Terre, acque, macchine - Geografie della bonifica in Italia tra Ottocento e Novecento

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11-04-2011

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Prefazione

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che si affidava all’energia cinetica della gravità captata grazie all’attento studio delle pendenze o a quella eolica. Nell’antitetica opposizione tra terra e acque, o meglio nel naturale interagire tra litosfera e idrosfera che può sintetizzarsi in uno tra i protagonisti dei processi morfodinamici, ovvero il susseguirsi di erosione, trasporto e sedimentazione, si può riconoscere la sfida più rilevante che consente di definire il grado di modernizzazione di una comunità. Questo aspetto costituisce l’essenza del percorso geografico scelto dall’autrice, riuscendo a delimitare il tema unificante all’interno della multiforme applicazione dei saperi ingegneristici dalla metà del XIX secolo fino all’alluvione del 1966, sorta di limite temporale oltre il quale la coeva evoluzione dell’idea di natura ha reso di fatto obsoleti e anacronistici i sempre meno euforici e entusiastici progetti di prosciugamento di aree umide. Ed è su questo punto che Federica Cavallo chiarisce con stimolante efficacia il porsi inconciliabile di forti antinomie innescate dalle repentine trasformazioni territoriali apportate dal prosciugamento meccanico, con particolare riguardo alle reazioni contro il definirsi di paesaggi nuovi, espresse non solo dai meno abbienti usufruttuari degli usi civici in ambienti palustri, ma anche da una non trascurabile componente della possidenza terriera più conservatrice. L’irrisolto conflitto tra l’idea di palude come opportunità di sussistenza e i progetti di un’ampia costruzione di territorialità ruralista evolve in due significative elaborazioni culturali: la prima viene definita dall’autrice come “demonizzazione” delle zone umide, tipica della fase modernista culminante con le logiche della bonifica integrale del primo dopoguerra, mentre la seconda, successiva, può essere identificata con la visione ecocentrica, animata dal fascino dei paesaggi allo stato naturale e nutrita di nuove istanze mosse dall’elaborata decostruzione della fiducia nell’intensità tecnologica. In questo allargato apprezzamento dei valori ambientali, ciò che ancora resta delle aree umide italiane può certamente essere incluso tra le pertinenze territoriali di elevata qualità, da tutelare non solo per l’intrinseco valore naturalistico e di specificità paesaggistica, una sorta di preziosi relitti in grado di testimoniare “tipi geografici” antecedenti all’odierna corsa al consumo di suolo, ma soprattutto come occasione per avviare una consapevole opportunità di turismo sostenibile e responsabile nei confronti di delicati biotopi umidi. Sono questi gli anni in cui ci si sta finalmente rendendo conto dell’importanza sia dell’identità anfibia di numerosi ambiti regionali, che del funzionamento della complessa maglia idrografica che li segmenta, sottoposta a un generalizzato e prolungato dissesto impietosamente evidenziato dalle recenti alluvioni. I fiumi, i canali, i fossi, le paludi erano elementi del paesaggio che quando non servivano all’irrigazione, al prelievo scriteriato di inerti o al deflusso dei reflui fognari, non si è esitato a tombinare, a rettificare, a prosciugare, relegando gran parte delle suggestive pertinenze golenali all’agricoltura intensiva abusiva e all’altrettanto abusiva edificazione di insediamenti produttivi, commerciali e residenziali.


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