999 Le Storie vere dei campioni mancati

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Con il contributo di:

Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Giovanni Cascavilla Copertina Anna Bartoli ISBN 978-88-8103-830-5

Š 2016 Edizioni Diabasis

Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 - e-mail: info@diabasis.it www.diabasis.it


Paolo Amir Tabloni

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le storie vere dei campioni mancati Prefazione di Vincenzo Pincolini Damiano Tommasi Con una nota finale di Arrigo Sacchi

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Il calcio di mezzo

Del calcio si può dire tutto e il contrario di tutto. Infatti sull’argomento si è già scritto molto, moltissimo, forse anche troppo. Eppure c’è ancora tanto da narrare, soprattutto se si vuole andare a grattare sotto la crosta superficiale e le copertine blasonate. C’è il calcio miliardario dei grandi club sempre più conosciuti a livello planetario, che continua a far sognare tanta gente in tutto il mondo. Il calcio di pura passione, quello dei ragazzi, che ancora viene giocato nei parchi di ogni Paese, nonostante le guerre, le scale sociali, le latitudini, il colore della pelle e il materiale del pallone. E poi c’è il calcio di mezzo. Quello dei protagonisti di questo libro, dapprima giovani promesse e infine campioni mancati. Stelle cadenti. Meteore. Storie vere di grandi disillusioni e carriere sgonfiatesi troppo presto. In questa nuova opera di Paolo Amir, in realtà, c’è molto di più. C’è il mondo dei sogni di tutti quei giovanissimi che corrono dietro a un pallone sui campi di periferia, ci sono le durezze e le asprezze di quella vita che in un lampo ti fa ritrovare adulto, ci sono le chiamate importanti, i giorni perfetti, c’è l’ascesa luminosissima e poi il baratro, la disperazione, ma anche la volontà di ricominciare, di rimettersi in piedi, di riavvicinarsi a questo sport nonostante tutto. 999 è un omaggio alla passione per il calcio e per la vita. Una raccolta di biografie tanto comuni quanto invisibili, biografie di sognatori alle prese con brutti risvegli, storie di tanti miei ex giocatori ai quali sono davvero affezionato, e di tanti altri che vedo ancora in campo, e mi fanno pensare che a volte le delusioni sono meno forti dell’amore per il pallone. Un libro che consiglierei a tutti i ragazzi che iniziano a giocare a calcio, affinché possano sì sognare, ma con i piedi ben piantati per terra. Un’opera di grande valore che renderei obbligatoria a tutti i genitori del “nostro” mondo, nella speranza che possano alleviare la pressione esasperata, lo stress, l’ansia e i propri desideri di rivincita sui figli.

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Voglio complimentarmi con l’autore, perché fra le righe di questo libro, ho capito l’interiorità di quel bambino che venne a vedermi a Soragna, in quella storica amichevole con il Milan che così spesso viene ricordata dalle nostre parti. Voglio abbracciarlo perché con le sue interviste raccolte con amore vero e preziosa sensibilità, mi ha ricordato lo spessore che la passione e i sentimenti hanno in un mondo come quello del calcio. Un calcio che sempre più spesso perde anche quando vince. Questo libro mi ha riavvicinato al tesoro custodito nei cuori dei giocatori di ogni Categoria e razza, ma anche in quello degli appassionati autentici, lontano da certe scene drammatiche che continuamente vediamo in tv o negli stadi, lontano dall’odio, dalle strumentalizzazioni politiche, dalle finte ideologie degli ultras, dai moduli 4-4-2 o 4-3-3. Vincenzo Pincolini

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Mille su mille

Non è stato facile mettere in fila queste poche righe da anteporre a un testo che già nel titolo non mi convinceva. 999 presuppone che esista un esercito di “non riusciti”, di “fallimenti sportivi”, di “delusioni, purtroppo a volte, fatali”. Non condivido questa impostazione ma credo sia effettivamente una delle tante vie per arrivare a capire e correggere un mondo, quello dello sport d’elite, che viene troppo spesso analizzato, giudicato e percepito con banale superficialità. Uno su mille ce la fa presuppone, infatti, che “farcela” nel calcio significhi “solo” arrivare in Serie A, che diventare campioni nello sport sia salire sul podio, avere un trofeo o una medaglia. Allora sì, forse anche meno di uno su mille ce la fa. Ma io sono convinto di altro, credo nei mille su mille che ce la devono fare. La possibilità ma anche l’obbligo di diventare campioni ce l’hanno tutti, non uno su mille. Resta da capire il significato che vogliamo dare di “campioni”, o meglio, il significato che ognuno di noi dà al fatto di diventare un campione. Ormai da qualche tempo cito sempre, e rischio di essere logorroico, una frase per me emblematica dello sport: «La mia vera sconfitta non sarà mai nel risultato, ma nell’eventuale mia resa». Le storie che filano via tra le pagine di questo testo, così diverse e così uguali, incarnano la forza di non arrendersi. Tutti i protagonisti ci hanno provato, hanno insistito, qualcuno anche contro i consigli e le delusioni, contro gli infortuni e contro le ingiustizie. Quello che però emerge in maniera forte e a volte struggente è il senso di sconfitta che trasuda. Dai ricordi di quello che non è stato, di quello che sarebbe stato solo se…, non si può non percepire che è abbastanza comune l’idea di aver fallito. Due frasi e una vicenda mi hanno colpito in modo particolare. «Eravamo stati prosciugati della nostra umiltà» segno indelebile di come la vita sportiva si popoli sempre più di “non sai chi sono io” o “finalmente sono diventato qualcuno”. È un fenomeno molto frequente,

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non solo nel mondo dello sport, che ha però un antidoto: la famiglia. Quelli che ti hanno conosciuto e ti hanno apprezzato quando “non eri nessuno” ma per loro eri tutto, sono loro gli unici che ti possono aiutare a rimanere quel “qualcuno” che eri e che, devi esserne consapevole, sarai. E qui viene la seconda affermazione che spiega il perchè l’insuccesso sportivo diventa a volte sconfitta nella vita. «Ne avevo abbastanza di tutto e di tutti. Anche di mia madre, che prima di partire cercava di convincermi a restare a casa e ora non perdeva occasione di dirmi che ero un fallito. Che ero la sua più grossa delusione di una vita». Questi 999, quindi, chi li crea? La selezione naturale di pochi posti per tanti pretendenti o l’idea che nello sport, come nella vita, sia importante solo vincere? Questi 999 rispondono alle aspettative di chi? Sono figli della statistica e delle diverse attitudini di ognuno di noi o sono figli di chi si sente qualcuno solo quando alza un trofeo? E infine quell’uno su mille che si potrebbe intendere ce l’abbia fatta, alla fine, ce l’ha davvero fatta? La vicenda appena accennata tra le righe di chi, arrivato in Serie A o addirittura in Nazionale, si è fermato davanti a un illecito per scommesse, parla molto di più di tanti convegni sui valori dello sport. E allora si chiude il libro, si ripensano le storie, si rivivono quei momenti del calcio giovanile così comune a tutti noi, si vorrebbe abbracciarli tutti questi innamorati traditi dal loro amato sport e rimane assordante la riflessione: da genitori e da dirigenti sportivi, quali e quanti Campioni vogliamo? Damiano Tommasi

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Duplice fischio

Credo che il calcio, come la vita, sia una questione di tempi. Tempo per sognare, ad esempio: come quando impari a tirare calci al pallone a ogni occasione, e il giardino di casa o il campetto del prete diventano la tua arena, il tuo Maracanà, il contesto perfetto per schierarsi dal lato giusto, perché già da lì, non ti piace perdere. Sognare guardando la tua squadra del cuore, il tuo calciatore preferito che non sbaglia davanti al portiere e tu che, indossando la sua maglia, ripeti a te stesso che devi esserne all’altezza. Devi farcela! Sì, perché se provi a chiedere, nessun bambino al mondo sogna di giocare nei campetti di periferia, tutti puntano a essere i predestinati ad alzare la Coppa del Mondo. Piano piano inizi a fare sul serio, tiri i pantaloni di tuo padre per farti iscrivere alla Scuola calcio, poi magari diventi bravo, poi bravissimo, poi iniziano a montarti la testa e magari cominci a crederci per davvero alla storia di quella pesante Coppa alzata al cielo. Così ti alleni sempre più duramente, la tua vita ruota attorno al rettangolo verde e la fatica prende la forma di un obiettivo che ti sembra sempre abbastanza vicino, a un passo da quello sforzo in più. Poi succede che un bel giorno passa finalmente quel famoso treno giusto di cui tanto hai sentito parlare, ma per un motivo o per l’altro capita che si perda, deragli, o che ti porti in un’altra direzione. O che non sia semplicemente come te l’aspettavi. Capita quindi che presto o tardi devi ritornare con i piedi per terra, che la delusione ti faccia cambiare la prospettiva e l’unica cosa che ti conviene fare è trovare la forza per ripartire, e superare la sofferenza, o l’insuccesso, in qualche modo. Ecco perché ho deciso di scrivere questo libro. Perché sono stato quel bambino sognante, una promessa delle tante, quello che ha perso il treno, ma anche quello che ha trovato la forza per ripartire. E sulla strada che da casa mi ha portato al campo da calcio dal manto

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secco e irregolare, ho avuto modo di conoscere tanti altri bambini spaesati che sono diventati uomini insieme a me. 999 racconta la mia e la loro vera storia. Storie tranciate a metà da un ipotetico duplice fischio dell’arbitro, che divide il primo tempo dal secondo. Il tempo in cui le cose potevano succedere, e un altro in cui bisognava tornare in campo dopo l’intervallo, o il fallimento, o la fine di una carriera che sembrava scritta. Intervalli che fanno indurire le gambe, sedimentano l’acido lattico, ci mettono spesso k.o., o semplicemente ci allontanano dalla convinzione di diventare quell’uno su mille al quale speravamo di essere destinati. Nei miei quasi trent’anni di calcio giocato, ho cambiato davvero tante squadre, conosciuto un’infinità di compagni e allenatori, perciò non è stato facile selezionarne ventotto da mettere in questo libro. Voglio da subito puntualizzare di non aver scelto semplicemente quelli che reputavo più forti, ma quelli la cui storia mi ha permesso di poter raccontare una faccia diversa del mondo del pallone, delle varie vicissitudini e varianti che hanno trasformato ciascuno di noi, da promessa a meteora. Ho trovato le storie più improbabili, e ho voluto legarle indissolubilmente alla mia, perché chiunque ho incontrato nella mia vita, mi ha permesso di diventare quello che sono. Certo non un campione, ma un uomo quello sì. Che questo duplice fischio, quindi, possa aiutare tanti altri ragazzi a rimettersi in piedi senza l’attrito fastidioso di rimpianti e rimorsi. Perché il calcio è un gioco bellissimo, ma nella vita ci può e ci deve essere molto di più. Paolo Amir Tabloni

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Paolo Amir Tabloni

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E chissà quanti ne hai visti, quanti ne vedrai, di giocatori tristi che non hanno vinto mai, che hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro, e adesso ridono dentro a un bar‌ Francesco De Gregori, La leva calcistica del ’68


Ai sogni mai avverati, a chi cade e si rialza, ad Andrea Schiaretti e ad Alcide, mio padre



Gambe che non reggono il peso Una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco. Luciano Ligabue, Una vita da mediano

Se è vero che il calcio non è solo un gioco, posso dire di avere avuto tanti compagni di viaggio, oltre che di squadra. Io e Christian Grillo ad esempio, abbiamo condiviso diversi spogliatoi: quello del Parma prima (Esordienti, stagione 1993/94), del Brescello poi (Allievi e Berretti, dal 1997 al 1999), e infine del Real Val Baganza (Eccellenza, 2006/2007). «Caro Tablo, quando giocavamo insieme negli Allievi di quel Brescello dei miracoli, era già tempo di rivincite per noi. Io, ad esempio, ero appena stato scartato dal Parma, troppo esile dicevano. Per questo mi trovavo lì. Eravamo un bel gruppo, chiunque di noi aveva qualche sassolino nelle scarpette che iniziava ad essere un po’ troppo scomodo per correrci su. Così, dando tutto, cercavamo di levarcelo». Lo dice sorridendo, Christian, con quella leggera malinconia di chi stacca un attimo la testa dal bancone del suo bar, e togliendosi il grembiule, ritorna ai tempi in cui il calcio era molto di più che tutto. Centrocampista classe ’83, un po’ Pirlo e un po’ Gattuso, sempre mobile davanti alla difesa, due gambe curve che lo fanno tanto Jigen e due occhi da sognatore incallito: eccolo, Christian. Un’amante della vita, sempre ben disposto alla compagnia, un tipo dalla battuta pronta, la pacca sulla spalla facile e una bella storia da raccontare. «In quel 1998, verso Natale, fui chiamato a Coverciano per uno stage di tre giorni con l’Under 16 della Nazionale. Mi tremano ancora le gambe: eravamo nella sede del ritiro più sognato dagli italiani, quello dove si riunivano i grandi campioni. Il solo pensiero di aver dormito in un letto in cui magari aveva dormito Roberto Baggio, beh, non si può spiegare… è un brivido che mi porterò dentro tutta la vita. Che poi ai brividi, all’epoca, quasi mi ci ero abituato. Arrivavano chiamate da diverse Società. Fisicamente stavo bene, avevo quindici anni ed ero pronto a fare il grande

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salto. L’occasione più importante, l’occasione della vita, arrivò all’inizio dell’anno nuovo, quando a chiamarmi fu l’Internazionale di Milano (quella vera!) e io iniziai l’andirivieni di provini. Ricordo che dopo il terzo conquistai mister Pancheri e fui convocato per il torneo Beppe Viola ad Arco (Tn), con gli Allievi nerazzurri. Un torneo che durò abbastanza per farmi sognare. In quella settimana, infatti, insieme ai “nuovi” compagni, assaporai per la prima volta il profumo del calcio che conta. Con tutto il rispetto, quella maglia aveva un peso specifico diverso rispetto a quella gialloblù del Brescello. Giocai tutte le partite, compresa la semifinale contro quel Parma che aveva deciso di fare a meno di me. Vincemmo il torneo in finale contro la Sampdoria, e qualche dirigente si preoccupò subito di dirmi che ci saremmo rivisti presto. Era il 16 febbraio del 1999, e chi se lo scorda. Così, col mio cappellino marchiato Pirelli e una lettera della convocazione in Nazionale sempre in vista sulla scrivania, tornai a Brescello per finire la stagione, e come d’incanto, nel mese di Maggio, quella telefonata tanto attesa arrivò. Peccato che il Brescello per il mio cartellino sparò un prezzo troppo alto, e l’Inter senza tanta mediazione rifiutò. Ammetto che non fu facile da digerire. Nemmeno quando la Società reggiana per rimediare provò a mandarmi alla Juventus, nemmeno quando mi disse di tenermi pronto, che prima o poi, anche grazie a loro, avrei preso il volo». Nella stagione successiva, Christian si fece notare per bene da mister Vitale, finalmente nel giro della Prima squadra del Brescello, in C1. Una rosa ampia di giovani e di qualità, che tanto per dare un’idea, in attacco schierava Max Vieri e Riccardo Zampagna. «Quell’anno mi sballottarono in continuazione tra Prima squadra e Berretti, tre giorni di qua e due di là. Ero pronto all’esordio, lo volevo con tutto me stesso, poi però Vitale fu esonerato quando ormai s’era convinto a giocare la mia carta, e al suo posto arrivò il duo Mozzini-Azzali. Inutile dire che, fino a fine anno, la Prima squadra la guardai soltanto dalle gradinate dello Stadio». L’aneddoto più simpatico risale proprio a quell’annata, quando una domenica mattina, il giovane classe ’83 fu chiamato d’urgenza dai dirigenti, perché il centrocampista Antonio Terraciano era “costretto ai box” causa febbre. «Quella domenica mi presentai in ritiro con le pieghe del cuscino ancora disegnate sul volto. Durante il pranzo mi si avvicinò proprio Terraciano e mi disse: “E tu che cazzo ci fai qui?”, “M’hanno chiamato

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perché temono che tu oggi non ce la possa fare”, gli risposi. “Ah sì? E tu pensi di giocare al mio posto solo perché ho due linee di febbre? Beh, te lo puoi scordare, ragazzino!”. Non so come sarebbe andata a finire. Quel Brescello – Cittadella fu sospesa per neve, ma Terraciano continuò a guardarmi storto ancora per un paio di settimane. Insomma, l’aria era cambiata». Nonostante tutto, l’esordio tra i professionisti di Christian Grillo, non tardò molto ad arrivare, fu necessario l’arrivo in panchina di mister Cuoghi, ex gloria del Parma di Nevio Scala. Così il 13 dicembre 2000, Grillo esordì in Coppa Italia, sul campo neutro di Suzzara, contro il Montichiari. Seguirono altre quattro presenze, quasi tutte da titolare, spesso col 10 sulla schiena, il ragazzino tra i veterani Gentile, Fusani e Matteassi. Il giovane Grillo cresceva veloce secondo Cuoghi, tant’è vero che sotto gli occhi del suo nuovo procuratore (Francesco Cardi), ad Arezzo, il 28 gennaio 2001, Christian esordì anche in campionato. Sì, ora poteva definirsi una promessa. La stella nascente. «Fu il giorno più bello della mia vita. Erano tutti per me, tutti a prendersi il merito d’aver svezzato il giovane del futuro. Ricordo la tensione del sottopassaggio, i cori degli ultrà, le gradinate piene di gente, gli incoraggiamenti dei compagni, ma anche la sassaiola dei tifosi aretini all’uscita dallo stadio, nonostante avessimo perso 3 a 1. Tutto mi sembrava perfetto: potevo considerarmi un giocatore vero. Peccato che il sogno durò talmente poco, che passai dalle stelle alle stalle nel giro di quattro giorni, il tempo di arrivare al giovedì successivo, in quella maledetta amichevole d’allenamento contro i Crociati Parma (allora in Serie D)». Fu proprio in quella partita che in un contrasto con un avversario, il suo ginocchio fece crack: legamento crociato anteriore destro, operazione fissata per l’11 aprile, il giorno del suo diciottesimo compleanno. Quelli sono sempre mesi di grande agonia. Riabilitazioni interminabili, speranze di un recupero lampo improbabile e un treno per il grande sogno pronto a partire. Per non perderlo, Christian si presentò al ritiro quasi in forma perfetta. Quasi però… Nel frattempo, la Società aveva cambiato gestione, il presidente Amadei lasciò le redini a Ernesto Foglia e assunse la presidenza del Modena Calcio. Anche mister Cuoghi se ne andò (a rimpiazzarlo fu mister Cadregari) e iniziò una nuova girandola di giocatori.

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La C2 poteva essere una grande opportunità per il mediano: poteva ritagliarsi maggiore spazio. Peccato che la dea bendata non la pensasse proprio così, e alla prima di Coppa Italia, a La Spezia, lo stesso ginocchio fece di nuovo crack. Menisco. «Stavolta non mi operai. I dottori dello staff continuavano a dirmi che non serviva, che potevo giocare ugualmente. Ma ogni volta che lo sforzavo si gonfiava. Ore e ore di ghiaccio a casa, davanti alla tv. Ore passate in infermeria, a guardare i compagni giocare, seduto sopra un lettino. Berretti e Prima squadra, Prima squadra e Berretti, non una presenza, nessuno che s’interessasse della mia condizione, tanto meno il mister, che cullato dalla buona annata della squadra, mi mise subito nel dimenticatoio. Insomma, un’altra annata buttata». Nella stagione 2002-2003, Ernesto Foglia, presidente oltre che del Brescello (C2) e Reggiana (C1), anche dei Crociati Parma (Serie D), girò Christian proprio ai Crociati. «Avevo bisogno di giocare. Non ce la facevo più. Il ginocchio faceva sempre più male. Ero partito ancora una volta in ritiro col Brescello, stavolta con Marco Osio allenatore, ed ero stato chiaro fin da subito: niente favole, o mi curate e mi fate giocare, o me ne vado!». Dirottato ai Crociati Parma, Christian finalmente si operò al menisco e finì la sua stagione in crescendo. La sua vera rinascita però, si chiamò Maceratese (Serie D). Stagione 2003-2004. «Fu la prima vera esperienza fuori casa. Partivo da Parma tutti i martedì mattina e tornavo la domenica sera, dopo la partita. Macerata era un’altra cosa. Allo stadio si contavano una media di millecinquecento persone, c’era quel giusto attaccamento alla squadra, quello spirito un po’ decaduto dalle nostre parti. A vent’anni mi sentivo di nuovo giocatore. Macerata era una realtà simile a quella di Parma, molto tranquilla, ma più piccola; la vita scorreva meno frenetica, la gente era meno costruita sull’immagine, ma più sui valori. Mi riconoscevano tutti, era difficile che nei bar riuscissi a pagarmi un aperitivo. Fu stupenda quella stagione, uno spettacolo: pensavo solo ad allenarmi e divertirmi. Al martedì sera avevamo un tavolo riservato alla discoteca Palace a nome Maceratese. Mercoledì in un baretto in centro sghignazzavamo con la phonechat. Di giovedì ci si ritrovava con altri giocatori e universitari al pub Quattroporte e venerdì sera finivamo tutti al Green o al Babalù di Porto Recanati. Nel nostro appartamento era sempre una festa, portavamo ragazze

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tutte le sere e poteva capitare, che ce ne fossero addirittura più di una per ciascuno di noi. La domenica poi, ero spesso il migliore in campo. Cosa potevo volere di più dalla vita?». E a novembre, a Macerata, passò un altro treno… probabilmente l’ultimo. Il presidente, una sera, portò Christian a cena e gli parlò di alcune proposte che erano pervenute per lui. Quella più importante veniva dal Perugia (allora in Serie A): gli uomini del presidente Gaucci l’avrebbero voluto mettere sotto contratto per poi girarlo alla Sambenedettese (C1). Christian, senza pensarci due volte, diede la sua disponibilità, ma la domenica prima dell’affare, incredibilmente, si ruppe di nuovo lo stesso menisco. Quindi, ancora una volta uno stop, un’occasione mancata e un paio di mesi di riabilitazione. L’anno successivo, può essere considerato l’ultimo da giocatore professionista, per lui. Il procuratore lo mandò a Carpi (Serie D), agli ordini di mister Presicci prima e Sgarbossa poi. Fu un inizio infelice per il centrocampista, che causa il poco affiatamento con la guida tecnica, finì addirittura per giocare come terzino. Così, a dicembre passò al Riccione (Serie D), dove, arrivato con la squadra in terz’ultima posizione di classifica, la portò fino ai play-off. La vera svolta, l’involuzione definitivamente della sua carriera, arrivò nella stagione 2005-2006: «Dopo tanti sacrifici, infortuni, riabilitazioni e sfortuna cronica nei momenti più importanti, ero decisamente stremato. Non ce la facevo più. Avevo ventidue anni e non mi ero ancora costruito un futuro, a dire il vero, non ne avevo nemmeno un’idea da dove iniziare, dovevo solo staccare la spina. Lo feci tornando a Parma, dalla mia famiglia, trovandomi una squadra non troppo lontano e lasciando una volta per tutte il mio procuratore. Il primo anno firmai col Suzzara (Eccellenza Lombarda), l’anno dopo col Real Val Baganza (Eccellenza), poi Crociati Parma (Serie D), quindi Meletolese, Pavullese e Bettola Ponte (Eccellenza). Trovai lavoro come barista e poi come commesso in un negozio del centro. Infine decisi di aprire un bar e ora ho intenzione di aprire anche un centro estetico. É arrivato il tempo di provare altre strade». Rimangono tante fotografie di un’esperienza che ha cambiato la vita di Christian Grillo per sempre. Rimangono amicizie consolidate con i

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suoi compagni di squadra ed ex, ognuno con la sua storia. Chi ha finito gli studi e ha incominciato a lavorare, chi è diventato imprenditore, chi insegue ancora il grande sogno, quasi tutti ancora in attività, molti dimenticati in qualche campo da calcio senza pretese, in categorie che magari non necessitano neanche di guardalinee, nè lavanderie per le tute d’allenamento. «Se proprio devo rammaricarmi per qualcosa, col senno di poi dico che sarei potuto rimanere nel paradiso di Macerata almeno un altro po’, o come dice mio padre, non gettare la spugna a soli ventidue anni. Ma noi gente del pallone sappiamo come vanno queste cose: l’abbiamo imparato sulla nostra pelle. Se penso che a sedici anni nelle selezioni della nazionale giocavo con Marco Donadel e Pasquale Foggia, beh, qualche scheletro nell’armadio è chiaro che me lo son fatto. Ma mi sforzo di sorridere, consapevole che se un giorno avrò un figlio, e vorrà provare a giocare a pallone, dovrà pensare solamente a divertirsi. Il calcio mi ha insegnato questo: imparare a convivere con gli altri, sacrificarsi per un sogno, tenere duro nelle difficoltà e credere in sé stessi. Il calcio ti tempra e ti matura molto prima rispetto ai tuoi coetanei. Dico solo che trovarsi a gestire gioventù, due soldini in tasca e qualche briciolo di fama non è poi così facile, e io, nel mio piccolo, almeno in questo, so di essere stato fortunato». (Intervista dell’11 novembre 2010)

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Indice Il calcio di mezzo di Vincenzo Pincolini Mille su mille di Damiano Tommasi Duplice fischio di Paolo Amir Tabloni

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Gambe che non reggono il peso, Christian Grillo Un posto da chiamare casa, Cristian Reggiani Il prezzo della leggerezza, Mauro Ghillani Icaro, Marco Nichetti Talento moltiplicato per zero, Pietro Furini C’è chi dice no, Paul Andres Stivan Le fragili fondamenta di certi sogni, Roberto Fabbi Lupo di mare, Alessandro Lupo La vita che cambia, Giancarlo Cantarelli Biglietto sola andata, Luka Sikur Desaparecido y encontrado, Hernan Ezequiel Boderone Ascesa vertiginosa e caduta verticale, Gian Elia Amoretti Mai quello giusto, Vittorio Bazzarini Fratello d'arte, Leonardo Pioli Sogni e tacchetti bagnati, Alberto Mingozzi L’unica bomba inesplosa, Boris Voijkic Il matematico che fermò Trezeguet, Davide Addona Notti bianche, Pasquale Iadaresta Purosangue, Gianmarco Bozzia Il piccolo principe, Sandro Maccini Controvento, Luca Ferretti Il fantino che giocò in Serie A, Gabriele Ballotta La parata più difficile, Antonio Spanu Grande tra i piccoli, Matteo Rastelli Il goal della bandiera, Ferdinando Piro Mal d’Africa, Saidou Oumar Daffe Le incomprensioni dei numeri 10, Nicolò Talignani L’aria che manca, Giovanni Pragliola Guerra e pace, Paolo Amir Tabloni

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Nota finale di Arrigo Sacchi Ringraziamenti

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