterizzato dall’acuirsi della pressione migratoria anche in conseguenza diretta e indiretta degli eventi bellici e dalla ripresa del terrorismo islamico contro i cittadini dei Paesi europei (poi culminato nei sanguinosi attentati di Madrid dell’11 marzo 2004), si è trovato a operare il governo italiano, durante il suo semestre di presidenza europea (luglio-dicembre 2003). In tema d’immigrazione il ministro dell’interno Giuseppe Pisanu ha avanzato subito due proposte intese a contrastare con più efficacia l’immigrazione clandestina, che nel precedente quinquennio aveva portato in Europa tra i 500.000 e i 700.000 irregolari l’anno. La prima concerneva l’attraversamento dei Paesi membri da parte dei convogli degli immigrati espulsi; la seconda l’organizzazione di voli congiunti per l’espulsione dei clandestini. In sintesi, i clandestini che non avessero ottenuto l’asilo sarebbero dovuti essere espulsi rapidamente, con accompagnamento ai Paesi di origine o ai confini dell’Unione, per iniziativa di due o più Stati membri, con mezzi debitamente scortati. Queste proposte sono state poi integrate dal cosiddetto Piano Nettuno. I suoi quattro punti sono: determinazione di quote europee d’ingressi regolari, aiuti economici ai Paesi di origine e di transito dei clandestini in cambio di un impegno a contrastare le migrazioni illegali, gestione integrata dei confini dell’Unione Europea, misure severe contro le organizzazioni che gestiscono le migrazioni clandestine e il traffico di esseri umani. Per tutelare e monitorare gli ingressi legali, è stato proposto l’inserimento nei documenti di dati biometrici idonei a un riconoscimento sicuro: oltre alle impronte digitali (già utilizzate dal sistema Eurodac, entrato in vigore il 15 gennaio 2003), anche gli elementi necessari al riconoscimento iridico e facciale. D’altra parte è stata anche segnalata l’opportunità di una revisione migliorativa delle direttive in vigore in tema d’ingressi per studio, lavoro e asilo politico e della stessa definizione del “rifugiato”. Il capitolo fondamentale è però costituito dall’istituzione di un’Agenzia comunitaria per il controllo dei confini esterni, con una ripartizione dei compiti e dei costi fra i Paesi dell’Unione. Questa agenzia dovrebbe coordinare le operazioni sui diciassette confini esterni, da controllare con unità miste di polizia e il ricorso alle tecnologie satellitari. Queste misure sono state approvate dal successivo


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Consiglio per la giustizia e gli affari interni (Bruxelles, 27 novembre 2003), peraltro con le modifiche imposte dall’opposizione di Germania e Svezia all’idea di quote europee. L’Agenzia dovrebbe diventare operativa entro il 1° gennaio 2005. Nel frattempo aveva concluso i suoi lavori la Convenzione che era stata incaricata di redigere un progetto di Costituzione europea. La bozza presentata dichiara solennemente il carattere pluralistico dell’Europa, «unita nella diversità» (preambolo) e incorpora la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, cui dà quindi una valenza costituzionale. Per ciò che qui più ci concerne, afferma il fondamento dell’Unione «sui valori della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani» e, in più particolare, «sul pluralismo, sulla tolleranza, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla non discriminazione» (art. 2); sottolinea con forza il rispetto della «diversità culturale, religiosa e linguistica» (art. 22); ribadisce l’intento di sviluppare «una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi», nonché l’impegno a contrastare razzismo e xenofobia (art. 158). Una specifica sezione dedicata alle politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione (art. 166-169) riafferma gli orientamenti da tempo formulati in materia dalle istituzioni comunitarie. Il trattato costituzionale è stato approvato da tutti gli Stati membri, diventati nel frattempo 25, per l’adesione dei 10 Paesi già menzionati, nella primavera del 2004. 3.2 La convergenza delle politiche migratorie dei Paesi dell’Unione Europea Il processo testé delineato permette di comprendere meglio la convergenza delle politiche migratorie di tutti i Paesi dell’Unione Europea. Mi limito a richiamarne qui qualche aspetto che va al di là delle mere modifiche normative e concerne la stessa cultura politica, con riferimento ai tre principali Paesi europei d’immigrazione sopra analizzati. La Francia, pur non rinunciando a un’impostazione prevalentemente individualista, accetta ormai come interlocutori legittimi delle autorità pubbliche i rappresentanti delle comunità straniere presenti sul suo territorio e non denuncia più come un’inaccettabile ghettoïsation à l’americaine il riconoscimento delle loro peculiarità etnico-culturali. Da tempo sono state introdotte anche delle misure “particolaristiche” per venire incontro alle esigenze degli immigrati, specialmente per ciò che concerne le abitazioni. Vi si discute altresì l’opportunità d’introdurre nella vita sociale e nelle scuole degli elementi d’interculturalità e non suscitano più scandalo le proposte avanzate in tal senso, già stigmatizzate come irresponsabili provocazioni di minoranze incapaci di apprezzare nel modo dovuto la tradizionale impostazione “repubblicana”. Né manca chi si è spinto a preconizzare un “multiculturalismo alla francese”, inteso come un compromesso fra i valori laici e repubblicani, da concepirsi in modo non più giacobino, e quelli delle varie comunità immigrate. Un significativo passo in tal senso è stato compiuto nel 2003 dalla Commissio-


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ne sulla laicità, presieduta dal “mediatore della repubblica” Bernard Stasi e composta da esperti anche di notevole prestigio. La commissione, pur esprimendosi per il divieto di entrare negli edifici pubblici, fra cui le scuole statali, con capi di abbigliamento e simboli vistosi che ostentino l’appartenenza religiosa o politica (grandi croci, velo islamico, kippah ebraica), ha ammesso qualche segno “discreto” di fede o di origine. Questo segnale di apertura è stato confermato dal suggerimento (pur non accolto dal presidente Chirac) d’inserire nel calendario delle festività la più importante ricorrenza ebraica, Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, e la principale ricorrenza islamica, Aid-el-Kebir, il giorno del sacrificio. Sono state inoltre proposte misure intese a garantire la neutralità religiosa e politica di tutti i servizi pubblici (scuole, caserme, ospedali, cimiteri ecc.), cui è però stato chiesto di rispettare il più possibile le diverse sensibilità culturali e religiose (negli ospedali, per esempio, si dovrebbe venire incontro alla richiesta di molte donne musulmane di evitare le prestazioni mediche e infermieristiche dispensate da personale maschile). «In considerazione del mutamento del paesaggio spirituale intercorso nell’ultimo secolo», la laicità, pur confermata come un valore irrinunciabile della repubblica, è stata reinterpretata come uno strumento per favorire la convivenza civile in un Paese ormai multireligioso (4-5 milioni sono gli islamici e 600.000 gli ebrei). Si è infatti capito che la laicità, desacralizzata, può favorire non solo la tolleranza reciproca, ma l’integrazione, il cui insuccesso risulta ormai sin troppo evidente. A tal fine occorre però sviluppare con urgenza una nuova cultura della quotidianità, che promuova, per esempio, l’emancipazione femminile e l’uguaglianza dei sessi senza pretendere un’impossibile assimilazione forzata delle popolazioni di origine non europea a usi e costumi che nello stesso Occidente si sono affermati in tempi relativamente recenti. Le principali proposte della commissione, nonostante le proteste e le minacce di alcune organizzazioni islamiche, sono state approvate dall’Assemblea Nazionale il 10 febbraio 2004 ed entreranno presto in vigore. D’altra parte, poiché anche in Francia esistono problemi di natura diversa, che comportano rischi non solo per l’integrazione, ma anche per la sicurezza e l’ordine pubblico, è stata votata prima ancora (28 ottobre 2003) una legge, proposta dal ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, per contrastare con più vigore l’immigrazione illegale. Il Regno Unito guarda all’immigrazione come a una risorsa ormai irrinunciabile, nonostante le ben note difficoltà economiche e sociali causate dalla disindustrializzazione. Pertanto ha evitato persino di adottare la moratoria, prevista dalla maggior parte dei Paesi membri dell’Unione Europea, per la libera circolazione dei cittadini dei Paesi entrati a farne parte il 1° maggio 2004, limitandosi a non concedere loro l’immediata utilizzazione gratuita dei servizi sociali, per prevenire il cosiddetto “turismo del welfare”. Anche le conseguenze di lungo periodo dell’immigrazione sono state sostanzialmente accettate, benché di quando in quando riemerga il richiamo a uno “spirito britannico” da recupe-


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rare, come in un recente saggio del ministro dell’Interno Blunkett14. È significativo, in proposito, che lo stesso principe Carlo, destinato, in caso di ascesa al trono, ad assumere il ruolo di defensor fidei, abbia pubblicamente espresso l’intenzione di assolverlo a favore non già della sola Chiesa anglicana (di cui diventerebbe capo ex officio), ma di tutte le fedi di fatto presenti nel Paese. D’altra parte, mentre è stata facilitata l’immigrazione legale per motivi di lavoro, è stata data una stretta significativa all’immigrazione illegale, compresa quella che adduce motivi politici. L’ultima legge su asilo, immigrazione e cittadinanza (7 novembre 2002) ha cercato di porre un freno all’arrivo degli asilanti, diventati sempre più numerosi (oltre 110.000 nel 2002). La nuova legge dispone l’identificazione biometrica degli immigrati (attraverso le impronte digitali o il riconoscimento iridico), combatte i passeurs e il lavoro nero, accelera l’esame delle domande di asilo, ne prevede un vaglio più attento per individuare quelle abusive, istituisce dei centri di accoglienza e di controllo per i richiedenti asilo, proibisce loro di lavorare prima che ne sia accolta la domanda, impedisce i ricorsi “manifestamente infondati” contro il suo rigetto, vieta l’accettazione delle domande presentate da cittadini di Paesi ormai considerati “sicuri”, rende meno facile il prolungamento del soggiorno e l’ottenimento della cittadinanza britannica, stabilisce che gli immigrati seguano dei corsi di inglese, scozzese o gallese. D’altra parte prevede l’accoglimento delle domande patrocinate nei Paesi di origine dai rappresentanti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e introduce misure per favorire l’integrazione sociale degli immigrati. La Germania, che ha smesso di definirsi come un “Paese di non immigrazione”, ha anche saputo superare l’idea di una mera “integrazione temporanea” degli immigrati. Per i giovani nati in Germania da immigrati stranieri è ormai prevista l’acquisizione della cittadinanza tedesca al compimento della maggior età e per gli immigrati di prima generazione la “naturalizzazione” non è più un sogno impossibile (dal 2000 hanno acquisito la cittadinanza tedesca 520.000 stranieri). Per questo l’auspicio (formulato anche in Austria) che tutti gli immigrati presenti nel Paese imparino il tedesco, più che un colpo di coda dell’ancor prevalente concezione etnico-culturale della nazione, sembra essere una testimonianza dell’ormai intervenuta accettazione del loro insediamento definitivo. Come si vede, al di là delle pur persistenti differenze, emerge la convergenza verso un modello d’integrazione sociale con salvaguardia dell’identità culturale degli immigrati. Vale la pena di sottolineare che antesignana di questo orientamento è stata l’Italia, diventata un Paese d’immigrazione solo a partire dagli anni Settanta, dopo essere stata per oltre un secolo il primo Paese europeo di emigrazione. In realtà tale orientamento caratterizza chiaramente già la sua prima legge in materia d’immigrazione, la n. 943 del 30 dicembre 1986, firmata da De Michelis e Craxi, ma frutto di un’elaborazione collettiva cui hanno dato un contributo importante anche le principali organizzazioni sindacali. Questo orientamento è stato poi confermato da tutte le leggi successive: la n. 39 del 28 febbraio


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1990 (la legge Martelli), la n. 40 del 19 febbraio 1998 (la legge Turco-Napolitano) e la n. 189 del 30 luglio 2002 (la legge Bossi-Fini attualmente in vigore), che pur moveva da preoccupazioni di controllo sociale e di ordine pubblico. Per quanto in apparenza paradossale, il fatto ha una sua logica. L’immigrazione in Italia è cominciata nella seconda delle tre citate fasi dell’immigrazione post-bellica in Europa, quella caratterizzata dalla nuova divisione internazionale del lavoro, e ha preso abbrivio nella terza, quella più segnata dal processo di globalizzazione e dall’unificazione europea. Inoltre la cultura politica italiana, e soprattutto l’idea italiana di nazione, si colloca sin dalle origini in una posizione intermedia fra quella francese e quella tedesca. Per di più in Italia è sempre stata molto forte l’influenza dell’universalismo della Chiesa cattolica, che ha largamente compenetrato tutte le principali forze politiche, a partire dalla Democrazia Cristiana, il partito che ne ha retto le sorti per oltre un quarantennio e ha poi dato luogo a una diaspora che ha interessato quasi tutte le formazioni politiche. Né meno importante è stato il ruolo dell’internazionalismo proletario, che ha ispirato, e in parte ispira ancora, i partiti politici, i sindacati e i movimenti della sinistra. Inoltre l’europeismo italiano, forte e diffuso (anche perché l’Italia, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, ha visto nell’integrazione europea una possibilità di riscatto e di promozione), ha reso il Paese particolarmente ricettivo alle indicazioni delle istituzioni comunitarie, mentre la crisi evidente dei modelli “nazionali” degli altri Paesi europei ha dissuaso per tempo anche solo dal tentare di ripercorrerne pedissequamente la via. Anche al di là del particolare interesse che riveste per noi, è dunque opportuno dedicare un’analisi specifica all’immigrazione in Italia, che, da caso anomalo, quale è stata agli inizi, è da tempo divenuta un caso esemplare.


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Capitolo quarto

L’Italia nel processo delle nuove migrazioni internazionali

L’Italia è diventata un Paese d’immigrazione in anni relativamente recenti e, come gli altri late-comers dell’immigrazione in Europa, ha conosciuto un’immigrazione dovuta assai più ai fattori di espulsione nei Paesi di esodo che ai fattori di attrazione nel Paese di approdo. Per di più ha costituito a lungo un’opzione subordinata rispetto a mete più ambite. 4.1 L’Italia, da Paese di emigrazione a Paese d’immigrazione L’immigrazione in Italia è diventata evidente nel corso degli anni Settanta, quando gli arrivi (già cominciati in sordina negli anni Sessanta, soprattutto dalle ex colonie del Corno d’Africa e dalla vicina Tunisia) aumentarono rapidamente, nonostante la grave crisi economica. Molti di coloro che avrebbero preferito dirigersi verso i tradizionali Paesi d’immigrazione dell’Europa centro-settentrionale o addirittura gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, per la difficoltà di emigrare verso questi Paesi, cominciarono a riversarsi in Italia, che, considerandosi ancora un Paese di emigrazione, non aveva chiuso le sue frontiere (almeno di fatto, dato che tale “apertura” dipendeva dalla disapplicazione delle pur restrittive norme sugli “stranieri” ereditate dalla legislazione fascista). A questi immigrati economici si aggiunsero poi, via via, i numerosi profughi politici di quel periodo. L’immigrazione s’incrementò ulteriormente negli anni Ottanta, per effetto sia dei persistenti fattori espulsivi nei Paesi di origine (per le crisi economiche e politiche che colpirono molti Paesi del Terzo Mondo e dell’Europa orientale), sia dei fattori di attrazione, che cominciarono ad acquisire una certa rilevanza anche in Italia. Secondo i dati del Ministero dell’Interno (basati sui permessi di soggiorno rilasciati dalle questure), il numero degli stranieri legalmente presenti si raddoppiò nel corso degli anni Settanta, passando dai circa 150.000 del 1970 ai circa 300.000 del 1980, e aumentò a un ritmo ancora più rapido nel decennio successivo, arrivando a poco meno di 800.000 nel 1990, quando furono varate le prime misure intese a contenere gli ingressi. Dopo un breve periodo di assestamento, l’immigrazione riprese a un ritmo sostenuto, che portò a un ulteriore raddoppio delle presenze legali alla fine del decennio. Gli immigrati regolari arrivarono così a circa 1.700.000 nel 2000, compresi i minori senza proprio permesso di soggiorno. Con un’ulteriore impennata, sono poi saliti a circa 2.600.000 al 1° gennaio 2004, inclusi quelli con procedura di regolarizzazione avviata, ma


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non conclusa. Ciò colloca l’Italia al quarto posto in Europa (se non addirittura al terzo) per il numero assoluto degli immigrati legali, dopo la Germania, la Francia e il Regno Unito, ove l’immigrazione è iniziata assai prima, in una diversa fase storica e per motivi in parte differenti. In ogni caso lo stock degli immigrati presenti in Italia si è accresciuto di oltre 150.000 unità all’anno. In questi ultimi anni l’Italia è stata in effetti il Paese europeo a più forte immigrazione dopo la Germania, con ingressi due volte più alti che in Francia, e il trend, se dovesse continuare, porterebbe a 6,5 milioni d’immigrati nel giro di vent’anni15. Del resto il numero effettivo degli immigrati in Italia è sempre stato assai più alto di quello risultante dai permessi di soggiorno per le consistenti presenze illegali. Anche se le quattro sanatorie del 1987, del 1990, del 1995 e del 1998 hanno consentito la regolarizzazione di oltre 800.000 persone (120.000 la prima, 222.000 la seconda, 246.000 la terza, 217.000 la quarta), il numero degli irregolari è restato infatti notevole, anche per il loro stesso effetto di richiamo. Alla fine del 2000, secondo le stime comunicate dal ministro dell’Interno di allora, Gerardo Bianco, gli irregolari sarebbero stati almeno 250.000 – un numero superiore a quello calcolato prima della sanatoria allora appena conclusa da un gruppo di lavoro istituito presso il Ministero dell’Interno – e alla vigilia della quinta sanatoria, quella dell’autunno 2002, il numero degli irregolari ipotizzato da quel Ministero era di circa 800.000: una valutazione poi sostanzialmente confermata dalle oltre 700.000 domande di regolarizzazione presentate entro la scadenza (11-11-2002) dai datori di lavoro per quei dipendenti che potessero dimostrare il loro arrivo in Italia prima della data prevista, con l’impegno ad assumerli regolarmente per almeno un anno e a pagare per loro tre mesi di contributi previdenziali arretrati (un numero che fra l’altro dimostra il sostanziale fallimento della legge TurcoNapolitano sul fronte del contenimento degli arrivi illegali, nonostante la sua pretesa “severità”, ripetutamente asserita dalla sua prima firmataria). In ogni caso l’Italia è restata (almeno sino all’ultima sanatoria) il primo Paese in Europa per il numero, assoluto e relativo, degli immigrati irregolari, così come lo è per la percentuale degli extracomunitari sul totale degli immigrati regolari (quasi il 90% al 1° gennaio 2003) e la percentuale dei disoccupati fra gli immigrati irregolari e regolari: un insieme di dati che segnala la particolare problematicità della situazione, con ovvi riflessi negativi sia per l’integrazione sociale degli immigrati, sia per la sicurezza e l’ordine pubblico: temi che proprio per questo hanno finito per essere sempre più discussi con riferimento diretto e indiretto all’immigrazione, anche se alcuni sedicenti “esperti” nelle più che legittime preoccupazioni in argomento non hanno saputo veder altro che l’espressione di un pregiudizio16. Per comprendere queste difficoltà, non bisogna dimenticare che l’Italia è diventata un Paese d’immigrazione quando i potenti fattori espulsivi già sopra ricordati hanno indotto crescenti frange della popolazione di alcuni Paesi del Terzo Mondo e dell’Europa orientale a tentare l’avventura dell’Occidente, cercando sbocchi anche in quei Paesi dell’Europa meridionale in cui l’immigrazione


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costituisce per molti aspetti un paradosso. In questi Paesi, infatti, l’immigrazione coesiste con l’emigrazione (che ancora continua, sia pur in misura ridotta) e soprattutto con la disoccupazione e l’inoccupazione, che restano invece assai alte. Del resto, nonostante un recente miglioramento (nel 2002 la disoccupazione generale è scesa al 9%, quella femminile al 12% e quella giovanile al 24%), l’Italia è all’ultimo posto fra tutti i Paesi dell’Unione Europea per l’indice di occupazione elaborato da quest’ultima, così come è all’ultimo posto fra tutti i trenta Paesi dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico per il tasso della popolazione attiva17. Di conseguenza in Italia, così come in genere nei Paesi dell’Europa meridionale, gli immigrati s’inseriscono per lo più in segmenti del mercato del lavoro non ricercati dagli autoctoni (se non proprio “rifiutati”, come a volte si dice), soprattutto per le condizioni ivi praticate. Peraltro anche molti immigrati non trovano lavoro. Non sorprende quindi che molti di loro finiscano per incrementare la piaga della criminalità diffusa o diventino manovalanza di quella organizzata. Del resto non pochi vengono in Italia proprio per svolgervi attività illecite, confidando nell’inefficienza o nella connivenza della polizia, nell’ipergarantismo delle norme vigenti e nella comprensione così spesso dimostrata nei loro confronti da una parte non piccola della magistratura. Inoltre molte centinaia di migliaia d’immigrati, regolari e irregolari, trovano un’occupazione in nero nel cosiddetto “settore informale” (che dà lavoro anche a quattro milioni d’italiani). A ciò si aggiunga che molti immigrati creano essi stessi i loro posti di lavoro (se così li si può definire), come il piccolo ambulantato di strada (specialmente di prodotti contraffatti o di contrabbando), il lavaggio dei vetri alle automobili in sosta o la questua più o meno mascherata: attività estremamente precarie, ma che a volte consentono di realizzare un reddito superiore allo stipendio di un funzionario di medio livello nei loro Paesi (alcune di queste attività sono però controllate da organizzazioni malavitose, per lo più dei loro Paesi di origine, che si appropriano di gran parte dei loro guadagni). Ancora più grave è il caso delle donne straniere dedite alla prostituzione di strada (2025.000, secondo le stime più prudenziali, ma ne esistono altre anche quattro volte superiori), per il 70-80% costrette a farlo da organizzazioni malavitose o da sfruttatori violenti, per lo più dei loro stessi Paesi. Al 1° gennaio 2003 i lavoratori regolari (tra subordinati e autonomi) erano 834.00, pari al 55% delle presenze complessive, cui si dovrebbero aggiungere i 635.000 successivamente regolarizzati per effetto della sanatoria allora pendente. I più erano impiegati nel settore terziario (servizi domestici, servizi alla persona, alberghi e ristorazione, imprese di pulizia, portinerie ecc.). Collaboratori domestici e badanti assommavano da soli a quasi mezzo milione e altri 340.000 erano i regolarizzandi. Un buon numero era però presente nel settore primario (soprattutto agricoltura e pesca, specie nelle regioni meridionali) e nel settore secondario (cave e miniere, edilizia, fonderie, ceramifici e, specialmente nelle regioni settentrionali, piccola e media industria, anche leggera). Secondo i dati co-


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municati alla Camera dal ministro dell’Interno il 25 giugno 2003, lavoratori domestici e badanti costituivano il 50% dei lavoratori immigrati; le industrie (soprattutto quelle tessili, dei metalli e della conceria) ne occupavano più del 15%; servizi, settore alberghiero, ristorazione, pubblici esercizi, costruzioni, trasporti e pulizie ne impiegavano un altro 13%; l’agricoltura (principalmente per le attività stagionali di raccolta) il 10%. Cominciava inoltre a diventare significativo, specie nel Nord, il fenomeno dell’imprenditoria etnica: quasi 60.000 erano i titolari e i soci d’imprese con cittadinanza straniera (sui 180.000 “nati all’estero” risultanti alle Camere di Commercio), un quarto dei quali nella sola Lombardia. Si sta riducendo, d’altra parte, la concentrazione degli immigrati sul territorio. Inizialmente sovrarappresentati in alcune aree (le regioni di confine e quelle con porti e aeroporti internazionali, i grandi centri urbani, le zone agricole del centro-sud), si sono infatti diffusi in tutto il Paese, anche se ancora notevole è la loro presenza nelle regioni, nelle province e nelle città che offrono le maggiori possibilità di lavoro o, almeno, di sopravvivenza. Secondo gli ultimi dati disponibili (1° gennaio 2003), che si riferiscono ai soli immigrati con permesso di soggiorno, troviamo ai primi posti la Lombardia (348.000), il Lazio (240.000), il Veneto (155.000), l’Emilia-Romagna (151.000), la Toscana (111.000), il Piemonte (108.000), la Campania (59.000) e la Sicilia (50.000). Se si calcolano anche i minori senza proprio permesso di soggiorno, i regolarizzati recenti non ancora compresi in questi dati e gli irregolari, si superano i 300.000 nella sola area metropolitana di Roma, i 200.000 in quella di Milano e i 100.000 in quella di Napoli, con percentuali sulla popolazione ormai da tempo superiori al 10%. Ciò nondimeno per molti anni le istituzioni hanno prestato ben scarsa attenzione al fenomeno. In realtà, sino al 1986 l’unica loro risposta fu un sostanziale laissez-faire: nessun progetto sociale complessivo, nessun orientamento preciso in tema d’integrazione, nessuna iniziativa con un minimo di respiro, nessun intervento specifico neanche per tutelare la sicurezza e l’ordine pubblico. L’assistenza, ridotta ai minimi termini, era per lo più delegata alla Caritas o ad altre organizzazioni vicine alla Chiesa e, in minor misura, alle associazioni sindacali e parasindacali e ai patronati collegati ai tre maggiori partiti politici del tempo: la Democrazia cristiana, il Partito comunista e il Partito socialista (con gli sprechi e gli abusi facilmente immaginabili). Seguì, per un breve periodo (1987-1990), una politica orientata alla regolarizzazione di tutti i presenti (condizionata al tempo della prima sanatoria, incondizionata al tempo della seconda), ispirata a quel “solidarismo” che accomunava consociativamente i due principali partiti della maggioranza di centro-sinistra (la Democrazia cristiana e il Partito socialista) e il maggior partito di opposizione (il Partito comunista). Successivamente (1990), quando divenne evidente che anche a causa di quella politica la situazione aveva superato il livello di guardia, ci fu un tentativo di colpo di freno (informalmente sollecitato anche dalle autorità comunitarie, preoccupate dei suoi possibili riflessi oltre i confini italiani, data la già prevista eliminazione dei controlli alle frontiere tra gli Stati membri), peraltro con misure mal definite e peggio applicate.


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4.2 Lo sviluppo della legislazione italiana sull’immigrazione Il primo intervento legislativo in materia d’immigrazione fu la legge n. 943 del 30 dicembre 1986, firmata dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal ministro del Lavoro e della previdenza sociale Gianni De Michelis, entrambi socialisti. Seguì, pochi anni dopo, la legge n. 39 del 28 febbraio 1990, conosciuta come Legge Martelli, dal nome del giovane vicepresidente del Consiglio, il “delfino” socialista Claudio Martelli, inesperto, ma caparbio, che l’impose anche contro le resistenze non solo dell’opposizione di destra (il Movimento sociale italiano) e dei due soli parlamentari della Lega lombarda, ma anche di alcune componenti della coalizione di governo (una parte dei democristiani e i repubblicani). Queste leggi furono poi integrate, in ambiti specifici, da provvedimenti ad hoc concernenti l’introduzione dei visti d’ingresso per i cittadini dei Paesi a maggior “rischio migratorio”, “eccezioni umanitarie” per chi provenisse da Paesi dilaniati dai conflitti bellici (come la Somalia e gli Stati dell’ex Jugoslavia), altre “eccezioni” imposte dalla necessità di fronteggiare determinate “emergenze” (fra cui l’arrivo in massa degli albanesi sulle coste adriatiche nel 1991 e poi di nuovo nel 1997). Le leggi n. 943/1986 e n. 39/1990, che allora furono recepite soprattutto come dei provvedimenti intesi a regolarizzare gli extracomunitari illegalmente presenti, hanno definito il quadro generale della politica per l’immigrazione. Esse hanno infatti sancito i principali diritti degli immigrati e hanno precisato gli orientamenti di fondo per la loro integrazione sociale. La legge n. 943/1986 ha riconosciuto ai lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia la parità di trattamento e la piena uguaglianza giuridica con i lavoratori italiani. Ha assicurato loro il diritto al ricongiungimento familiare e ha riconosciuto a loro e ai loro congiunti il diritto all’uso dei servizi sociali e sanitari, all’abitazione e alla scuola (quest’ultimo diritto fu poi esteso nel 1994 anche ai figli degli immigrati irregolari, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia). Ha altresì affermato il diritto degli immigrati di organizzare proprie associazioni e di mantenere la propria identità culturale e ne ha promosso la partecipazione indiretta alle decisioni che li riguardassero tramite una specifica “consulta” istituita presso il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale. La legge prevedeva anche, per la prima volta in Italia, la lotta all’immigrazione clandestina, ma questo punto, presente nel suo stesso titolo, fu quasi completamente disatteso. La legge n. 39/1990 ha definito un insieme d’interventi per favorire l’integrazione sociale e la promozione culturale degli immigrati e ha stanziato dei fondi per dare attuazione al loro diritto alla casa e all’educazione. Ha garantito a tutti gli immigrati regolari l’iscrizione gratuita all’assistenza sanitaria pubblica per il periodo di un anno (poi portato a tre). Ha eliminato la cosiddetta “riserva geografica” che in Italia (così come in pochissimi altri Paesi) precludeva ai non europei la possibilità di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra (anche se non era mai stato loro negato il rifu-


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gio de facto, rafforzato dalla protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con cui il governo aveva stipulato uno specifico accordo, che prevedeva anche un cospicuo contributo finanziario). Ha stabilito il principio di una programmazione degli ingressi (che, pur essendo poi restata per alcuni anni a livello zero, per l’elevatissimo numero di disoccupati fra gli immigrati regolari già presenti nel Paese, non ha impedito l’arrivo di una media di oltre 50.000 immigrati regolari all’anno, grazie alle norme sul ricongiungimento familiare e sul rifugio politico e ai contratti di lavoro, spesso del tutto fasulli o di comodo, ma ben raramente controllati). Successivamente, nella seconda metà degli anni Novanta, il numero degli immigrati regolari annualmente previsto fu fissato a 63.000, in aggiunta a quello, non piccolo, di coloro che, già presenti irregolarmente in Italia, hanno potuto beneficiare delle sanatorie del 1996 e del 1998 (complessivamente quasi mezzo milione di persone). Nel suo insieme questa legislazione s’ispirava al principio di attribuire agli immigrati regolari gli stessi diritti civili, economici e sociali degli italiani, senza richiedere loro, come condizione per fruirne, l’acquisizione della cittadinanza (un principio che l’Italia aveva propugnato per decenni per i suoi emigrati all’estero). Ciò implicava, per molti aspetti, l’equiparazione di fatto degli immigrati extracomunitari regolari ai cittadini dei Paesi comunitari, con una sola rilevante eccezione: il diritto di voto alle elezioni amministrative, che in Italia è tuttora riconosciuto soltanto a questi ultimi, mentre in altri Paesi europei è stato da tempo esteso agli extracomunitari. È questo il caso dell’Irlanda (1963), della Svezia (1975), della Danimarca (1981), dei Paesi Bassi (1985), della Finlandia (1992), del Lussemburgo (2003), del Belgio (2004), senza eleggibilità, e, a condizione di reciprocità, del Portogallo (1971) e della Spagna (1993), nonché di qualche Land tedesco e del Regno Unito, dove, come già detto, i cittadini dei Paesi del Commonwealth godono di pieni diritti politici. Nei Paesi europei non appartenenti all’Unione il voto amministrativo agli stranieri è previsto in Islanda (1981), per i cittadini dei Paesi nordici, in Norvegia (1982) e anche in qualche cantone svizzero. In Italia, per contro, è stato sempre fortemente affermato il diritto all’identità culturale e religiosa e, più in generale, il rispetto della diversità, del resto già profondamente radicato nella società civile. Proprio per questo vicende simili a quelle reiteratamente vissute in Francia dalle giovani musulmane espulse dalle scuole statali o sospese dagli impieghi pubblici solo perché indossavano il cosiddetto “foulard islamico” in Italia sarebbero state addirittura impensabili. Peraltro negli ultimi anni dichiarazioni decisamente sopra le righe contro l’“invadenza islamica” sono state espresse da esponenti politici (in particolare della Lega Nord), da prelati della Chiesa cattolica (come il cardinale Giacomo Biffi, allora arcivescovo di Bologna, mons. Alessandro Maggiolini, vescovo di Como, e don Gianni Baget-Bozzo, un sacerdote da tempo impegnato in politica, prima con i socialisti e poi con Forza Italia) e da opinionmaker del mondo laico, ben noti per le loro prese di posizione umorali (come il politologo Giovanni Sartori e la scrittrice Oriana Fallaci). Queste posizioni


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si sono poi diffuse per qualche tempo nel contesto delle esagerate reazioni emotive suscitate dall’ordinanza di un magistrato che, nel 2003, si era espresso per la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche di un piccolo comune abruzzese, accedendo alla richiesta di un cittadino italiano di religione islamica. Con poche eccezioni, hanno partecipato all’orgia di esternazioni in argomento, aperta da una nervosa dichiarazione televisiva del cardinale Ersilio Tonini, di solito assai misurato, molti importanti personaggi politici della destra e della sinistra (con limitati, ma meritori, dissensi nei due schieramenti) e lo stesso presidente della repubblica Ciampi, da cui pure sarebbe stato lecito attendersi un intervento a tutela dei diritti costituzionalmente garantiti delle minoranze, della pari libertà di coscienza di tutti i cittadini, della laicità dello Stato e della stessa indipendenza della magistratura, dati i virulenti attacchi rivolti a quel magistrato. Peraltro in Italia, più ancora che in altri Paesi, intercorre un divario notevole fra il teorico riconoscimento dei diritti e la loro effettiva attuazione. Non stupisce pertanto che anche alcuni diritti di natura economico-sociale pur costituzionalmente garantiti (come quelli al lavoro e alla casa) siano restati quasi lettera morta, così come del resto per molti italiani. D’altra parte il forte garantismo della nostra legislazione, coniugato con la scarsa efficienza degli apparati di polizia e la macchinosità e la lentezza delle procedure amministrative e giudiziarie, assicurava la pressoché totale impunità alla maggior parte degli immigrati, regolari e irregolari, che si fossero macchiati di reati anche gravi (con tutto ciò gli immigrati sono arrivati a costituire circa 1/3 della popolazione carceraria). Il meccanismo delle espulsioni era quasi inceppato. In prima istanza era affidato all’esecuzione spontanea degli stessi “intimati”, che ben raramente rispettavano l’ordine di lasciare il Paese. In seconda istanza era previsto l’accompagnamento alla frontiera, che peraltro era eseguito soltanto in pochi casi (uno su dieci agli inizi degli anni Novanta, uno su sei alla fine del decennio). A questa situazione ha cercato di porre rimedio il governo Dini con un decreto (il D.L. n. 489 del 18 novembre 1995) che prevedeva (accanto ad altri provvedimenti, fra cui la terza delle sanatorie sopra citate) delle procedure di espulsione più spicce almeno per i clandestini colti in flagranza di reato. Ma quel decreto, reiterato per ben quattro volte, con varie modifiche, non è mai stato convertito in legge per la strenua opposizione delle componenti più garantiste della maggioranza di centro-sinistra di quel periodo ed è stato lasciato decadere, con salvaguardia delle misure di sanatoria per i clandestini. In luogo del decreto decaduto, il 19 febbraio 1998, fu approvata, dopo lunghe e defatiganti discussioni, una nuova legge, la n. 40/98, che i suoi due proponenti, la ministra della Solidarietà sociale Livia Turco e il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano (entrambi diessini provenienti dall’apparato del vecchio Partito comunista), hanno voluto presentare come l’attesa “legge organica” sull’immigrazione (mentre il vero progetto di “legge organica”, predisposto da una commissione di studio che aveva iniziato a operare nel 1993, quando la delega


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per l’immigrazione era ancora esercitata dalla ministra Contri, era stato affondato, prima della sua stessa presentazione alle Camere, dal fuoco incrociato della composita lobby immigrazionista e delle forze politiche, di maggioranza e di opposizione, fautrici di un maggior rigore). La legge Turco-Napolitano (firmata anche dal primo ministro Romano Prodi, un ex democristiano passato ai popolari, e dall’ex comunista Massimo D’Alema, a quel tempo leader dei democratici di sinistra), a detta dei suoi inesperti, ma testardi proponenti, avrebbe dovuto prevedere sia delle efficaci misure per l’integrazione degli immigrati, sia dei seri provvedimenti per combattere l’immigrazione clandestina, notevolmente accresciutasi nel frattempo. Le opposte resistenze emerse durante il suo iter parlamentare hanno però finito per svuotarla quasi di ogni senso e poche sono state le sue reali innovazioni rispetto alla normativa precedente. Di qualche rilievo furono peraltro l’introduzione di una carta di soggiorno permanente per gli immigrati regolari residenti in Italia da almeno cinque anni, i permessi semestrali per il lavoro stagionale (pur destinati in gran parte a non essere rispettati e quindi a creare nuova irregolarità), le facilitazioni per l’esercizio del lavoro autonomo e delle attività professionali, il sostegno alle iniziative sociali e culturali per gli immigrati (per lo più gestite da enti e associazioni legati alla Chiesa cattolica e ai sindacati) e la semplificazione delle procedure per i ricongiungimenti familiari di parenti anche non stretti (che una sentenza della Corte di Cassazione estese poi a catena, consentendo ai richiamati di far venire a loro volta altri parenti, e così via). Poco incisive sono state invece le norme, pur formalmente più severe, contro l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento degli immigrati e ogni forma di discriminazione sociale. L’inadeguatezza della legge su questo piano è del resto platealmente emersa pochi mesi dopo, con la confusa e contraddittoria risposta nell’estate ai nuovi sbarchi in massa di clandestini sulle coste meridionali (internati per trenta giorni e poi paradossalmente lasciati liberi di andare dove volessero, nel caso in cui fossero riusciti a non farsi identificare entro tale termine). A ciò si aggiunse agli inizi dell’anno seguente il caotico avvio della quarta sanatoria, chiamata non più così, ma “regolarizzazione”, per quel pedaggio d’ipocrisia che il vizio talvolta paga alla virtù: una sanatoria a lungo ufficialmente smentita, ma poi formalizzata, quando già ne erano diventati evidenti gli effetti di richiamo, alimentati anche dalle imprudenti dichiarazioni di alcune autorità (fra cui lo stesso presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che giunse a proclamare urbi et orbi che «le porte spalancate sono un fatto di civiltà»). Dopo le elezioni politiche del 2001, che hanno visto una netta vittoria della coalizione di centro-destra, sono cambiati i suonatori, ma non è cambiata la musica o, almeno, non è cambiata molto. Nonostante i chiari impegni elettorali assunti in materia dalla nuova maggioranza, è occorso più di un anno perché venisse varata una nuova legge sull’immigrazione un po’ più restrittiva (la già citata Bossi-Fini del 30 luglio 2002, entrata in vigore il 10 settembre successivo). Per di più anche questa legge è stata snaturata rispetto al suo originario disegno dalle numerose


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modifiche introdotte in itinere dalla componente neo-democristiana della maggioranza, che ha anche imposto un’ennesima sanatoria (la quinta in tre lustri, un record mondiale che nessuno probabilmente ci invidia), resa oltre tutto a maglie via via più larghe dalle reiterate richieste della stessa componente. Così è stata in parte compromessa quella funzione prioritaria di controllo sociale che i suoi firmatari avevano voluto assegnare alla legge, che, dopo il suo stravolgimento, sarebbe forse più corretto chiamare non Bossi-Fini, ma Giovanardi (dal nome del ministro neo-democristiano per i rapporti col Parlamento che l’ha così trasformata, facendosi interprete delle prevalenti posizioni in materia della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche). In ogni caso coloro che avevano proposto una legge severa, intesa innanzi tutto a ripristinare l’ordine pubblico inficiato dal precedente lassismo, sembrano aver fatto la fine dei pifferi di montagna, che andarono per suonare e furono suonati. Partiti con l’idea di espellere tutti gli immigrati illegalmente presenti in Italia, hanno finito per approvare la più grande sanatoria mai varata nel Paese: circa 705.000 domande, quasi quanto tutte quelle delle quattro sanatorie precedenti, distribuite nell’arco di dodici anni. Ciò non è tuttavia bastato ad ammorbidire le reazioni di un’opposizione invelenita, che ha persino accusato la legge di “razzismo”, nonostante la sua sostanziale continuità con la precedente normativa specialmente per ciò che concerne la politica dell’integrazione, che non è stata minimamente toccata. In ogni caso la legge non merita l’“indignazione” con cui è stata accolta da chi ha voluto addossarle “colpe immaginarie”, come ha onestamente riconosciuto la stessa presidente della Commissione per le politiche d’integrazione degli immigrati del precedente governo di centro-sinistra18. La Bossi-Fini segna peraltro un parziale ritorno all’impostazione “lavoristica” che aveva connotato la prima legge italiana sull’immigrazione. Ha introdotto infatti una precisa relazione fra permesso di soggiorno e contratto di lavoro (recependo a suo modo le indicazioni della già citata comunicazione della Commissione europea del 2000), con l’istituzione di un “contratto di soggiorno per lavoro”, che prevede fra l’altro, per chi assume uno straniero non comunitario, l’obbligo di garantirgli un alloggio e di pagargli il rientro in patria a fine rapporto. Di conseguenza ha abrogato l’istituto della sponsorizzazione, previsto dalla Turco-Napolitano, che permetteva di entrare in Italia legalmente per cercarvi un lavoro: un istituto che si era rivelato fonte di abusi, dato che la garanzia richiesta poteva essere prestata anche da un connazionale con permesso di soggiorno o da un’associazione di volontariato disposta a dare senza troppi rischi una poco costosa copertura, pagata spesso dagli stessi migranti o dai loro parenti. Anche il ricongiungimento famigliare è stato meglio definito per contenerne il rischio di utilizzazioni anomale, reso ancora più grave dalla dilatazione a catena operatane dalla Corte di Cassazione. Resta in vigore la carta di soggiorno, conseguibile peraltro dopo un periodo di permanenza regolare un poco più lungo (sei anni invece di cinque). È stato inoltre stabilito che a chi richieda il permesso di soggiorno siano prese le impronte digitali, per ovviare all’uso di falsi documenti, non infrequente da parte degli


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immigrati con conti in sospeso con la giustizia. Per evitare le accuse di discriminazione avanzate dall’opposizione, tale misura (già proposta senza successo qualche anno prima da un sottosegretario all’Interno del precedente governo di centro-sinistra) è stata poi estesa anche ai cittadini italiani, che dovranno rilasciare le loro impronte in occasione del rinnovo dei documenti d’identità. Per contrastare l’immigrazione clandestina è stato prolungato da 30 a 60 giorni il periodo di permanenza negli appositi centri in cui dovrebbero essere identificati coloro che entrano nel Paese sprovvisti di documenti, si è ridotto da 15 a 5 giorni il periodo entro cui gli “intimati” dovrebbero lasciare il Paese e si è rivisto il meccanismo dell’espulsione amministrativa, cui si è attribuita immediata esecutività con accompagnamento alla frontiera. Per quelli che dovessero rientrare in Italia clandestinamente dopo l’espulsione è stato introdotto il reato d’ingresso clandestino, mentre il primo tentativo d’immigrazione illegale continua a costituire soltanto un illecito amministrativo. D’altra parte, per quanto concerne la prevenzione dell’immigrazione clandestina (gestita in gran parte da organizzazioni malavitose che non esitano a mettere a repentaglio la vita sia di chi ricorra loro, sia di chi tenti di contrastarle), è stato posto l’accento sulla collaborazione con i Paesi di origine e di transito degli immigrati, di cui si è deciso di tener conto nell’elaborazione dei programmi di cooperazione e nella determinazione delle quote riservate d’ingressi regolari stabilite annualmente nel decreto sui flussi. Si tratta, insomma, di un insieme di misure equilibrate e ragionevoli, che rispondono in gran parte alle indicazioni delle istituzioni europee, anche se di attuazione tutt’altro che facile, date anche le carenze degli organi che dovrebbero curarne l’applicazione. È peraltro troppo presto per esprimere una valutazione complessiva sul provvedimento, che rappresenta in realtà un compromesso fra la tradizionale politica dell’integrazione (declinata ora con particolare accento sull’inserimento lavorativo e sul ricongiungimento famigliare) e le esigenze di un maggior controllo. In ogni caso le stesse vicissitudini della legge testimoniano meglio di ogni altra cosa la decisiva influenza che sulla politica migratoria di un Paese esercita la sua cultura politica. Nel caso italiano, al di là dell’alternarsi al governo di forze politiche in aspro contrasto, su ogni altro elemento ha sempre finito per prevalere il tradizionale solidarismo di matrice cattolica, che ha travolto anche l’impostazione originariamente securitaria del disegno di legge Bossi-Fini. Eppure una parte consistente del mondo cattolico continua a criticare questa legge, chiedendone una “radicale revisione” (il “carismatico” missionario no-global Alex Zanotelli ha proposto di violarla sistematicamente, dando ospitalità ai clandestini in chiese e monasteri), anche se il presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini ha espresso apprezzamento per la grande sanatoria che l’ha accompagnata. Recentemente (7 ottobre 2003), nel corso di un convegno del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), uno dei firmatari di tale legge, l’on. Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale e vice-presidente del Consiglio dei ministri, ha proposto (piuttosto sorprendentemente, per chi ricorda le sue precedenti prese di posizione in argomento) di estendere il diritto di voto ammini-


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strativo agli immigrati regolari da tempo residenti in Italia. A ciò ha fatto seguito la presentazione alle Camere di un disegno di legge costituzionale del suo partito, in aggiunta a quelli già depositati da altri partiti, che del resto riprendevano il progetto presentato nella precedente legislatura dal governo Prodi, ma non portato in aula per il timore di una sua bocciatura. A grandi linee l’Italia si sta dunque movendo, anche se non senza difficoltà e contraddizioni, in sintonia con gli altri Paesi europei, dove, dopo la crisi dei progetti sociali ispirati alle loro specifiche culture politiche, si tende ad affrontare i problemi con più realismo e senso pratico. 4.3 Il dibattito politico-ideologico in Italia Con tutto ciò il dibattito politico-ideologico sull’immigrazione continua a essere caratterizzato da toni esacerbati e astratte polemiche. Nel corso degli anni Ottanta i primi studiosi italiani dell’immigrazione avevano proposto, con anticipatrice intuizione, un’«integrazione sociale con salvaguardia dell’identità culturale» degli immigrati19. Successivamente, però, altri autori enfatizzarono ingenuamente l’idea di una non meglio specificata “società multiculturale” che avrebbe dovuto risolvere tutti i problemi come per incanto. Né sono mancati coloro che, chiudendo entrambi gli occhi su una realtà già allora articolata e complessa, hanno imputato tutte le difficoltà derivanti da un’immigrazione rapida, consistente e mal gestita al preteso “razzismo degli italiani”, per utilizzare la formula inventata da abili, ma superficiali giornalisti20. Anche alcuni studiosi hanno così finito per interrogarsi più sul “razzismo” che non sull’immigrazione. Per di più alcuni di loro hanno ripreso dalle elaborazioni inglesi e francesi concetti e argomentazioni assai discutibili e non rispondenti alla situazione italiana (mi riferisco, in particolare, alle elaborazioni sul cosiddetto “razzismo culturale”, che confondono indebitamente razzismo, etnocentrismo e culturocentrismo, e quelle sul cosiddetto “razzismo differenzialista”, che scontano l’originaria formulazione nel contesto francese con un implicito riferimento al “modello repubblicano d’integrazione” sopra descritto). Ciò ha dato vita, fra l’altro, a un “antirazzismo militante” fazioso ed estremista, surrogatorio di altre militanze frustrate o tramontate21. Toni ingenui ed esasperati peraltro s’incontrano in entrambe le subculture politiche che furono a lungo dominanti in Italia: quella cattolica e quella marxista. La prima tende infatti a guardare agli immigrati come ai “nuovi poveri”, immagini di Cristo che bisogna amare e invitare ad entrare. La seconda li considera invece come il “nuovo proletariato”, da cui ci si attende un contributo importante per quella rivoluzione anticapitalistica che le “integrate” classi lavoratrici dei Paesi economicamente avanzati sembrano avere ormai messo nel dimenticatoio22. Recentemente si è diffuso però, fra gli studiosi, un maggiore spirito critico ed è emersa la consapevolezza che giovano più le misure concrete e responsabi-


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li che non le fughe in avanti e le astratte contrapposizioni ideologiche. Peraltro ancor oggi molti sociologi e teorici politici, quando parlano dell’immigrazione, sembrano gareggiare in demagogia con i più scriteriati esponenti no-global e si compiacciono di civettare con le tesi dei “cattivi maestri” ritornati di recente in auge sull’onda dei nuovi movimenti. La serietà dell’analisi tuttavia non basta. Per fronteggiare la sfida delle nuove migrazioni internazionali occorre elaborare un nuovo progetto sociale, che sostituisca i diversi progetti sociali nazionali. Il passaggio a una società multirazziale, multietnica, multiculturale, multilinguistica e multireligiosa è inevitabile sul lungo periodo, ma non rappresenta di per sé una soluzione. Per una transizione positiva si richiedono delle trasformazioni profonde, che prevedano un nuovo rapporto fra Stato e società civile, cultura e organizzazione sociale, etnicità, nazionalità e cittadinanza. È questo un terreno su cui tutti i Paesi europei dovranno ben presto misurarsi, superando i persistenti limiti insiti nelle loro attuali culture politiche. L’Italia potrebbe dare un importante contributo in tal senso, attingendo al suo straordinario retaggio di civiltà, formatosi per la funzione di crogiuolo di popoli e di culture che ha svolto nei secoli anche malgrado sé stessa. Al di fuori di ogni retorica, infatti, tale retaggio, potrebbe concorrere a definire una nuova cultura politica, né nazionalista né cosmopolita, in grado di governare la globalizzazione. Sarebbe, del resto, semplicemente insensato pensare di poter gestire i grandi movimenti di popolazione previsti per l’avvenire abbandonando all’andamento delle forze spontanee questo processo, destinato a esercitare per un lunghissimo arco di tempo un’influenza determinante sulle trasformazioni della convivenza umana. Note 1. Cfr. U. Melotti, Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in «Terzo Mondo», Milano, n. 37-38, 1979, pp. 3-14. 2. Cfr. F. Alberoni, G. Baglioni, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Il Mulino, Bologna 1965. Questa differenza era già individuabile negli anni Ottanta. Cfr. U. Melotti, La nuova immigrazione a Milano, Mazzotta, Milano 1985. 3. Cfr. U. Melotti (a cura di), Etnicità, nazionalità, cittadinanza, Seam, Roma 2000. 4. A. Touraine, Face à l’exclusion, in «Esprit», 1991, n. 169, pp. 7-13; trad. it. Di fronte all’esclusione, in «Iter», 1991, n. 2-3, pp. 13-20. 5. M. O’Donnell, Race and Ethnicity, Longman, New York 1991. 6. Cfr. C. Giordano, Né integrazione, né segregazione. Il contesto migratorio nella Repubblica federale tedesca, in G. Giordano (a cura di), L’immigrazione dal Terzo Mondo verso l’Europa: un fatto umano e un problema sociale destinato a crescere, La Quercia, Genova 1987, pp. 61-71. 7. J. Blaschke, Tendenze delle migrazioni e relazioni etniche nella Repubblica federale tedesca, in M. Delle Donne, U. Melotti e S. Petilli (a cura di), Immigrazione in Europa: solidarietà e conflitto, Dipartimento di Sociologia, Università “La Sapienza”, Roma 1993, pp. 143-156. 8. Cfr. J.H. St. John de Crèvecoeur, Letters from an American Farmer, Davies, London 1782; trad. it. Lettere di un agricoltore americano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1965. 9. Cfr., per esempio, A. Schlesinger jr., The Disuniting of America. Reflections on a Multicultural So-


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ciety, Norton, New York 1992 (2ª ed. riv. e ampl. 1998); trad. it. La disunione dell’America. Riflessioni su una società multiculturale, Diabasis, Reggio Emilia 1995. Cfr. S.P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997. Cfr. M. Stellin, Il mosaico dinamico. Il multiculturalismo in Canada, Forum, Udine 1999. Cfr. S. Piccone Stella, Esperienze multiculturali. Origini e problemi, Carocci, Roma 2003, pp. 125137. Commissione europea, Comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione [com (2000) 757 definitivo], Bruxelles 2000. D. Blunkett, Reclaiming Britishness, Foreign Policy Centre, London 2002. Cfr. M. Livi Bacci, Relazione al convegno “Immigrati e italiani: il futuro è convivenza”, Roma, 2021 febbraio 2004. Così, fra i tanti, S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati, Milano 1994 (testo non a stampa disponibile presso il Centro di documentazione dell’Ismu di Milano), e A. Dal Lago, Immigrazione, criminalità e pregiudizio, in «La Critica Sociologica», n. 110, 1994, pp. 28-35. Perspectives de l’emploi de l’Ocde, Ocde, Paris 2003. Cfr. G. Zincone, Indignazione e immigrazione, in «La Repubblica», 18 settembre 2002, p. 14. Cfr. U. Melotti, La nuova immigrazione a Milano, cit. Mi limito a ricordare il libro di G. Bocca, Gli italiani sono razzisti?, Garzanti, Milano 1988, peraltro caratterizzato da innumeri plagi di testi altrui. Cfr. G.E. Rusconi, Questione etnica e cittadinanza, in «Democrazia e Diritto», n. 6, 1989, p. 27. Per un’ampia documentazione di queste e altre posizioni sull’immigrazione in Italia si veda U. Melotti, L’abbaglio multiculturale, Seam, Roma 2000.


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Introduzione

La tecnologia è qui considerata, in accordo con la storia della scienza e la storia dell’economia, come un insieme di tecniche (pratiche) organizzate sistematicamente al fine di realizzare un processo produttivo. In altre parole, essa può essere intesa come il risultato definitivo della crescente interazione tra la tecnica e la scienza. Nella storia degli ultimi secoli, il rapporto fra la tecnica e la scienza è divenuto sempre più dialettico. Da una parte, la sperimentazione e l’impiego a fini produttivi di una risorsa naturale (tecnica) ha fornito elementi conoscitivi su di essa; dall’altra, l’indagine sulla natura intrinseca di una risorsa e sul rapporto che intrattiene con il mondo circostante (scienza) ha offerto nuovi elementi per utilizzare diversamente e in più modi la risorsa stessa. L’insieme delle pratiche e delle conoscenze – tecnologie – necessarie alla conversione di risorse in prodotti va quindi inteso come il risultato del rapporto dialettico fra conoscenze scientifiche e tecniche, variabile nello spazio, oltre che nel tempo1. Se da un punto di vista temporale la compenetrazione tra scienza, tecnica e industria avvenne in modo evidente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, da una prospettiva spazio-territoriale i primi legami tra il mondo dell’industria e il mondo universitario comparvero soprattutto in Germania: Nel Novecento si sono moltiplicati a dismisura i laboratori industriali in cui si fa della ricerca, che spesso è vera e propria ricerca pura, e i laboratori industriali ove si studiano le applicazioni scientifiche. La natura stessa della tecnica ne è uscita trasformata: da un tipo di attività caratterizzata da procedure per prove ed errori ispirate dall’esperienza, la ricerca tecnologica ha assunto le vesti di un operare razionalmente programmato in funzione di precise conoscenze teoriche2.

In linea generale possiamo dire che i processi produttivi nel macro-settore secondario, come quelli negli altri macro-settori economici, hanno avuto origine e sono sempre stati modificati dall’introduzione di una qualche innovazione tecnologica3. È noto, inoltre, come la capacità di intervento sulla natura, in particolare ad opera delle attività manifatturiere (e più genericamente e ampiamente industriali), abbia sancito nel corso del Novecento la preminenza del modo di produzione industrialista, e quindi delle innovazioni a esso correlate4.


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Premesso ciò, l’analisi attenta delle trasformazioni che, negli ultimi venti anni, sono intervenute nell’organizzazione territoriale dell’industria in funzione dei flussi di tecnologie ci permetterà di riflettere su alcune importanti novità che caratterizzano la globalizzazione (ossia un’epoca nuova segnata dalla trasformazione e dal progressivo superamento dell’industrialismo), soprattutto per le implicazioni socioeconomiche da un punto di vista geografico. Tuttavia le novità più recenti emergeranno solo dopo aver delineato una parziale sintesi storica (dalla fine del XIX secolo al 1980) delle interconnesse dinamiche nell’organizzazione spaziale dell’impresa e del lavoro – deducibili in parte dal “ciclo di vita del prodotto e delle tecnologie” – cui è dedicato il primo capitolo di questo saggio. A tale scopo, abbiamo ritenuto significativo iniziare questa trattazione presentando alcuni importanti concetti analitici elaborati da Schumpeter, proprio per la rilevanza che tuttora conservano per la comprensione delle dinamiche economiche.


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Capitolo primo

Tecnologie e industrialismo

1.1 Il contributo di Schumpeter Nell’ampia elaborazione teorica di Schumpeter sullo «sviluppo ciclico dei sistemi economici» uno spazio centrale è dedicato alla dinamica della produzione industriale, la quale è a sua volta imperniata su una teoria dell’innovazione tecnologica nelle imprese5. Schumpeter affronta nello specifico l’analisi della dinamica della rivoluzione industriale, dalla seconda metà del XVIII secolo ai primi decenni del XX secolo6, individuando dei cicli lunghi (50-60 anni), brevi (dieci anni) e brevissimi (pochi anni), caratterizzati da una crescita economica a intensità variabile (tra sviluppo, stagnazione e recessione). In generale, i cambiamenti ciclici (lunghi) del sistema economico capitalistico sono indotti, a suo avviso, dalle innovazioni: i primi due furono legati, ad esempio, al perfezionamento e alla diffusione della macchina a vapore (1787-1842)7 e del trasporto ferroviario (1843-1897) e il terzo (fino al 1956) alla simultanea diffusione dell’elettrificazione e dell’automobile8. Per comprendere gli andamenti intermedi di transizione da un ciclo ad un altro, sarà utile fornire un esempio. La fine del secondo ciclo fu caratterizzata dall’indebolimento della crescita economica internazionale che era stata realizzata intorno alla metà dell’Ottocento durante la cosiddetta “età del libero scambio”9, per poi sfociare progressivamente nella “grande depressione” del ventennio 1873-1895. In questo stesso periodo, però, vecchi e nuovi Paesi industrializzati reagirono attraverso una serie d’innovazioni tecnologiche (e politiche) che portarono alla “seconda rivoluzione industriale” a cavallo tra il XIX e il XX secolo; processo che favorì l’espansione dell’industrialismo come modo di produzione dominante – in particolare, grazie all’elettricità e al miglioramento della navigazione marittima (ancora oggi principale vettore per il trasporto di merci al livello mondiale). L’innovazione e gli «uomini nuovi» Nell’analisi schumpeteriana un prodotto industriale è il risultato della combinazione tra vari «fattori» o «dati tecnologici» (lavoro, risorse naturali e mezzi di produzione), la cui interazione ci fornisce una determinata «funzione di pro-


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duzione». Quest’ultima cambia inoltre per l’effetto di un’innovazione che, ricombinandone i fattori, determina effetti a catena in grado di trasformare l’intero sistema economico. Un processo disarmonico che nel complesso si esplica tramite squilibri e turbamenti. Non a caso Schumpeter vedeva nell’innovazione, non sempre legata a un’ invenzione, un fattore interno e autonomo, che, inserendosi nel sistema economico (per il bisogno d’affrontare un problema), causa la nascita di nuove imprese e la morte di molte altre, sia vecchie, sia giovani: una dinamica considerata a ragione l’essenza del meccanismo capitalistico. La macrocategoria dei «cambiamenti dei metodi d’offerta delle merci» è quella in cui Schumpeter fa rientrare i vari tipi d’innovazione: «i nuovi prodotti; le nuove tecnologie di produzione; l’apertura di nuovi mercati o fonti d’approvvigionamento; la taylorizzazione del lavoro; il miglior uso di materiale e le nuove organizzazioni commerciali». Ciascuna di queste tipologie d’innovazione è ritenuta talmente dirompente da sollecitare tutte le imprese ad adattarsi, a migliorarsi e a innovarsi, cercando di re-orientare anche le tecnologie esistenti (prima nel suo settore e poi negli altri). Basti pensare che l’introduzione nel 1890 del motore a scoppio a quattro tempi (inventato da Rochas nel 1862) nell’industria dell’automobile determinò effetti su altre industrie tramite lo sviluppo d’economie esterne di scala (complementari all’economie interne). Dall’industria dell’automobile, scrive infatti Schumpeter, «dipende gran parte dell’edilizia sviluppatasi dopo la prima guerra mondiale», così come parte della siderurgia e dell’industria petrolifera. Ma chi applica inizialmente l’innovazione? Schumpeter attribuisce grande importanza all’ascesa di «uomini nuovi», cui sarebbe sempre associata un’innovazione. Chi riesce a perseguire comportamenti nuovi – aggiunge – deve confrontarsi sempre con un atteggiamento ostile di tutti i principali attori economici (dalle imprese fino ai consumatori), per motivi sia di concorrenza, sia etico-sociali o ambientali. Tuttavia, una volta che qualcuno affronta il rischio, riuscendo a superare le difficoltà iniziali per la realizzazione economica di un’innovazione, si determina uno scombussolamento generale che modifica il complesso del sistema economico di riferimento. I monopoli Il ruolo trainante dell’innovazione è legato soprattutto al fatto che essa rappresenta la prima fonte di guadagno e quindi di profitto per l’impresa innovatrice. Il profitto così ottenuto, sottolinea giustamente Schumpeter, può continuare a realizzarsi peraltro solo in condizioni di concorrenza imperfetta, cioè attraverso la formazione di monopoli che consentano all’impresa di vivere di «quasi rendita», eliminando la concorrenza con brevetti, aggressioni e alleanze strategiche. Si può ricordare in proposito che, durante la “grande depressione” della fine dell’Ottocento, l’intensità e il numero delle innovazioni (con una serie di cambiamenti politici rivolti al protezionismo) furono seguite da un aumento del con-


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trollo dell’economia da parte di poche macro-imprese industriali e finanziarie (per la crescente compenetrazione tra finanza e industria). Ciò servì a contrastare una generalizzata caduta dei prezzi, ma soprattutto a raccogliere maggiori fondi e finanziare la ripresa10. All’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo, per esempio, negli USA il 90% della raffinazione del petrolio era sotto il controllo di un’unica impresa, la Standard Oil; […] nel 1901 l’US Steel, massima azienda industriale del mondo, controllava due terzi della produzione siderurgica americana. In Germania, nello stesso periodo, la Siemens e l’Aeg concentravano la quasi totalità del settore elettromeccanico […]11.

Questa tendenza, che Schumpeter considerava agli albori, sarebbe divenuta nel tempo sempre più rilevante, mettendo a rischio lo stesso processo d’espansione del capitalismo. L’analisi schumpeteriana, benché sia stata costruita considerando delle “economie chiuse” e sia stata elaborata in periodi in cui era impossibile prevedere molti dei cambiamenti futuri, contiene elementi ancora validi: l’importanza attribuita all’innovazione (strettamente legata al credito) nello sviluppo economico, il ruolo determinante degli imprenditori (coloro che applicano l’innovazione), nonché la previsione della crescita del «capitalismo trustificato» (più produzione, più disoccupazione, più capacità produttiva inutilizzata).

1.2 La dinamica geografica delle tecnologie tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento Le innovazioni tecnologiche, che sono causa di turbamenti e cambiamenti rilevanti nel sistema economico, si riflettono anche nello spazio. Dobbiamo allora affrontare il tema della trasformazione dello “spazio industriale”, che è a sua volta correlato a quello della distribuzione geografica delle tecnologie. Nel periodo di transizione tra il XIX e il XX secolo, le innovazioni tecnologiche erano distribuite geograficamente in quei Paesi che, in tempi diversi, avevano avviato un processo d’industrializzazione. A Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Francia, s’affiancarono, tra il 1860 e il 1870, nuove potenze industriali: Germania e Stati Uniti, innanzi tutto, ma anche Italia, Russia e Giappone. In diversi territori di tutti questi Paesi si verificarono le prime applicazioni di un numero enorme di invenzioni e innovazioni, che riguardavano soprattutto il settore siderurgico (miglioramento delle tecniche per la produzione dell’acciaio), quello chimico (produzione di coloranti di sintesi) e quello elettromeccanico (motori elettromagnetici e illuminazione elettrica). Nei primi decenni del Novecento avvenne il graduale sorpasso dei Paesi di più antica industrializzazione da parte di Germania e Stati Uniti. La Germania, pur se in ritardo, iniziò a primeggiare nella specializzazione delle produzioni ad alta componente tecnologica, ma fu negli Stati Uniti che si verificò la


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più significativa razionalizzazione del lavoro industriale. A differenza di quanto avveniva in Germania, infatti, negli USA la razionalizzazione della produzione aveva interessato non solo l’innovazione tecnologica, ma soprattutto quella organizzativa, sfociando in quel sistema di lavoro, scrupolosamente calcolato e burocraticamente organizzato, detto “taylorismo” (dal nome del suo principale promotore)12. Di seguito vedremo come i flussi di capitali e le localizzazioni industriali ci forniscano elementi interpretativi della dinamica tecnologica mondiale. Tecnologie, capitali e colonialismo Essendo l’innovazione tecnologica bisognosa di credito, i flussi di tecnologie a livello mondiale riflettevano in maniera piuttosto trasparente, a differenza di oggi, anche i flussi d’investimento di capitali e viceversa13. Nel primo decennio del XX secolo il principale centro finanziario mondiale era ancora la Gran Bretagna, seguita dalla Francia e a maggiore distanza dalla Germania e dagli USA. La prima riversava in tutto il mondo i suoi investimenti di capitali; la seconda aveva rapporti intensi con i Paesi dell’est europeo, la Russia e i Balcani (in concorrenza crescente con la Germania) ed era presente anche nel Nord Africa e in Spagna; i capitali statunitensi rimanevano invece ancora limitati a movimenti verso i paesi confinanti, come il Messico e il Canada14. Nel complesso, i maggiori flussi di capitali e tecnologie si realizzarono all’interno delle regioni che, in misura e tempi diversi, avevano avviato un processo d’industrializzazione, mentre solo con l’aumento dell’espansione coloniale, tali flussi cominciarono a estendersi a moltissime altre regioni del mondo. D’altra parte, però, lo sviluppo di politiche protezionistiche nei Paesi tecnologicamente avanzati e la creazione di strutture industriali gerarchiche, caratterizzate da monopoli e oligopoli, riducevano la possibilità d’espansione libera delle tecnologie e dei capitali, lasciando moltissime aree del mondo in una condizione di forte subordinazione tecnologica dai Paesi di origine. Come è noto, infatti, durante il processo di colonizzazione, i capitali investiti all’estero furono utilizzati in funzione degli interessi economici dei Paesi d’origine, che abbisognavano di materie prime (agricole e minerarie) e di risorse energetiche per l’industria e per le città. Per l’estensione della conquista territoriale dell’ambiente naturale da parte dell’industria capitalistica grandissima importanza ha avuto la sempre crescente utilizzazione delle risorse naturali dei Paesi economicamente sottosviluppati. Storicamente ciò è stato legato alla conquista delle colonie e allo sfruttamento predatorio delle loro ricchezze naturali15.

Questa dinamica mondiale divenne peraltro più diffusa ed evidente durante la seconda rivoluzione industriale: «In Africa, ad es., nel 1876 alle potenze coloniali apparteneva in tutto il 10,8% del territorio complessivo del continente, ma nel 1900 le colonie costituivano già il 90,4% della superficie»16.


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Nelle aree coloniali lo sviluppo di un’industrializzazione endogena, identificato nella sostituzione delle importazioni, avvenne, non a caso, solo con la progressiva liberazione dagli imperi occidentali, avvenuta tra gli anni Quaranta e Cinquanta in Asia e tra gli anni Sessanta e Settanta in Africa17. Fino a quel tempo il loro ruolo fu relegato a quello prevalente di fornitori di materie prime e importatori di prodotti dell’industria manifatturiera18. Anche in seguito alla decolonizzazione, si crearono purtroppo le condizioni per il dispiegarsi di un processo di neocolonizzazione ad opera soprattutto delle imprese multinazionali, che contribuirono alla riproduzione di un ordine mondiale profondamente ineguale, seppure molto diverso da quello di prima. La localizzazione classica dell’industria e i suoi mutamenti L’ancora debole sviluppo delle telecomunicazioni e gli elevati costi di trasporto non apportarono, fino ai primi decenni del Novecento, delle grandi trasformazioni nelle strategie localizzative degli impianti industriali di lavorazione di materie prime e di semilavorati. Questi impianti, infatti, continuavano ad avere un rapporto strettamente legato al territorio (rapporti verticali), lì dove erano le fonti di varie materie prime energetiche (giacimenti minerari, risorse idriche e carbone), anche se non mancavano situazioni per scelte diverse (l’industria tessile, ad esempio, già conosceva la separazione geografica degli impianti). Una dinamica localizzativa che nel complesso è stata ben concettualizzata da Alfred Weber, il cui modello della localizzazione degli impianti industriali in funzione dell’analisi dei costi di trasporto (tra i luoghi d’approvvigionamento di materie prime e i mercati di sbocco) risulta ancora oggi valido per alcuni settori industriali. Va ricordato, poi, che lo sviluppo dell’industria, territorialmente concentrato, andò di pari passo con i fenomeni d’agglomerazione urbana, contribuendo alla formazione di grandi aree metropolitane. Proprio in queste aree si crearono quelle condizioni infrastrutturali e culturali in grado di stimolare la proliferazione di altre innovazioni, che, oltre ad essere concentrate a grappoli da un punto di vista temporale, sono addensate nello spazio. Tale struttura territoriale dell’industria era ed è il risultato della formazione, in vari settori, di economie di scala, le quali sono a loro volta strettamente legate all’introduzione di innovazioni in grado di ridurre (nel breve e medio periodo) il costo medio di produzione per unità di prodotto19. Per molto tempo, dunque, gli alti costi di trasporto costituirono, in ultima istanza, il principale vincolo localizzativo, che iniziò a perdere progressivamente di importanza solo con «lo spostamento nella struttura del bilancio energetico»20: dal carbone di legna al carbon fossile nel XIX secolo e dal carbon fossile al petrolio nel XX secolo; eccezion fatta per la Cina, il cui fabbisogno energetico primario è ancora oggi soddisfatto, per il 76%, dal carbone. Alle trasformazioni nella struttura del bilancio energetico vanno correlate, infatti, invenzioni e sviluppi inerenti al sistema dei trasporti e alle telecomunicazioni (con conseguente abbassamento dei costi relativi). Per questa ragione,


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si può sostenere che la migliore capacità d’uso di vecchie e nuove fonti energetiche e l’espansione territoriale delle regioni urbano-industriali (sia in relazione alle diseconomie di scala, sia in rapporto agli sviluppi nei trasporti) siano due facce della stessa medaglia: inscindibili, complementari e interagenti. In generale, dall’elettrificazione di massa e da tutta una serie d’innovazioni derivò un’intensificazione delle relazioni funzionali tra le imprese (e al loro interno)21 che favorì la crescente polarizzazione e la contestuale diffusione territoriale dell’industria. Se il costo di trasporto è divenuto sempre meno importante come fattore localizzativo, le dotazioni naturali e, soprattutto, le condizioni di lavoro hanno mantenuto e spesso aumentato la rilevanza del proprio ruolo (anche se variabile a seconda dei settori). 1.3 Nuovi processi localizzativi: tecnologie e lavoro (dagli anni Sessanta agli anni Settanta) Le economie esterne legate all’agglomerazione si trasformarono, con il passare del tempo, in diseconomie (per eccesso di congestione e aumento dei costi del lavoro e del suolo) che contribuirono a determinare fenomeni di decentramento territoriale e di decentramento produttivo22. A partire dall’inizio degli anni Sessanta del XX secolo, il maggiore impulso alla ridefinizione dello “spazio industriale” è stato dato ancora una volta proprio da una serie d’innovazioni tecnologiche: in particolare, i calcolatori elettronici, i vari sistemi automatizzati e, in generale, i miglioramenti dei trasporti aerei e terrestri insieme alle telecomunicazioni radio-televisive. Nonostante la progressiva diffusione di tecnologie dal “centro” verso la “periferia” (avvenuta prima al livello regionale-nazionale e poi a quello globale), la geografia mondiale dei livelli di sviluppo tecnologico-industriale rimaneva profondamente disuguale. In questo periodo, non a caso, il fattore lavoro, il cui ruolo ai fini della localizzazione industriale tendeva ad aumentare, si internazionalizzava, riflettendo pertanto – tramite le differenti condizioni di lavoro – gli squilibri mondiali nei diversi livelli di sviluppo. Così, a partire dalla constatazione di un assetto mondiale enormemente ineguale, sono emerse numerose elaborazioni teoriche fondate sull’analisi di un sistema internazionale strutturato in una “periferia” subordinata a un “centro”23. Divisione del lavoro e “sistema mondo” Ci interessa a questo punto capire in quali direzioni si siano mosse le tecnologie su scala mondiale24, per giungere a una visione d’insieme che non pretende, ovviamente, di coglierne i dettagli. A tal fine è necessario riferirsi alla divisione internazionale del lavoro (cui corrispondono scambi di merci, di capitali, di tecnologie e anche di persone), che, dagli anni Settanta in poi, è andata configurandosi in maniera nuova.


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La ripartizione del lavoro su scala globale, che peraltro s’articola in una complessa architettura di divisioni regionali, va intesa in senso ampio: sia come divisione orizzontale del lavoro all’interno delle società e dei singoli processi produttivi, sia come divisione verticale tra funzioni esecutive e di controllo25, sia come divisione del lavoro territoriale (allo stesso tempo orizzontale e verticale) fra macroregioni e microregioni nel contesto delle relazioni inter e transnazionali. Tra le diverse interpretazioni sulla natura del rapporto “centro-periferia” nella struttura internazionale del lavoro, quella di Immanuel Wallerstein (fine anni Settanta) può essere considerata una delle più articolate (anche perché supera l’approccio della “dipendenza” a favore di quello “dell’interdipendenza” fra i gruppi di paesi). Nei suoi lunghi studi sull’evoluzione storica del capitalismo, Wallerstein spiega quali siano gli adeguamenti necessari al mantenimento del sistema capitalistico globale rispetto a tre dilemmi: l’accumulazione, la legittimazione politica e il progetto geoculturale26. Per quanto riguarda il mantenimento dell’accumulazione di capitale, egli ci fa notare come al necessario abbassamento dei costi di produzione per le imprese debba corrispondere anche un aumento della domanda effettiva (quindi dei salari). Come soddisfare tali opposte esigenze? È esistito storicamente un solo modo: attraverso la separazione geografica. Ogni volta che nel mondo sono state assunte delle misure politiche destinate ad aumentare in qualche modo la domanda effettiva […], altre misure sono state assunte in altre parti del sistema-mondo per accrescere il numero di produttori con basso livello salariale27.

In questa differenziazione/separazione geografica, Wallerstein riconosce peraltro l’importanza del cambiamento tecnologico, quale modo per creare condizioni nuove di monopolio, di profitto e quindi d’accumulazione. Così la struttura mondiale su cui ragiona Wallerstein è più articolata rispetto a quella dei suoi predecessori. Riconoscendo l’importanza dell’interazione del commercio e degli investimenti internazionali (quindi della diffusione di tecnologie), Wallerstein sostiene che l’economia mondiale conosce un’unica divisione internazionale del lavoro, caratterizzata da specializzazioni regionali nell’ambito del “sistema-mondo”. Quest’ultimo, quindi, non è costituito solo da un centro e da una periferia, ma anche da Paesi in posizioni semiperiferiche. Tale articolazione in tre livelli ha fornito un’immagine più coerente della struttura dell’economia globale che si è andata consolidando nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Questa tripartizione è stata riconosciuta anche da Giovanni Arrighi, per il quale sono più probabili spostamenti verso il basso che verso l’alto e la riproducibilità dei gap di ricchezza tra i tre gruppi di Paesi è legata ai processi d’innovazione nel centro, d’imitazione nella semiperiferia e di proletarizzazione nella periferia28.


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“Ciclo del prodotto”, tecnologie e divisione internazionale del lavoro Il decentramento produttivo su scala planetaria, che è avvenuto grazie all’aumentata efficienza degli scambi e della circolazione d’informazioni tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ed è proseguito fino ad oggi, anche se con caratteristiche in parte molto diverse, ha corrisposto a un frazionamento delle imprese in unità produttive di varie dimensioni. Possiamo affermare, di conseguenza, che la struttura multinazionale delle imprese (per cui un bene viene prodotto in due o più Paesi da parte di una stessa azienda) esemplifichi il rapporto fra distribuzione e movimento di tecnologie e distribuzione geografica dell’industria, soprattutto in relazione alle fasi del “ciclo del prodotto”. Infatti, come si può ben cogliere dalla teoria di Vernon (1966)29, che riprende e sviluppa in maniera più compiuta la teoria del gap tecnologico di Posner (1961)30, la struttura delle imprese si diffonde e si decentralizza in funzione della ricerca delle diverse condizioni richieste da ogni fase del “ciclo del prodotto” e, più in generale, delle tecnologie. L’individuazione da parte di Vernon di gruppi di Paesi nei quali si riscontrano le migliori condizioni localizzative per ciascuna delle tre fasi del ciclo del prodotto (innovazione, maturità e standardizzazione) (cfr. tab. 1) ci riporta inevitabilmente, pur mantenendo tutte le differenze d’approccio e di analisi, alle tre macroregioni mondiali descritte da Wallerstein (centro, semiperiferia e periferia). Dall’accostamento Vernon-Wallerstain si rileva, quindi, il legame e la sovrapposizione degli spazi disegnati dai flussi di tecnologia con quelli disegnati dal lavoro umano, oltre che, in ultima istanza, dall’industria. Una sovrapposizione spaziale che ha prodotto una più complessa divisione del lavoro fra regioni e Paesi, aumentando l’interdipendenza globale attraverso la creazione di “nuovi spazi industriali” (in generale il livello tecnologico in una data area è inversamente proporzionale alla quantità di lavoro umano necessario e direttamente proporzionale al livello di qualificazione e specializzazione dello stesso). Pur rimanendo a nostro avviso utile l’accostamento appena effettuato, va precisato peraltro che il “ciclo di vita del prodotto” aiuta ad analizzare soprattutto la diffusione geografica delle tecnologie al livello di un singolo settore. Per avere un’idea più globale è invece necessario considerare la diffusione delle stesse al livello intersettoriale (in questo caso la dinamica è più strettamente legata a innovazioni di processo31, oppure a quelle di un prodotto che modifichi radicalmente l’organizzazione del processo produttivo). La tripartizione del sistema mondiale, sia nel caso della divisione del lavoro, sia nel caso del “ciclo del prodotto”, rischia infatti di celare quelle dinamiche complesse che sono dominate dalla mobilità e dalle sovrapposizioni parziali tra regioni e Paesi appartenenti a gruppi differenti. Una formulazione più chiara e articolata della divisione internazionale del lavoro è stata fornita, verso la seconda metà degli anni Settanta, da Umberto Melotti, il quale ha effettuato una distinzione tra sette gruppi di Paesi suddivisi nel-


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Tab. 1 Il “ciclo del prodotto” secondo Vernon

Fase del prodotto

ciclo

del Condizioni necessarie

Paesi e Regioni

innovazione

Centri metropolitani più industrializzati. Servizi finanziari, disponibilità di capitale di rischio. Attività di ricerca e addetti altamente qualificati. Flessibilità dei rapporti con i fornitori di servizi.

Stati Uniti Giappone Germania dell’Ovest Gran Bretagna Francia

maturità

Fuori dalle aree metropolitane o dai Paesi d’origine. Esportazione del prodotto nella nuova area: inizialmente si apre una filiale commerciale , in seguito un impianto di produzione. Produzione in serie, riduzione costi unitari di produzione.

Australia Canada Italia ed altre regio ni europee

standardizzazione

Diffusione e radicamento del prodotto e delle tecniche produttive. Decentramento degli impianti in aree con abbondante manodopera, poco qualificata e a basso costo. Le are e originariamente esportatrici diventano in questa fase importatrici.

Asia sudorientale, Mediterraneo africano e mediorientale, alcuni Paesi dell’America Latina

Nota: la terza colonna “Paesi e Regioni” è incompleta e riporta soltanto alcuni esempi. Si tenga presente, inoltre, la variabilità delle attività produttive, sia nel tempo, sia nello spazio: diverse regioni geografiche possono essere caratterizzate allo stesso tempo da attività appartenenti a più fasi del ciclo del prodotto. Fonte: elaborazione schematica dell’autore sulla base della descrizione tratta da S. Conti, L’industria manifatturiera, in S. Conti et al. (a cura di), Geografia dell’Economia Mondiale, UTET, Torino 1993, pp. 188-191.

l’ambito delle due macrocategorie dei “Paesi sviluppati” e dei “Paesi sottosviluppati” (cfr. tab. 2). Bisogna infine constatare che la divisione internazionale del lavoro è in continua trasformazione; in particolare, un nuovo assetto si sta definendo a causa dei processi economici, sociali, politici, ambientali, nonché scientifici, degli ultimi venti anni. Possiamo concludere questo paragrafo sottolineando che è proprio la forma dell’impresa multinazionale a produrre quelle nuove dinamiche spaziali di lavoro e di tecnologie rese possibili, in ultima analisi, dalle innovazioni tecnologiche.


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1.4 Le imprese multinazionali: verso la globalizzazione Nei decenni seguenti la seconda guerra mondiale si sviluppò un processo di multinazionalizzazione delle imprese statunitensi, che estesero i loro investimenti in America Latina, Canada ed Europa occidentale nel settore delle materie prime e delle industrie manifatturiere più avanzate (automobile, chimica ed elettronica), nonché nei Paesi latinoamericani, mediorientali e africani per l’estrazione del petrolio. Il ruolo dominante delle imprese oligopolistiche multinazionali americane venne tuttavia indebolito verso la metà degli anni Settanta, quando, in seguito al grande shock petrolifero (1973), le imprese concorrenti europee e giapponesi, ma anche brasiliane, indiane e coreane aumentarono la propria presenza e competitività nel mercato mondiale32. L’aumento del numero di multinazionali, e della loro flessibilità d’investimento, fu la logica conseguenza di una generalizzata diffusione di politiche protezionistiche (effetto della crescente competizione mondiale), oltreché del ruolo primario svolto dalle nuove tecnologie: le prime indussero le imprese a penetrare all’interno dei mercati nazionali, mentre le seconde garantirono alle imprese quella flessibilità organizzativa e produttiva per diffondere stabilimenti e realizzare joint venture con gli attori locali. Cambiavano di conseguenza i flussi di beni e di capitali. Se all’inizio degli anni Cinquanta la totalità degli scambi di manufatti avveniva fra Stati, nei primi anni Ottanta circa il 50% di questi si realizzava all’interno delle imprese multinazionali. Una delle cause principali di questa trasformazione va ricercata nel cambiamento della struttura degli investimenti: dagli anni Sessanta, infatti, le multinazionali oligopolistiche hanno iniziato a far prevalere gli investimenti diretti esteri (in settori specifici di altri Paesi) su quelli di portafoglio (titoli pubblici e infrastrutture)33. Capitali, tecnologie e dinamica geografica della divisione del lavoro Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, gli investimenti diretti esteri aumentavano in media del 15% l’anno, a opera soprattutto delle grandi imprese multinazionali che gestivano flussi di capitali diretti soprattutto verso le economie più industrializzate (cresceva il contributo fornito dal Canada, dalla Germania e dal Giappone)34. Va sottolineato, peraltro, che aumentavano anche i flussi d’investimento verso i Paesi in via di sviluppo (PVS). Di particolare interesse, oltre agli investimenti in Argentina, Brasile e Messico, fu l’afflusso consistente di capitali privati e pubblici, d’origine americana, europea e giapponese, nelle aree della cosiddetta Pacific Rim (il margine del Pacifico). In un primo momento questi flussi interessarono Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan (New Industrialized Countries – NICs), in cui vi erano condizioni politico-economiche che favorivano investimenti speculativi, come conseguenza della delocalizzazione industriale35.


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Tab. 2 La divisione internazionale del lavoro secondo Melotti Paesi “sviluppati”

Caratteristiche generali

Paesi all’avanguardia nella ricerca tecnologica. Predominante è Gruppo ristretto USA e a grande distanza ex URSS; la posizione degli USA , non solo nel quaternario, ma anche nel RFT e Giappone secondario e primario. L’ URSS in realtà presentava un’industria leggera e un’agricoltura arretrate, ma viene messa in questa categoria perché capace di competere con gli USA sul piano della ricerca militare e spaziale. Gruppo più ampio Circoscritti alle attività del settore secondario e terziario. Il livello Molti Paesi europei, Canada e delle innovazioni tecnologiche nei settori più avanzati era nettamente inferiore al primo gruppo. Australia Gruppo di confine Italia

La più esposta e isolata, in difficoltà per la staticità del settore pubblico e la vulnerabilità rispetto al contesto internazionale.

Paesi “sottosviluppati”

Caratteristiche generali

Subimperialisti Paesi ricchi di risorse naturali e di manodopera a buon mercato. Brasile, Sud Africa, India e Iran Importano tecnologie e capitali dai Paesi più avanzati ed (anche l’URSS , secondo S. Amin) esportano manufatti in altri Paesi del Terzo Mondo, creando aree d’influenza da cui importano derrate alimentari. In alcuni casi tentano e riescono a esportare manufatti anche nei Paesi industrializzati. Vassalli Paesi in cui vengono trasferite le industrie o parte dei processi ad Hong Kong, Singapore, Taiwan, alta intensità di lavoro. Tessile, giocattoli, orologi, macchine Corea del Sud, Haiti e fotografiche, bevande, cibi ecc. Portorico… ma anche regioni messicane vicino agli USA , regioni mediterranee legate alle ex potenze coloniali, regioni europee meno sviluppate Rentiers Introiti petroliferi consistenti, elevati redditi pro capite… una Arabia, Libia, Kuwait ed Emi- parte dei petroldollari è riciclata in Occidente tramite operazioni rati Arabi speculative. Difficoltà a sviluppare un’industria locale solida. Aree d’immigrazione dalle regioni circostanti più povere. Paesi emarginati Quelli più poveri per reddito pro capite e meno o per nulla Benin, Birmania, Ciad, Nepal, integrati all’economia capitalistica mondiale. Afghanistan, Alto Volta, Senegal, e quasi tutti gli altri Paesi dell’Africa a sud del Sahara.

Nota: altri Paesi come il Vietnam e la Cina, che hanno seguito uno sviluppo autocentrato, si sono integrati all’economia mondiale, dapprima gradualmente e poi sempre più prepotentemente, pur mantenendo sistemi economici a tutt’oggi molto centralizzati. Fonte: U. Melotti, Sviluppo e sottosviluppo nella nuova divisione internazionale del lavoro, in «Terzo Mondo», n. 37-38, 1979, pp. 3-14.


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Successivamente questi flussi si estesero ad altre regioni e Paesi asiatici. Come è stato ben sintetizzato da Fabrizio Eva: Dopo aver seguito il modello di sviluppo giapponese, i NICs asiatici hanno avuto la disponibilità di consistenti capitali che hanno preso la via dell’investimento estero. Si è messa in moto una seconda ondata rivolta verso la Malaysia, l’Indonesia, la Thailandia, le Filippine e in tempi più recenti verso la Cina e il Vietnam. Il processo di crescita è stato molto simile: stessi livelli di crescita del PIL, stesso percorso di ristrutturazione industriale export lead, stessa situazione politica sotto stretto controllo36.

A questo punto la teoria di Vernon, di cui già avevamo sottolineato i limiti, non è più utile per un’adeguata comprensione del funzionamento delle imprese multinazionali e dell’inerente dinamica degli investimenti negli anni Ottanta: in questo periodo la divisione internazionale del lavoro si alimenta di nuove organizzazioni al livello regionale, in cui si verificano – ad es. nell’Estremo Oriente – altrettante «scomposizioni tecnologiche del ciclo produttivo»37. La teoria di Vernon spiega abbastanza bene il meccanismo dei cosiddetti investimenti “integrati orizzontalmente” (l’esportazione di stabilimenti per produrre dappertutto prodotti più o meno simili), che hanno caratterizzato la prima fase dell’espansione delle multinazionali americane, e poi di quelle giapponesi e europee. Ma già dalla fine degli anni Settanta e in modo più incisivo negli anni Ottanta, la diffusione geografica degli investimenti, delle tecnologie e dell’industria ha reso tutto più complesso, trasformando l’articolazione geografica del “ciclo del prodotto”. Le multinazionali hanno iniziato a optare infatti anche per investimenti “integrati verticalmente”, cioè quelli tramite i quali si mira a controllare tutte le fasi del processo produttivo (fonti e mezzi di trasferimento delle materie prime e semilavorati); a tenere segreti i risultati delle ricerche per l’innovazione (al fine di prolungare il monopolio); a ottimizzare gli sviluppi nei mezzi di comunicazione e nei trasporti. In altre parole, si è assistito alla trasposizione al livello internazionale dei fattori che avevano garantito il successo (dei monopoli) al livello nazionale38, con una complessa combinazione tra polarizzazione e diffusione territoriale degli impianti, delle attività e delle relative tecnologie al livello mondiale. Si è spezzato così il ciclo tradizionale di vita del prodotto. Come spiega efficacemente Gilpin, infatti, mentre in passato la localizzazione dei vantaggi comparati e della produzione di merci era passata dagli Stati Uniti agli altri Paesi industrializzati e successivamente ai Paesi di recente industrializzazione, alla fine degli anni Ottanta anche la produzione iniziale di un bene può avvenire nei Paesi di recente industrializzazione. Così l’assemblaggio finale del prodotto finito può aver luogo in un’economia avanzata. Questo naturalmente si traduce in benefici per le multinazionali e per i Paesi di recente industrializzazione, ma crea un profondo risentimento in gran parte della classe operaia degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale39.


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Le maggiori multinazionali e i Paesi d’origine,

Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p. 31.

Nel giro di pochi anni le imprese multinazionali hanno trasferito tecnologie avanzate verso i Paesi di recente industrializzazione, attivando stretti rapporti di cooperazione con un numero sempre maggiore di Paesi40. La sovrapposizione di vari tipi d’investimento (orizzontali e verticali), come conseguenza di strategie aziendali sempre più complesse, ha fatto prevalere la necessità di instaurare ampie alleanze e accordi reciproci, per fattori politici, economici e tecnologici (la rapidità delle innovazioni ha richiesto in particolare una diversificazione dei rischi e un maggiore fabbisogno di capitali). La maggiore flessibilità delle imprese “neomultinazionali” (transnazionali) e la complessità delle loro strategie di localizzazione (cfr. cap. III) sono state rese possibili dalle nuove applicazioni nel campo dell’Information and Comunication Technology. Tali cambiamenti non sarebbero stati tuttavia così veloci e dirompenti senza la trasformazione radicale dell’orientamento politico-economico (occidentale) del welfare state. A partire dalla fine degli anni Settanta si è affermato, infatti, il cosiddetto “neoliberismo” (con Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher in Inghilterra), che costituisce, ancor oggi, il supporto ideologico alle politiche economiche dominanti nell’epoca della globalizzazione (cfr. cap. II). Va detto, peraltro, che quest’ultima è caratterizzata da cambiamenti talmente complessi e radicali da non poter essere riducibile al solo “neoliberismo”, che pure costituisce un orientamento politico-economico rilevante.


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Capitolo secondo

I paradigmi e le dinamiche tecnologiche nella globalizzazione

2.1 L’informazionalismo: paradigma tecnico-sociale della globalizzazione41 La dinamica “spaziale” delle tecnologie nel corso del Novecento è stata analizzata – nella prima parte di questo saggio – in rapporto all’espansione del modo di produzione dominante: quello capitalistico industriale, che si è espresso con una serie di varianti storiche e geografiche, plasmando sempre più la struttura delle diverse società umane. Secondo il sociologo Manuel Castells, l’industrialismo come sistema tecnicosociale prevalente è, da circa due decenni, in fase discendente, mentre nel contempo sta emergendo, gradualmente e in maniera tutt’altro che armonica, un nuovo paradigma «socio-tecnologico» chiamato «informazionalismo», ossia, il fondamento paradigmatico della “società della rete”, che si basa sull’accesso e sull’appropriazione della conoscenza. Allo stesso tempo, però, ricordando che l’informazionalismo si sta sviluppando nelle società industriali e da esse si sta differenziando, Castells sottolinea come tale processo di trasformazione non coinvolga l’intero pianeta, analogamente a quanto avvenuto con l’industrialismo42. Ciò che risulta essere rivoluzionario, soprattutto per l’impatto sulla generazione e applicazione della conoscenza, dagli anni Sessanta in poi, è proprio lo sviluppo di nuove e potenti tecnologie di raccolta, elaborazione e distribuzione dell’informazione. Non è l’informazione in sé a segnare il passo, visto che l’informazione e la conoscenza sono sempre state alla base di tutte le economie e le società, bensì i nuovi modi di produzione, uso e gestione della stessa. Le tecnologie della conoscenza diventano pertanto il fattore di rendita primario. Si tratta di innovazioni che, per dirla con Kuznets, sono «epocali», cioè in grado di modificare radicalmente gli assetti tecnologici convenzionali e di trasformare in profondità il modo di produzione di tutta la società e, quindi, in ultima istanza, la sua essenza43. Come è già avvenuto nell’epoca dell’industrialismo, il dibattito sulla rivoluzione dell’Information technology ha visto divisi “pessimisti” e “ottimisti”, nell’ambito di una rosa ampia e variabile di posizioni. In generale, se le critiche sugli effetti negativi che le nuove tecnologie hanno nel contesto geografico d’introduzione (aumento della disoccupazione, nuovi divari tecnologici, nuove malattie professionali, effetti sull’ambiente na-


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La teoria delle reti

Oltre all’analisi sociologica proposta da Castells, va menzionata la recente elaborazione di una vera e propria “teoria delle reti” (Buchanan, 2003, Barabàsi, 2002), che è dominata dalle scienze hard (matematica, fisica, chimica, biologia…). Si tratta di una teoria che, coinvolgendo numerosi studiosi e ricercatori, indaga sugli aspetti in comune tra ogni tipo di rete (neurali, cellulari, personali, economiche, mediche ecc.). Ogni rete, infatti, sembrerebbe funzionare in modo non omogeneo e non casuale, ingrandendo i nodi più collegati (hubs) e lasciando quelli più piccoli – con connessioni rade – in una situazione di crescente isolamento. Seppure vi siano già diverse evidenze empiriche sulle asimmetrie globali e regionali nelle relazione tecnologiche, politiche ed economiche – come emerge anche da questo libro – non è facile per il momento valutare la portata delle ipotesi relative alla “teoria delle reti”, che richiederanno ancora anni di studi per essere sviluppate con maggiore completezza.

turale ecc.) possono stimolarne un uso più attento, il determinismo tecnologico degli ottimisti – spesso interessati – non fornisce chiare indicazioni d’orientamento rispetto agli squilibri socioeconomici più recenti. Anzi, i problemi economico-finanziari, emersi alla fine degli anni Novanta, sono stati accentuati dalle posizioni ideologiche e fondamentaliste assunte dai vari stakeholders (detentori d’interessi) a favore dei settori hi-tech nel corso degli ultimi venti anni44. A nostro avviso, sarebbe auspicabile l’emergere di un approccio capace di cogliere i cambiamenti in fieri, senza che ci si intestardisca nel sostenere posizioni idiosincratiche del tipo «tecnologie sì o tecnologie no». Ciò di cui abbiamo bisogno è una comprensione critica delle funzioni e delle disfunzioni delle nuove tecnologie, dei loro effetti desiderati o indesiderati, delle motivazioni e delle cause per la loro introduzione, soprattutto in rapporto alle diversità socio-territoriali. Da un punto di vista economico, per esempio, l’introduzione di una determinata tecnologia dipende dal mercato locale dei fattori produttivi – quindi dalla struttura dei prezzi relativi ai vari input. Esistono, infatti, diversi mercati locali e regionali, esposti alla competizione internazionale, ove le differenti condizioni strutturali delle disponibilità di capitali, uomini, risorse e tecnologie condizionano il grado e la direzione del cambiamento tecnologico e viceversa45.


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Microelettronica e ingegneria genetica Il fulcro del nuovo paradigma dell’informazionalismo – in accordo con Castells – è rintracciabile nelle rivoluzioni tecnologiche occorse nel campo della microelettronica e dell’ingegneria genetica. La microelettronica riguarda la crescente sofisticazione di microchip, computer, fibre ottiche, Internet, con tutti i conseguenti sviluppi nelle telecomunicazioni (sempre più informatizzate). L’ingegneria genetica consiste invece nella codifica e riprogrammazione del DNA, detto “codice informativo della materia vivente”46. Si tratta di due campi scientifici tutt’altro che separati, la cui compenetrazione sta proprio nella nuova capacità di elaborazione dell’informazione. Basti pensare che «titani nel campo dei computer, come Bill Gates, e adepti di Wall Street, come Michael Milken, stanno investendo molto denaro nel nuovo campo della bioinformatica, nella speranza di rafforzare il matrimonio tra [scienze dell’] informazione e scienze della vita»47. Le nuove conoscenze genetiche (progetto del genoma umano e di altre specie viventi) non sarebbero state possibili senza l’uso di complessi software, in grado di simulare ed elaborare grandissimi volumi d’informazioni48. D’altra parte i biochip e microchip a base chimica (il primo fu creato nel 1996) esemplificano la fusione tra i due campi del sapere. Non c’è quindi da stupirsi se, analogamente ai loro predecessori (microprocessori), i chip di DNA stanno diventando sempre più ricchi d’informazioni49 e presto sostituiranno le attuali piastrine al silicio. È evidente quindi che l’aumentata capacità di elaborazione delle informazioni riguardi non solo aspetti quantitativi (volume e velocità), ma anche qualitativi (complessità delle operazioni, ricombinazioni e flessibilità), che permettono di creare reti “informazionali” coordinate e flessibili50. I due campi scientifici cui abbiamo accennato sono, più in generale, quelli che stanno segnando il passo nella riorganizzazione dell’economia mondiale (caratterizzata da una nuova dinamicità regionale). Quest’ultima è legata, infatti, allo sviluppo di network interni per le grandi aziende e di network cooperativi per quelle piccole e medie (ma anche dei due tipi di network insieme) e allo sviluppo di mercati finanziari globali costruiti anch’essi su reti informatiche. È necessario ricordare, infine, che, tra le transnazionali produttive più grandi del mondo, quelle delle automobili e quelle dell’energia (si pensi ad esempio alla General Motors e alla Exxon Mobil) rimangono centrali al fianco di quelle delle telecomunicazioni. Anche il settore agricolo ha ricevuto tra il 1999 e il 2001, accanto a quello dei servizi, le maggiori quote di investimenti diretti esteri51: è vero infatti che tutti i settori dell’economia sono più o meno direttamente influenzati dai nuovi risvolti tecnologici in relazione agli sviluppi nel campo delle scienze informatiche, ingegneristiche e biologiche.


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2.2 Il neoliberismo e la globalizzazione: un rapporto controverso Gli ultimi tre decenni del ventesimo secolo sono stati caratterizzati non solo dall’emergere di un nuovo paradigma tecnico-sociale, la cui centralità abbiamo poc’anzi sottolineato, ma anche dal parallelo avanzamento di un nuovo clima politico ed economico detto “neoliberale”. Per evitare confusioni e fraintendimenti rispetto alla storia del liberalismo – cui automaticamente rimanda l’espressione neoliberale –, sarà necessario focalizzare sinteticamente il significato, storicamente determinato, del termine “neoliberismo”. Il liberalismo e il liberismo sono le due facce di una stessa tradizione (liberale) che stanno a indicare due dottrine, rispettivamente politica ed economica, emerse in modo compiuto nei Paesi della prima rivoluzione industriale tra il XVIII e il XIX secolo52. In particolare, la pregnante tradizione liberale degli Stati Uniti d’America e la rapida crescita della sua economia senza, apparentemente, la mano dello Stato di tipo europeo contribuirono ad alimentare il mito del “libero mercato”. Tuttavia, usando le parole di un famoso politologo americano come Theodore J. Lowi, osserviamo che non era vero, naturalmente, che vi fosse una completa libertà dall’intervento statale […] se guardiamo al ruolo svolto dai governi dei singoli Stati americani, complessivamente il ruolo del pubblico nella storia dell’economia americana non risulta molto inferiore a quello presente in molti altri Stati industrializzati53.

Con il passare del tempo, l’estensione straordinaria dei compiti dello Stato nella vita sociale ed economica (welfare) aumentò, per poi sfociare, attraverso un complesso di concause, in una sorta di “pluralismo dei gruppi d’interesse”. Negli anni Settanta e Ottanta del XX secolo s’affermava, così, un movimento neoconservatore negli USA e nel Regno Unito, che, coniugandosi a una pratica economica battezzata “neoliberista”, rifletteva – secondo la chiara analisi di Lowi – il deterioramento della tradizione del liberalismo, da cui s’allontanava sempre più54. L’approccio di tipo conservatore “neoliberale”, infatti, «non si limitava a chiedere il ritorno a una maggiore liberalizzazione economica, ma pretendeva un’ampia riduzione delle imposte […]55, la vendita ai privati delle industrie e delle banche nazionalizzate, il ridimensionamento o lo smantellamento delle istituzioni e degli organismi prodotti dall’intervento statale in economia, come gli enti di supervisione e controllo nei diversi settori». Il primo organismo soprannazionale a far applicare tale orientamento in varie parti del mondo, dietro ricatto relativo all’erogazione dei finanziamenti, fu il Fondo Monetario Internazionale56. Da un punto di vista storico, pertanto, la globalizzazione coincide con il neoliberismo, seppure tale correlazione sia tutt’altro che univoca e non esaurisca certo l’analisi delle dinamiche politiche, sociali ed economiche sottostanti. Di seguito accenniamo ad alcuni aspetti di tale controverso rapporto.


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L’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) afferma che l’attività imprenditoriale nei settori più innovativi, necessitando di capitali di rischio, richieda un ambiente culturale, sociale, politico ed economico “aperto”. Ovvero, un ambiente in cui non ci siano troppe barriere doganali e dove si favorisca la privatizzazione e la deregolamentazione dell’economia57. Questi dettami neoliberali possono essere validi, in generale, per attrarre capitali e investimenti, ma, nel momento delle decisioni da prendere in territori diversi, vanno considerati in modo critico e attento. Una liberalizzazione standardizzata e dogmatica ha avuto spesso, negli ultimi anni, effetti profondamente dannosi (basti pensare al legame tra la crisi economico-finanziaria dell’Estremo Oriente, quella russa e quella dei Paesi latinoamericani). Per contro risultati costanti (nella logica della crescita e non necessariamente dello sviluppo), seppur molto variabili al loro interno, sono stati realizzati proprio in quei Paesi, come Cina e India, che hanno sorretto l’economia mondiale (pur avendo risentito delle ripercussioni della crisi) e hanno accuratamente evitato di applicare diffusamente le ricette neoliberali delle istituzioni finanziarie internazionali così tanto invocate. Tra il 1990 e il 1998 l’India è cresciuta a un tasso medio annuo del 6,1% del PIL reale e la Cina dell’11,2%. Per di più entrambi questi Paesi hanno continuato a crescere a un tasso rispettivamente del 5% e di quasi l’8%, proprio quando la crescita mondiale ha rallentato (1998-2000)58. (Insieme all’importanza di questi dati, sottolineamo, tuttavia, la parzialità complessiva dei risultati qualora si volessero fare immediate correlazioni con le condizioni di sviluppo in tali Paesi, ossia con la distribuzione della ricchezza e la gestione oculata delle risorse naturali). In Cina sono state avviate, nel corso degli anni Ottanta e in maniera più marcata negli anni Novanta, riforme politiche, sociali ed economiche tese ad avviare una graduale liberalizzazione e apertura all’esterno (ciò che è avvenuto in generale anche in altri Paesi asiatici, come, ad esempio, India e Vietnam). Questo non significa, però, che tale Paese possa essere considerato un soggetto globalizzatore tout court (secondo la logica politico-economica dei neoconservatori), cioè una nazione che abbia seguito le ricette di iperliberismo selvaggio richieste e imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Come ricorda J.K. Galbraith (economista dell’Università del Texas), le valide riforme cinesi (politiche macroeconomiche, monetarie e sociali) per la ristrutturazione dell’economia nazionale hanno avuto inizio negli anni Settanta. Ed è a queste politiche interne che va ricollegata la straordinaria crescita del PIL, iniziata per l’appunto circa 10 anni prima della maggiore liberalizzazione economica degli anni Novanta59. Basti pensare, inoltre, che sono ormai anni che la Cina si è aperta al mercato globale, sostenendo l’esportazione e attraendo investimenti stranieri; eppure essa non è mai stata fino al 2001 un membro del WTO o del predecessore GATT. La stessa India, che è un caso peraltro con delle profonde specificità, ha fatto registrare delle restrizioni al commercio tra le più rilevanti al mondo, affian-


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cate naturalmente ai controlli di capitale60; eppure non sono mancate le pressioni e le azioni esercitate dalle società transnazionali che da anni operano nel suo territorio. Politiche di regolamentazione significative del sistema bancario, dei flussi finanziari e del sistema economico in generale sono state adottate anche da paesi più piccoli, come la Malaysia e il Cile. Paesi che hanno evitato o comunque attenuato gli effetti delle crisi finanziarie, riuscendo peraltro a ristrutturare i sistemi bancari e industriali e, in ultima istanza, a raggiungere il doppio obiettivo della stabilità e dell’attrazione degli investimenti stranieri61. Premesso ciò, ribadiamo come sia fuorviante attribuire a una certa globalizzazione (neoliberale) i risultati complessivi dell’India, della Cina o del Vietnam – per citare solo alcuni casi, caratterizzati peraltro da un processo di sviluppo interno fortemente disuguale –, se è vero che essa spinge per politiche come quelle applicate dal FMI in Bolivia, in Ecuador, in Haiti, in Argentina o in Russia che hanno favorito il prosciugamento dei capitali e il massiccio impoverimento della popolazione62. Non è un caso infatti che i Paesi più stabili siano quelli che hanno rifiutato di applicare la strategia del FMI. In merito, Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001 e osservatore privilegiato) scrive senza mezzi termini che «il contrasto tra ciò che è avvenuto in Cina e quanto è avvenuto in Paesi come la Russia che hanno chinato la testa di fronte all’ideologia dell’FMI non potrebbe essere più evidente»63. Tutto ciò, d’altra parte, non deve portare a conclusioni errate, secondo le quali la Cina, l’India o il Vietnam non siano partecipi dei processi legati alla globalizzazione (intesa come insieme di processi interconnessi che operano a più livelli scalari). In questi Paesi, al contrario, sono stati avviati dei tipi di liberalizzazione e delle aperture che hanno portato numerose multinazionali a operare, investendo e producendo, dentro al loro territorio (non senza conseguenze negative in termini di destrutturazione delle economie locali). È importante sottolineare ancora una volta che si tratta di processi di liberalizzazione decisi con maggiore autonomia (soprattutto finanziaria), controllati e programmati nell’ambito di politiche macroeconomiche di lungo respiro, e che hanno tenuto almeno parzialmente in considerazione la struttura e le esigenze socioeconomiche nazionali64. Gli effetti di queste diverse politiche nazionali e regionali si sono riflessi proprio nel settore economico che ha trainato la globalizzazione: il macrosettore delle telecomunicazioni, caratterizzato dal più alto tasso d’innovazione, ha infatti fatto registrare, dal 1993 a oggi, una crescita del 2% della quota cinese di partecipazione al mercato globale, a fronte di un decremento della stessa entità di quella degli USA nello stesso periodo (cfr. box L’ICT e le liberalizzazioni: ascesa e declino)65.


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L’ICT e le liberalizzazioni: ascesa e declino Il più grande processo di liberalizzazione è avvenuto, a cominciare dagli Stati Uniti, proprio nel settore delle telecomunicazioni, come conseguenza della creazione di gruppi organizzati di clienti – tra cui grandi aziende – che chiedevano di sfruttare le reti legate alle innovazioni tecnologiche. Pertanto, in molti hanno premuto, dagli anni Settanta, per la mercificazione del settore. Sotto la pressione di gruppi d’imprese dei più differenti campi d’attività, le grandi organizzazioni finanziarie internazionali e il governo statunitense tentavano d’imporre il modello neoliberista a questo settore, tradizionalmente pubblico e monopolista [D. Schiller, Telecomunicazioni, fallimento di una rivoluzione, in «Le Monde diplomatique», X, n. 7, luglio 2003]. Così tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta si sono moltiplicate le fusioni e le acquisizioni transfrontaliere, contestualmente a una massiccia privatizzazione degli assetti pubblici (operazioni per 224 miliardi di dollari) (ivi). Ma per due ordini di cause le cose non sono andate molto bene. Primo, la domanda non ha potuto seguire la crescita esponenziale dell’efficienza delle reti internazionali, che si era verificata nella seconda metà degli anni Novanta. Secondo, il boom di borsa ha spinto i grandi operatori (l’offerta) a effettuare frodi finanziarie gigantesche. WorldCom, ad esempio, per non far crollare i gonfiatissimi titoli di borsa, ha inventato profitti inesistenti; un comportamento che, purtroppo, si è diffuso tra tante altre grandi compagnie transnazionali (Vivendi, Enron ecc.). Come ricorda Schiller, «giganteschi produttori di componenti… (per le telecomunicazioni) vedono l’entrate precipitare in modo catastrofico. Anche Cisco, il produttore di “tubazioni” internet, che pure resta in attivo, non può impedire un crollo del volume d’affari e del corso delle azioni» (ivi). Le fusioni sono diventate così delle operazioni a perdere [ivi; J. Ziegler, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatizzazione del mondo, Tropea Editore, Milano 2003], proprio perché la frenesia, le false informazioni, le aspettative artificialmente costruite hanno affrettato operazioni costosissime, anche quando un’impresa guadagnava terreno su nuovi mercati [così nel complesso si sono registrati un aumento delle tariffe agli utenti e un peggioramento della qualità dei servizi, in un settore sempre più dipendente dalla pubblicità. Questi sono stati solo alcuni degli effetti disastrosi in cui è sfociata questa ondata di sovrapproduzione e concorrenza sfrenata]. In relazione a tali pratiche, il tasso d’interesse negli Usa s’abbassò, contribuendo in modo significativo alla caduta degli investimenti diretti esteri nel corso del 2002. Le filiali europee in America dovettero poi ripagare i prestiti alle case madri, che da parte loro arrestarono gran parte dei flussi di capitali intra-company [UNCTAD, World Investment Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003]. L’economista Roberto Panizza fa notare, in modo molto chiaro, che si sarebbe dovuto parlare di fine del boom di borsa (di cui avevano beneficiato soprattutto gli Usa e quindi anche le maggiori imprese hi-tech) e non della “nuova economia”, come molti neoconservatori hanno sostenuto fino ad ora [R. Panizza, La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari e terzo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002, pp. 53-55].


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2.3 Il divario digitale e l’affacciarsi di nuove dinamiche Al di là delle posizioni che tendono ad esaltare, ideologicamente, la nascita di una nuova epoca caratterizzata dall’accesso libero a ogni informazione e da un mondo in grado di convivere in pace, è doveroso sottolineare l’esistenza del cosiddetto “divario digitale”, che non ha nulla a che fare con l’ipotesi nobile, ma usata in modo propagandistico, del “villaggio globale”66. Gli USA e il Canada rappresentano da soli il 40-50% degli utenti Internet del mondo, pur avendo solo il 5% della popolazione mondiale. L’Africa, al contrario, con il 13% della popolazione mondiale, rappresenta l’1% degli utenti Internet67. Dati simili si riscontrano, nonostante gli sviluppi più recenti, anche nell’ambito delle tecnologie di comunicazione più tradizionali: le linee telefoniche dell’intero continente africano (in cui vivono 768 milioni di persone) sono, ad esempio, pari a quelle della sola Manhattan68. Tra l’altro, prima di passare all’elettronica, l’Africa dovrà dotarsi di una rete elettrica. Dal 1971 al 1993 l’uso commerciale di energia elettrica pro capite in Africa è rimasto pressoché stabile, mentre è raddoppiato nel totale dei PVS – anche in quest’ultimo caso si tratta però sempre di poche centinaia di kwh pro capite, contro le migliaia usate in media nel Nord del mondo69. Anche se non possiamo prescindere da tale divario, constatiamo l’emergere di molte dinamiche inedite che si iniziano a intravedere, sia all’interno delle aree di più antica industrializzazione, sia nel resto del mondo. All’interno dei Paesi dominanti, per esempio, un cambiamento significativo ha riguardato l’UE (l’area commerciale più dinamica del mondo). Questa macroregione è stata infatti nel 2002 la più forte al mondo in termini d’attrazione dei flussi di investimenti diretti esteri complessivi70. Numerose regioni europee stanno emergendo nel settore dell’Information Technology (IT): sia sufficiente sottolineare che l’Irlanda ha raggiunto nel 2000 il primo posto per valore di servizi software esportati, fornendo più del 40% dei pacchetti software e più del 60% dei programmi informatici aziendali venduti in Europa (si pensi anche alle ottime performance di Svezia, Finlandia, Danimarca ed Estonia)71. Più in generale, però, le macroregioni che governano l’economia mondiale sono caratterizzate da crescenti debolezze strutturali interne (cfr. box Problemi macroeconomici nel mondo ricco, p. 179). Si tratta di difficoltà che, seppure non mettono in discussione – almeno per il momento – il predominio tecnologico di tali aree geografiche, stanno contribuendo a modificare profondamente i flussi di capitali e di tecnologie ai diversi livelli scalari. Del resto, va tenuta presente la capacità d’auto-espansione delle nuove tecnologie che, svincolando parzialmente il processo del loro trasferimento da un dato contesto politico, sta giovando alla riconfigurazione geografica dell’economia mondiale. Vediamo dunque che altre aree del mondo stanno consolidando processi d’integrazione interregionale, con la conseguente espansione degli scambi com-


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Densità delle connessioni internet

Densità della popolazione

Distribuzione mondiale delle connessioni internet (a) e della popolazione (b). L’immagine è stata realizzata da S.H. Yook, H. Jeong e A.L. Barabàsi dell’Università di Notre Dame. Per approfondire le tecniche di realizzazione (densità/intensità di colore) si veda www.mappedellarete.net

merciali all’interno di nuove macroregioni o, se si preferisce, di macroregioni ad un più alto tasso d’interdipendenza economica. Negli anni Novanta si è verificata una rapida espansione del commercio globale di beni e servizi (+ 6% l’anno), che ha superato la crescita del PIL mondiale con un’intensità e una continuità mai riscontrata nei decenni precedenti72. Un dato ancora più sbalorditivo, poi, è rappresentato dalla crescita degli investimenti diretti esteri a partire dagli anni Ottanta: questi sono aumentati, infatti, per un valore medio annuo del 16,3%, contro il 6,2% delle esportazioni mondiali73. Proprio nell’ambito di questa dinamica – come indicano le tendenze degli ultimi anni – il commercio cresce più velocemente in aree comprendenti alcuni Paesi in Via di Sviluppo, piuttosto che in quelli tradizionalmente dominanti (tra il 1990 e il 2000 i Paesi più avanzati tecnologicamente hanno fatto registrare valori di crescita delle esportazioni medie annue del 5,5%, a fronte del 9,1% dei Paesi in Via di Sviluppo74). Alcune regioni dell’est e del sud dell’Asia – Cina, India e Repubblica di Corea – sono diventate nel 2002 i centri del commercio mondiale, espandendo le proprie esportazioni anche in un contesto di crisi globale


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Problemi macroeconomici nel mondo ricco

Gli USA hanno cumulato un debito totale superiore al 300% del PIL nazionale e negli ultimi tre anni hanno perso quasi 3 milioni di posti di lavoro (in cambio dell’aumento della produttività); il Giappone a sua volta ha fatto registrare un debito pari al 157% del proprio PIL e un processo deflazionistico che ha prodotto un calo degli investimenti e dei consumi;né va dimenticata la difficile situazione economica della Germania e della Francia – entrambe limitate dalle politiche monetarie imposte dalla Banca Centrale Europea (BCE) – che è connessa, peraltro, alla depressione della domanda esterna per la produzione europea e all’eccessiva riduzione del costo del lavoro e quindi dei salari (si tratta dei principali fattori che hanno rallentato i Paesi dell’area euro – anche se vi sono state notevoli disparità territoriali di crescita). Infine, la caduta del 41% degli investimenti diretti esteri mondiali nel 2001 e del 21% nel 2002, è stata dettata proprio dalle debolezze della Triade (soprattutto delle sue grandi corporation). Cadono soprattutto i prestiti intra-companies (una delle tre componenti di tali investimenti) e le acquisizioni e le fusioni tra imprese – sempre meno redditizie per valore di transazioni, ordini ecc. [dati UNCTAD, op. cit.; «il Sole-24Ore», Economia, la svolta, «dossier del Sole-24Ore», 15 novembre 2003]. La Cina e altri Paesi asiatici (vecchie e nuove tigri) sono considerati a ragione i principali concorrenti dell’economia americana e di quella europea. Tuttavia, per quanto riguarda gli USA, il loro enorme indebitamento è sostenuto proprio dai governi asiatici tramite l’acquisto di titoli del Tesoro statunitense – flussi necessari affinché gli USA possano continuare ad acquistare prodotti asiatici . In queste dinamiche la Cina è diventata paradossalmente il primo sostenitore degli USA.

(nel 2001 e 2002). Si tratta di spazi geografici articolati, che hanno beneficiato della forte crescita interna ai singoli Paesi, della diffusione del settore IT e della crescita del commercio regionale (cfr. par. 2.4)75. A confermare inoltre una profonda riconfigurazione spaziale dell’economia, va notato che la tendenza all’aumento esponenziale dei fatturati nel settore avanzato delle telecomunicazioni – a partire dall’inizio degli anni Novanta fino al 1999-2000 – sta facendo registrare, come abbiamo visto, un rallentamento negli USA e nella maggior parte dei principali Paesi ricchi (2000-2001). Per contro, soprattutto in Cina – ma anche in Brasile e in India – continua l’impennata dei tassi di crescita anche per quanto riguarda l’industria dei software: a tal punto che nei Paesi dell’Organization for Economic Cooperation and Development (OECD ), il settore dei software, che rappresenta quasi il 10% del totale ICT, è meno dinamico che nei mercati summenzionati76.


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2.4 Regionalismi nel mondo in via di sviluppo: beni, capitali, brevetti e tecnologie Si può sostenere, in generale, che il trasferimento di tecnologie avvenga tramite l’espansione degli scambi commerciali e l’attività correlata delle imprese transnazionali. L’organizzazione di queste ultime, infatti, concorre in modo prevalente al trasferimento tecnologico, soprattutto per mezzo dello stimolo esercitato dalle varie componenti degli investimenti diretti esteri. Il commercio di beni e servizi, i flussi di capitali finanziari produttivi e, infine, i pagamenti di licenze per l’uso di tecnologie sotto protezione brevettuale77 possono essere considerati, in ultima istanza, gli indicatori principali per cogliere, potenzialmente, le traiettorie della dinamica delle tecnologie nel mondo. Flussi di beni Da un punto di vista aggregato, un forte contributo all’espansione del commercio mondiale deriva dagli scambi Sud-Sud (cresciuti dal 1990 al 2001 a un tasso doppio rispetto a quello mondiale) e, in particolare, da quelli avvenuti nell’ambito dei PVS. Nel 1991, il valore delle esportazioni di beni e servizi effettuate all’interno del Sud del mondo, calcolato in dollari, è stato equivalente al 41% del valore dell’esportazioni Sud-Nord. Questa quota nel 2001 è salita al 60% (nonostante le difficoltà della seconda metà degli anni Novanta). Simile è stata la tendenza delle importazioni, che hanno acquisito un peso crescente proprio all’interno del “mondo in via di sviluppo”78. Da un’analisi disaggregata, necessaria per individuare le dinamiche in fieri in un contesto di Paesi e regioni profondamente eterogenei, emerge però il ruolo predominante delle regioni asiatiche in via di sviluppo (già visto in precedenza), cui nel 2001 si è dovuto il 66% di tutte le esportazioni all’interno degli scambi Sud-Sud (cfr. graf. 1). Come se non bastasse, più dell’80% del valore complessivo di tali flussi commerciali è occorso tra pochissime aree urbane dell’Est e del Sud-Est asiatico79: in particolare Kuala Lumpur, Bangkok, Singapore, Hong Kong, Taipei, Pechino, Seul, Canton, Tianjin e anche aree urbane e industriali del Vietnam (Ho Chi Minh City), delle Filippine (Manila) e dell’Indonesia (Jakarta). Una geografia commerciale da cui si evince una struttura degli scambi sempre più interregionale, anche se fortemente squilibrata. A notevole distanza per il contributo dato tramite le esportazioni al commercio complessivo nel Sud, troviamo il Medio Oriente con il 15% (con scarsa dinamica interna a causa della limitata diversificazione dei prodotti), seguito dall’America Latina (i cui scambi avvengono in modo prevalente, il 70% delle esportazioni, all’interno del mercato comune del Cono Sud, il Mercosur). Infine c’è l’Africa, che, contribuendo con meno del 6% al commercio Sud-Sud, è l’unica area geografica ad aver fatto registrare un decremento, seppur modesto, dal 1990 (cfr. graf. 1 e tab. 1)80. Altri dati confermano che l’espansione del commercio tra e nelle aree sopra citate interessa un piccolo numero di forti esportatori di beni industriali. Nel


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Graf. 1 I Paesi asiatici in via di sviluppo sono la regione dominante nel commercio Sud-Sud, 2001 (percentuale)

70 60

Esportazioni Sud-Sud extraregionali Esportazioni Sud-Sud intraregionali

50 40 30 20 10 0

Paesi Asiatici in via di sviluppo

Medio Oriente

America Latina

Africa

Fonte: WTO e UNSUD, Comtrade database.

Tab. 1 Importazioni dal Sud del mondo nelle macroregioni in via di sviluppo, 19902001 (miliardi di dollari e percentuali)

Valore –––––––––––––––––––– 1990 2001

Percentuale –––––––––––––––––––– 1990 2001

Variazione media annuale –––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1990-1995 1995-2000 1990-2001

Paesi asiatici in Via di Sviluppo

145

446

66,2

69,9

19

7

11

Medio Oriente

23

55

10,5

8,6

10

7

8

America Latina

33

95

15,0

14,9

16

7

10

Africa

18

43

8,3

6,7

12

6

8

Sud-Sud

219

639

100,0

100,0

17

7

10

Fonte: WTO, International Trade Statistics, 2003.


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2001, cinque Paesi – Cina, Repubblica di Corea, Singapore, Taiwan e Malaysia – coprivano il 50% delle esportazioni Sud-Sud, mentre il 70% riguardava i primi dieci esportatori. La situazione risulta simile, anche se con percentuali leggermente inferiori, sul versante delle importazioni81. Tra i Paesi che hanno sperimentato i tassi maggiori di espansione del commercio, nel periodo 1990-2000, vi è il Messico, con il 18%, seguito dall’India, dalla Cina e dalla Repubblica di Corea, che hanno fatto registrare ognuno un tasso di variazione positiva del 14%. Tuttavia, la variabilità del peso di ogni Paese nel commercio Sud-Sud è enorme: il Messico, ad esempio, destina solo il 10% delle proprie esportazioni ai PVS (da cui però importa molto di più), la Cina più del 40%, Singapore più del 55% e la Somalia e il Bhutan più del 90%82.

Capitali, beni industriali, brevetti e tecnologie Il rafforzamento della macroregione Est e Sudest asiatica, che unisce più aree sub-nazionali, è evidente anche nei dati relativi ai flussi di investimenti diretti esteri. Questi importanti capitali d’investimento, dopo essere cresciuti nella prima metà degli anni Novanta, soprattutto in Cina e nel Sudest asiatico83, sono crollati in seguito alla crisi finanziaria (1997-1998) e sono poi risaliti immediatamente nel 1999. Al di là delle variazioni annuali più o meno accentuate, risulta infatti che la quota dei flussi intraregionali di tali investimenti – soprattutto per l’importante componente del rinvestimento dei guadagni – ricevuti in ASEAN, Cina, Hong Kong, Repubblica di Corea e Taiwan, abbia poi avuto un incremento passando dal 37% (1999) al 40% (2001) del complesso dei flussi (intraregionali e internazionali) verso i Paesi asiatici in via di sviluppo84. Una tale integrazione è stata sostenuta dalla rilocalizzazione degli investimenti e dalla crescita delle reti di produzione al livello macro e micro regionale. L’incremento, per esempio, degli investimenti diretti esteri all’interno dell’ASEAN, dal 7% nel 1999 al 17% nel 2002, riflette soprattutto un miglioramento continuo nel settore privato e in quello pubblico domestico, che si è ripreso velocemente dalla crisi finanziaria del 1997-98 proprio grazie alla “vitalità interna” di questa macroregione globale85. Siccome i nuovi andamenti commerciali e d’investimento contribuiscono, come già ricordato, ad articolare i movimenti e i trasferimenti di tecnologie, possiamo dedurre una maggiore regionalizzazione, sia della divisione del lavoro (che s’inserisce in quella di più difficile definizione al livello mondiale), sia del “ciclo dei prodotti e delle tecnologie”. Basti pensare che lo scambio di beni industriali tra PVS è cresciuto a un ritmo medio annuo del 12% negli anni Novanta ed è arrivato a costituire nel 2001 i due terzi di tutto il commercio complessivo Sud-Sud86. La componente più vivace nell’ambito di queste transazioni commerciali è stata, peraltro, quella degli equipaggiamenti per telecomunicazioni e per uffi-


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ci, tra cui vi sono prodotti a medio e alto contenuto tecnologico. In questi scambi emerge ancora una volta il ruolo predominante dei nodi e delle regioni subnazionali asiatiche più inserite nei mercati mondiali87. È ovvio, pertanto, che tali dinamiche non potevano non esercitare un’attrazione rilevante su aziende che operano nel settore dell’IT e, più in generale, sui flussi di capitali monetari che hanno contribuito alla creazione e alla diversificazione delle reti di produzione attraverso le varie regioni asiatiche. Considerando la struttura delle importazioni per livello di contenuto tecnologico, risulta che i Paesi in Via di Sviluppo hanno importato, nel 2000, una quota di prodotti ad alto contenuto tecnologico superiore a quella del mondo più ricco.Va inoltre notato che anche i Paesi più poveri hanno iniziato a importare prodotti hi-tech (cfr. graf. 2). Movimenti di vari beni a diverso contenuto tecnologico si deducono inoltre osservando la struttura delle importazioni per area tecnologica di provenienza. Dal grafico 3, infatti, si evince il peso crescente della Cina e dei NICs, di prima e seconda generazione, nel trasferimento di tecnologie nei Paesi in via di sviluppo, nei Paesi a basso sviluppo e anche nei Paesi sviluppati. Tuttavia, rimane evidente il ruolo dominante dei Paesi più ricchi nell’interscambio di prodotti hi-tech interno alla Triade e rispetto al resto del mondo. Ricordiamo che gli USA ricevevano negli anni Novanta il 58% di tutti i pagamenti di royalties e tasse su licenze, a fronte dei pochi punti percentuali degli altri Paesi più industrializzati88. Bisogna ricordare, nondimeno, che le legislazioni sui brevetti più articolate e rigide sono proprio quelle degli USA, mentre in molti altri Paesi a diverso livello di sviluppo industriale vi sono dei sistemi più elastici, spesso creati di recente. In molte regioni dei Paesi in via di sviluppo non sarebbe d’altronde possibile per molte imprese sostenere gli oneri tecnico-finanziari per portare a termine la richiesta di un brevetto e affrontare, in seguito, l’indispensabile monitoraggio legale del suo rispetto. Per tali motivi, l’indicatore relativo a questi tipi di pagamenti sui brevetti non riflette in maniera esaustiva la dinamica tecnologica (che può, così, risultare fuorviante): avviene spesso che ci si scambi conoscenze economicamente utili non coperte da brevetti, per il cui sviluppo ci sono tra l’altro limiti “oggettivi”. Citando Krugman e Obstfeld, sottolineiamo che capita spesso che la tecnologia utilizzata, per esempio, nella conduzione di una fabbrica non sia mai stata formalmente raccolta in un testo: è una conoscenza incorporata in un gruppo di individui e non può essere separata da questi e venduta. […]. Infine, i diritti di proprietà, quando l’oggetto è rappresentato da conoscenze, sono difficili da stabilire; […per via dell’imitazione]89.

Per concludere, ricordiamo che un ampio scambio di tecnologie tra aree geografiche diverse non basta a migliorare i sistemi produttivi. Non va trascurato, inoltre, che l’articolazione degli scambi di beni, servizi e conoscenze determina


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Graf. 2 Struttura delle importazioni per livello di contenuto tecnologico, 2000 (quote percentuali) Altri prodotti

Prodotti a bassa tecnologia

Prodotti a media tecnologia

Prodotti ad alta tecnologia Paesi sviluppati

Paesi in via di sviluppo

Paesi a basso sviluppo

Fonte: UNSUD, Comtrade database.

Graf. 3 Struttura delle importazioni per area di sviluppo tecnologico di provenienza, 2000 (quote percentuali) Altre economie in via di sviluppo Cina

NICs

Economie in transizione Paesi sviluppati

Paesi sviluppati

Paesi in via di sviluppo

Fonte: UNSUD, Comtrade database.

Paesi a basso sviluppo


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una continua interazione fra tecnologie autoctone e tecnologie importate, che richiede un’attenzione particolare. Pertanto, se in termini assoluti una nuova tecnologia dovrebbe fornire un beneficio generale (aumento della produttività), in termini relativi alle singole regioni (mercato degli input produttivi, prezzi relativi dei fattori di produzione, rapporto fra ricerca di base e applicata, sistema educativo, gap tecnologico ecc.) «Paesi che introducono la stessa tecnologia ne beneficiano in modo diverso» e in alcuni casi per nulla90; e a volte conoscono effetti controproducenti sulla struttura socioeconomica esistente91. Rimane la constatazione che nei processi in fieri si consolida e si articola una struttura economica a rete scheletrica, tramite la quale si muovono le diverse tecnologie (fortemente correlate ai commerci e agli investimenti esteri). Una struttura che può essere ben rappresentata dai principali poli tecnologici. Poli tecnologici e agglomerazione I parchi scientifici e tecnologici svolgono importanti funzioni di collegamento socioeconomico e culturale, sia al livello locale, sia al livello mondiale. Si tratta di importanti insediamenti che mettono in relazione le aree economiche più dinamiche del mondo (cfr. carta tematica) e che presentano, localmente, uno spazio geografico caratterizzato dalla vicinanza fisica e dalla forte interrelazione fra università e imprese. Tali realtà sono nate inizialmente negli Stati Uniti d’America (intorno agli anni Cinquanta-Sessanta) e si sono moltiplicate nel corso del tempo, diffondendosi naturalmente anche nello spazio geografico. Attualmente negli USA si contano ottocento poli scientifici e tecnologici, molti dei quali divenuti ormai di grandi dimensioni (ad esempio nella Silicon Valley in California o ad Austin in Texas). Un’altra grande concentrazione di poli scientifici e tecnologici si riscontra in Europa, ove s’individuano modelli organizzativi e funzionali spesso molto differenti. Nei poli francesi, per esempio, distribuiti uniformemente su tutto il territorio nazionale in prossimità dei principali centri urbani, l’attività di ricerca è strettamente legata a quella produttiva ad alto valore aggiunto92. Nel Regno Unito, invece, i parchi scientifici sono orientati alla creazione d’impresa, per la quale è necessaria una forte specializzazione merceologica93. Tuttavia, oltre a quelli negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale, un gran numero di poli tecnologici si sono sviluppati, negli ultimi decenni, anche nel resto del mondo: in Brasile (Campinas), Sudafrica (Johannesburg), India (Bangalore), Cina (Pechino), Messico (Guadalajara), solo per citarne alcuni tra i più famosi. In Africa, i principali poli tecnologici sono in Sudafrica (Gauteng) e in Tunisia (El Ghazala)94. In molte provincie della Cina stanno nascendo aree ben organizzate per la ricerca avanzata in grado di attirare aziende di varie dimensioni (cfr. cap. III, par. 2). Se a Pechino il governo ha organizzato gli spazi per la ricerca solo in seguito alla formazione di una classe imprenditoriale, a Shangai, invece, il parco per la ricerca hi-tech nella zona di Caohejing è stato creato appositamente per


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Poli di alta tecnologia e autostrade dell’informazione,

Atlante di Le Monde diplomatique – il manifesto, Roma 2003, p.10.

attirare risorse e imprenditori (tra Nanchino, Shangai e Hangzhu si sta consolidando, peraltro, un’area che forse diverrà una megalopoli dopo la costruzione di molte città satellite già in progettazione). La geografia mondiale hi-tech ci indica che i processi di sviluppo industriale e tecnologico, polarizzati e nodali al livello regionale e globale, operano soprattutto nelle aree territoriali in cui esistono alcune condizioni politiche ed economiche: misure politiche tese alla stabilità economica, crescente contributo dei capitali privati e, soprattutto, accesso alle “autostrade dell’informazione”95. Gioverà sottolineare, inoltre, che molte attività economiche continuano a concentrarsi territorialmente secondo “le spinte tradizionali all’agglomerazione”. A differenza del passato, però, le economie d’agglomerazione riguardano attualmente un numero maggiore di località geografiche (urbano-industriali) che si trovano soprattutto nei PVS (ove del resto si concentrano i due terzi delle metropoli più grandi del mondo). La propensione alla concentrazione spaziale riguarda in gran parte quei settori produttivi e di servizio caratterizzati da stabilimenti di dimensioni ridotte, da un alto volume di transazioni, da un’elevata energia innovativa e imprenditoriale e da una quota decrescente di lavoratori dedicati alla produzione96 ( è questo il caso ad esempio, di certe attività informatiche, di ricerca, di comunicazione, di moda ecc.). Va detto, poi, che i modelli spaziali di tali processi ag-


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Il caso di Dubai

L’emirato arabo di Dubai può essere definito – solo da pochi anni – un gateway internazionale, che, dopo essersi aperto al mondo come produttore ed esportatore di petrolio (verso la fine degli anni Sessanta), si è imposto come snodo commerciale mondiale. Questa città si è trasformata, infatti, nel giro di meno di una generazione da una “città-stato” a una “città mondo”. Il 70% delle merci importate viene riesportato, mentre le limitate riserve di petrolio contribuiscono sempre meno al PIL (circa il 6%). Le dotazioni portuali e aeroportuali sono in continuo sviluppo, così come le numerose free zones che attirano imprese e lavoratori stranieri. Circa 2 mila aziende operano nelle free zones di Jebel Ari, dell’Aeroporto di Dubai Internet City e di Dubai Media City, e cioè in spazi urbani che sono destinati all’accoglienza di molte imprese dell’IT e, più in generale, ad alto contenuto di conoscenza. Con una popolazione di 1,1 milioni di persone, di cui circa l’80% straniere, è evidente che si tratti di un nodo globale (hub) di recente sviluppo che alimenta le dinamiche mondiali [informazioni tratte da V. Maurus Mille e una notte a Dubai, in «Internazionale», X, n. 513, 7/13 novembre 2003; E. Marchesini, Dubai, crocevia per i mercati, in «il sole24ore», 29 ottobre 2003]. Un nodo che si sta sviluppando ai margini dell’area più conflittuale del mondo e che è in grado, nondimeno, di rispondere alle esigenze delle imprese transnazionali. Tutto ciò avviene in modo apparentemente incurante degli sviluppi diseguali della regione. O, forse, questa frenesia commerciale ha anche a che fare con le guerre mediorientali?

glomerativi rimangono molto differenziati da settore a settore, come è stato dimostrato da Stefano Breschi per quanto riguarda, ad esempio, la diversa distribuzione geografica delle attività innovative attraverso differenti settori produttivi97. In generale, a fronte di situazioni in cui un numero ridotto di grandi imprese compete al livello globale, controllando la maggiore quota d’innovazione sul totale di un dato settore, altre industrie, al contrario, si presentano con l’attività innovativa dispersa tra un numero rilevante di piccole imprese distribuite in differenti regioni. Questa variabilità, spesso di non facile decifrazione in base ai dati disponibili, sta forgiando una geografia economica mondiale a rete, che, pur risultando piuttosto “scheletrica” (a maglie larghe), non esclude la possibilità che si formino nuovi nodi globali (cfr. box Il caso di Dubai).


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Capitolo terzo

Transnazionali, ICT e nuove geografie

3.1 L’impresa transnazionale nella globalizzazione L’impresa, dapprima multinazionale e poi transnazionale, rappresenta l’attore economico da cui è possibile rilevare più nello specifico i movimenti di tecnologie. Più degli Stati, sono infatti queste società d’affari che commercializzano beni e investono capitali, determinando in maniera significativa la dinamica tecnologica mondiale. La stessa riconfigurazione della divisione internazionale del lavoro diviene così fortemente cangiante proprio in relazione alle nuove strategie d’impresa. Non è un caso che ci sia chi sostenga, come fa Kleinert sulla scia di studi empirici, che l’impresa globale debba costituire l’unità d’analisi di base nello studio della globalizzazione98. Sarà importante a questo punto mettere a fuoco le nuove strategie delle imprese globali e dei correlati flussi tecnologici, soprattutto in rapporto alle tendenze nel campo dell’Information and Comunication Technology (ICT)99. Consapevoli, tuttavia, che «la teoria economica dell’organizzazione – che è ciò di cui ci occupiamo quando cerchiamo di costruire una teoria delle imprese multinazionali – si trova ancora a uno stadio iniziale»100. La transnazionalizzazione dell’economia è un fenomeno che già avevamo iniziato a vedere, in modo embrionale, nei decenni Settanta-Ottanta e si riferisce al fatto che la maggior parte degli scambi di beni e servizi avviene – in epoca di globalizzazione – tra imprese affiliate, distribuite in modo reticolare sul globo. Solo per dare un’idea d’insieme, si pensi che già nel 1994 circa il 44,3% del PIL mondiale e il 70% del commercio mondiale erano imputabili ai network delle imprese transnazionali. Le sessantamila società transnazionali, rilevate dall’UNCTAD e dal WTO, gestiscono insieme più di un milione e mezzo di succursali sparse in tutti i Paesi del mondo. Ancora una volta le prime trecento-cinquecento multinazionali sono quelle nord americane, europee e giapponesi, che dominano il commercio mondiale, anche se nella ristrutturazione dell’economia globale […] altri attori stanno accrescendo la propria competitività. Nel 2002 un terzo circa degli scambi commerciali ha avuto luogo all’interno di una stessa società transnazionale, mentre un altro terzo del commercio mondiale si è svolto tra differenti global corporations. Solo un ultimo 30% degli scambi di beni e servizi è avvenuto tra Stati e imprese nazionali101.


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Più in particolare, all’inizio degli anni Novanta le vendite delle affiliate estere statunitensi sono state pari a quattro volte le esportazioni USA, così come le vendite delle affiliate estere giapponesi sono state il doppio delle esportazioni della patria nipponica102. In questo contesto il commercio dei beni e dei servizi dell’ICT è cresciuto a un tasso quasi doppio rispetto al commercio manifatturiero totale, divenendo così predominante. Negli USA, ad esempio, il 25% delle importazioni e il 20% delle esportazioni sono costituiti da prodotti ICT103. Questi nuovi andamenti possono essere compresi solo analizzando come sia cambiata l’organizzazione dell’impresa transnazionale e anche come quest’ultima debba cercare di cambiare per essere in grado di produrre e gestire l’innovazione. L’organizzazione e le strategie dell’impresa Le imprese transnazionali nei settori delle nuove tecnologie, ma anche nei molti altri campi d’attività in cui queste sono applicate, non sono più in grado di operare secondo una logica di autosufficienza. Questo perché in relazione all’ampliamento e all’apparente unificazione del mercato mondiale, soprattutto nell’ultimo decennio, è emersa la necessità per le imprese di formulare strategie d’adattamento multiple, in relazione ai differenti contesti territoriali. L’esame della direzione del cambiamento tecnologico in una data regione e la valutazione del contesto d’introduzione di una nuova tecnologia (che interagisce sempre con le vecchie) sono, dunque, di fondamentale importanza. In un’economia potenzialmente globale, difatti, i soggetti competono su mercati di prodotti quasi omogenei, ma movendosi nell’ambito di mercati dei fattori di produzione eterogenei104. I processi di integrazione verticale per mezzo dell’internalizzazione di più fasi produttive (ad esempio la realizzazione di computer e semiconduttori nell’ambito di una stessa impresa) oppure, al contrario, di disintegrazione verticale, con la divisione ed esternalizzazione di varie funzioni, cambiano attraverso i settori dando vita, spesso, a forme d’integrazione intermedie (e, quindi, a un’ampia varietà di strutture organizzative d’impresa). La tendenza generale alla separazione crescente o, comunque, alla disarticolazione delle fasi del processo produttivo, in particolare nella forma della separazione spaziale tra le attività di ricerca e innovazione e le attività produttive, non significa pertanto che si sia verificato il superamento di qualsiasi modello d’impresa gerarchico a favore di quelli a rete e cooperativi. Il primo modello persiste, articolandosi nel contempo in nuove strutture organizzative (non va dimenticato che forme gerarchiche si possono riprodurre anche in un sistema reticolare). Non mancano degli studi recenti che ci spiegano processi di integrazione o reintegrazione verticale (nel senso di una riorganizzazione tesa ad aumentare il controllo su tutto il ciclo produttivo), sia in un settore come quello delle automobili – che è, allo stesso tempo, tradizionale e avanzato105 –, sia in uno pro-


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Integrazioni verticali e controllo

Per il settore delle automobili, possiamo menzionare lo studio di B. Ó hUallacháin e D. Wasserman [Vertical Integration in Lean Supply Chain: Brazilian Automobile Components Parts, in «Economy Geography», 1999] sulla ristrutturazione della catena di fornitura di componenti per automobili in Brasile (ove molte imprese della Triade hanno delocalizzato parte della loro attività produttiva o, in generale, hanno trovato fornitori di input). Tale studio spiega come le politiche neoliberali, tese a ravvivare questo settore, siano riuscite a stimolare il formarsi di un nuovo strato di fornitori molto integrato, in sostituzione di una enorme rete preesistente di piccoli fornitori locali (piuttosto inefficiente dal punto di vista produttivo, ma importante sul piano occupazionale). Il risultato è stato che, a una aumentata competitività internazionale della nuova e più efficiente rete di fornitori al livello nazionale (per i telai, i motori e le scocche), il controllo esterno operato dalle multinazionali sulla catena di produzione complessiva si è rafforzato invece di erodersi (contrariamente a quanto sostenuto dai molti fautori di tali interventi), determinando, in ultima istanza, una destrutturazione ed espropriazione al livello nazionale/regionale. Per il settore dei semiconduttori, Ó hUallacháin ha analizzato invece in che modo sia avvenuta, nella seconda metà degli anni Novanta, una ristrutturazione operata nel senso dell’integrazione verticale tra i produttori di wafer – componente per la costruzione dei semiconduttori – nell’Est asiatico e il comparto più avanzato del design nei poli della Sun Belt statunitense [B. Ó hUallacháin, Restructuring the American Semiconductor Industry: Vertical Integration of Design Houses and Wafer Fabricators, in «Annals of the Association of American Geographers», Blackwell Publishers, Oxford 1997, 87 (2), pp. 217-234]. Il boom di semiconduttori nella metà degli anni Novanta e il rifiuto dei governi asiatici (in particolare quelli di Singapore e di Taiwan) di continuare a sovvenzionare i produttori di wafer – processo che negli anni Ottanta aveva invece favorito un processo di disintegrazione verticale del settore – hanno spinto le imprese statunitensi verso strategie d’integrazione verticale. Quest’ultime sono avvenute, a conferma di ciò che abbiamo detto, in modo molto vario (equity joint ventures, acquisto dei servizi di fabbricazione oppure contratti relazionali per avere la garanzia di una fornitura stabile).

priamente all’avanguardia come quello dei semiconduttori (cfr. box Integrazioni verticali e controllo). Nei settori dell’Information Technology e in quelli dei servizi finanziari è forse più evidente come si sostituisca una graduale, ma significativa disarticolazione per aree geografiche dei processi decisionali (insieme a quelli produttivi) alla cen-


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tralizzazione delle decisioni e alla rigida burocratizzazione dell’organizzazione gerarchica, tipica del modello fordista. Questo avviene, oltre che per ragioni strettamente economiche relative all’esistenza di vari mercati degli input, per fare in modo che le decisioni siano più rispondenti al pluralismo dei soggetti, delle capacità e delle risorse coinvolte nell’attività produttiva transnazionale106. Alla luce di ciò, si sostiene che nella globalizzazione prevalgano (anche in base alle trasformazioni della struttura degli investimenti, del “ciclo del prodotto e delle tecnologie”) rapporti tra imprese di tipo cooperativo chiamati make together: l’unico modo tramite il quale un’impresa può sviluppare la propria capacità competitiva e innovativa allo stesso tempo107. Nondimeno, però, quando si verifica un’accentuata competizione tra global corporations (come avviene nell’informatica, nella realizzazione dei veicoli a motore, nelle attività petrolifere, nella grande distribuzione ecc.) il make-togheter è il mezzo tramite il quale si mira, qualche volta, alla strategia del kill the others competitor for ever108. Per riuscire a cooperare è necessario riuscire a differenziare i propri processi produttivi, in modo tale che l’interazione professionale o produttiva inter-imprese si possa realizzare efficacemente. Il lavoro nelle imprese, pertanto, deve essere sostanzialmente riorganizzato al fine di diffondere la partecipazione ai processi decisionali e di stimolare, ad esempio, i lavori di gruppo: tutti aspetti associati all’uso efficace e allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione109. I modelli del Giappone, della Germania e della Svezia mirano non a caso a una crescente «mobilitazione intellettuale della manodopera, cui vengono demandati più alti gradi di autonomia e creatività». Si tratta di strategie aziendali ideali rispetto al nuovo contesto, che, però, non esauriscono le reazioni alla crisi del fordismo110. La differenziazione geografico-organizzativa dei processi produttivi è, dunque, la conditio sine qua non per lo sviluppo della “società della rete”, la quale richiede una capacità d’adattamento continuo. Così, mentre da una parte il rallentamento recente del mercato delle nuove tecnologie – caratterizzate da prodotti meno costosi e più facili da utilizzare – richiede alle imprese di creare delle enormi economie di scala111, dall’altra parte, nel contempo, i risultati precari o le perdite finanziarie conseguenti a megafusioni richiedono cautela. Anche perché i produttori di tecnologie avanzate, a causa della generale sfiducia dei compratori per l’andamento frenetico delle produzioni hi-tech, dell’aumento nella competizione globale e del rifiuto dei clienti di acquistare cose che non diano garanzie di almeno sei mesi, sono obbligati a focalizzarsi su ciò che fanno meglio e a delegare agli altri, in outsourcing, il resto dell’attività112. Essendo sempre più importante il livello di controllo dell’informazione, che produce rendita, si preferisce quindi esternalizzare molte fasi produttive, concentrandosi sulle attività di ricerca nei settori trainanti dell’informazionalismo (microelettronica e genetica). Bisogna ricordare ancora una volta che ai comportamenti onesti e lungimiranti di make-togheter si affiancano quelli predatori delle megafusioni, utili solo a singole persone. Scrive Ziegler in proposito:


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La maggior parte delle fusioni ha portato a una notevole diminuzione degli attivi. Il quotidiano Le Monde (21 agosto 2001) ha analizzato dodici delle più grandi fusioni: praticamente tutte hanno finito per provocare una massiccia diminuzione della quotazione in borsa della società nata dalla fusione. Le dodici fusioni esaminate hanno prodotto una perdita complessiva di oltre 720 miliardi di dollari. […] Una megafusione lusinga la megalomania di qualsiasi nababbo […]. Praticando quasi per istinto (e restando generalmente impunito) il delitto di insider trading, a ogni fusione realizza sostanziosi guadagni personali113.

Le fusioni e le acquisizione sono crollate del 48% nel 2001 e del 38% nel 2002 e, se nel 2001 queste operazioni hanno costituito l’80% dei flussi mondiali di investimenti diretti esteri, nel 2002 questa quota è scesa al 55%114. Il fattore umano Le imprese transnazionali che operano nel campo dell’ICT devono sviluppare sapere scientifico e hanno bisogno di valorizzare al massimo lo scambio d’informazioni. È necessario quindi dividere questo lavoro e i relativi costi su ampia scala, lasciando piena autonomia alle unità all’estero: un processo tramite il quale si favorisce la diffusione delle conoscenze esaltando la centralità del fattore umano, che è probabilmente una delle componenti più importanti in queste nuove attività. C’è oggi un rinnovato interesse nell’accrescere il ruolo della produttività del capitale umano, in particolare per la sua complementarità con le nuove tecnologie dell’informazione: sono necessarie abilità e competenze per poter materializzare il reticolato delle esternalità da esse indotte115. Per le imprese che operano e investono nelle nuove tecnologie, le squadre e i gruppi di uomini capaci di coordinarsi in modo sempre più flessibile ed efficiente sono importanti. È altrettanto vero, però, che i numerosi e radicali cambiamenti tecnologici continuano a mettere in evidenza la rilevanza dei singoli soggetti nel favorire le invenzioni116, che naturalmente non è cosa nuova117. L’ampia disponibilità di personale qualificato (knowledge workers) in India, Cina e Brasile, è uno dei fattori che spiega la loro rilevante crescita economica. In generale, lavoratori altamente qualificati, spesso asiatici, si muovono in tutte le direzioni (in maggioranza verso il Nord del mondo) per rispondere alle nuove esigenze professionali nelle capitali dell’economia globale. Durante il periodo 1996-1998 i lavoratori stranieri negli USA costituivano più del 25% dei nuovi occupati nell’ICT, una situazione che si riscontrava anche considerando il complesso dei 28 Paesi OECD. (Il settore dell’ICT è, non a caso, quello in cui si sono registrati negli ultimi dieci anni i maggiori aumenti salariali; a fronte di una caduta delle retribuzioni occorsa nei settori tradizionali della produzione di merci)118. Si tratta però, come si è detto, di movimenti multidirezionali. In anni recenti, per esempio, alcune regioni dei Paesi in Via di Sviluppo hanno esercitato una forza centripeta di uomini e investimenti grazie alla competitività di alcuni loro sistemi economico-sociali-territoriali. Non dovrebbe sor-


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prendere, dunque, la diffusione delle espulsioni operate nei poli tecnologici dei Paesi tradizionalmente più avanzati: basti pensare che la Cisco ha licenziato circa 5 mila dipendenti in California, riassumendone in eguale misura in India; così come, in generale, stanno aumentando i decentramenti produttivi hi-tech verso le regioni intorno a San Paolo del Brasile, al confine col Messico e nei pressi di Pechino119. Ma il lavoro non è solo quello degli inventori120, degli imprenditori di successo e del personale altamente specializzato. Sappiamo, invero, che ci sono ancora numerosissime attività a differenti livelli di qualificazione sempre meno remunerate, tanto nel settore primario quanto negli altri due macrosettori tradizionali. Così ancora una volta si deve tristemente rilevare che nuove partite di potere si giocano sulla condizione del lavoratore. Va ricordato, infatti, che nelle regioni tecnologicamente avanzate o comunque parzialmente industrializzate, distribuite in modo asimmetrico sul pianeta, il lavoro umano sta divenendo sempre più flessibile e precario: l’indipendenza personale, che spesso si raggiunge per l’allentamento di taluni rapporti sociali, si realizza senza autonomia e, come scrive con acume il sociologo Paolo Ceri, «in epoca di globalizzazione ha potere chi ha la possibilità di decidere la flessibilità altrui»121. Ci sono poi le tesi, apparentemente catastrofiste, ma empiricamente fondate, sulla «fine del lavoro»122 (si tratta più propriamente di quel lavoro di tipo fordista che ha caratterizzato gran parte del Novecento). Senza illudersi di predire il futuro, lo studio dei processi della globalizzazione potrà forse individuare la direzione della trasformazione del lavoro. Per il momento si può dire che è condizionato da due forze: una che agisce in alto e un’altra che agisce in basso. Se la prima s’esplica tramite la possibilità d’accesso e di fruizione individuale alle reti globali, la seconda emerge nella creazione di reti partecipative locali saldamente legate al territorio. Ricerca e sviluppo La ricerca scientifica non ha mai avuto un impatto sulle innovazioni come in questi ultimi decenni. Questa affermazione va interpretata tenendo in considerazione che gli investimenti in ricerca e sviluppo sono aumentati nei Paesi OECD in modo ingente e in un periodo di tempo ristretto. Nella seconda metà degli anni Novanta, infatti, essi sono passati da 416 a 552 miliardi di dollari, con un incremento che è stato sostenuto in maniera crescente dall’industria privata. Possiamo pertanto rilevare che, mentre i fondi dei governi hanno contribuito con una quota decrescente (dal 39 al 28% negli anni Novanta), la quota di Research and Development (R&D) finanziata dall’industria privata è au123 mentata, nello stesso periodo, dal 57 al 63,9% . Nei due decenni passati la formazione di un gran numero di nuove imprese nei settori della cosiddetta new economy ha favorito la diffusione delle innovazioni in molte aree del globo. L’Oracle e la Cisco sono esempi d’aziende “giovani” di successo (start-up) che hanno creato posti di lavoro ad alta inten-


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Il dinamismo delle start-up

Le varie innovazioni tecnologiche hanno stimolato la crescita e la nascita di nuove imprese (start-up), che nel giro di pochi anni sono diventate delle corporation gigantesche. È stato il caso di Cisco System, Dell Computer, Oracle, Sun Microsystem, Apple e altre che hanno intuito in anticipo le potenzialità di molte scoperte. Al contrario le performance delle grandi aziende mature, come A&T (che abbandonò i diritti di proprietà sulla microelettronica), Microsoft (solo dal 1996 intuì il potenziale di Internet) e IBM (costretta a riconfigurarsi come azienda di servizio) insieme ad altri “esperti” del settore, sono state irrigidite da strategie imprenditoriali poco lungimiranti, tendenti al mantenimento di condizioni di monopolio [M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica Hacker e lo spirito della network society, Feltrinelli, Milano 2001]. In una certa misura la dinamica appena ricordata appare evidente da un dato riferito alla Silicon Valley, dove sono nate le principali start-up. Negli anni Novanta, le nuove imprese hanno creato la maggior parte dei nuovi posti di lavoro, circa 258.796 nuovi occupati, mentre, al contrario, quelle mature hanno perso 120.559 posti di lavoro [ The Future of Technology, in «Businessweek», 18/25 agosto 2003].

sità di conoscenza tecnica, riuscendo peraltro a ottenere nel giro di pochi anni una notevole crescita della produttività multifattoriale (MFP) (cfr. box Il dinamismo delle start-up). A queste nuove imprese, che si sono affermate nel mercato globale, si deve, di conseguenza, una parte importante della crescita policentrica dell’attività privata in ricerca e sviluppo e della diffusione spaziale di alcune tecnologie. Nel comparto ricerca e sviluppo dell’industria dell’ICT un ruolo centrale è giocato da un’intensa e crescente cooperazione scientifica globale (brevetti con co-inventori stranieri, pubblicazioni scientifiche internazionali ecc.). Basti pensare che Paesi piccoli, come quelli del bacino del Baltico (i Paesi scandinavi, ma anche l’Estonia, ad esempio), hanno realizzato numerosi cambiamenti tecnologici e innovazioni attraverso parecchia ricerca eseguita all’estero. Gli stessi Stati Uniti ci forniscono una buona esemplificazione: nel 2002 il 47% dei brevetti è andato a inventori stranieri124. Per quanto riguarda la percentuale di domande straniere per ottenere brevetti, spicca la Germania, con il 66,5% sul totale delle richieste avanzate al livello nazionale (già nel 1997)125. Va menzionato, inoltre, l’esplicarsi di un processo d’internazionalizzazione relativo alla protezione delle conoscenze. Se nel 1980 una corporation USA faceva domanda per un brevetto nel proprio Paese e, contemporaneamente, in al-


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tri due Paesi stranieri, nel 1997, per un brevetto chiesto negli USA si avanzavano domande in altri 13 Paesi126. Il trasferimento di tecnologie, che emerge da questi e altri dati sulle richieste di brevetti (all’interno e all’esterno dei Paesi), non ha ridotto, tuttavia, il carattere polarizzato della dinamica tecnologica127. Possiamo così rilevare come questa diffusione della protezione delle tecnologie (tramite l’estensione dei sistemi brevettuali) e delle conoscenze loro sottese, vada a quasi esclusivo vantaggio dei grandi gruppi industriali, all’interno dei quali avvengono i più consistenti trasferimenti di tecnologie al livello globale. Sia sufficiente ricordare che, nel 1995, l’80% dei pagamenti per royalties e tasse su licenze è fluito dalle affiliate verso le società madri (dove si concentra ancora la maggior parte delle attività legate alla produzione di conoscenza)128; oppure, che il 97% dei brevetti è detenuto dai Paesi ricchi e l’80% di quelli rilasciati nei PVS è in mano a persone residenti nei Paesi più industrializzati129. La diversificazione dell’attività di R&D, tramite la creazione di nuovi impianti specializzati e l’uso di quelli già esistenti, dimostra infine quanto sia aumentato il rischio dell’attività imprenditoriale. Questa infatti deve fronteggiare investimenti senza ritorni immediati, per sperare d’emergere nel mercato mondiale delle nuove tecnologie. Per tale motivo la nascita di nuove imprese di successo è coincisa anche con molti fallimenti di aziende nascenti (in accordo con lo schema schumpeteriano visto nel primo capitolo).

3.2 ICT e nuove geografie Una quota crescente di attività ad alto valore aggiunto si sta localizzando, ormai da anni, in India e in Cina, due delle cinque macroregioni definite da Braudel «economie mondo». Una realtà relativamente nuova che continua a convivere, nondimeno, con produzioni labour-intensive. Di seguito renderemo conto, più nello specifico, di alcune ragioni economiche e culturali che dovrebbero consentire una maggiore comprensione di queste “nuove geografie” per quanto riguarda l’ICT. Se intorno al 2000 a.C. i babilonesi hanno introdotto il sistema di “numerazione posizionale”, nel VI secolo d.C. gli indiani hanno inventato lo zero, in sostituzione dello spazio vuoto utilizzato in precedenza. Per di più, dall’oracolo taoistaconfuciano, «I Ching», è stata derivata l’aritmetica binaria, caratterizzata da enormi successioni di zero e uno, che è oggi alla base del funzionamento dei computer (fu il filosofo e matematico Leibniz a mutuare dai Ching – esagrammi di lineette intere e spezzate che rappresentavano lo yin e lo yang – il sistema binario). Non sembra un caso, dunque, che l’India sia diventata il maggior produttore di software del mondo, più degli USA e del Giappone. Basti pensare che questo Paese è attualmente un “contenitore” ricchissimo di ingegneri altamente specializzati in software – il 30% del totale mondiale – e che più del 50% dei laureati forgiati dai migliori istituti internazionali d’informatica si trovano attualmente in India130.


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La Cina, dal canto suo, fu protagonista di numerose invenzioni tecnologiche e di scoperte scientifiche, che, nel tempo, furono usate dal resto del mondo (pensiamo alla carta nel II secolo, alla stampa a caratteri mobili e alla polvere da sparo nell’XI secolo, solo per citarne alcune). Oggi la Cina è il primo produttore industriale al livello internazionale e non ci sembra irrilevante che, già dal XIII-XIV secolo, proprio in questo Paese s’impiegò il coke per fondere i metalli. Si trattò, infatti, di una tecnologia all’avanguardia che giunse in Europa solo nel XIX secolo, ove, in sostituzione del carbon di legna, divenne fondamentale per lo sviluppo dell’industria siderurgica131. Sul piano dell’ICT, la Cina è attualmente diventata il più grande mercato mondiale di chip e uno dei primi produttori in questo settore al livello globale, capace ogni anno di formare un numero di ingegneri doppio rispetto a quelli che escono dalle università statunitensi. Sulla base di questi primi dati, possiamo già dare una risposta sulle cause che stanno consentendo queste nuove dinamiche, che sembrerebbero per l’appunto legate alla qualità del sistema educativo, in correlazione naturalmente a un minor costo del lavoro qualificato132. In Cina e in India si stanno creando a un ritmo veloce nuove regioni subnazionali hi-tech, o nodi del sistema globale, che contrastano profondamente con la diffusa povertà presente all’interno di questi due grandi Paesi (dove vive circa un terzo della popolazione mondiale). Tuttavia, mentre la Cina ha profondamente ridotto la “povertà assoluta” negli anni Novanta133, l’India presenta sacche di povertà estrema molto più consistenti e disuguaglianze più marcate. Essa ha conosciuto dal 1980 a oggi un aumento del numero di persone che soffrono costantemente la fame (il 53% dei bambini sono malnutriti) ed è il Paese che, insieme all’Africa sub-sahariana, presenta il maggior numero di affamati del mondo134. È vero che, dalla metà degli anni Novanta, sta crescendo a un tasso del 10% all’anno la classe medio-alta (composta da indiani che dispongono di più di mille euro al mese), ma essa, tuttavia, non supera ancora il 4% della popolazione totale. “Arcipelaghi indiani” Una delle aree mondiali più importanti per il settore dell’Information Technology è sicuramente Bangalore, capitale dello Stato indiano sud-occidentale del Karnataka. Questa città, in base a una classifica mondiale stilata nel luglio del 2000135, appare all’undicesimo posto per la qualità delle università e dei centri di ricerca, per la presenza di aziende all’avanguardia, nonché per la spinta imprenditoriale locale ad avviare nuove imprese (start-up)136. Proprio a Bangalore, infatti, si trasferiscono molti dei posti di lavoro creati in origine nella Silicon Valley californiana nel settore dei software. Dal dicembre 2000 all’aprile 2003, la Silicon Valley ha perso il 17,4% dei suoi posti di lavoro – un dato che è espressione della caduta più significativa che si sia verificata nella regione dai tempi della “Grande Depressione”137 – che sono stati in parte ri-


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creati e trasferiti in località come Bangalore in India e Tianjin in Cina, ma anche in aree brasiliane e messicane. Dobbiamo aggiungere che, oltre a Bangalore, non mancano altre aree geografiche dotate di ottimi centri di formazione e capaci d’attrarre investimenti produttivi nei settori delle nuove tecnologie informatiche: ci si può riferire alla città di Hyderabad, nello Stato sud-orientale dell’Andhra Pradesh, oppure alla città di Madras, nello stato meridionale del Tamil Nadu. Intorno a questi tre nodi si concentrano i due terzi delle aziende produttrici di software presenti in India e un terzo degli investimenti totali al livello nazionale138. È importante ricordare che in questi “centri di sviluppo della comunicazione digitale”, oltre alla presenza di aziende come la Oracle, gigante americano dei software che ha deciso d’investire in India per l’assunzione di 4 mila persone, emergono anche imprese indiane che stanno divenendo importanti attori mondiali. L’Infosys Technologies, per esempio, ha sviluppato una serie di attività e di servizi informatici che vengono offerti a banche (Citigroup), a compagnie aeree (British Airways, Swissair) e a ospedali occidentali139. L’India – come rileva lo studioso C. Jaffrelot – è il primo venditore di servizi nelle tecnologie informatiche e precede l’Irlanda e gli Stati Uniti. Nel subcontinente indiano gli investimenti sono pertanto indirizzati soprattutto verso i servizi nell’IT e i call center, ma anche verso le attività di ricerca e sviluppo in svariati settori. Sono molte le imprese transnazionali (Amazon.com e Citigroup, ad esempio) che esternalizzano (in outsourcing) parte del loro processo produttivo a società indiane, come quella sopra menzionata, oppure a società straniere come Dell computer e American Express, già insediatesi in India140. Va detto, peraltro, che sono di più le aziende del subcontinente che quelle statunitensi ad aver ottenuto il maggiore indice di qualità dalla Carnegie-Mellon University’s Software Engineering Institute (ossia, dal più prestigioso dipartimento universitario d’ingegneria informatica, sponsorizzato dal Dipartimento della difesa degli USA)141. Secondo un’indagine internazionale del 2001, oltre al vantaggio rappresentato dal basso costo del lavoro knowledge intensive, si deve considerare la qualità del lavoro in senso ampio che, in base alla sua connessione con il sistema formativo/educativo, costituisce il fattore competitivo più rilevante. Così, la qualità della struttura educativa può essere considerata, in ultima istanza, la conditio sine qua non per ottenere risultati nei settori ad alto contenuto di conoscenza142. L’India sta iniziando una nuova stagione in cui prevale una strategia exportlead (in cui dominano ancora le componenti del tessile e dell’agroalimentare). Al momento si punta ad aumentare dal 10 al 30% la quota del PIL derivante dall’export entro il 2005, con un terzo che dovrebbe provenire dal settore dell’ICT. Per realizzare questo obiettivo, all’India non manca la principale risorsa: più del 50% di laureati, diplomati nei migliori istituti d’informatica al livello internazionale, che sono attualmente residenti in India143. Inoltre, sembra che il subcontinente stia facendo i primi passi per costituire delle «Zone Economiche Spe-


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ciali» sul modello cinese: si tratta di aree che hanno avuto – secondo l’UNCTAD – più successo delle «Zone Specializzate per l’Esportazione» nel promuovere il commercio e attirare capitali. Per comprendere questo Paese e le sue dinamiche socioeconomiche nello spazio geografico, è tuttavia importante tenere sempre presente i numerosi problemi (fame, analfabetismo, concentrazione della proprietà terriera, rete debole di infrastrutture elettriche, stradali e ferroviarie ecc.) che affliggono l’India e la sua gente. Si tratta non a caso di regioni dai forti contrasti: «le strade intorno a Bangalore sono così malandate che Norayana Murty, responsabile di Infosys, […], ha preso pala e piccone e ha trascorso un’intera giornata a tappare i buchi dell’autostrada che unisce la capitale a Hosur»144. Va detto, infine, che sulla base di indicatori di sviluppo socioeconomico, come quelli sulla povertà e sull’alfabetizzazione, l’India è divisa in due grandi regioni: nella parte nord-orientale (gli Stati dell’Uttar Pradesh, del Bihar, dell’Orissa e del Madhya Pradesh) vivono più della metà dei poveri dell’Unione indiana, mentre, per contrasto, in quella occidentale e del sud il reddito pro capite è all’incirca di due/tre volte superiore. Disuguaglianze spaziali si registrano anche per molti altri indicatori, come i livelli d’istruzione e il consumo d’energia elettrica145. La dinamica cinese e le sue regioni La Cina, il Paese più popolato del mondo (1 miliardo e 300 milioni di abitanti su una superficie di circa 9,5 milioni di kmq), ha indubbiamente dimostrato un capacità di ristrutturazione economica lungimirante ed efficace, che, per tanti analisti, giornalisti e persino studiosi, non era immaginabile. Al riguardo, il giornalista Sandro Viola, nella presentazione a un recente libro sulla Cina146, scrive con estrema onestà: «Quante volte, noi che ci occupavamo della Cina, abbiamo scritto sciocchezze. Quanti documenti del Pentagono sulla situazione cinese, o atti di seminari accademici, traboccavano di previsioni sballate (…)» [sul tracollo e il disfacimento delle strutture politiche e economiche cinesi]. Crediamo pertanto che sia utile approfondire la dinamica economica cinese più recente, al fine di cogliere alcune tendenze geografico-economiche nell’ICT, benché alcuni importanti risultati della politica macroeconomia di questo Paese siano già stati introdotti in precedenza (cfr. cap. II, par. 2), Nel mese di ottobre 2003, la bilancia commerciale cinese ha fatto registrare un surplus di 5,7 miliardi di dollari, con un aumento dell’esportazioni del 37% rispetto all’ottobre del 2002. Seguendo questa via, le imprese di origine cinese hanno aumentato le proprie quote di mercato a scapito di quelle americane ed europee, le quali, in compenso, hanno visto incrementare in modo significativo, come il Giappone, le merci vendute nel mercato cinese147. Seppure dal 1994 ad oggi, «solo il 35% delle esportazioni cinesi è stato realizzato da aziende domestiche, mentre il restante 65% è stato prodotto da società d’oltremare»148, non va dimenticato che molte società globali che investo-


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no e fanno profitti in Cina – dopo che sono riuscite gradualmente a entrare – reinvestono all’interno del Paese149. La Cina è tuttavia afflitta da numerosi problemi, come la diffusa violazione dei diritti umani150, l’incremento dell’inquinamento atmosferico, idrico, pedologico e l’eccessiva dipendenza energetica dal carbone (che soddisfa il 76% del fabbisogno nazionale)151; senza dimenticare, poi, la presenza di enormi sacche di povertà, soprattutto nelle regioni rurali dell’Ovest e del Nord-Ovest152. Al livello nazionale e regionale le disuguaglianze socioeconomiche continuano ad acuirsi, anche se, nel contempo, spiccano azioni di pregio a sostegno delle realtà economicamente più svantaggiate. Se è vero, infatti, che circa 400 milioni di cinesi vivono nelle principali città e cittadine lungo la costa, ove si produce circa il 60% del PIL153 e di conseguenza si registrano dei redditi pro capite molto più alti della media nazionale, deve essere altresì ricordato che in Cina si è realizzata la più consistente riduzione della “povertà assoluta”, calcolata in base allo standard di un dollaro al giorno, da 358 milioni di poveri nel 1990 a 208 milioni nel 1997154. Questo straordinario risultato può essere in parte attribuito, tra le altre possibili spiegazioni, a un forte aumento degli investimenti pubblici effettuati soprattutto dalle autorità locali. La decentralizzazione degli investimenti pubblici è stata confermata nel 2002, quando quelli delle autorità locali sono aumentati del 30,9% rispetto al 2001, a fronte di un incremento dell’1,2% di quelli del governo centrale155. La crescita maggiore di investimenti pubblici si è verificata proprio nelle regioni meno sviluppate (Gansu, Guizhou, Shaanxi, Hunan, Jiangxi, Mongolia interna e Shanxi), che hanno fatto registrare un aumento del 50% tra il 2001 e il 2002, contro il 23,6% al livello nazionale156. I rapidi processi d’agglomerazione e concentrazione di ricchezza nelle aree costiere hanno continuato ad alimentare, tuttavia, un fenomeno migratorio che, negli ultimi 15 anni, ha coinvolto tra i cento e i duecento milioni di persone157 – un movimento interno allo Stato cinese (nord-sud, ovest-est) che potrebbe essere equiparato ai migranti transnazionali calcolati al livello mondiale. Ricordando la schematicità degli aspetti analizzati in questa sede e andando oltre le facili mitizzazioni, ci interessa porre in evidenza il ruolo che l’immenso Paese ricopre nelle nuove dinamiche industriali (con particolare attenzione ai mercati tecnologicamente avanzati). I dati dell’UNCTAD relativi all’anno 2002 mostrano che la Cina s’attesta al secondo posto, dopo il Lussemburgo, per quantità di investimenti diretti esteri ricevuti (53 miliardi di dollari). Se il dato del Lussemburgo è fittizio, per la presenza di molte imprese finanziarie internazionali – per cui molti investimenti sono in realtà di passaggio –, il dato della Cina è anche qualitativamente rilevante158. Gran parte degli investimenti diretti esteri, infatti, rimane concretamente nel Paese, generando quegli effetti di “crescita economica” ai quali abbiamo accennato159.


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Grandi compagnie ICT in Cina

Nel 2000, la transnazionale d’origine statunitense Motorola ha deciso di costruire una grande fabbrica per la produzione e la progettazione di microchip nel porto di Tianjin. (Si trattava del maggiore investimento straniero mai effettuato in Cina, 3,4 miliardi di dollari). Una scelta che è derivata, in particolare, dagli ottimi risultati che il gigante americano ha realizzato nel Paese (il 10% dei profitti globali di Motorola nel 1999) [F. Sisci, Chi vince in Cina vince nel mondo, in «I quaderni speciali di Limes», n. 1, Roma 2001, pp. 127-133]. In generale, il contesto politico ed economico ha fornito maggiori certezze nella valutazione delle aspettative che guidano gli investimenti. È talmente importante entrare nel mercato cinese dei chip, il più grande del mondo, che anche la Formosa Plastics, la più forte impresa di Taiwan del settore, nonché gigante mondiale, ha realizzato una fabbrica a Shanghai. Nel macrosettore delle telecomunicazioni, sia hardware, sia software, si moltiplica, dunque, la partecipazione dei soggetti privati, domestici e transnazionali, in interazione continua. La Siemens tedesca, ad esempio, ha realizzato circa cento joint venture all’interno del paese. Va detto, poi, che il settore della progettazione e della produzione industriale hardware è quello che risulta più congeniale alle dotazioni interne (in Cina operano, tra le altre, Ericson, General Elettric, Hyundai Electronics, Intel, Microsoft, Sony, ecc.) [UNCTAD, Worldinvestment Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003]. Non va dimenticato, infine, che tali aperture nel settore dell’ICT rimangono combinate a un apparato di controllo centralistico, che, nonostante tutto, accetta la presenza di grandi portali internet, i quali favoriscono a loro volta la circolazione di idee, informazioni e conoscenze prodotte nelle diverse regioni del mondo. A eccezione delle questioni politiche, la normativa di riferimento è stata infatti significativamente alleggerita: per quanto riguarda le televisioni, all’emittente centrale (CCTV) si affiancano centinaia di TV locali, che possono produrre i propri programmi senza tuttavia acquistare all’estero (anche se non mancano evidenti e ulteriori passi di apertura) [F. Sisci, art. cit.].

Dalla fine degli anni Settanta, il flusso crescente di tali investimenti verso la Cina ha riguardato imprese disposte a trasferire tecnologie avanzate oppure a produrre nel Paese a livello tecnologico medio-basso per poi riesportare. Gli investimenti privati provenienti dall’estero sono stati realizzati, peraltro, da due grandi tipologie societarie: la prima è rappresentata dalle filiali delle corporation transnazionali provenienti dai Paesi guida del capitalismo mondiale, mentre la seconda è costituita dall’elevatissimo numero di piccole imprese delocalizzate dai Paesi di Nuova Industrializzazione160. Ovviamente, le strategie di questi due modelli d’impresa differiscono molto le une dalle altre.


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Le piccole imprese, che non sono in grado di realizzare estese sinergie come le global corporations, prediligono l’insediamento vicino ad altre aziende e nell’ambito di aree culturalmente simili (importanza della prossimità geografica). La loro strategia organizzativa è poi orientata, in modo prevalente, a valorizzare il vantaggio competitivo derivante dal basso costo della manodopera, a sua volta garantito dal fatto che si trovano a operare nell’ambito di mercati in espansione161. Le grandi corporation, invece, privilegiando soprattutto il rapporto con il governo centrale per ottenere il superamento delle barriere all’esportazione, si orientano verso la produzione di beni diversificati e ad alto contenuto tecnologico e investono in capitale fisso e manodopera qualificata162. Naturalmente questa struttura produttiva “straniera” di recente formazione, forgiata da politiche in grado di attirare e organizzare gli investimenti, ha dato un forte impulso anche all’affermazione di imprese locali che nel giro di pochi anni sono diventate importanti corporation mondiali. Ricordiamo, ad esempio, il gruppo TCL Corporation, che produce apparecchi televisivi, lettori Dvd, telefoni cellulari e computer portatili, o la Lenovo, con sede a nord di Pechino, che occupa il terzo posto nella graduatoria mondiale dei produttori d’informatica al consumo, controllando più del 25% del mercato cinese davanti all’IBM e alla Dell computer163. Il tessuto produttivo cinese risulta così molto articolato e diversificato: insieme ai gruppi d’aziende ad alta tecnologia, concentrate soprattutto nelle «Zone Economiche Speciali» (Shanghai, Pechino, Zhejiang, Guandong) e in quelle chiamate a «Sviluppo Economico e Tecnologico», vi sono anche imprese di piccole dimensioni che operano con dotazioni tecniche molto “arretrate”. La collocazione di unità d’imprese transnazionali in queste «Zone», distribuite in prevalenza al sud164, si spiega, oltre che con motivi politico-economici (vige un sistema normativo più permissivo, in cui molte barriere tariffarie sono state eliminate), con ragioni sostanzialmente geografiche. Si tratta infatti delle regioni più ricche d’acqua dolce e vicine a importanti città commerciali e portuali. Il ruolo del software libero nei nuovi movimenti di tecnologia Una delle forze più significative nel determinare le nuove dinamiche tecnologico-spaziali va ricercata – come accennato in precedenza – nella capacità di espansione autonoma delle tecnologie dell’informazione (ormai funzionali all’organizzazione produttiva in ogni settore dell’economia). Per espansione autonoma intendiamo la possibilità, data dall’information technology, di accedere alla conoscenza a bassi costi – con la possibilità di produrre delle tecnologie senza trasferimento – e di migliorare localmente la capacità di sviluppo ingegneristico-informatico in funzione di bisogni territorialmente definiti. L’auto-espansione, caratteristica insita nei meccanismi di funzionamento delle nuove tecnologie, è stata ed è incentivata in modo sostanziale dal movi-


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mento internazionale per il “software libero” (open-source), il cui precursore è stato Richard Stallman nella metà degli anni Ottanta165. Grazie al suo lavoro e a quello di altri hacker, Linus Torvalds ha potuto sviluppare, e in parte inventare, il sistema operativo Linux, che sta divenendo alternativo a quello di Microsoft (società che, come è noto, detiene una posizione di monopolio nel mercato dei software)166. Negli ultimi anni, alcuni giganti come IBM, HP e Oracle hanno deciso di adottare Linux (come i governi di Francia e Germania), sia per contenere il dominio di Microsoft, sia per sviluppare sistemi e programmi informatici più efficienti e adattabili alle diverse esigenze dell’impresa o, nel caso dei governi, dell’economia e della società al livello nazionale167. Anche altre grandi aziende, come Apache, Amazon.com e la Cisco (solo per fare alcuni esempi, dato che in quasi il 30% dei grandi computer aziendali è stato installato Linux), stanno facendo esperienza con il sistema operativo e i programmi Linux, a dimostrazione dell’importanza del software libero, sia sotto il profilo socio-culturale (favorisce l’accesso all’informazione e alla conoscenza) sia sotto quello strettamente economico (non è coperto da brevetti). Una versione di Linux (SuSE) realizzata da una piccola azienda in Germania ha ottenuto, inoltre, la certificazione di sicurezza da parte della più prestigiosa istituzione governativa statunitense che opera in questo campo (la Common Criteria). Un certificato che è stato concesso dopo un anno di esami e il pagamento di mezzo milione di dollari168. Gli effetti più interessanti della diffusione dei software open-source riguardano, peraltro, i benefici per i Paesi in Via di Sviluppo. Le strutture pubbliche di questi Paesi (ma anche quelle private locali) per l’istruzione, la sanità e le attività governative non potrebbero mai, infatti, affrontare i costi per pagare le innumerevoli licenze che detiene Microsoft, se non tramite un ulteriore processo d’indebitamento. Oltre a far risparmiare soldi, i “software liberi”consentono di adattare i programmi alle diverse esigenze esistenti in loco – come nel caso dell’uso di vecchi PC o della traduzione in lingue minoritarie – permettendo ai programmatori locali di sviluppare i propri sistemi di computer nella direzione dell’indipendenza hi-tech169. Non è un caso che l’Agenzia di Stato per l’Information Technology del Sudafrica abbia dichiarato, nel gennaio del 2003, di spostarsi sull’open-source al fine di risparmiare miliardi di dollari l’anno. Oppure che la città di Porto Alegre (Brasile), per le stesse ragioni, abbia adottato diffusamente – università, scuole, municipio ecc. – i software Linux verso la fine degli anni Novanta (come è avvenuto in altre realtà brasiliane, indiane e cinesi). In Cina la possibilità di essere spiati dal governo americano con il cosiddetto back doors built sta aumentando la popolarità dei software liberi locali170. In conclusione ricordiamo che il programma open source non si può vendere, ma lo si può utilizzare in modo gratuito (per incrementare l’interconnessione tra le reti produttive e di servizio interne alle grandi corporation e, soprat-


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tutto, alle piccole aziende) e modificare liberamente (per risolvere quanti più problemi possibile in base alle singole esigenze)171. Tutto ciò riguarda sia coloro che non lavorano propriamente nella produzione di software, sia coloro che invece vi investono direttamente per produrli. In quest’ultimo caso i profitti derivano dal fornire tutta una serie di servizi all’utente-cliente, al quale si propongono i programmi informatici open source. Questi servizi concernono, ad esempio, l’ideazione di programmi specifici, la consulenza sul loro uso e la produzione di manuali.


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Capitolo quarto

Conclusioni teoriche

4.1 Sviluppo ineguale e relativi limiti teorici Il sistema economico mondiale si presenta come un insieme di reti informazionali, commerciali e produttive in movimento, che si fondano, in modo sempre più marcato, su un complesso mosaico di macro e micro regioni (non tutte dotate dello stesso grado di visibilità). Anche se la dinamica economica reticolare è espansiva, essa si riproduce, nel contempo, in modo accentuatamente diseguale e polarizzato; ossia, aumentano i nodi (hubs) su scala globale, con un incremento del processo di polarizzazione metropolitana e di agglomerazione172, senza che cresca in modo significativo la partecipazione da parte delle varie società (cfr. saggio introduttivo). Tra le maglie di questo insieme di reti s’individuano, infatti, dei «buchi neri», che sono localizzati prevalentemente nell’Asia centrale, in molte regioni interne dell’America Latina e in quasi tutta l’Africa (un vero e proprio apartheid tecnologico-informatico – cfr. par. 2.3). In quest’ultimo continente, in cui vive il 12% della popolazione mondiale, il reddito è drammaticamente caduto proprio nel decennio 1990-2000173. Inoltre, fra la metà degli anni Ottanta e degli anni Novanta, come documenta lo Human Development Report pubblicato dalle Nazioni Unite nel 1996, la povertà urbana, la crisi dell’agricoltura (quella di sussistenza, in particolare), la disgregazione istituzionale, la violenza diffusa e i massicci movimenti di popolazione si sono sommati tra loro, aggravando notevolmente le condizioni di vita di gran parte della popolazione africana174.

Ma l’Africa non è priva di nodi regionali/globali. In generale, semplificando molto, possiamo distinguere fra tre ordini di hub al livello mondiale: quelli dell’innovazione hi-tech (con i suoi lavoratori altamente qualificati e specializzati), appartenenti alla geografia dell’information technology; quelli degli impianti industriali nell’hinterland dei vari centri urbani (con la manodopera poco qualificata del vecchio e nuovo proletariato urbano); e infine quelli delle risorse naturali (giacimenti petroliferi/minerari, aree ricche di biodiversità ecc.), che si trovano nelle zone più conflittuali e povere del mondo, sulle cui dinamiche molto si deve ancora indagare e documentare. Allargando ulteriormente questo terzo ordine di hub, potremmo far rientrare anche tutti i terri-


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tori ove si realizzano quelle innovazioni agroecologiche che rappresentano delle concrete alternative alla miseria di chi vive nei «buchi neri» del sistema globale. Resta il fatto che Hong Kong, Taiwan, Singapore, Seul, il Messico centrale, Bangkok, Pechino, Guangzhou, Kuala Lumpur e altri spazi urbani, in cui è enormemente cresciuto il reddito medio pro capite, sono pervasi, in maniera diversa, da disuguaglianze interne, rappresentando, in ultima analisi, una ristretta minoranza della popolazione mondiale. Alla scheletricità dei sistemi regionali e di quello globale contribuisce, inoltre, la finanziarizzazione dell’economia e la concentrazione e il controllo della conoscenza “scientifica” (economicamente utile), nonché la frammentazione e la riorganizzazione dei processi produttivi. È importante monitorare i trasferimenti di tecnologie al livello globale, le asimmetrie da essi prodotte e le correlate dinamiche di inclusione/esclusione di luoghi e di gruppi umani. Purtroppo, però, bisogna registrare un’enorme falla della teoria economica di fronte alla questione dello «sviluppo ineguale», che, dopo tutto, è l’unico modo attraverso cui il processo economico ha sempre funzionato, tanto al livello regionale, quanto al livello globale. Scrive Allen J. Scott, che nel suo lavoro sulle regioni economiche mondiali utilizza spesso le categorie analitiche della teoria esistente: Sia che si segua il paradigma neoclassico […] o le dottrine sulla teoria della dipendenza […] o le nozioni attuali sull’industrializzazione orientata all’esportazioni, dobbiamo sempre confrontarci con la realtà empirica per cui la crescita si realizza in modo più intenso in alcuni luoghi rispetto ad altri ed è principalmente, anche se non esclusivamente, un fenomeno urbano175.

Effettivamente, quando si vuole affrontare la spiegazione della forma ineguale dello sviluppo, emergono all’interno della scienza economica dei rilevanti limiti teorici – non è un caso che ci siamo più volte riferiti a un sociologo come Castells – soprattutto per quanto riguarda le teorie del commercio internazionale incentrate sul principio dei vantaggi comparati176. Una recente critica di Vittorangelo Orati177 ci fornisce un aiuto per il ripensamento teorico di tali problemi. Secondo questo economista, difatti, l’analisi empirica non ha ancora un solido fondamento nella teoria economica (sia nella sua forma ortodossa dominante, classica e neoclassica, sia nella letteratura eterodossa sullo «sviluppo ineguale»)178. I vari filoni della teoria economica internazionale, in realtà, non fornirebbero modelli dinamici soddisfacenti (rimanendo ancorati ad approcci statico-comparativi). Tale critica si concentra sull’incapacità di tutta la teoria di spiegare tre grandi questioni del processo economico: primo, l’andamento diseguale del processo d’accumulazione capitalistica nel tempo; secondo, il passaggio da una condizione d’autarchia al libero scambio; terzo, la dinamicità del rapporto sviluppo/sottosviluppo.


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Queste carenze esplicative sarebbero dovute a un attaccamento generalizzato alla «regola ricardiana» dei costi e dei vantaggi comparati, che, secondo Orati, non consente di avvicinarsi alla realtà: essa ipotizza e non spiega lo scambio e trascura completamente il cambiamento tecnologico, considerando solo il fattore lavoro. Così, se la teoria degli ortodossi – l’interpretazione statica del modello ricardiano fornita da Hecksher-Ohlin – è lontana dalla realtà, gli sforzi degli eterodossi, come A. Emmanuel e S. Amin, che hanno tentato di definire un’alternativa teorica, hanno prodotto analisi più realistiche, ma prive di un coerente impianto concettuale179. La critica di Orati è tesa peraltro alla produzione, con gli strumenti interni alla disciplina, di una nuova teoria del commercio internazionale che contempli un «protezionismo illuminato»: una sistematizzazione intellettuale in cui l’innovazione tecnologica e lo sfruttamento del lavoro sintetizzino l’approccio schumpeteriano con quello marxiano. (In quest’ottica è necessario riaffermare la dignità teorico-empirica del lavoro di Friedrich List sul protezionismo a difesa delle industrie nascenti; un lavoro che ha fornito tante importanti intuizioni alle moderne teorie dello sviluppo regionale – come ci ricorda A.J. Scott). L’apprezzabile sollecitazione di Orati può trovare, a nostro avviso, un utile complemento nella prospettiva interdisciplinare di Georgescu Roegen. Quest’ultimo, con maggiore profondità epistemologica, ha tentato di contribuire al superamento dei limiti propri della scienza economica tramite la radicale messa in discussione dell’immanente dominio delle leggi della meccanica in economia. Richiamando alcune intuizioni di grandi pensatori come Malthus, Marx, Marshall e Chamberlin, Georgescu ha posto in evidenza proprio l’affinità dell’economia alla biologia, piuttosto che alla meccanica. Egli ha sostenuto, dimostrandolo, che «anche se i problemi connessi con l’attività esosomatica (tecnologica in senso ampio) non sono tutti di natura puramente biologica, i più profondi lo sono»180. Con i suoi studi, Georgeascu ha così aperto la strada a una visione fluida, interagente e unitaria del rapporto fra economia e natura. Lo sforzo intellettuale di Orati nasce dall’insoddisfazione delle teorie meccaniche del commercio internazionale, che, sulla mera base dei prezzi relativi (e non assoluti), pretendono di spiegare il raggiungimento dell’equilibrio negli scambi commerciali tra Paesi (condizione che nella realtà non si realizza) sulla base di quel processo che in realtà ipotizzano (l’apertura d’una economia). Tuttavia la sua critica utilizza gli strumenti della teoria economica, che lo portano a parlare di «meccanismo dello sviluppo ineguale». Inoltre, i limiti della sua proposta emergono dalla sua stessa affermazione secondo la quale la teoria da lui proposta «ha un suo proprio livello d’astrazione che deve essere abbassato per spiegare i mutamenti effettivi della divisione internazionale del lavoro, che in ogni caso non è congruente con la teoria main stream»181. Per dare un’ulteriore idea dell’incapacità di uscire fuori dalla gabbia dell’economia meccanicistica e per confermare l’importanza di far tesoro delle sollecitazioni appena richiamate, riportiamo due esempi di “riduzionismo” tratti


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dal pur interessante libro di Joseph E. Stiglitz (2002) sulla globalizzazione. Nel suo dettagliato e utile contributo sul funzionamento del Fondo Monetario Internazionale, Stiglitz non ci fornisce elementi teorici nuovi – come peraltro rileva lo stesso Orati – al di fuori della teoria neoclassica del commercio internazionale. Rimanendo prigioniero dell’approccio “crescita-sviluppo”, egli giunge ad affermare, per esempio, che «se da una parte l’apertura del mercato del latte giamaicano alle importazioni dagli USA, decisa nel 1992, può aver danneggiato gli allevatori di bovini locali, dall’altra ha fatto sì che i bambini poveri potessero usufruire di latte più a buon mercato»182. Come se i bambini (economicamente indipendenti?) e gli allevatori di bovini fossero entità astratte, tra loro sconnesse e su un piano socioeconomico irrilevante rispetto a quello della mera attenzione ai “prezzi”. Inoltre, scrivendo di proteste sociali provocate dall’introduzione di centri di distribuzione della Wal Mart183, Stiglitz ricorda ingenuamente che «sebbene siano legittime [preoccupazioni e proteste], occorre sempre ricordare come mai Wal Mart abbia tanto successo: vende i prodotti a prezzi più bassi […]» e via dicendo con la distribuzione più efficiente per chi vive ai limiti della sussistenza184. A questo punto ci chiediamo: è possibile ridurre le preoccupazioni e le proteste sociali di chi vive ai margini della società a una questione di prezzi (tra l’altro resi possibili, nel caso Wal Mart, da condizioni di lavoro di vero e proprio sfruttamento anche negli USA)185, senza minimamente considerare il contesto? Sia sufficiente ricordare che in condizioni di povertà si sopravvive se si riesce a garantire l’accesso alle risorse naturali per l’autoproduzione (base economica di un’enorme quota di agricoltori in Asia, Africa e America Latina) e/o se si riesce a ottenere un minimo reddito dall’allevamento, dalla piccola coltivazione o da qualsiasi altro lavoro, che, comunque, difficilmente forniscono più di un dollaro al giorno. Diversamente, l’approccio appena ricordato, del tipo “distruggo la tua struttura economico-sociale, ma in cambio ti offro prezzi migliori”, è così paradossale da sembrarci folle186.

4.2 Il contributo di Marx Da Schumpeter a Marx (andando un po’ a ritroso) L’analisi svolta finora ha potuto dimostrare quanto importanti siano stati alcuni dei concetti basilari del quadro teorico sviluppato da Schumpeter (come innovazione e “trustificazione”). In particolare, la centralità dell’innovazione tecnologica nella dinamica di un dato sistema economico è uno degli argomenti per cui viene giustamente ricordato questo studioso. Se Schumpeter ha parlato di tecnologia in senso ampio in relazione alla funzione di produzione, Marx le aveva attribuito un significato ancora più esteso. Egli infatti interpreta le tecnologie come un processo sociale in cui si realizza il «ricambio organico tra uomo e natura» – un ricambio che con il dominio della tecnologia si distorce e diventa sempre più difficile da individuare187.


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Nathan Rosenberg, che ha indagato a fondo il rapporto fra tecnologia ed economia, ha dimostrato che Marx «fu un attento studioso di tecnologie» e che proprio da ciò dipende la fecondità del suo studio sul cambiamento sociale188. Premesso ciò, crediamo che una schematizzazione del contributo di Marx in tale campo possa offrirci ulteriori strumenti teorici a sostegno di quell’approccio metodologico ampio che abbiamo seguito lungo questa trattazione. La critica alla tecnologia Collegandoci alle precedenti considerazioni sul “software libero”, relative ai vantaggi auspicati e qualche volta realizzati tramite un uso critico delle tecnologie informatiche (come l’accesso alla conoscenza, la cooperazione allargata e il controllo virtuoso della tecnologia o di una sua parte, lì dove viene fruita), rileviamo come lo stesso Marx abbia criticato la tecnologia non in sé, ontologicamente, ma per l’uso che ne veniva fatto dal capitalismo (ovvero, per «la forma sociale del suo sfruttamento»). Nel tredicesimo capitolo del Capitale questa tesi emerge chiaramente, in particolare nell’analisi del passaggio graduale dalla manifattura alla grande industria, «il sistema di fabbrica moderno». Nella manifattura – scrive Marx – domina «il corpo lavorativo sociale» che si pone come soggetto di fronte «all’automatismo meccanico che appare suo oggetto»; nella grande industria, invece, «l’automatismo del sistema delle macchine è il soggetto», mentre gli operai si trasformano in ingranaggi del sistema automatico (diventando in qualche modo essi stessi l’oggetto dell’elemento tecnologico dominante: processo di reificazione)189. Dall’esame attento che Marx ha fatto dell’evoluzione del sistema capitalistico, emerge, inoltre, l’annuncio (sicuramente d’anticipo rispetto ai tempi) del grande capovolgimento dei mezzi (della tecnologia) in fini. Scrivendo di Marx, il filosofo Umberto Galimberti spiega con chiarezza che Abolendo i fini e autonomizzando quelli che, al tempo del primato della natura, erano i mezzi, la logica del mercato dischiude quello scenario che prevede il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore, perché, in un processo di totale reificazione, è la cosa a definire l’uomo, che così risulta oggettivato e istituito dal genere della propria attività, la quale, a sua volta, non è più ricambio organico con la natura, ma pura produzione di merci, che non solo conducono vita autonoma rispetto ai bisogni umani, ma definiscono, attraverso la loro circolazione, il senso dell’attività umana e il valore delle cose190.

Il metodo d’analisi La reciprocità fra l’ampiezza del ragionamento di Marx e la consistenza filosofica che ne è derivata (e che ha alimentato il suo lavoro scientifico) non trova giustizia nella critica di determinismo tecnologico che in passato è stata sollevata da alcuni suoi studiosi191. Tale tesi decade, infatti, quando di Marx si prenda attentamente in considerazione il metodo di analisi dialettico (tramite il quale ogni cosa è vista come il risultato di una reciproca azione/reazione di tutti i fat-


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tori coinvolti) e la centralità del processo storico (il cui andamento è caratterizzato da periodiche discontinuità). Per dare una parziale idea della gradualità e spontaneità, ma anche della mutabilità brusca e turbolenta del processo di sviluppo del sistema capitalistico secondo Marx, proviamo a fornire una piccola esemplificazione. Il lavoro artigianale è stato sostituito nel corso del processo d’industrializzazione capitalistica dalla manifattura, che a sua volta è stata sostituita dalla grande industria (sussunta, nel XX secolo, dapprima dalla internazionalizzazione e poi dalla transnazionalizzazione delle imprese negli ultimi venti anni). In questo processo Marx ha rilevato che nel periodo della manifattura le macchine si basavano quasi sempre su princìpi comuni ai precedenti strumenti artigianali, cui seguirono modificazioni tecniche continue, più o meno graduali. Proprio nella manifattura, infatti, hanno iniziato a svilupparsi le prime macchine per la grande industria; e ciò è andato avanti finché non si sono create le condizioni per produrre, nella fabbrica, delle macchine per la produzione di altre macchine. Aumentando il numero delle invenzioni e richiedendosi con nuova intensità macchine di nuova invenzione, s’è andata sempre più sviluppando da un lato la ripartizione della fabbricazione di macchine in vari rami indipendenti, dall’altro la divisione del lavoro all’interno della manifattura di macchine. Per questo è possibile vedere nella manifattura la diretta base tecnica della grande industria192.

È necessario tuttavia fare attenzione alle letture che interpretano in modo unilineare lo schema di sviluppo marxiano. Il fatto che si individuino cambiamenti che portano a un nuovo modo di produzione (che diventerà dominante), non significa assolutamente che non possano convivere più modi di produzione tra loro interagenti (condizione da considerarsi, anzi, una costante di ogni epoca storica)193. Per di più, lo stesso Marx scrive che: Metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo… è insieme farmi troppo onore e troppo torto194.

Tecnologie come processo sociale e come forma di relazione con la natura La nostra attenzione alle dinamiche, agli ambiti e ai contesti territoriali è strettamente connessa all’evidenza che le invenzioni (e ancor di più le innovazioni) siano dei processi sociali caratterizzati da varie forme di rapporto tra l’uomo e la natura, e non «lampi di genio di una singola mente». Nello studio che abbiamo citato, Rosenberg riporta alcune acute considerazioni di Abbott Patton Usher195, di cui ci piace riprendere quella secondo la quale «non è necessario spiegare l’atto finale d’intuizione; si tratta di spiegare come viene allestita la scena per giungere alla soluzione del problema individuato».


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In quest’ottica, per Marx la tecnologia è un’importante chiave di lettura per rendere intelligibili le relazioni tra gli uomini e tra loro e la natura. Dopo aver sostenuto l’importanza di dedicarsi all’elaborazione di una «storia critica della tecnologia», nella quale la parte del singolo individuo in un’invenzione risulta, a suo dire, piccolissima, Marx rileva un altro importante modo di intendere la tecnologia: la tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura, l’immediato processo di produzione della sua vita, e insieme ad essi mette in luce pure l’immediato processo di produzione dei suoi vitali rapporti sociali e delle idee dell’intelletto che da essi provengono196.

E ancora: Nel suo produrre, l’uomo può agire solo come la stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali. Ancor di più: in questo lavoro egli è costantemente aiutato da forze naturali197.

L’uomo, agendo tecnicamente (tramite i mezzi di produzione), umanizza, cambiandolo, l’ambiente naturale nel quale insiste ed esiste; così facendo modifica la sua essenza, che, proprio per mezzo di questo immane ricambio organico con la natura, non è mai immutabile198. Alla luce di queste considerazioni conclusive si dovrebbe capire meglio perché, ancor oggi, sia quanto mai necessario risalire ai “classici”199 per ridare un senso e un ruolo più autentico alla teoria nelle scienze sociali. Ancora una volta l’auspicio più sentito è quello di aprire a un dialogo più sistematico con le scienze naturali. Una sfida particolarmente significativa per la costruzione di un nuovo sapere geografico, che, proprio nella capacità d’armonizzazione tra diversi saperi, può garantire quella migliore comprensione per aiutare a trovare e a sperimentare nuove soluzioni ai problemi dello sviluppo/sottosviluppo di cui abbiamo scritto. Note 1. Per un approfondimento sulla definizione di tecnologia si veda G. Panati, G. Golinelli, Tecnica industriale e commerciale, Roma, NIS, vol. 1, pp. 223-228. Per gli aspetti storico-filosofici sul tema della tecnica, senza distinzione fra tecnica e tecnologia, si veda U. Galimberti, Psiche e Techne, Feltrinelli, Milano 1999. 2. R. Maiocchi, L’evoluzione del significato di tecnica, in Istituto Geografico De Agostini, Grande Enciclopedia della scienza e della tecnologia, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1997, p. 1014. 3. Seguendo C. Freeman, possiamo distinguere, in generale, le innovazioni radicali o di sfondamento da quelle incrementali di miglioramento. 4. È necessario peraltro ricordare che diverse innovazioni radicali in agricoltura hanno sostenuto e reso possibile lo sviluppo del settore industriale manifatturiero. Ciò è tanto più evidente se si considera che, in generale, tra questi due macro-settori vi è sempre stata una continua interazione.


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5. L’elaborazione dei concetti schumpeteriani di nostro interesse, formulata in questo primo paragrafo, fa riferimento a due opere fondamentali di J. Schumpeter: Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1912), trad. it. Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze 1971, e Business Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process (1939), trad. it. Il processo capitalistico: cicli economici, Bollati Boringhieri, Torino 1977. Va ricordato che le prime teorie cicliche dello sviluppo si devono al lavoro di Marx, su cui tra l’altro Schumpeter costruì la propria. La differenza fondamentale tra i due grandi economisti è costituita dal fatto che, mentre per Marx lo sviluppo capitalistico si basa sull’estrazione di plusvalore in relazione, soprattutto, all’aumento dello sfruttamento del lavoro (cui l’impiego delle «macchine» è funzionale), per Schumpeter esso dipende soprattutto dall’innovazione. Al riguardo si veda P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Laterza, Bari 1970, cap. II. 6. Come egli stesso sottolinea con veemenza, la sua costruzione teorica è saldamente ancorata alla ricerca storica. Per questo motivo, i modelli analitici sull’evoluzione ciclica di un sistema economico, da lui formulati, saranno a suo parere rimessi in discussione dalle progressive trasformazioni del contesto storico-economico di riferimento. 7. Come si evince dal cap. XIII de Il Capitale di Karl Marx, gli strumenti semplici o complessi per la produzione hanno conosciuto un continuo perfezionamento. Un perfezionamento che è spesso avvenuto in maniera molto lunga: si pensi che la prima macchina a vapore è stata inventata nel XVII secolo, anche se quella di Watt, cui si fa sempre riferimento per il suo ampio impiego rivoluzionario, risale al 1780. 8. S. Lorusso, Tecnologia ed innovazione nei processi di produzione, Edizioni Kappa, Roma 1987. Va ricordato, inoltre, che l’evoluzione nel campo delle innovazioni industriali è quasi sempre da correlare a quella nel campo energetico. 9. Espressione quanto meno impropria. «Nel corso del XIX e all’inizio del XX secolo, i dazi doganali erano relativamente bassi in Francia e in Germania (attorno al 15-20%), mentre, fino al 1911, trattati rigidissimi bloccavano al 5% quelli del Giappone. In quegli stessi anni, le tariffe doganali medie sui prodotti industriali di Stati Uniti e Gran Bretagna si collocavano in una forbice tra il 40% e il 50%» (Ha-Joon Chang, Una frode storica: i vantaggi del libero scambio, in «Le Monde diplomatique», X, n. 6, giugno 2003). 10. Anche in questo caso, il ruolo fondamentale che Schumpeter riconosce al credito nella realizzazione delle innovazioni è un aspetto di gran rilevanza teorico-empirica. 11. P. Ortoleva, M. Revelli, Storia dell’età contemporanea, Mondadori, Milano 1993, pp. 33, 34. 12. Ivi. Solo con la catena di montaggio fordista (Henry Ford fu il primo a sperimentarla), che aveva per oggetto le macchine e non gli uomini, l’organizzazione razionale del lavoro umano si coniugò con quella delle macchine (…). Va detto, peraltro, che la nota espressione “organizzazione scientifica del lavoro” è stata funzionale al consolidamento della divisione verticale del lavoro tra controllati e controllori. A prescindere dalla pretesa “scientificità”, si trattava in realtà di conoscenza tecnica recuperata direttamente dall’esperienza degli operai. Si veda U. Melotti, Divisione del lavoro, organizzazione economica e classi sociali, Centro Studi Terzo Mondo, 1976. Infine, non deve essere trascurato il fatto che, come in altre fasi della rivoluzione industriale, fu nel settore agroalimentare che si applicarono in anticipo molte innovazioni: lo stesso Ford prese spunto dai macelli di Chicago per la sperimentazione della catena di montaggio. 13. I primi casi di forte speculazione finanziaria iniziarono nella seconda metà degli anni Venti del XX secolo, quando negli USA il «potere finanziario nel settore elettrico fu definitivamente sottratto all’industria manifatturiera» (Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, cit., p. 381). Nonostante ciò, nel complesso vi era circolarità fra flussi di merci e flussi di capitali finanziari. 14. P. Ortoleva et M. Revelli, op. cit., p. 36. 15. N.G. Fradkin et Ja.G. Masbic, La società capitalistica, in Istituto di Geografia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, C˘elovek, obs˘cestvo i okruz˘ ajus˘ c˘ aja sreda (1973), trad. it. G. Cotti-Cometti, L’Uomo, la Società e l’Ambiente, Cesviet, Milano 1977, p. 64.


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16. Ivi, p. 67. 17. S. Amin, Verso una nuova crisi strutturale del capitalismo?, in «Terzo Mondo», VII, n. 24-25, giugno-settembre 1974, pp. 9-34. 18. Tra i fornitori delle principali materie prime ricordiamo: l’India e le regioni dell’Asia centro meridionale per seta, iuta e cotone; l’America del Sud per stagno, rame, cacao, pelli, carni e lana; l’Africa per oro, lana, cotone, arachidi, gomma arabica, avorio, diamanti; l’Australia per lana, grano ecc. Naturalmente regioni più ricche facevano la parte del leone, come ad esempio il Madagascar per pelli, zucchero e vaniglia. 19. Più in particolare, possiamo dire che l’ingrandimento dell’impianto, grazie allo sviluppo di un’innovazione, consente di aumentare anche l’efficienza dell’organizzazione del lavoro, fino a tendere a un livello di utilizzo ottimale degli input produttivi (cfr. G. Rodano, E. Saltari, Lineamenti di teoria economica, NIS, Roma 1994, pp. 135-138). Tuttavia, con l’aumentare della grandezza dell’impianto possono insorgere delle diseconomie di scala di tipo manageriale (ivi, p. 138) o di tipo ambientale (che sono connesse alla congestione complessiva dello spazio industriale). Così sono proprio le diseconomie, e i conseguenti fenomeni di decentramento, a favorire la diffusione geografica dell’industria. 20. Cfr. Istituto di Geografia dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, op. cit., p. 62. 21. Il rapporto tra le fasi d’estrazione, di produzione e di distribuzione. 22. Fenomeni simili, per le cui differenze si veda S. Conti, L’industria manifatturiera, in S. Conti et al. (a cura di), Geografia dell’economia mondiale, UTET, Torino 1993, pp. 170-173. 23. G. Myrdal nel 1957 e A.O. Hirschman nel 1958 furono i primi a interpretare lo sviluppo economico nella dialettica centro/periferia, anche se questo veniva fatto nell’ambito d’analisi sulle disuguaglianze socioeconomiche e territoriali interne alle economie nazionali. Al livello internazionale, invece, tali categorie analitiche rientrano in un’ampia tradizione marxista (si vedano ad esempio P. Sweezy, P.A. Baran, The Present as History (1953), trad. it. Il presente come storia, Einaudi, Torino 1962; P.A. Baran, The Political Economy of Growth, New York-London 1957; A.G. Frank, Lo sviluppo del sottosviluppo, in «Monthly Review», ed. it., n. 5-6, maggio-giugno 1968; S. Amin, op. cit.). 24. La questione del trasferimento di tecnologie è stata sollevata al livello internazionale dal documento di Lima (approvato da un gruppo di 96 Paesi del Terzo Mondo) alla vigilia della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo, che si tenne a Santiago del Cile nel 1972 (cfr. A. Castagnola, Da Algeri a Lima: le richieste dei Paesi sottosviluppati per la Terza UNCTAD, in «Terzo Mondo», VII, n. 24-25, giugno 1972, pp. 5-20). 25. U. Melotti, op. cit. 26. I. Wallerstein, Historical Capitalism with Capitalist Civilization (1995), trad. it. Capitalismo storico e civiltà capitalistica, Asterios, Trieste 2000, p. 111. 27. Ivi, p. 115. 28. G. Arrighi, Le relazioni Nord-Sud in una prospettiva storica mondiale, in «Nord e Sud», n. 4, 1989, pp. 123-132. 29. R. Vernon, International Investment and International Trade in the Product Cycle, in «Quarterly Journal of Economics», vol. 80, maggio 1966, pp. 109-207. 30. M.V. Posner, International Trade and Technical Change, in «Oxford Economic Papers», ottobre 1961, vol. 13. Questa teoria considera l’innovazione di prodotto in un dato Paese come l’evento che dà origine, dopo un arco di tempo breve, all’esportazione, a sua volta giustificata dal formarsi di una prima domanda nel Paese in cui non si è verificata l’innovazione. Dopo un ulteriore trascorrere del tempo, il flusso d’esportazione si ridurrà in ragione del processo d’imitazione avviatosi nel Paese importatore, fino a quando quest’ultimo non avrà raggiunto una condizione d’autosufficienza produttiva. Si veda V. Orati, Globalizzazione scientificamente infondata, Editori Riuniti, Roma 2003, cap. XI. 31. E. Ciciotti, Competitività e territorio, NIS, Roma 1993 (terza ristampa, 1997), pp. 68-73. 32. R. Gilpin, The Political Economy of International Relations (1987), trad. it. Politica ed Economia delle Relazioni Internazionali, il Mulino, Bologna 1990. 33. Ivi, pp. 313-314.


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34. S. Conti, op. cit., p. 192. 35. F. Eva, La crisi asiatica 1997-1999: solo crisi economica o anche crisi socioculturale?, in Dell’Agnese E. (a cura di), Geografia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, p. 36. 36. Ivi, p. 37. 37. M.T. Di Maggio Alleruzzo, Gli studi di geografi italiani sull’Asia Orientale, in Dell’Agnese E. (a cura di), Geografia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, p. 26. Inoltre in quegli anni le esportazioni di materie prime agricole dai PVS furono per la prima volta inferiori a quelle di manufatti (a conferma della diffusione spaziale dell’industria); sul versante del commercio ci fu, quindi, un’esplosione degli scambi di manufatti, che all’inizio degli anni Sessanta costituivano il 17% del valore totale delle esportazioni e all’inizio degli anni Ottanta arrivarono al 50% (S. Conti, op. cit., p. 197). 38. R. Gilpin, op. cit. 39. Ivi, p. 342. 40. Ibid. Per esempio Messico, Singapore, Hong Kong, Taiwan, Sud Corea, e poi Malaysia, Filippine, Thailandia, Indonesia e Cina. 41. Si veda M. Castells, L’informazionalismo e la network society, in P. Himanen, L’etica hacker e lo spirito della network society, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 117-132. 42. È importante tenere presente che il pianeta Terra è ancora ampiamente abitato da comunità rurali (la componente rurale della popolazione mondiale è superiore al 50%), che nella maggior parte dei casi vivono senza alcuna capacità d’accesso alle reti globali, se non indirettamente. 43. D. Infante, Innovazione, in Jedlowski P. (a cura di), Dizionario delle scienze sociali, il Saggiatore, Milano 1997, sub voce. 44. Cfr. box 2. Internet, in particolare, è stata una grande illusione collettiva che ha condizionato le opinioni di politici, economisti, uomini d’affari e una parte consistente dell’opinione pubblica mondiale. Al riguardo si veda L. De Biase, Edeologia. Critica al fondamentalismo digitale, Laterza, Roma-Bari 2003. 45. C. Antonelli, The Economics of Innovation, New Technologies and Structural Change, Routledge, Londra 2003. 46. Su questo argomento cfr. J. Rifkin, The Biotech Century, trad. it. Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano 1998; M. Buiatti, Le biotecnologie. L’ingegneria genetica fra biologia, etica e mercato, il Mulino, Bologna 2001. 47. J. Rifkin, op. cit., p. 305; si consiglia, in particolare, la lettura del capitolo “Il Dna nel computer”, che non lascia dubbi sul processo d’interazione e compenetrazione fra i due campi del sapere. 48. OECD, Information Technology Outlook, 2002. 49. J. Rifkin, op. cit., pp. 308, 309. 50. La coincidenza della rivoluzione dell’information technology con la ristrutturazione del capitalismo in senso finanziario, le difficoltà e il fallimento dello statalismo, i movimenti culturali e politici (anni Sessanta e Settanta) concentrati sull’esperienza più che sulla presa del potere, sono i fenomeni che sintetizzano, secondo Castells, la genesi storica dell’informazionalismo. 51. UNCTAD, World Investment Report 2003, United Nations, New York and Geneva 2003. 52. Seppure tale tradizione rimandi alla filosofia economica del laissez faire e della mano invisibile di matrice smithiana, cui spesso ci si riferisce in opposizione alla successiva fase di welfare, va sottolineato che lo Stato liberale veniva giustificato tradizionalmente per il suo ruolo funzionale e pragmatico, necessario ad arginare o bloccare le conseguenze dannose derivanti dalle condotte dei singoli. 53. T.J. Lowi, La scienza delle politiche, il Mulino, Bologna 1999, p. 125. 54. Sempre nei lavori di Lowi troviamo l’analisi dettagliata dell’evoluzione di quelle contraddizioni del pensiero e della prassi liberale che spiegano (almeno in parte) l’ascesa del pensiero neoconservatore negli anni Settanta. È in tale movimento che si rinvengono le versioni più estremizzate del liberismo economico (neoliberismo); un movimento che, insieme a una ideologia politica moralista (quindi antiliberale), vede lo Stato come lo strumento per imporre valori e princìpi per una “giusta condotta”, secondo la logica, purtroppo attualissima, del tipo


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“l’economia s’aggiusta automaticamente, mentre i popoli devono accettare le ‘guerre giuste e umanitarie’ necessarie per raddrizzare la condotta di singoli governanti”. Al riguardo si veda P. Krugman, Il grande bluff dei tagli alle tasse, in «Internazionale», X, n. 509, 10/16 ottobre 2003, pp. 30-37. Negli USA le riduzioni fiscali sono avvenute, negli ultimi 25 anni, soprattutto a favore delle classi più ricche. P. Ortoleva, M. Revelli, op. cit., p. 773. Si tratta delle linee guida del WTO, usate strumentalmente soprattutto dalle lobby economicofinanziarie mondiali e dagli stessi USA e UE per le proprie esportazioni verso il resto del mondo (al contrario, tali macroregioni proteggono strenuamente i propri mercati agricoli e tessili). Secondo alcuni calcoli, i Paesi poveri esportatori di materie prime perdono circa 20 miliardi di dollari ogni anno a causa delle barriere al commercio poste nei Paesi economicamente più influenti dell’OECD (una somma equivalente al 40% della spesa complessiva per l’assistenza allo sviluppo); cfr. W. Sachs, Rio+10 and The North South Divide, Heinrich Boll Foundation, Berlin 2001. Inoltre, USA e UE possono permettersi di sostenere una guerra commerciale, perché hanno le risorse per affrontare le costose procedure in seno al WTO. E infatti lo fanno: basti ricordare la condanna recente del WTO contro i dazi USA sull’acciaio, oppure le ormai note sanzioni pagate dall’UE per la chiusura nei confronti della carne (agli ormoni) americana. Più vulnerabili e incapaci di avviare procedure contro un Paese forte sono i Paesi in Via di Sviluppo e i Paesi emergenti, già profondamente penalizzati da rapporti commerciali sleali. L’insieme delle contraddizioni e dei progressivi cambiamenti nei rapporti di forza internazionali è infatti emerso chiaramente prima e durante il vertice del WTO tenutosi a Cancùn nel settembre del 2003. J. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, trad. it. La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, p. 124. L. Secor, Mind the gap the debate over global inequality heats up, in «Globe Newspaper Company», Boston 2002; C. Zanier, Cina, in Dizionario di Storia, Mondadori, Milano 1993, sub voce. L. Secor, art. cit. G. Rossini, La globalizzazione debole, in «il Mulino», L, n. 397, 5/2001, pp. 883-892; J. Stiglitz, op. cit. Ivi; R. Panizza, La globalizzazione della povertà, non del benessere e dei diritti umani, in «Volontari e terzo mondo», XXX, n. 3, luglio-settembre 2002; F.M. Parenti, Argentina. Perché?, in <www.ilgruppodilugano.it>, 2002; G. Chiesa, Russia addio. Come si colonizza un impero, Editori Riuniti, Roma 2000; Id., Roulette Russa, Guerini e Associati, Milano 1999. J. Stiglitz, op. cit., 2002, p. 187. H.W. Yeung, Questioning the Uneven Terrains of Economics Globalization, paper, Clark University, USA, ottobre 2001. Non va dimenticato, inoltre, che si tratta di sistemi politici, culturali ed economici profondamente diversi, in cui i processi della globalizzazione economica avvengono tramite una localizzazione altamente differenziata: alcune aree della Cina meridionale ricevono ad esempio molti più flussi finanziari di Seul. McConnell, WITSA, Ready? Net.Go! Partnerships Leading the Global Economy, Washington DC maggio 2001. Espressione avanzata per la prima volta da McLuhan in The Gutemberg Galaxy: the Making of Typographic Man del 1962. McLuhan ha studiato le implicazioni antropologiche relative agli sviluppi dei mezzi di comunicazione ed è stato l’anticipatore delle teorie sulla compressione della dimensione spazio-temporale. Brevemente, sarà necessario ricordare che le reti telematiche hanno avuto origine dal progetto Arpanet, sviluppato alla fine degli anni Sessanta nell’ambito di un programma del Pentagono. Non è stata però una tecnologia direttamente militare, visto che il suo scopo originario era quello di creare una rete di scambio d’informazione sicura, che, nel caso di un blocco in un punto del sistema, potesse continuare a trasmettere le informazioni (G. Di Carlo, La rivoluzione di Internet, in Corriere Economia, Net Economy. La rivoluzione che sta cambiando il mondo, ETAS, Milano 2000). Lo stesso Castells (2001) sostiene, infatti, che sebbene negli anni Cinquanta e Sessanta i principali centri di ricerca tecnologici nelle università degli Stati Uniti go-


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devano dei finanziamenti dei mercati militari, i progressi avvenuti negli ultimi 20 anni nella microelettronica sono stati indipendenti dalle applicazioni militari dirette. V. Bianchini, A. Desiderio, Atlante del Divario Digitale, in «I quaderni speciali di Limes», n. 1, Roma 2001, p. 53; The Future of Technology, in «Businessweek», 18/25 agosto 2003. N. Furini, Comunicare senza logo, in «Volontari per lo sviluppo», XXI, dicembre 2003. Non mancano, anche in questo caso, articolazioni regionali del divario digitale nell’ambito di gruppi di Paesi diversi, sia ricchi, sia poveri. Deve essere ricordato, però, che le questioni delle disuguaglianze d’accesso al cibo e all’acqua rendono grottesche le speculazioni sulle nuove tecnologie. Solo dopo aver garantito l’accesso alle risorse per soddisfare i bisogni primari di sopravvivenza può essere intelligente pensare all’espansione delle nuove tecnologie. Queste infatti forniscono notevoli potenzialità di autosviluppo anche in condizioni di povertà; è tuttavia necessario un contesto di minimo benessere perché si possa garantire un accesso a tali tecnologie e un loro uso adeguato. M. Castells, End of Millenium (2000), trad. it. Volgere di millennio, in L’età dell’informazione: politica, società, cultura, Università Bocconi Editore, Milano 2003, p. 101. UNCTAD, op. cit. Sul tema delle nuove tecnologie si pensi, in particolare, al fatto che gli USA sono in ritardo rispetto all’UE sia per quanto riguarda i costi dei servizi a banda larga, sia per la telefonia mobile. OECD, Towards a Knowledge Based Economy – Recent Trends and Policy Directions from the OECD, Singapore 21-22 novembre 2002. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, United Nations, New York - Geneva 2003. J. Kleinert, The Role of Multinational Enterprises in Globalization: An Empirical Overview, Working Paper n. 1069, Kiel Institute of World Economics 2001. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, cit. La Cina, che è il più grande produttore manifatturiero del mondo e il primo Paese ad attrarre investimenti diretti esteri, ha senza dubbio sostenuto il commercio intraregionale (anche del Giappone) con i suoi volumi d’import e d’export. Questo grande Paese, infatti, analogamente ad altri Paesi asiatici, ha adottato politiche espansive per sostenere la domanda interna e ha mantenuto dei tassi di cambio fissi con il dollaro. OECD, Towards a Knowledge Based Economy, cit. Questo indicatore può però essere in parte fuorviante, soprattutto per le differenze esistenti fra i vari sistemi brevettuali. WTO, World Trade Report 2003, Geneva 2003, pp. 24-25. Ivi. Ivi, pp. 25-26. Ivi, p. 28. Ivi, appendice, graf. IB.1. J. Kleinert, op. cit., 2001. UNCTAD, World Investment Report 2003, cit., p. 46. Da non dimenticare, tuttavia, che alcuni Paesi appartenenti all’ASEAN, come la Cambogia, il Laos e il Myanmar, sono classificati dal WTO come Least-developed countries (Paesi meno sviluppati al livello mondiale). Molto differenti, come già ricordato, sono invece le posizioni della Malaysia, Singapore, Thailandia, Vietnam, Indonesia e Filippine. Ivi, pp. 4, 46. WTO, op. cit., p. 29. Ivi, p. 30. J. Kleinert, op. cit. P. Krugman, M. Obstfeld, International Economics. Theory and Policy, trad. it. Economia internazionale. Teoria e politica del commercio internazionale, Hoepli, Milano 2003, vol. 1, p. 185. C. Antonelli, op. cit. Per questo i livelli delle tariffe all’importazione sono spesso più elevati sui prodotti hi-tech (nei Paesi a basso reddito) che sui beni a basso contenuto tecnologico. Ciò è considerato dal WTO un limite al trasferimento di tecnologia. Tale interpretazione è però riduttiva. È possibile rilevare in-


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fatti che molti Paesi in Via di Sviluppo o meno sviluppati adottano strategie diversificate, aprendo in alcune aree e non in altre. Così, ad esempio, la Cina, che in tal modo è riuscita a beneficiare delle nuove tecnologie, portando a termine il processo d’acquisizione tecnologica: un processo graduale che riguarda la conoscenza pura (know-why) di una data tecnologia, il suo uso (know-how), l’adattamento locale, la diffusione e l’eventuale miglioramento. Per di più, la struttura agricola e artigianale di molti Paesi a basso sviluppo a volte non favorisce un’introduzione efficace di nuove tecnologie. Si tratta spesso di contesti caratterizzati dalla eccessiva dipendenza dalle esportazioni, dalle inique condizioni di scambi e di prezzi (dumping), dallo smantellamento dello Stato sociale per l’applicazione delle politiche del FMI, nonché dalla presenza di guerre e di tanti altri problemi creati o accentuatisi negli ultimi due decenni. 92. Per casi studio approfonditi sui poli tecnologici francesi, si veda A. Tosi, Reti e parchi per l’innovazione, Franco Angeli/Urbanistica, Milano 1995. 93. G. Pepi, Dal modello americano ai tecnopoli, in «il Sole-24Ore», 7 ottobre 2002. 94. UNDP, Human Development Report 2001. Making New Technologies. Work for Human Development, UNDP, Oxford University Press, New York - Geneva 2001. 95. Questa espressione sta ad indicare che «le highway possono anche essere private o in concessione, ma non devono fare nessuna discriminazione tra i loro clienti e per lo stesso prezzo devono poterci passare i camion di qualunque trasportatore» (F. Carlini, Divergenze digitali, manifestolibri, Roma 2002, p. 50). 96. A.J. Scott, Regions and the World Economy. The Coming Shape of Global Production, Competition and Political Order (1998), trad. it. Le regioni nell’economia mondiale. Produzione, competizione e politica nell’era della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2001, pp. 68-80. 97. S. Breschi, The Geography of Innovation: A Cross-sector Analysis, in «Regional Studies», 2000, vol. 31.3, pp. 213-229. 98. J. Kleinert, op. cit. 99. Le nuove tecnologie che rientrano nei due campi scientifici sopra menzionati sono numerosissime; per questo motivo, l’analisi della dinamica spaziale delle tecnologie nel periodo della globalizzazione non potrà essere esauriente. 100.P. Krugman, M. Obstfeld, op. cit., p. 186. Per un recente e interessante tentativo di concettualizzare l’organizzazione dell’impresa in epoca di globalizzazione si veda C. Pepe, Connotati organizzativi dell’impresa per il mercato globale, in «Sinergie», n. 60, 2003, pp. 103-128. 101. J. Ziegler, Les nouveaux maîtres du monde et ceux qui leur résistent (2002), trad. it. La privatizzazione del mondo, Marco Tropea Editore, Milano 2003, pp. 143-144. 102. Dati UNCTAD tratti da A.J. Scott, op. cit., p. 51. 103. OECD, Towards a Knowledge Based Economy, cit. 104. C. Antonelli, op. cit. 105. Il settore infatti necessita di una grande spesa per l’innovazione. 106. F.M. Mennillo, Gli strumenti informatici negli affari internazionali, tesi di laurea in economia e commercio (relatore Golinelli Gaetano), Università degli Studi di Roma “La Sapienza” 1996. 107. Ivi. 108. L’andamento schizofrenico e spesso irrazionale delle acquisizioni e fusioni degli ultimi anni lo conferma. 109. OECD, Information Technology Outlook, cit. 110. R. Gemmiti, Appunti di Geografia dell’Impresa, gennaio 2003, <http://geostasto.eco.uniroma1.it/didattica/matdid/geo>. 111. «Businessweek», art. cit. Ancora una volta vediamo che sono le ex start-up della nuova epoca tecnologica a perseguire con caparbia le fusioni più rischiose: per esempio Hewlett-Packard su Compaq e Oracle su PeopleSoft. 112. «Businessweek», art. cit. 113. J. Ziegler, op. cit., p. 89. 114. UNCTAD, Trade and Development Report 2003, cit. 115. OECD, Information Technology Outlook, cit.


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116. Secondo Freeman, l’invenzione può essere il prodotto sia di singoli individui, sia di appositi centri di ricerca. In generale, nondimeno, ogni invenzione si posa su un substrato di conoscenze e di precedenti invenzioni tra loro interagenti, un substrato che è quindi identificabile per il suo carattere sociale e collettivo. 117. Di questo argomento tratta un articolo inserito in un più ampio rapporto di Newsweek del luglio 2003, dedicato alle invenzioni del futuro prossimo. Dopo aver descritto il ruolo delle attività individuali nel ciclo di vita delle invenzioni, l’articolo pone un’attenzione particolare sull’evoluzione dell’aviazione, caratterizzata da invenzioni continue che sono nate da attività quasi-ludiche (comunque da motivazioni non economiche), per poi sottolineare in ultima istanza la straordinaria e misteriosa alleanza tra gli imprenditori dot-com e il caotico mondo dei voli spaziali. È il caso di razzi spaziali che diventano giocattoli nei computer d’imprenditori privati, come Burt Rutan, che costruisce il maggiore aviorazzo (SpaceShipOne) facendosi finanziare, sembra, da persone della Microsoft, o Jeff Bezos, dell’Amazon.com, che forma una nuova impresa per costruire navi equipaggiate con razzi o John Carmark, un programmatore di videogame, che pensa di mostrare alla NASA un lanciatore spaziale a perossido d’idrogeno (B. Sterling, Single Vision, in «Newsweek», 30 giugno-7 luglio 2003). 118. OECD, Information Technology Outlook, cit. 119. Tutti gli articoli e i rapporti internazionali citati in questo capitolo confermano tali tendenze. 120. Come fa notare D. Infante (op. cit.), l’innovazione rappresenta il completamento di un processo che inizia con il concepimento di un’idea e include la sua accettazione e realizzazione. 121. P. Ceri, Dov’è il potere nella globalizzazione?, in «il Mulino», L, n. 396, 4/2001, p. 591. 122. J. Rifkin, The End of Work (1994), trad. it. La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano 1995; D. Mèda, Società senza lavoro, Feltrinelli, Milano 1995. 123. OECD, Information Technology Outlook, cit. 124. B. Sterling, art. cit. 125. J. Kleinert, op. cit. 126. Ivi. Aumentano significativamente, quindi, i brevetti rilasciati da autorità di Paesi stranieri. 127. J. Kleinert, op. cit. 128. Ivi. Sull’asimmetria delle varie legislazioni relative ai brevetti si veda U. Allegretti, Diritti e stato nella mondializzazione, Città Aperta, Troina (En) 2002. 129. UNDP, Human Development Report 1998. Globalization and Liberalization, UNDP, Oxford University Press, New York - Geneva 1998. 130. McConnell, WITSA, op. cit. La scuola d’informatica più prestigiosa è l’Indian Institute of Technology (IIT), dalla quale escono ogni anno 2.500 persone qualificatissime. Il 20% dei nuovi imprenditori della Silycon Valley hanno studiato all’IIT (D. Demichelis, L’India, Arul, i bambini e i chip, in D. Demichelis et al., No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, Baldini & Castoldi, Milano 2002, pp. 397-405). 131. S. Guarracino, L’età medievale e moderna, Mondadori, Milano 1993, pp. 344-345. 132. L. De Biase, Globalizzazione delle produzioni, in «Panorama Web», <panoramaweb.mondadori.com/paweb/news/>, 18 febbraio 2003. 133. J. Stiglitz, op. cit. 134. World Watch Institute, State of the World ’01, Edizioni Ambiente, Milano 2001, pp. 72-73. 135. Classifica elaborata dalla rivista Wired, pubblicata in Italia dalla rivista di geopolitica Limes, supplemento al n. 1 del 2001, cit. 136. V. Bianchini, A. Desiderio, op. cit., p. 57. 137. «Businessweek», art cit. 138. D. Demichelis, op. cit. 139. L. De Biase, art. cit.; UNCTAD, World Investment Report 2003, cit. 140. Ivi. 141. McConnell, WITSA, op. cit. 142. Ivi. 143. Ivi. 144. D. Demichelis, op. cit., p. 400.


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145. C. Jaffrelot, L’India che resiste alla globalizzazione, in «Le Monde diplomatique», XI, n. 1, gennaio 2004. 146. A.J. Nathan, B. Gilley, China’s New Rules, New York Review Books, New York 2002. 147. S. Cristaldi, L’avanzata di Pechino, in Cina, la grande sfida, «Dossier del Sole-24Ore», 18 novembre 2003. 148. Ivi. Basti pensare, per esempio, che Wall Mart, il gigante statunitense della grande distribuzione, ha acquistato in Cina 12 miliardi di dollari di merci, equivalenti a quasi il 10% delle esportazioni cinesi verso gli USA (ivi). 149. La Cina ha visto infatti ampliare sempre più la struttura e l’entità della propria domanda interna (di stimolo all’offerta): nel 2002 il 90% della crescita cinese è da imputare proprio a tale fenomeno (D. Rosen, Miracolo o leggenda?, in Cina, la grande sfida, cit.), che in questo caso è stato strettamente correlato al peso degli investimenti stranieri. 150. Si veda il rapporto di Amnesty International del 2003. 151. V. Amato, Cina tra sviluppo economico e crisi ambientale, in Dell’Agnese E. (a cura di), Geografia e geopolitica dell’Estremo Oriente, UTET, Torino 2000, pp. 166-184. 152. Questi e altri problemi, che s’acuiscono a causa dei miglioramenti economici asimmetrici, e che ripropongono quei dilemmi di un certo “sviluppo” ben conosciuto in Occidente, non possono essere affrontati in questa sede a causa della loro complessità (che richiederebbe un lavoro a parte) e per la loro parziale estraneità al nostro oggetto di studio. 153. F. Sisci, Chi vince in Cina vince nel mondo, in «I quaderni speciali di Limes», n. 1, Roma 2001, pp. 127-133. 154. J. Stiglitz, op. cit., p. 184. 155. Consulate-General of the People’s Republic of China in New York, China’s Macroeconomic Update: World Bank Report, New York 6 novembre 2003. 156. Ivi, 2002. 157. Articoli scientifici sulle imponenti migrazioni “interne” alla Cina si possono trovare nella rivista «International Migration Review». 158. G. Ragozzino, Povero globo. Investito dagli investimenti, in «il manifesto», 5 settembre 2003. 159. Tra il 2001 e il 2002, al contrario, gli investimenti diretti esteri mondiali crollano, in particolare negli Stati Uniti, in Germania e in Francia, a causa della cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia, che disincentiva gli investimenti produttivi in favore di quelli speculativi. È la prima volta che gli USA non compaiono primi in classifica per quantità di investimenti esteri ricevuti e scendono addirittura al 5° posto (33 miliardi di dollari) (UNCTAD, World Investment Report 2003, cit.) 160. Ricordiamo che da un punto di vista temporale il primo gruppo di NICs è composto da Taiwan, Hong Kong, Singapore e Corea del Sud; mentre il secondo gruppo è formato da Messico, Thailandia, Filippine, Malaysia, Indonesia, Vietnam. Naturalmente le differenze tra i Paesi sono spesso enormi e, nel complesso, solo alcune località e regioni sub-nazionali sono coinvolte in un processo di forte industrializzazione/informazionalizzazione. 161. R. Gemmiti, op. cit. 162. Ivi. 163. L. Vinciguerra, Piccole multinazionali crescono, in Cina, la grande sfida, cit. 164. V. Amato, op. cit., pp. 171-172. 165. Open source vuol dire “a fonte aperta”. È il contrario di quei prodotti chiusi e super-brevettati (di Microsoft soprattutto) che cercano di impedire la diffusione del know-why e del know-how alla base di un determinato prodotto informatico, in modo da mantenere una posizione di privilegio. Va detto però che il software libero ha anch’esso delle sue regole che ne permettono l’esistenza. In particolare, si tratta della licenza d’uso GPL (GNU Public License) – inventata da Stallman – che riguarda la possibilità di usare liberamente (per chiunque lo voglia) il software coperto da tale licenza, a condizione però che il “codice sorgente” rimanga aperto e che, in caso di modifica, sia segnalato il programma d’origine. Si tratta del tipo di norma che permette l’esistenza del software libero, altrimenti esposto all’azione degli approfittatori. La licenza GPL è quindi un apparato legale – tipico del software privato – che, se usato a protezione della libera


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circolazione, può evitare lo sfruttamento privatistico di conoscenze altrui. 166. F. Carlini, op. cit. La società di Bill Gates è stata più volte inquisita e messa sotto accusa nel corso degli anni Novanta per comportamenti monopolistici sleali; l’ultimo provvedimento sanzionatorio è stato approvato dall’Unione Europea nel marzo 2004. 167. Molti esperti dichiarano che i software Microsoft sono troppo complicati e, anche a causa di ciò, inclini alla rottura e al mal funzionamento (problemi cui vanno legate, inoltre, questioni di sicurezza). I pacchetti Windows sono standardizzati, mentre Linux ha più opzioni e può essere rivisto e migliorato dagli utilizzatori. 168. B. Marchetti, Linux nella tana del lupo, in «il manifesto», giovedì 7 agosto 2003. La piccola azienda tedesca, che non era in grado di pagare questa somma, è stata aiutata dall’IBM, la cui strategia sta puntando molto su Linux per rompere il monopolio di Microsoft. 169. The Economist, Open source’s local heroes, n. 8353, 6-12 December 2003; inoltre, molti articoli e libri utili alla comprensione dei benefici dei software liberi si possono trovare su <www.softwarelibero.it>. 170. M. Mahlow, Free for All, in «Newsweek», 30 giugno/7luglio, 2003; The Economist, art. cit. 171. Le compagnie tendenzialmente monopolistiche non hanno interesse, al contrario, a risolvere tutti i problemi in una sola volta. Ciò infatti impedirebbe loro di proporre nel tempo le “nuove” versioni, che comportano rendite sicure. 172. Seppure la segmentazione socio-spaziale delle città non riguardi più la distinzione netta tra colletti blu e colletti bianchi che vivevano in quartieri differenti (A.J. Scott, op. cit.), è fuor di ogni dubbio il fatto che stia aumentando la biforcazione tra lavoratori a differente grado di qualificazione (abitanti spesso negli stessi quartieri) tra chi è altamente qualificato ad alto salario e chi non lo è. Un processo scandito peraltro dalla continua perdita di posti di lavoro, cui vanno sommate le tensioni connesse all’aumento del numero e della varietà culturale dei migranti. 173. UNDP, Human Development Report 2003. Millennium Development Goals: A Compact among Nations to the End Human Poverty, UNDP, Oxford University Press, New York and Geneva 2003. 174. M. Castells, L’età dell’informazione, cit., pp. 129-130. 175. A.J. Scott, op. cit., p. 152. 176. Sinteticamente, il “vantaggio comparato” può essere spiegato come un orientamento a produrre a costi ridotti pochi prodotti da destinare anche all’esportazione e comprare quel che serve con gli utili. 177. V. Orati, Globalizzazione scientificamente infondata, Editori Riuniti, Roma 2003. 178. Nel primo caso Orati fa riferimento a Ricardo e a Hecksher-Ohlin (che costruiscono un modello statico per l’applicazione della teoria ricardiana), nel secondo caso a S. Amin e A. Emmanuel (che si sono concentrati sulle impari ragioni di scambio tra Paesi del “centro” e della “periferia” del mondo). 179. V. Orati, op. cit. 180. N. Georgescu-Roegen, L’economia politica come estensione della biologia, in Bonaiuti M. (a cura di), Bioeconomia, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 65-78. 181. V. Orati, op. cit., p. 90. 182. J. Stiglitz, op. cit., p. 4. 183. Wal Mart è la catena di distribuzione più grande del mondo che, per di più, è diventata nel 2003 la prima corporation non finanziaria, con un giro d’affari due volte superiore a quello della General Electric e otto volte superiore a quello della Microsoft. Si veda L. Celada, Il supermarket del predone, in «il manifesto», domenica 21 dicembre 2003; Id., Wal-martirizzati di tutto il mondo, in «il manifesto», mercoledì 24 dicembre 2003. 184. J. Stiglitz, op. cit., p. 67. 185. L. Celada, art. cit. 186. In Somalia, Paese in passato caratterizzato da un’economia incentrata sulla pastorizia (in particolare sullo scambio di prodotti tra pastori nomadi e contadini), la liberalizzazione delle importazioni imposte dalle politiche del FMI ha determinato il collasso dell’economia locale, espellendo i contadini dalle proprie terre. Così la Somalia, già paese autosufficiente dal punto


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Fabio Massimo Parenti

di vista alimentare, si trova oggi a dipendere dagli aiuti internazionali in condizioni di gravissimo indebitamento (V. Shiva, Biopiracy. The Plunder of Nature and Knowledge (1997), trad. it. Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, CUEN, Napoli 1999). In Kenia, le importazioni di granoturco hanno provocato una riduzione dei prezzi così forte che i produttori locali non sono stati in grado di coprire neanche i costi di produzione (V. Shiva, Stolen Harvest. The Hijacking of the Global Food Supply (2000), trad. it. Vacche Sacre e Mucche Pazze, Derive e Approdi, Roma 2000). Sono solo alcuni esempi degli effetti di una sregolata apertura alle merci estere e di scambi incentrati sulla concorrenza sleale (pratiche di dumping). In India, nello Stato del Kerala, le piantagioni di gomma sono divenute superflue a causa delle importazioni di gomma dall’estero (ivi, 2000). Per ulteriori esempi cfr. LEISA (rivista su Low External Input and Sustainable Agriculture), Go global or stay local?, Netherlands, luglio 2001, vol. 17, n. 2; e anche una parte della bibliografia relativa alla parte prima di questo testo. 187. Da qui, secondo alcuni, deriverebbe il significato che Marx attribuisce al concetto d’alienazione. Si veda U. Galimberti, Psiche e Techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 317-330. 188. N. Rosenberg, Marx studioso di tecnologie, in Dentro la scatola nera. Tecnologia ed economia, il Mulino, Bologna 2001, pp. 57-78. 189. K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie (1867), trad. it. Il Capitale. Critica dell’economia politica, Avanzino e Torraca editori, Roma 1969, Libro I, cap. XIII, pp. 72, 73, 87. Si veda anche K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-1858), trad. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 2, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 93. 190. U. Galimberti, op. cit., p. 325. 191. L’inconsistenza di queste critiche si fa notare ad esempio in F. Ferrarotti, Tecnologia e sviluppo sociale, in Macchina e uomo nella società industriale, ERI, Torino 1963, pp. 45-59, e N. Rosenberg, op. cit., pp. 59-63. 192. K. Marx, Il Capitale, cit., cap. XIII, p. 21. 193. U. Melotti, Marx e il Terzo Mondo, il Saggiatore, Milano 1972. U. Melotti, Sociologia, Storia e Marxismo, Milano, Unicopli, 1979. 194. K. Marx, lettera alla redazione dell’«Otecestvennye Zapiski», novembre 1877. Citazione tratta da U. Melotti, op. cit., p. 54. 195. Definito da Rosenberg come «probabilmente il più attento studioso nel nostro secolo della storia della tecnologia». 196. K. Marx, Il Capitale, cit., cap. XIII, p. 7. 197. Ivi, cap. I, p. 33. 198. Si veda U. Galimberti, op. cit. 199. A nostro avviso, Nicholas Georgescu-Roegen non ha torto quando, per spiegare l’estinzione di grandi pensatori, afferma che «se talenti come Malthus o Marx fossero nati in questo mezzo secolo, sarebbero diventati certamente dei geniali econometrici, che avrebbero passato la maggior parte del loro tempo nel tempio del computer in stretto contatto religioso con l’oracolo, impressionandoci con la loro straordinaria abilità di giocolieri nel maneggiare modelli elucubratissimi».


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Indice dei nomi

Adepoju, A. 35n Albert, M. 103n, 105n Alberoni, F. 150n Aldcroft, D.M. 102n Allegretti, U. 18, 34n, 217n Altieri, M.A. 36n Amato, V. 218n Amin, S. 103n, 206, 212n, 219n Amoroso, B. 35n Antonelli, C. 213n., 215n, 216n Arcelli, M. 104n Arndt, H.W. 102n Arrighi, G. 100n, 106n, 163, 212n Baffi, P. 69, 70, 104n Baget-Bozzo, G. 144 Baglioni, G. 150n BarabĂ si, A.L. 171 Baran, P.A. 212n Bauer, O. 124 Bell, G. 102n Bernstein, P. 106n Bezos, J. 217n Bianchini, V. 215n, 217n Bianco, G. 140 Biasco, S. 103n Biffi, G. 144 Bilson, J. 104n Blaschke, J. 150n Block, F.L. 102n Bloomfield, A.I. 100n, 101n, 102n Blunkett, D. 137, 151n Bocca, G. 151n Bollino, C.A. 106n Bonaiuti, M. 219n Bosio, R. 34n Bossi, U. 138, 146, 147, 148

Bossons, J. 101n Bowels, S. 105n Boxer, C.R. 100n Boyer, R. 105n Braudel, F. 23, 40, 41, 44, 100n, 195 Breschi, S. 187, 216n Bresolin, F. 76n Bryant, R.C. 105n Buchanan, M. 171 Buiatti, M. 213n Buist, M.G. 100n Burlando, R. 103n Bush, G. senior 84, 86 Bush, G.W. jr. 86 Calleo, D.P. 105n Campagna, F. 104n Cardini, F. 100n Cargill, T.F. 102n, 103n Carli, G. 69, 103n Carlini, F. 216n, 219n Carlo V 41 Carlo d’Inghilterra 137 Carlo Magno 97 Carmark, J. 217n Carter, J. 72, 81 Cassandro, M. 100n Castagnola, A. 212n Castellina, L. 34n Castells, M. 16, 19, 28, 33n, 34n, 35n, 36n, 170, 171, 172, 194, 205, 213n, 214n, 215n, 219n Castles, S. 36n Celada, L. 219n Ceri, P. 193, 217n Chamberlin, E.H. 206 Chancellor, E. 105n


Chandler, L.V. 101n Chang, Ha-Joon 211n Chiesa, G. 214n Chirac, J. 136 Chossudovsky, M. 35n, 106n Ciampi, C.A. 70, 145 Ciciotti, E. 212n Clapham, J. 101n Clarke, S.V.O. 102n Clay, E. 101n Clinton, B. 85, 86 Cohen, B.J. 103n Colombo, L. 36n Conti, S. 165n, 212n, 213n Contri, F. 146 Coombs, Ch. A. 103n Corden, W.M. 103n Corna Pellegrini, G. 33n Cotti-Cometti, G. 33n, 212n Cox, R. 100n Craxi, B. 137, 143 Cristaldi, S. 218n Cuddington, J. 104n D’Alema, M. 146 Dal Lago, A. 151n De Biase, L. 213n, 217n De Cecco, M. 101n De Crèvecoeur, J. 150n De Gaulle, C. 60, 103n De Grauwe, P. 106n De Michelis, G. 137, 143 De Rochas, B. 158 De Roover, R. 100n Deaglio, M. 105n, 106n Delle Donne, M. 150n Dell’Agnese, E. 33n, 213n Demichelis, D. 217n, 218n Desiderio, A. 215n, 217n Di Carlo, G. 214n Di Maggio Alleruzzo, M.T. 213n Dini, L. 145 Dornbusch, R. 101n Drache, D. 105n Eatwell, J. 105n Eckes, A.E. 103n Edoardo III 40

Eichengreen, B. 51, 52, 100n, 101n, 102n Emmanuel, A. 206, 219n Emminger, O. 103n Eva, F. 168, 213n Fabietti, U. 33n Fallaci, O. 144 Faure, D. 35n Felloni, G. 100n Ferrarotti, F. 220n Fetter, F.W. 100n Filippo II 41 Finardi, S. 34n Fini, G. 138, 146, 147, 148 Fisher, S. 101n Ford, H. 211n Fradkin, N.G. 212n Frank, A.G. 212n Freeman, C. 210n, 217n Fried, R. 103n Friedman, M. 72, 104n, 105n Furini, N., 215n Galbraith, J.K., 102n, 174 Galimberti, U. 208, 210n, 220n Galli, C. 15, 16, 33n Gandolfo, G. 104n Gardner, R.M. 103n Gates, B. 172, 219n Geertz, C. 12, 16, 33n Gemmiti, R. 216n, 218n Georgescu-Roegen, N. 206, 219n, 220n Gilley, B. 218n Gilpin, R. 168, 213n Giordano, C. 150n Giordano, G. 150n Giovanardi, C. 147 Goldsmith, R.W. 100n Golinelli, G. 210n Goodhart, C.A. 101n Gordon, D.M. 105n Graham, G.S. 101n Greenspan, A. 81, 85, 86, 87, 92 Guarracino, S. 217n Gutiérrez, D.A. 105n Haberler, G. 102n Halevi, J. 21, 35n


Halweil, B. 36n Harris, S.E. 102n Hecksher, E. 206, 219n Heilbroner, R. 106n Held, D. 27, 36n Helleiner, H. 105n Heller, H.R. 104n Hertz, N. 34n Hickman, B.G. 102n Higgins, J.P.P. 101n Himanen, P. 36n, 213n Hirschman, A.O. 212n Hitler, A. 15 Hoffman, R.J. 101n Huntington, S.P. 151n Hymer, S. 103n Infante, D. 213n, 217n Israel, J. 100n Jaffrelot, C. 197, 218n Jean, C. 21 Jedlowski, P. 213n Jones, D.M. 105n Kahler, M. 104n Kaldor, N. 103n, 104n Kaufman, H. 105n Kemmerer, E.W. 101n Keynes, J.M. 48, 49, 50, 52, 54, 101n, 102n, 104n Kindleberger, Ch. P. 46, 101n, 102n, King, W.T. 101n Kissinger, H. 103n Khan, M.S. 104n Kjellen, R. 33n Klare, M.T. 36n Kleinert, J. 188, 215n, 216n, 217n Krugman, P. 34n, 104n, 106n, 183, 214n, 215n, 216n Kuznets, S. 170 Lanternari, V. 36n Layton, W. 101n Lee, E. 106n Leibniz, G.W. 195 Levine, A.L. 101n List, F. 206

Livi Bacci, M. 151n Lorusso, S. 211n Lowi, T.J. 173, 213n Luzzato, G. 100n Maggiolini, A. 144 Mahlow, M. 219n Maier, Ch.S. 101n Maiocchi, R. 210n Malthus, T. 206, 220n Marchesini, E. 187 Marchetti, B. 219n Marchisio, S. 105n Marconi, M. 103n Marsh, D. 104n Marshall, A. 55, 56, 59, 100, 206 Marston, R. 104n Martelli, C. 138, 143 Marx, K. 207, 208, 209, 210, 211n, 220n Masbic, Ja.G. 212n Maurus, V. 187 McGrew, A. 27, 36n McLuhan, M. 214n Meade, J. 103n MĂŠda, D. 217n Melman, S. 103n Melotti, U. 36n, 150n, 151n, 164, 167, 211n, 212n, 220n Mennillo, F.M. 216n Merlo, A.M. 34n Michalos, A.C. 104n Michelsons, A. 103n Migone, G.G. 102n Mikesel, R.F. 102n Milken, M. 172 Miller, M.J. 36n Moggridge, D. 102n Morelli, A. 36n Moro, R. 105n, 106n Murty, N. 198 Myrdal, G. 212n Napolitano, G. 138, 140, 145, 146, 147 Nathan, A.J. 218n Nebbia, G. 36n Neikirk, W.R. 104n Norman, M. 51, 54


O’Donnell, M. 150n Obstfeld, M. 183, 215n, 216n Ohlin, B. 206, 219n Óh Uallacháin, B. 190 Orati, V. 205, 206, 207, 212n, 219n Ortoleva, P. 211n, 214n Ossola, R. 70, 104n Ozeki, Y. 103n Pacioli, L. 39 Padoan, P.C. 106n Pagnini, M.P. 33n Palidda, S. 151n Panati, G. 210n Panizza, R. 15, 25, 35n, 36n, 103n, 104n, 105n, 176, 214n Paracelso 13 Parboni, R. 103n, 104n Parenti, F. M. 31, 34n, 35n, 214n Paris, F. 105n Patterson, G. 103n Pepe, C. 216n Pepi, G. 216n Persson, T. 106n Peterson, W.C. 106n Petilli, S. 150n Pham Xuan Nam, 31 Piccone Stella, S. 151n Piore, M.J. 104n Pisanu, G. 134 Polanyi, K. 102n Pollard, S. 101n Posner, M.V. 164, 212n Price, H.B. 102n Prochnow, H.V. 102n Prodi, R. 146, 149 Quaini, M. 13, 16, 30, 33n, 36n Ragozzino, G. 218n Rampini, P. 106n Ratzel, F.15, 33n Reagan, R. 73, 81, 84, 169 Remotti, F. 14, 33n Renner, M. 24, 35n Revelli, M. 211n, 214n Ricardo, D. 219n Riesser, J.101n

Rifkin, J. 213n, 217n Rist, Ch. 54 Rodano, G. 212n Roselli, A. 105n Rosen, D. 218n Rosenberg, N. 208, 209, 220n Rossi, E.A. 102n Rossini, G. 214n Royama, S. 102n, 103n Ruini, C. 148 Rusconi, G.E. 151n Rutan, B. 217n Sabel, F. 104n Saccomanni, F. 106n Sachs, W. 214n Saltari, E. 212n Santori, C. 34n Santow, L.J. 105n Sapelli, G. 36n Sarcinelli, M. 70 Sarkozy, N. 136 Sartori, G. 144 Saul, S.B. 101n Sayers, R.S. 101n Scalfaro, O. L. 146 Scammel, W.M. 101n Schacht, H. 50, 54, 101n Schiller, D. 176 Schipani, S. 105n Schlesinger jr., A. 150n Schubert, A. 102n Schultz, Ch.L. 103n Schumpeter, J. 156, 157, 158, 159, 207, 211n Scott, Allen J. 29, 34n, 36n, 205, 206, 216n, 219n Secor, L. 214n Sen, A.K. 22, 35n, 36n, 105n, 106n Shiva, V. 36n, 220n Sisci, F. 200, 218n Skidelsky, R. 104n Smith, A. 43, 100n Solomon, R. 103n Stallman, R. 202, 218n Stasi, B. 136 Stellin, M. 151n Sterling, B. 217n Stewart, M. 104n


Stiglitz, J. 175, 207, 214n, 217n, 218n, 219n Strange, S. 103n, 105n Strong, B. 51, 101n Suzuki, Y. 105n Sweezy, P. 212n Sylos Labini, P. 211n Szego, C.105n Tabellini, G. 106n Tavlas, G. 103n Taylor, L. 105n Tew, B. 102n, 103n Thatcher, M. 72, 169 Thomas, W.A. 105n Tobin, J. 103n, 104n Tombola, C. 34n Tonini, E. 145 Torvalds, L. 202 Tosi, A. 216n Touraine, A. 150n Tricarico, A. 19 Triffin, R. 66, 101n, 103n Triulzi, U. 106n Trudeau, P. E. 129 Tuan, Yi-Fu 33n Turco, L. 138, 140, 145, 146, 147 Tutino, F. 104n Usher, A. P. 209 Valli, V. 106n Van Dormael, A. 102n

Vernon, R. 164, 165, 168, 212n Vinciguerra, L. 218n Viola, S. 198 Vitali, G. 106n Volcker, P. 74, 83 Wade, R. 34n Wallerstein, I. 36n, 163, 164, 212n Warren, G. F. 103n Wasserman, D. 190 Watt, J. 211n Weber, A. 161 Weisskopf, T.E. 105n Whale, P.B. 100n White, H.D. 54 Woodward, B. 106n Yeung, H. W. 32, 36n, 214n Yomo, H. 105n Zambruno, G. 105n Zanier, C. 214n Zanotelli, A. 148 Ziegler, J. 17, 33n, 34n, 35n, 176, 191, 216n Zincone, G. 151n



Nella mutevole geografia del mondo e dell’agire umano prova a definire le dinamiche indispensabili a comprendere gli spazi e i flussi questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel settembre dell’anno duemilaquattro



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