Il trucco della morte, di Astrid Paprotta

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IL TRUCCO DELLA MORTE di Astrid Paprotta

Traduzione di Filippo Nasuti


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Astrid Paprotta, Il trucco della morte Titolo originale: Die ungeschminkte Wahrheit First published in 2004 by Piper Verlag GmbH, München Copyright © Piper Verlag, 2004 Copyright © Del Vecchio Editore, 2010 Grafica e impaginazione: Dario Lucarini Fotografia di copertina: Guglielmo Alati Editing: Paola Del Zoppo Redazione: Vittoria Rosati Tarulli www.delvecchioeditore.it www.myspace.com/delvecchioeditore ISBN: 978-88-6110-022-0


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1 Una sera di primavera, poco prima delle otto, Pit Rehbein, tutto vestito di nero, si arrampicò sul bordo del pozzo davanti al Teatro dell’Opera e iniziò a cantare. La locandina recitava: Il flauto magIco. Un esercizio semplice per Pit Rehbein. – Questo ritratto è meravigliosamente bello/ come nessun ooocchio ha visto mai. – Si interruppe, alzò la bottiglia di birra e gridò: – Il flauto magico! Qui per voi a prezzo ridotto! – Poi continuò a cantare: – Sento come tale immagine divina/ Riempia il mio cuore di nuovo sentimento. Ci furono ben pochi applausi ma molte risate, perfino i due poliziotti passati di là per caso risero. Tuttavia la maggior parte delle persone, pubblico d’Opera vestito a festa, ignorò Pit Rehbein. Bevve un sorso poi si piegò verso i poliziotti: – Cos’altro desidera sentire il signor agente? Proporrei una tosca: «Vissi d’arte, vissi d’amore!». – Naaa, basta così, – gridò il più giovane dei due in uniforme. – Scendi, lo spettacolo è finito. – E chi lo dice? – chiese Rehbein. – Lo dico io. – Il poliziotto passò al lei: – Potrebbe cadere. Nel pozzo, intendo, quindi scenda. – Non capite che così non faccio soldini per bere? – Pit Rehbein indicò con ampi gesti gli spettatori dell’opera. – Eppure pagano per quella tortura lì dentro. – Come tortura? – chiese il poliziotto. – Be’, la rappresentazione non deve essere un granché. – Rehbein saltò giù dal pozzo e rovesciò qualche goccia di birra sull’uniforme di un poliziotto. – Mi scusi, – disse, – non volevo. – Sì, come no. – Stringendo gli occhi il poliziotto si guardò la giacca: solo un piccolo alone. Erano le prime belle giornate di maggio.

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2 A mezzogiorno la città si fece scura. Si sentiva un lontano e cupo ringhio, come un cane feroce che da dietro l’angolo è pronto ad attaccare. Infatti appena si fece sera scoppiò il temporale. I fulmini disegnavano una striscia di luce tra le nuvole e la pioggia riempiva strade, cantine e decappottabili. Non si abbassò molto la temperatura; da due settimane l’estate aveva stretto la città nella sua morsa. «Non fatevi illusioni», aveva detto un meteorologo alla radio, «sarà ancora più afoso». – Ed ecco che sarò io a farne le spese! – disse Ina Henkel. Dalla finestra del comando di polizia guardava il vento scardinare i cestini dei rifiuti e la pioggia martoriare i giornali che, a brandelli, nuotavano nei canaletti di scolo. Le piaceva l’estate, ma solo se non doveva lavorare. – Che? – chiese Stocker. – L’afa. Mi fa venire il mal di testa. – È tutta immaginazione, – rispose Stocker. – Se non analizzasse così a fondo questo tempo innaturale non avrebbe alcun problema. Adesso mi leggerà anche che prima la pressione sanguigna scende a picco e dopo dieci minuti si cade in coma. Il maltempo, ribattezzato Gundula, “l’ardente Gundula”, era l’argomento della settimana; la gente disquisiva di temperatura e umidità e sosteneva che la calura soffocante era molto peggiore di quella secca e che probabilmente dipendeva da quella strana temperatura che si “avvertiva” e della quale parlavano tanto tutti i meteorologi. I giornali mettevano Gundula in prima pagina e scrivevano: «La Germania boccheggia», oppure: «La Germania evapora», poi riportavano i buoni consigli dei medici: «Bere molto, pochi movimenti, frequenti pisolini, indossare vestiti traspiranti, stare all’ombra, coprire la testa, bere tisane». – Tisane, – disse Ina Henkel, – da piccola le svuotavo sempre nei vasi.

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– Anch’io, – disse Stocker. Ina si voltò, ed era il primo vero movimento che faceva da mezz’ora. – Anche lei? – Certamente, – rispose Stocker, – da piccoli è normale. Non si sarebbe aspettata che Stocker avesse fatto cose da bambini normali; le sembrava come se il trentanovenne a capo della Sezione Omicidi fosse venuto al mondo come un trentanovenne a capo della Sezione Omicidi. Rideva raramente, in linea di massima non si faceva dare del tu da nessuno, tranne, forse, dalla moglie, e organizzava la sua vita in base a liste di attività da svolgere. A Ina sembrava normale che lui, di sette anni più grande, desse l’impressione di non soffrire l’afa e che, mentre lei non riusciva ad alzare un dito, lui si affaccendasse in giro per l’ufficio. Però in passato anche lui aveva bevuto infusi. Per lo meno era stato bambino. Ina disse: – Sono sorpresa. – Non mi piacciono le tisane, – rispose diretto Stocker e cominciò a pulire con un panno umido la tastiera sulla sua scrivania, che all’interno odorava di acqua di colonia, la 4711. La pulizia era importante col caldo, dicevano i medici parlando di igiene, igiene “maniacale”, e Stocker puliva la sua tastiera da quel freddo giorno d’inverno in cui lesse che su ogni tasto, più precisamente “tra” ogni tasto, si annidano generalmente più batteri che sulla tavoletta di un bagno pubblico. Cominciò dall’alto a sinistra, strofinò i tasti, per arrivare poi in basso a destra. Stava pulendo la L quando un collega entrò con un biglietto che usava a mo’ di ventaglio. – C’è un barbone morto al parco. – È il ciclo della vita, – disse con sicurezza Stocker. – No, gli hanno sparato. – Pallottola d’oro? – Probabilmente è bastata una normale pallottola di piombo. Il commissario capo Ralf Stocker indossava pantaloni chiari e il commissario Ina Henkel un vestito estivo leggero con sotto le sue

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décolleté più belle. Forse erano stati troppo ottimisti sull’andamento del tempo e della sete di sangue degli assassini. Ina voleva chiedere al collega col bigliettino: «Chi fa una cosa così con 35 gradi?». Meccanicamente rovistò nella tasca cercando la boccetta di Calvin Klein. Si improfumava sempre prima di esaminare un cadavere. In estate li odiava, i cadaveri, perché puzzano già poche ore dopo la morte, almeno così le risultava. – Avete una bella gatta da pelare, – disse il collega. Erano le otto di sera, c’era un buio pesto e la pioggia si accingeva a trascinare via mezza città. – Ah, già, il cantante. Come dire… – commentò Jendrik, – era un tipo divertente. L’ultima volta l’ho visto davanti al Teatro dell’Opera, sarà stato all’inizio dell’anno. Stava sul pozzo e cantava… Ah sì, quell’opera che davano a teatro. Comunque, ha cantato un paio di strofe, si chiamano così?, e ha preso in giro la gente, gli spettatori, ma non ha mai davvero disturbato la quiete pubblica. Davvero, non ha mai recato disturbo. Tra l’altro, non è che cantasse un granché. Il giovane agente di pattuglia con la mano destra reggeva una torcia e con la sinistra il suo gomito. Una torcia non era poi molto pesante, tuttavia Ina sapeva che così il poliziotto riusciva a nascondere il tremolio delle mani. Jendrik era capitato lì per primo e aveva proprio un brutto aspetto, come tutti gli altri lì attorno: sporco, zuppo e spaventato. Dunque, la vittima, ricominciò daccapo, l’ultima volta che l’aveva vista e per quanto ne ricordava era saltata giù dal pozzo e gli aveva rovesciato della birra sulla giacca, non intenzionalmente, chiaro, era successo e basta. – Sicuramente, – disse Jendrik, – un tipo strano lo era, ma anche piuttosto dotato, dato che ne capiva qualcosa di musica. A un paio di metri da Jendrik era parcheggiata la sua volante, la cui sirena era coperta dalla pioggia battente. Nel giro di qualche minuto

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caddero dalle nuvole dei raggi di fuoco che, guizzanti, atterrarono ai loro piedi illuminando il volto di quell’uomo che Jendrik chiamava “il cantante” con la bocca mezza aperta e gli occhi fissi nel nulla. Proprio quel volto. Ina si sentì trasportata in un film dell’orrore inglese. Mancava soltanto il cane nero arrivato dalla palude, che divorava tutti. Per fortuna lì non c’era nessuna palude anche se la situazione era molto simile. Il vento soffiava così forte che era inutile aprire un ombrello. Sarebbe stato anche pericoloso, considerati i fulmini. – Ricapitoliamo, – disse Stocker a Jendrik: – Può identificarlo, ma non ha niente a che fare con lui. Era leggermente piegato sul cadavere con le mani sulle ginocchia. – È riuscito a riconoscerlo? – Si rialzò. – Sì, – rispose Jendrik. – In qualche modo ci sono riuscito. – Distolse lo sguardo. – Era diventato sempre più strano, ma non pericoloso. A volte era ubriaco, sa com’è, e di notte se ne andava in giro per i giardinetti a cantare le sue arie, poi lo abbiamo prelevato. Era sempre molto gentile, be’… – – Be’, – ripeté Stocker. – Senza fissa dimora? – Non proprio, – disse Jendrik, – ha sempre dato l’indirizzo di una parente, la sorella credo. Sicuramente non era un barbone, credo non lo si potrebbe considerare tale. Non l’ho visto andare né in stazione né da qualche altra parte e non era nemmeno un drogato. Forse era un maestro nell’arte del vivere, – spiegò Jendrik e nella sua voce si avvertì qualcosa da non interpretare, forse una sorta di desiderio, un sogno. – Ha sempre trovato alloggio ovunque, quasi sempre lo ha preso con sé una donna, ogni volta che usciva di cella. Ogni volta una DIVERSA. – Ah, sì? – esclamò Stocker. Jendrik annuì. Diede un altro sguardo al cadavere, chiuse gli occhi e disse: – Rehbein, Pit. Precisamente Peter. – Quindi non era nel suo carattere? – Ina Henkel illuminò il volto del cadavere con la sua torcia.

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– No, – rispose Jendrik. – No. È… – Non aggiunse altro. Ina fece scorrere la luce lungo tutto il corpo. La gola era un’unica grossa ferita; sfiorò leggermente gli schizzi da vicino. Il viso era illeso, nonostante a prima vista non sembrasse. Non c’era sangue che colava sotto la pioggia e che riempisse fronte e guance dell’uomo, bensì trucco, e ce n’era tantissimo, come se un becchino ubriaco si fosse sfogato su di lui. Luccicava tutto: l’eye–liner, l’ombretto, il rossetto e il fard. Era tutto pesantemente dipinto su labbra, ciglia e guance. – Che ne pensate? All’arrivo della Scientifica si dimenticarono tutti di lamentarsi della pioggia che fa perdere molti indizi. Accaldati per le tute bianche accollate, si piegarono sul cadavere, ipotizzando di trovarsi di fronte a un travestito. – No, guarda com’è denso questo cerone. I travestiti se ne intendono di trucco, questo qui no. – Anche i vestiti non c’entrano niente: vecchi jeans e una t–shirt, poi questo trucco… È assurdo. Stocker chiese: – Ha qualche significato il viso truccato? – Se il cerone non se l’è messo da solo, – rispose Ina, – allora forse. – Be’… – Altrimenti, – aggiunse sapendo che anche lui pensava la stessa cosa, – avremmo di fronte uno svitato. – Con disturbi psichici, – la corresse Stocker con l’automatismo di chi risponde: «Salute» a uno starnuto. Non era importante. Gli assassini pazzi erano l’ultima cosa che volessero trattare. – Non parliamo del trucco alla stampa, – disse Stocker. Ina annuì e si fece strada nel fango verso una seconda vettura nella quale era seduta la coppietta che aveva rinvenuto il cadavere. Un uomo magro e di bassa statura teneva la mano a una donna alta e ancora più magra di lui che fissò le scarpe completamente sporche di Ina prima di iniziare a raccontare che erano in giro per trovare una piazzola, un’area barbecue, quando era scoppiato il temporale…

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– Che intende con “area barbecue”? – domandò Ina. – Qui intorno a volte si fanno delle grigliate, – rispose l’uomo. – Ci vengono le famiglie turche dopo il lavoro. A volte ci sono anche dei barboni, ma non fanno barbecue. – Ah ah. E… – Stiamo scrivendo una tesina sugli Studi di genere, e analizziamo il comportamento delle famiglie in questa occasione. Che storia! Cos’erano gli Studi di genere? Queste cose bisognava chiederle a Stocker, bastava schiacciare un pulsante e lui te le diceva. – Il comportamento delle famiglie durante i barbecue, – aggiunse la donna, – in confronto a quello degli studenti. Questa poi… – Perché, ci sono differenze? – Certo, – rispose la donna. – È proprio l’argomento della nostra tesina. – Bene, – disse Ina. – A questo proposito… – ebbe per qualche secondo la visione di Rehbein sul girarrosto. – … Era disteso là, – sentì dire dall’uomo. – Disteso su un fianco, cioè, disteso a pancia in giù, ma con la testa girata da un lato, capisce? Si capiva già che era morto. Da non credere! – Avete alterato la scena del crimine? – chiese Ina. – L’avete toccato? – Ovviamente no, – rispose la donna. – E poi era pieno di sangue, – continuò. – Aveva un viso strano. Ina non si interessò alla questione. – Avete notato qualcosa? – Domanda di rito. – Avete visto qualcuno nelle vicinanze? Scossero la testa. – Gente a passeggio? Rumori? Qualsiasi cosa? – No, – rispose la donna. – Ah sì, invece, qualche bambino coi genitori. Ma correvano tutti via, dato che iniziava a diluviare. – A parte questo, nulla? – No, nulla.

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Un morto piovuto dal cielo. L’agente Jendrik si era dispiaciuto del suo decesso. Chi altro? the jaws of hell, anytime, anytime, we can wipe you out, anytime, anytime.1 Ina alzò talmente tanto il volume del cd dei Radiohead che i vicini batterono di nuovo sul muro. Le finestre erano tutte spalancate eppure non entrava aria fresca, solamente tanfo, gas di scarico, acqua putrida, sangue, sudore e lacrime. Tutti i sudori che Ina si portava addosso e dei quali Stocker diceva: «Sono tutte sue fissazioni». A prescindere da ciò che diceva lui, riusciva a ricacciare questo miscuglio di odori solo con i flaconcini per i quali aveva fatto sistemare apposta in bagno un armadietto. Quadrati, tondi e ovali, spigolosi, ellittici, conici e strani. Poteva presentarsi a Scommettiamo che…? per individuare al primo colpo moltissimi odori. Jerry preferiva i profumi più aspri e quelli più pungenti lo facevano starnutire. Sollevò dal pavimento il gatto bianco e nero e lo strinse a sé. Jerry era il tipo più affidabile nella sua vita, era sempre là. Da qualche parte, fuori, una televisione rovesciò nell’aria delle risate sguaiate e preregistrate, mentre la luce di un lampione disegnava un’immagine sul parquet. Accuratamente Ina ne seguì i contorni con la punta del piede: un nasone, un naso bitorzoluto o qualcosa di simile. L’appartamento di Ina Henkel dava proprio l’idea di un appartamento in cui si sono originariamente trasferite due persone che ci hanno stipato le loro cianfrusaglie. Prima insieme. Poi una delle due le ha tolte. Rimanevano dei “buchi”. Buchi li definiva lei stessa, perché di vuoti proprio non voleva parlare. Eppure, al contrario delle sue amiche con la stessa esperienza, non si era gettata nello shopping sfre-

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nato per colmare i buchi. Fa niente. Aveva la sensazione che ci fosse più spazio per i pochi mobili in casa e che le pareti spoglie riflettessero meglio la luce bianca di tre piantane. Erano importanti il telefono e il frigorifero, uno per ordinare pizza e insalata per due, l’altro per conservare gli avanzi per la sera dopo. Molto utile era anche Benny Fohme, un bel ragazzo sui venticinque che vendeva mezzi polli, salsicce al curry e patatine dentro una roulotte rimodernata all’angolo della strada e ammaliava tutto il quartiere con la sua insegna rosso fuoco: FAME? C’È FOHME!. Benny, il ragazzo dei polli arrosto, ma anche un buon vicino, aveva detto che l’appartamento di Ina poteva tranquillamente essere sia casa popolare sia appartamento di design, dipendeva solo da come si interpretava lo scarso mobilio: ridotto al minimo indispensabile o limitato all’essenziale. In passato aveva pianto notti intere per l’appartamento lasciato a metà e per quel tipo fuggito via. In passato… Quando era stato? Si sedette sul divano, si appoggiò e fissò la parete bianca… Ripensò a due, tre anni prima quando voleva viaggiare per mezzo mondo e mettere in programma “l’altra metà” per non pensare continuamente al lavoro. In passato, quando aveva una vita oltre il lavoro; era sempre in attesa dell’estate, di film al cinema, di serate nei pub e costantemente innamorata, ma era anche una poliziotta stupida e paurosa che si faceva rubare il sonno dai cadaveri perché la vista di una faccia morta la faceva urlare di notte. Adesso era molto zelante sul lavoro, faceva più straordinari dei colleghi e si metteva costantemente a disposizione. Aveva cominciato a parlare con i criminali; era a tu per tu con quella feccia. Sulla parete i contorni di una mano. Dopo cinque o dieci minuti le dita uncinate si mossero e la mano prese una pistola. I movimenti fluidi e sciolti. Continui. Il tempo si fermò. Prima la mano vuota e poi la pistola. Ina piegò indietro il capo e chiuse gli occhi, non appena li riaprì vide delle gambe tremolanti e sangue sulla parete.

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Impossibile piegare la testa, alzarsi o anche solo muoversi perché la mano sulla parete era la sua. Non voleva avere quella visione, ma continuava ad averla ogni notte; la sua mano e la sua pistola, solo il sangue non era il suo. Era tutto in bianco e nero e soltanto il sangue formava una macchia rossa. Era sempre così. In passato la parete era d’un bianco candido. In passato, quando non era ancora un’assassina. Attenta, non girarci intorno. Non erano forse le parole di addio di Tom?: «Non pensarci troppo». Quando aveva cominciato a fissare la parete per ore e, per qualche istante, a guardare dentro l’uomo col quale viveva, lui le aveva detto: «Non pensarci continuamente, sei mezza morta». «Allora vattene», gli aveva risposto. Lui aveva ribattuto: «E infatti me ne vado». E fu quello che fece e lei continuò a fissare la parete aspettando che anche l’assassino col quale aveva a che fare si facesse vivo. La prima volta che vide lì la sua stessa pistola, non mentre sparava, ma mentre veniva abbassata dopo lo sparo, fu proprio quando aveva iniziato a parlare con gli assassini, dato che adesso era al loro stesso livello: Cosa avevi in mente? Qual è il tuo piano, come lo metti in atto? Brutto stronzo. Jerry era disteso sul divano accanto a lei e russava beato. Ina gli poggiò la mano sulla testa bianca e nera. A lui le cose andavano bene: aveva da mangiare, il suo giocattolino e non si curava di nulla. – Parlami, – sussurrò Ina, ma la cosa non lo toccò minimamente. Lo aveva preso con sé poco dopo aver incontrato Tom e da quando lui se n’era andato Ina avvertiva sempre un leggero dolore esattamente tra il petto e lo stomaco, una specie di “mal d’amore” che riaffiorava sempre come un pasto pesante. Non ci pensare, fa’ il tuo dovere e sta’ attenta. Questo significa riconoscere, fare ricerche, analizzare, ricomporre i pezzi, almeno in parte. Si alzò dal divano. Un movimento così faticoso da sembrare

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che l’avessero strappata via da un brutto sogno. Andò in camera da letto dove c’era la scrivania. Questo Rehbein era morto da circa ventiquattro ore. Ina aprì il suo portatile e scorse la lista: Pit Rehbein riportava due ferite d’arma da fuoco: alle spalle e alla nuca, causate da una pistola non registrata, 7.65 millimetri. Per di più riportava segni di strangolamento probabilmente causati da una corda, sembrava che l’assassino avesse prima provato a strangolarlo e si fosse poi ricordato di avere una cavolo di arma da fuoco. Che lurido infame. La pioggia aveva spazzato via molti indizi, eppure i tecnici della Scientifica ritenevano possibile che l’uomo fosse stato ucciso nello stesso punto in cui era stato rinvenuto. Il trucco sul viso non diceva molto, erano solo prodotti di bassa qualità da supermercato. Tuttavia fu rinvenuto un pezzettino di carta nella biancheria intima della vittima; un biglietto ripiegato tre volte con un’annotazione scritta a mano: «Vic553–delta». L’uomo non aveva nulla con sé: non un documento di identità, non una chiave, niente soldi, solamente quel biglietto. Perché se lo era infilato nelle mutande? Perché era così importante per lui? Un’annotazione che nessuno poteva facilmente trovare? Per cosa stava: Vic553–delta? Un numero telefonico? Un messaggio cifrato? La calligrafia sul biglietto era la sua, per lo meno era quello che aveva dichiarato la sorella. Ina diede un’altra occhiata al verbale dell’interrogatorio: Lydia Rehbein, trentasei anni, vive sola, segretaria. Non solo, a quanto pare era anche una gran segretaria: vestiti chic e un taglio di capelli fatto da uno dei migliori parrucchieri, costato molti, molti soldi. Gli stessi poliziotti che la interrogarono sulla morte del fratello sembrava che le stessero facendo perdere tempo: il lavoro chiama. Il duro lavoro. Disse che no, suo fratello non aveva mai fatto passi falsi, dato che chi non fa mai nulla i passi falsi non li fa. Battutina di spirito. Pit voleva scrivere romanzi, studiare musica e storia dell’arte, ma non aveva mai fatto niente del genere. Conduceva una

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vita misera, che poi vita non era, lavorava d’inverno e d’estate, poltriva coccolato e viziato da qualche donna sciocca. No, non sapeva fare nomi. Qualche donna, punto. Donna sciocca. A lei, aveva detto Lydia Rehbein, non sarebbe neanche passato per la testa di mantenere un uomo in salute ma troppo pigro per lavorare, un uomo con grandi sogni e una vita piccola, misera. Però stava bene, vero? Quando era vivo, oh Dio. Poveraccio. No, non lo vedeva da mesi, ma soprattutto quando si incontravano, lui la spremeva. Be’, perciò doveva darci un taglio, è triste ma è così. Pit Rehbein aveva compiuto trentadue anni. Sua sorella lo chiamava Peter, anche perché era quello il suo nome. Pit, aveva ripetuto storcendo il naso, già, questo nome ha un non so che di asociale. Intorno alle dieci e mezza ebbe la strana sensazione che l’aria si stesse facendo più cupa e invadesse la stanza come un gigante. Ina chiuse il portatile. Dalla finestra dei vicini si propagava nella notte l’audio del telegiornale: «Buonasera». Pit Rehbein non sarebbe stata una delle notizie, ma forse se ne sarebbero occupati a Nel centro del mirino se loro l’avessero tralasciato. Nel centro del mirino – Il magazine dei crimini, programma al quale i colleghi di tutta la Germania bramavano di partecipare per rivelare alla bionda presentatrice Denise Berninger i risultati delle indagini: «Chiediamo aiuto ai telespettatori… ». «Chiunque possa dare indizi… ». «Sei libera, Denise?». Nel centro del mirino, trasmesso in tutto il paese da un’emittente locale, emulava dei crimini irrisolti e permetteva alle autorità di parlarne ancora in studio, cosa né nuova né d’intrattenimento. L’anima del programma era Denise Berninger, se si vuole definirla così. Un’attrice drammatica, per meglio dire. Stocker trovava che il programma fosse sciocco, be’ certo, lui trovava tutto sciocco, perfino Denise. Tuttavia, riteneva che una ricerca via etere non era da condannare; e una volta aveva mandato il collega Kissel in studio che era tornato

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camminando a due metri da terra e soprattutto aveva iniziato a raccontare in giro che Denise era più bassa di quanto sembrasse. Benny, al contrario, era un gigante, Benny Fohme l’uomo dei polli arrosto che Ina sentiva fischiare sotto la finestra come fosse Romeo (ma, in realtà, Romeo aveva fischiato davvero sotto il balcone di Giulietta? O cantato? Oppure si era semplicemente arrampicato sul balcone?). Non era pratica di queste cose; la sua istruzione, aveva ripetuto più volte il commissario capo Stocker, lasciava assolutamente a desiderare. «Fa niente», aveva risposto Ina. Non serviva mica una specializzazione in letteratura per risolvere un caso di omicidio. «Ma se in Germania non c’è una laurea in letteratura, figuriamoci una specializzazione», aveva risposto Stocker. Benny Fohme fischiò e poi la chiamò sussurrando. Ina si affacciò alla finestra e disse: – Ma sono le undici. – Dalle dieci di sera in poi citava sempre l’ora, solo per una questione di forma; in risposta Benny Fohme recitava la sua parte, pronunciando una frase altrettanto scontata: – Ho visto la luce accesa. – È rimasto qualcosa, – disse Benny due minuti più tardi entrando dalla porta col suo corpo scolpito, di un metro e ottanta. Da quando era venuto a sapere di cosa si occupava Ina (che aveva già risposto ben tre volte alla sua domanda: «Di cosa ti occupi?»), Benny si era praticamente fissato a volerle offrire le salsicce in salsa al curry, perché tutti i commissari dei telefilm le mangiavano. Veniva da Dresda e abitava nella casa di fronte alla sua, era di un paio d’anni più giovane e cercava di comportarsi da ottimo vicino. – Adesso non mangio più salsicce al curry, – disse Ina. – Ma starebbero benissimo con un pinot grigio. – Con uno sguardo promettente si infilò la mano in tasca e prese la bottiglia. – Non hai forse finito da poco la roba da bere? – Sì, da poco. – Ina guardò la bottiglia piena per tre quarti e gli avrebbe volentieri detto che preferiva il vino rosso.

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