Adriana zarri vita e morte senza miracoli di celestino vi anteprima

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ADRIANA ZARRI

VITA E MORTE SENZA MIRACOLI DI CELESTINO VI

DIABASIS

Romanzo



Al Buon Corsiero 路29路


In copertina La battaglia di Eraclio e Cosroe, 1452, Piero della Francesca, Chiesa di S. Francesco, Arezzo (particolare)

Progetto grafico e copertina Bosio Associati, Savigliano (CN)

ISBN

978 88 8103 570 0

© 2008 Edizioni Diabasis © 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis terza ristampa vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: commerciale@diabasis.it www.diabasis.it


Adriana Zarri

Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Romanzo

D I A B A S I S



Adriana Zarri

Vita e morte senza miracoli di Celestino VI

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Introduzione, Trinità, Fabrizio Frasnedi Capitolo primo, Un prete in monastero Capitolo secondo, “Se fossi papa!” Capitolo terzo, Veni Creator Spiritus Capitolo quarto, Un po’ di sabbia Capitolo quinto, L’uccello bianco Capitolo sesto, Solo presbitero Capitolo settimo, Quanti misteri! Capitolo ottavo, Quasi papa Capitolo nono, Il fratello minore Capitolo decimo, Celestino VI Capitolo undicesimo, “Quello lì” Capitolo dodicesimo, Comunisti o cattolici Capitolo tredicesimo, San Pietro aveva solo reti Capitolo quattordicesimo, Come il Giordano Capitolo quindicesimo, Anche il papa mangia Capitolo sedicesimo, Un gatto ecumenico Capitolo diciassettesimo, Un prato, una lucertola Capitolo diciottesimo, Berto e la Gisa Capitolo diciannovesimo, Domani si vedrà Capitolo ventesimo, Due lacrime sul gatto Capitolo ventunesimo, Giorno dopo giorno Capitolo ventiduesimo, Almeno un eretico ci vuole Capitolo ventitreesimo, Cantata 140 Capitolo ventiquattresimo, Il sacro mobile Capitolo venticinquesimo, La castità e la legge


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Capitolo ventiseiesimo, Il sacro celibato

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MA LA STORIA AVREBBE POTUTO SVOLGERSI ANCHE COSĂŒ

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Capitolo ventunesimo, Faccio rinuncia

Capitolo ventisettesimo, Concilio Vaticano I Capitolo ventottesimo, La gente Capitolo ventinovesimo, Teologia minore Capitolo trentesimo, Sopra alla tomba l’erba

Capitolo ventiduesimo, Il commiato Capitolo ventitreesimo, Al monastero Capitolo ventiquattresimo, Ritorno Capitolo venticinquesimo, Ancora parroco Capitolo ventiseiesimo, Con il vestito bianco Capitolo ventisettesimo, Obbedire alla vita Capitolo ventottesimo, La chiesa e il municipio Capitolo ventinovesimo, Santa Rita Capitolo trentesimo, Sabbato sine vespere


Introduzione

Trinità

Le rose, i gatti e le rane Adriana Zarri è, prima di ogni altra cosa, una teologa trinitaria. Ma, nella sua vita, esiste un’altra trinità, dalla quale voglio prendere le mosse. Meno Santa, forse, ma più umana e immediata, e certo, nella sua mente, assunta dentro la grande e misteriosa Trinità nella quale il suo pensiero, e la sua umanissima carne di donna decisa e volitiva, amano naufragare. Adriana, infatti, oggi come ieri, nell’equilibrio del suo passo vacillante di oggi, come nella nettezza di pensiero di tutta la sua lunga vita, crede fermamente di ritrovare, nei cieli nuovi e nella terra nuova, le fusa di tutte le generazioni di suoi Malestri, delle sue Lulube e delle sue Arcibalde; il profumo delle rose inglesi che inondano il suo splendido giardino; il gracidio dei ranocchi che le fa compagnia nelle lunghe notti di lavoro. Le rose, i gatti e le rane, compagnia d’elezione di una vita di ricerca, di fede, e di eremitica laicità, sono dunque anche, per lei, segno del paradiso trinitario, nel quale, dentro l’esclusiva logica dell’amore, l’umana finitezza rifiorirà, in un giardino adorno di tutti i fiori e tutti gli animali che hanno accompagnato l’uomo nel difficile parto della creazione, e con lui hanno pianto, gioito e sofferto, per approdare insieme alla realizzazione del patto che l’Altissimo strinse con Noè. La veglia pasquale, nella cappella del suo eremo, ricorda sempre quel patto, che proprio nella Trinità dell’amore trova il suo compimento. Questa vicinanza con tutti gli esseri del mondo si riassume in figure sublimi, come quella del gatto che lecca le tue lacrime, e si accoccola sulle tue ginocchia, quando sente che il tuo cuore non è sereno. I gatti, nei suoi libri, non mancano mai, e consolano, come le rane e come le rose. I gatti li ho sempre amati, le rose (rigorosamente antiche e inglesi) ho imparato ad amarle nel suo giardino; sui ranocchi mi sto ancora esercitando. Conobbi Adriana molti anni fa a 7


Monte Giove (con gli anni non so fare i conti); si parlava di Antigone, nella luce, guarda caso, anche lì, di una trinità gloriosa, la trinità che diede, agli incontri presso quell’eremo, il loro irripetibile sapore: ai vertici del triangolo, con lei stavano Benedetto Calati e Rossana Rossanda. Non saprei dire chi dei tre fosse il padre, chi il figlio e chi lo spirito santo: ma so che Benedetto del Padre aveva gli occhi, gli occhi luccicanti di gioia nell’accogliere il prodigo che torna; so che Adriana aveva in sé l’anima materna del Padre, quella madre assente nella parabola, ma presente nel cuore del Padre, e che non gli dà pace: ora vagli incontro, e abbraccialo, perché non sta tornando indietro vinto, sta tornando in avanti, vincitore proprio perché vinto1. E so che Rossana, nella sua splendida e invincibile laicità, aveva l’intransigenza laica del Figlio verso ogni umana ingiustizia e ipocrisia, a cominciare proprio da quella religiosa. Ti veniva naturale pensare che i veri credenti, quelli che vivono nell’anima e nella dimensione del Figlio, non sono quelli che dicono e credono di credere, ma quelli che il Vangelo chiama “gli uomini di buona volontà”. Impossibile resistere a quella trinità. Io, che vivevo una crisi lancinante, fra il naufragio del mio primo cristianesimo e la fragilità di un secondo, più vero, ma ancora lontano e nascente, fui conquistato dagli occhi di Benedetto, dalla perentoria dolcezza di Adriana, dalla severa laicità di Rossana, e partii verso l’eremo, dove conobbi e accarezzai Malestro Secondo, feci amicizia con le Banxiae lutea e mi stupii di quanta importanza si desse ai ranocchi. Il fuoco, e la Trinità di Pasqua All’eremo, fui conquistato dal fuoco: il fuoco pasquale, intendo. Da Adriana imparai che il cristianesimo è tutto nel triduo pasquale, e che il culmine, il momento decisivo di quel triduo non è il Venerdì della croce, come appariva ai laghi esausti del cuore in affanno, ma la notte del Sabato, la notte nella quale l’inferno del nulla, del vuoto, dell’insensatezza, della carne sconvolta appare nella luce della vita, e ti fa rinascere vivente, dentro il tuo inferno ma da vivo, e partigiano della vita. Con un gran colpo di saggezza, Adriana volle che in quella prima notte pasquale all’eremo fossi proprio io a preparare e ac8


cendere il fuoco, io che non conoscevo alcun segreto di legnetti e tutoli umidi, da trasformare in fuoco lucente alle quattro del mattino. Ci fu un momento cruciale di incertezza, perché il mio fuoco da dilettante faceva naturalmente i capricci, e fumo e starnuti, ma poi la fiamma divampò, e fu la fiamma che, come vedi, ancor non m’abbandona. Inferno e vita, vita trionfante che ti rimette dentro la vita quotidiana: ancora il prodigo e la sua trinità di partenza da un mondo di vita scheletrita; scoperta, quindi, che la vita non è dove la cercavi e ritorno in avanti, verso una vita che è dentro quel mondo che ti sembrava e continua a essere un inferno, ma ora è un inferno pasquale, che ritrovi nella figura di quel fuoco improbabile, generato nella notte. E poi l’exultet, cantato in gregoriano, con gregoriani gorgheggi, dalla esile voce sopranile di Adriana: esile ma fedele, ma carica di gloria, e lustra di nuovi cieli, e nuova terra. Passammo quasi cinque anni a tradurlo, con l’aiuto di latinisti celeberrimi, e Adriana sempre incontentabile. Incontentabile e testarda, e benedetta sia la testardaggine di chi non fa compromessi con quel barlume di verità che i suoi occhi hanno avuto la grazia di vedere. Poi altrettanti anni a ricostruire per intero una plausibile liturgia per la notte in cui il cero, fatica delle api, riceve e tramanda la luce vivente. Celestino e Lutero Dopo la Quaestio, il libro forse più amato, Adriana si rimise al lavoro. Lentamente, come sempre, quasi solo di notte, perché c’era sempre troppo da fare: la casa, le piante, il prato, gli animali, i pezzi da scrivere per mandare avanti la baracca. Come va Celestino, le chiedevamo ogni volta, e ogni volta, in affanno, ma senza mollare, ci diceva la fatica di mandare avanti tutto quel suo bataclan, e il poco tempo, la notte, per dedicarsi al suo papa, papa con gatto, sapevamo, e gatto con nome Lutero. Celestino doveva vedere la luce prima dell’ultimo conclave, ma non riuscì a nascere tempestivo. Adriana fu però consolata, per qualche tempo, dal sapere che il papa eletto, anche se non era il suo Celestino, aveva tuttavia un gatto, e anche un pianoforte: segni incoraggianti, per lei, anche se il nome del gatto papale non le riuscì di appurarlo, e certamente, con l’aria che presto tirò, non poteva essere Lutero. 9


Poi venne il femore, e la lunga crisi della convalescenza. Ma Celestino non fu abbandonato, e ora, finalmente, dopo un’infinita serie di riletture (l’esperienza dell’exultet mi insegnava che non poteva essere che così), finalmente Celestino sesto viene alla luce. È un sogno narrato, un desiderio lanciato nel mondo attraverso la scrittura, una parabola scritta per amore di una Chiesa con la quale Adriana ha avuto un rapporto spesso difficile e polemico, ma che non ha mai smesso di amare. Come non ha mai smesso di creare pensiero in piena, totale, testarda e rivendicata ortodossia. Fino a sfidare l’opinione e la stima di amici, per prendere le distanze da chi pur le era caro, quando si trattò di casi di esplicito e dichiarato allontanamento dal credo. Celestino, dunque. Qualcuno si chiederà chi fosse costui; molti si stupiranno del fatto che il “suo” papa prenda il nome di quel Celestino che Dante, secondo un certo filone critico, pose all’inferno come colui che fece per viltade il gran rifiuto. Il riferimento storico è al conclave che si aprì a Perugia, nell’autunno del 1293, dopo due sessioni senza risultato a Roma e a Rieti. Il collegio cardinalizio, formato allora da undici porporati soltanto, non riusciva a trovare l’accordo, per le ragioni di potere, legate alla situazione politica di quegli anni, che ciascuno può immaginare. Il santo eremita Pietro del Morrone, allertato, pare, da re Carlo D’Angiò, inviò allora una lettera al sacro collegio, che toccò l’animo del decano, il cardinale Latino Malabranca. Fu proprio l’anziano prelato, commosso, a farsi promotore dell’elezione di Pietro al soglio pontificio. Il 5 luglio 1294 i cardinali elessero papa, all’unanimità, proprio Pietro del Morrone, che assunse il nome di Celestino V. Il papa eremita non ebbe un lungo regno, poiché, ritenendo che il soglio pontificio non fosse il suo posto, per servire Dio come voleva la sua coscienza, dopo un lungo ritiro in preghiera, il 13 dicembre 1295 rinunciò, aprendo così la via all’elezione dell’assai più mondano e potente cardinale Caetani, che fu il Bonifacio VIII odiato da Dante, e infine anche carceriere, fino alla morte, avvenuta in odore di santità, del povero Pietro2. A quel Celestino torna la memoria di Adriana per creare il suo Celestino VI, eletto anch’egli in un conclave disperato, e anch’egli per opera di un cardinale un po’ più santo dei suoi 10


confratelli. C’è sempre un padre, c’è sempre un figlio. E al suo papa con gatto, che, se non era un eremita, era comunque un buon parroco, affida la speranza di una Chiesa capace di ritrovarsi e rinascere, in povertà, verità, capacità d’accoglienza e santa laicità. Tutto il resto il lettore lo vedrà da sé, fino alla soluzione narrativa dell’alternativa fra il “gran rifiuto” e l’accettazione del giogo fino alla fine.

Note 1. L’interpretazione trinitaria della parabola del prodigo si trova in Adriana Zarri, È più facile che un cammello, Gribaudi, Torino 1990. 2. Per ricostruire la storia di quel Celestino: Alessandra Bartolomei Romagnoli, Celestino V, il papa eremita, Abbazia San Benedetto, Seregno, 2005. È il libro che ho trovato in casa di Adriana e ho chiesto in prestito, per saperne anch’io di più.

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VITA E MORTE SENZA MIRACOLI DI CELESTINO VI


Quelle che seguono sono due storie (o una storia soltanto, con due finali differenti) poichÊ, ad un certo punto, il racconto si biforca dando luogo a percorsi diversi. Sia come sia, spero che i miei lettori apprezzeranno questo doppio percorso e ne comprenderanno il senso ecclesiologico che non intende privilegiare un cammino sull’altro, bensÏ affermare la legittimità di entrambi.

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Capitolo primo

Un prete in monastero

Seduto nel suo stallo, con il breviario tra le mani, don Giuseppe si sentiva protetto e come immerso in un mare di quiete nella quale i contrasti sfumavano. Era la vita che scorreva, rapida e calma, come un fiume; e lui ci navigava sopra, quasi in barca. Il libro aperto era posato sopra alle sue ginocchia. Non lo leggeva sempre: a momenti soltanto, e il resto del tempo restava muto ad ascoltare i monaci che, con maggiore disciplina, salmodiavano lenti e cadenzati. E lui un po’ seguiva sul breviario e un po’, abbassando le palpebre, ascoltava, lasciandosi cullare da quella musica ritmata: essa pure un gran fiume che scorreva, pacato e calmo, come appunto lo scorrer della vita. Custodito e protetto da quello scanno – che interponeva, tra uomo e uomo, un paravento di legno – vedeva solo i piedi dei monaci vicini; e tuttavia si sentiva inserito in quella chiesa salmodiante: un po’ cenobita e un po’ eremita. In realtà non sapeva chi fosse né dove fosse diretto: era un povero prete – questo solo sapeva – che cercava Dio e cercava se stesso; e per questo era giunto in quel vecchio monastero, quasi perso tra i monti. E lì stava accorgendosi che gli itinerari si invertivano e che era lui cercato. Forse per questo, di tanto in tanto, sospendeva il canto e rimaneva come inerte, in mano a quel divino predatore. E come poi l’avrebbe preso e dove in seguito portato non era lui a stabilirlo ma quell’Altro che si faceva sempre più vicino, lasciandolo sospeso, in un sopore rarefatto, mentre i monaci seguitavano a cantare e lui, anche volendo, non avrebbe saputo accompagnarli. Eran momenti brevi che gli parevano lunghissimi, come se il tempo si fermasse; e quando riprendeva a scorrere, lui pure tornava ad avvertirsi vivo: le mani, i piedi, il viso che s’era fatto di pietra e tornava di carne. Dai salmi che aveva sotto agli occhi capiva

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che era trascorso appena il tempo di cantarne un versetto; e lui, tornato da infiniti spazi, era di nuovo lì, a cantare, se aveva voglia e se poteva: per metà cenobita e per metà eremita; un povero prete che cercava Dio ed era cercato da lui. Fino dal seminario don Giuseppe, contemplativo e trasgressivo, aveva messi insieme atteggiamenti che parevano opposti tra di loro; ma era uno schema sbagliato: in realtà non stavano in due caselle differenti, ma in un cassetto solo, mescolati. Marta e Maria (se vogliamo dar credito alla lettura, peraltro dubbia, che in esse vede figurate l’azione e la preghiera) eran, nel simbolo, una persona sola, e il loro opporsi ne scandiva l’unità, proprio come succede in Dio, percorso dal vento del molteplice e teso in se stesso come un arco: quasi un gran sasso variegato, multicolore e rutilante, simile a un pozzo di cui non si può vedere il fondo perché ha fondi infiniti che, a guardarli, ci si perdono gli occhi. E don Giuseppe li aveva sempre persi, fin da ragazzo, fino dal seminario quando metteva, in un unico cassetto, quella stupefazione accanto a una trasgressione che obbediva, al di là delle norme della chiesa, a una gerarchia più alta. Poi gli anni gli avevan pettinata la criniera e conferita una nuova pacatezza, ma senza limar via le punte acute e fastidiose per i più: per i suoi confratelli più regolari, più disciplinati che avevan sempre le risposte pronte perché il Vaticano decideva per tutti, dispensandoli dal decidere in proprio. Lui no, non decideva per procura, e con quei suoi confratelli regolari, e puntualmente regolati, aveva un rapporto faticoso: non del tutto cattivo perché la carità moderava i contrasti, e non del tutto buono perché i contrasti rimanevano e non bastava l’ovatta delle buone maniere per annullare le frizioni. Roma, per sua fortuna, era lontana, dato che il Vaticano non gli ispirava simpatia. Il carisma petrino gli stava bene; ma quante aggiunte a quel povero e nudo ministero: quante “eccellenze, eminenze, santità”! Don Giuseppe, al suo vescovo, più che “monsignore” non aveva mai detto, né lui avrebbe accettato di più. Infatti il cardinal Campagna (un nome un po’ simbolico e un po’ biografico, poiché era di stirpe contadina) era un brav’uomo, un bravo prete, un bravo vescovo e un bravo cardinale; e don Giuseppe poteva dirsi fortunato di avere un superiore che era un padre e un fratello. Anche il vescovo si riteneva fortunato di avere un prete che era, lui pure, più fratel-

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lo che figlio. La categoria della paternità non era molto onorata dal cardinal Campagna perché l’unico vero padre sta nei cieli e noi siam tutti figli suoi e, tra di noi, fratelli, pur con diversi compiti e mansioni; e a lui toccava, qualche volta, di dovere esercitare l’autorità, ma lo faceva malvolontieri, quasi con l’aria di domandare scusa. Quando don Giuseppe gli aveva chiesto di concedergli un anno sabbatico per meditare e per pregare, il vescovo (anche la categoria cardinalizia aveva poco corso perché senza supporti teologici e biblici) gli domandò soltanto come intendeva regolarsi con la parrocchia. E, poiché il parroco vicino avrebbe assicurato l’indispensabile servizio, non fece obiezioni. Era anzi contento che un suo prete avvertisse il bisogno di un tempo più intenso di preghiera. Né del resto la cosa lo stupiva. Conosceva don Giuseppe fino dal seminario. Se quella mansione fosse entrata nei suoi schemi mentali avrebbe potuto definirsi il suo “padre spirituale”; ma, al di sotto dei cieli, preferiva riservare quel titolo ai padri materiali e biologici poiché, sulla paternità interiore, si era fatta troppa retorica. Per don Giuseppe era comunque stato guida e consigliere. Perciò poteva permettersi di chiedergli se c’era uno specifico motivo per quella sua richiesta. “Non lo so, di preciso” rispose il prete “ma ho l’impressione che la mia vita sia a una svolta e non capisco dove Dio voglia portarmi”. “La vita stessa ti risponderà: la vita che è la voce terrestre e storica di lui. Va, don Giuseppe. Non ti benedirò. È ancora lui che benedice e che fa tutto; e noi gli prestiamo le mani, con un segno di croce, tracciato in aria, presumendo di essere noi a benedire. Abbiamo troppe presunzioni, noi preti e, tanto più se vescovi, se papi...” Si eran lasciati così, senza benedizioni, con un abbraccio che si sarebbe detto secolare, se non ci fosse stato dentro, oltre all’affetto umano, tutta la carità di Dio. E ora, dopo il saluto del cardinal Campagna, dopo l’inerpicata lungo strade scoscese e solitarie, don Giuseppe era lì, nella chiesa dei monaci, seduto nel suo stallo, sospeso e come trasognato, con gli occhi a quella fila di piedi, le orecchie al cadenzato salmodiare e la mente che spesso si perdeva e non trovava il filo del pensiero. Ma trovarlo non era necessario. Meglio per-

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dersi e che Dio si curvasse a raccattarci. E quando avrebbe dovuto sfogliare il libro, per trovare le antifone del tempo, lasciava perdere, e l’angelo custode (posto poi che ci fosse) avrebbe supplito a quella sua omissione. Era ben vero che il breviario, per rendere il compito piÚ facile, segnava il punto, con una fettuccia colorata, ma, se mani e pensiero si fermavano, era meglio lasciarsi prendere e naufragare nel mistero di Dio che non aveva bisogno delle antifone giuste.

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Il Celestino che Adriana crea da un conclave nuovamente disperato e che assume il nome-simbolo del dubbio morale e religioso l’interrogazione lacerante posta alla Chiesa dalla fede viene ristampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di PDE presso lo stabilimento di L.E.G.O. Spa - Lavis (TN) per conto di Diabasis nel settembre dell’anno duemila tredici


AL BUON CORSIERO

Il conclave era ben nelle mani dello Spirito ma anche in quelle più terrestri dei cardinali. Quanto, in quell’elezione, era dovuto a un consiglio divino e quanto invece a calcoli temporali, a brighe di prestigio e potere? Perfino quei calcoli però potevano essere presi in mano da Dio, come ogni scelta libera eppure sottomessa al suo volere che, insieme alla nostra, costruisce la storia. Era un intreccio misterioso che, da sempre, aveva inquietato la teologia; e ora inquietava lui, preso in quel gioco inafferrabile nel quale era difficile stabilire le parti, quale la parte di Dio e quale la sua. E dove pure presunzione e ignavia potevano incrociarsi. Chi era lui per dire di sì? E chi era lui per dire di no?

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