Carlo Bergonzi. Il Tenore di Verdi - Vittorio Testa anteprima

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Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Martina Alfieri Grafica copertina Anna Bartoli In copertina Carlo Bergonzi, Tosca, 1955 ISBN 978-88-8103-937-1 Š 2019 Edizioni Diabasis Stradello San Girolamo, 17/b - 43121 Parma Italia telefono 0039 0521 207547 www.diabasis.it


Vittorio Testa

CARLO BERGONZI il Tenore di Verdi Prologo, Alberto Mattioli Epilogo, Enrico Stinchelli


A Lino Rizzi in memoria


Il Tenore di Verdi

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Prologo

Carlo Bergonzi lo ascoltai dal vivo una volta sola, in una Lucia di Lammermoor quasi terminale, nel 1985 al Comunale di Modena. Lui era troppo anziano e io troppo giovane perché me ne sia restata un’impressione duratura. Il mio apprezzamento per Bergonzi è quindi tutto discografico. E qui, francamente, non è facile parlarne senza ripetere quello che altri più autorevoli di me hanno detto e ridetto con solidissimi argomenti. Di Bergonzi si è letto molto: quasi sempre nel bene, e allora ecco i peana sulla tecnica, lo stile, la verdianità quasi sorgiva del fraseggio, la durata di una carriera lunghissima e impeccabile; molto più di rado nel male, con le riserve sulla scarsa plausibilità dell’attore, lo squillo non proprio folgorante del registro acuto, la famigerata “esse” padana (ma sull’argomento fu memorabile un fedelissimo, cui si contestavano i mitici “Ah, shi, con l’eshshere”, che sbottò: “Ma è la esse di Verdi!”, e così la discussione fu chiusa). Qui interessa puntualizzare un paio di punti su Bergonzi e, in particolare, su Verdi secondo Bergonzi. Il primo riguarda appunto l’idiomaticità del suo Verdi. Che era molto in anticipo sui suoi tempi e totalmente opposta alla verdianità corrente e corriva che continua ancora a fare danni. Bergonzi era, per cominciare, attentissimo al dettato verdiano. Il che non significa “eseguire tutto com’è scritto”, che potrà magari avere un senso per l’ultimo Verdi, ma sicuramente non ne ha alcuno per quello degli anni Quaranta. Significa trarre dal segno scritto indicazioni, spunti, idee per la definizione del teatro verdiano. Volendo usare un parolone, significa fare della drammaturgia musicale. Quando Carlo Bergonzi eseguiva il famigerato si bemolle acuto di Celeste Aida come Verdi l’ha scritto e quindi lo voleva, pianissimo e morendo, non era solo un meraviglioso virtuosismo vocale, significava riportare il momento


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Vittorio Testa

scenico e psicologico alla sua verità, quella di un soliloquio, non di un comizio. Era tutt’altro che scontato, in epoche dove a proposito di cantare Verdi, e non solo, si (s)ragionava in termini di “canne” vocali, blaterando di tradizione, “voci verdiane” e simili. Anche Bergonzi, certo, si era formato ed era cresciuto in quel mondo. Ma è curioso che un artista non certo intellettuale come lui, assurto a simbolo stesso di un Verdi “naturale” e “sorgivo”, avesse capito che per Verdi la musica in generale e il canto in particolare non sono fine a loro stessi, ma sono un mezzo per realizzare il suo straordinario teatro. E allora, punto secondo, il Verdi doc di Bergonzi si esplica nella particolare enfasi che egli sempre riuscì ad attribuirgli. Enfasi che, precisiamolo subito, non ha nulla a che fare con quella verista. È qualcosa di diverso: un tono “alto”, nobile, oratorio, applicato agli eroi verdiani che, buoni o cattivi che siano, sono lontanissimi dalla quotidianità e perfino dalla verosimiglianza, pur essendo indiscutibilmente “veri”. Il canto del casaro di Vidalenzo era aristocratico, naturalmente aristocratico. In ogni momento, in ogni frase, perfino nel più piccolo e apparentemente insignificante recitativo, “t’appesta grandezza”, come direbbe Gabriele Adorno. Non so se Bergonzi avesse mai letto Gramsci. Però basta ascoltarlo (lui, non Gramsci) per realizzare cosa davvero sia stato il genio “nazionalpopolare” dell’opera nel nostro Paese: un’arte “difficile”, élitaria, complicata da realizzare e da fruire, che diventa patrimonio di tutti, travolgendo ogni barriera sociale, culturale, intellettuale. E non è davvero l’ultima delle sue glorie. Per questo, dovessi scegliere un brano, un brano solo, interpretato da Carlo Bergonzi da portarmi sull’isola deserta (che poi, per inciso, dalla frequenza con cui viene evocata dev’essere frequentatissima), sarebbe la cavatina di Foresto che chiude il Prologo di Attila, Ella in poter del barbaro!. Classico assolo doppio del Verdi “di galera”, “dalla lunga spinta ritmica, tipica dell’aria eroica verdiana”, scrive il Budden. Sulle labbra del signor Carlo, un capolavoro. “Con espressione”, nota Verdi: e qui un personaggio alla fine farlocco come Foresto diventa improvvi-


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samente vero, con quell’enfasi, appunto, grazie alla quale il pianto di un innamorato angosciato diventa un evento mitico e, insieme, il pianto di tutti noi. Poi, la cabaletta, Cara patria, già madre e reina, dove fra l’altro Francesco Maria Piave non rinuncia a una delle sue strizzatine d’occhio al pubblico: “Ma dall’alghe di questi marosi / Qual risorta fenice novella”, in un’opera che ebbe alla Fenice di Venezia, risorta appunto un decennio prima, la sua prima assoluta. È una cabalettaccia ruspante, se vogliamo. Eppure, se la canta Bergonzi, c’è dentro tutto: Verdi, il Risorgimento, l’Italia che fu, quelli che siamo e che dovremmo essere, e un’arte altissima che, dopo un secolo e mezzo, riesce ancora a esaltarci come se fosse nata per noi, qui e oggi. E che questa esemplare biografia di Vittorio Testa ci restituisce con tutta l’accuratezza, la completezza e, come dire?, l’affettuosa acribia che merita. Alberto Mattioli


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Ringraziamenti Signora Marilena Barilla e famiglia, Signora Adele Bergonzi e famiglia, Claudio Rinaldi, direttore della «Gazzetta di Parma», Professore Corrado Mingardi, Giacomo Donati, Fabrizio Cassi, Elena Bonilauri, Cristiano Dotti, Rino Aimi e l’associazione Amici di Verdi di Busseto, ad Andrea Belli, Leandro del Giudice e Martina Alfieri, Giustina e Titti Testa, Alberto Mattioli ed Enrico Stinchelli. Un grazie particolare a Gianluca Gotti, cultore e collezionatore dell’arte di Bergonzi; ai colleghi della «Gazzetta di Parma», cronisti negli anni delle gesta bergonziane, tra tutti l’indimenticabile Elena Formica

ore del 26 luglio 2014, tredici giorni dopo il novantesimo compleanno. Le ultime parole di Carlo giunto alla fine sono di gratitudine e amore per Adele, la compagna di tutta una vita, la ragazzina degli Aimi curiosa di vederlo in quel lontano giorno del ritorno dal lager poi diventata


Il garzone di Verdi

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Indice Prologo, Alberto Mattioli La Bassa Verdiana, Vittorio Testa Un incontro Di quella pira Un sogno spezzato Ave Maria nel lager Fuga di notte Adele Figaro a piedi Andrea SeniÊ New York, New York Aida a Parma Furia von Karajan L'ultima recita Vita con Carlo Il mito, Bruno Walter Il Bergonzi americano Il fantasma del Moro Bergonzi al Metropolitan Don Carlo della Mancia Bergonzi all’Arena Bergonzi alla Scala La critica Alfabeto Bergonziano

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Caro Maestro...

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(interventi di Raina Kabajvanska, Leo Nucci e Adriana Anelli, Michele Pertusi, Ezio Bosso, Alberto Gazale, Fabio Armiliato, Fabrizio Cassi, Carlo Fontana)

Epilogo, Enrico Stinchelli

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Repertorio discografico DVD Repertorio da Baritono Repertorio da Tenore

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Ringraziamenti

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Una testimonianza vivace fra parole e lirica su uno dei piĂš importanti Tenori scritte bergonzianamente in punta di penna stampato dalla Tipografia Ferretti per conto di Diabasis nel settembre 2019



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