Fiamma abbagliante, di Barry Levy

Page 1



FIAMMA ABBAGLIANTE di Barry Levy

Traduzione di Giovanna Zanella


Barry Levy, Fiamma abbagliante Titolo originale: Burning Bright

Originally published by Kwela Books, Cape Town, South Africa Copyright © 2004 by Barry Levy Copyright © 2010 Del Vecchio Editore Published by Agreement with Del Vecchio Editore

Grafica e impaginazione: Dario Lucarini Editing: Ondina Granato, Carla De Caro Redazione: Paola Del Zoppo, Vittoria Rosati Tarulli, Claudia De Iaco

www.delvecchioeditore.it www.myspace.com/delvecchioeditore Foto di copertina: Copyright © 2004 Yeyoung Chang ISBN: 978-88-6110-010-7


c o l l a n a > n a r r a t i v a



Grazie a Michael Rakusin che mi ha mostrato che il cammino ancora da percorrere era lungo, ma non cosÏ lungo, e a Gael che è stato con me a ogni passo



Per Ian, che non ce l’ha fatta



UNO

L’inizio



1

S

ono un fallito. La mia intera adolescenza è riassunta in queste tre parole: sono un fallito. Non è sempre stato così, credo, ma lo è stato per parecchio tempo. Un’eternità, se ci basiamo sul metro degli ormoni adolescenziali in continuo fermento. A dire la verità, vengo da una famiglia rispettabile e amorevole e nonostante mio padre non me l’abbia mai detto apertamente, sono comunque sicuro che nelle sue continue uscite: «Ma dove hai la spina dorsale?», «Perché non dimostri un po’ di carattere?», «Che problema hai?», «Smettila di essere così dannatamente invertebrato!», fosse sottinteso quello che poi sono diventato: un fallito. Anche mia madre, a suo modo (per quanto riguarda lei è sempre stato un problema di troppo amore, quel tipo d’amore che ti fa vivere con un costante senso di oppressione in corpo), ha contribuito a far sì che io diventassi un fallito. Nonostante entrambi lo avessero intuito, predicendolo senza mai arrivare a dirlo apertamente (che sarei diventato un fallito) quello che ovviamente non potevano sapere era che razza di fallito sarei diventato. Per me ora è tutto un ricordo, una piccola zona d’ombra sotto la luce del sole, una macchia di sporcizia su un vetro trasparente che tengo rintanato in un cantuccio della mia mente. Distorcendo in qualche modo la logica dei miei genitori: «Puoi anche perdonare, ma non devi mai dimenticare» in qualcosa con cui posso riuscire a convivere, ho cercato di addestrare me stesso a non perdonare mai, ma a dimenticare, dimenticare, dimenticare. Anche se mi rendo conto, anche ora, che la ferita, la macchia nera, il livido rimangono lì anche quando la memoria sbiadisce. E ogni volta vedo riemergere davanti a me il ricordo. Quel ricordo. Quello non se ne andrà mai. Ora, guardandomi indietro, penso solo che io, Danny Rothbart il Vecchio, avrei voluto esserci. Per vedere. Per prevedere. *** 13


– Me lo sento. – La mia voce fa eco attraverso gli anni, e un sorriso dispettoso si apre sulla mia pelle liscia. – Perché ne sei così sicuro? – Chaz Bernstein mi risponde, con quella sua voce gracchiante che, come sempre, finisce in uno squittio. – Te lo dico io, amico, te lo dico io… – Ah, certo… – Certo… Lo sai quanto ci sono andato vicino… – E allora perché non hai concluso? – Il ciclo. – Come no. Questa l’ho già sentita. – Be’, te lo ripeto adesso, uomo a uomo, faccia a faccia. Questa è la notte giusta. Stasera stessa non sarò più un ragazzino. Questa sera stessa diventerò un uomo. – Come vuoi. Vedremo. Mi strofinai il mento col palmo della mano, difficile dire quale fosse più liscio, il palmo o il mento, entrambi erano così morbidi e paffuti. A sedici anni non avevo ancora neanche un pelo da radere su tutto il viso e mentre gli altri ne avevano in abbondanza, persino sulle spalle (peli che si allungavano e ritorcevano sui polpacci come tante zampe di ragno, nere, e ciuffi virili che campeggiavano in bella mostra sui toraci e si allargavano sulle ascelle), in me non c’erano grossi cambiamenti. Qualche pelo in più qua e là, ma in ogni caso il mio corpo sembrava aver raggiunto un deprimente punto di stagnazione. Se non fossi cresciuto quella poca manciata di centimetri da quando avevo tredici anni, la gente avrebbe creduto che ne avessi ancora dodici, chiedendomi senza neanche un dubbio: «Quando è il tuo bar mitzvah, figliolo?». – Un giorno li raggiungerai tutti. Non avere tanta fretta di crescere, – mi diceva mia madre quando mi sorprendeva a scrutarmi sotto le ascelle o a gonfiare il torace liscio come la seta davanti allo specchio del bagno. Ma l’unica cosa che sembrava crescere in me erano i capelli, e i miei genitori mi tormentavano perché li tagliassi. Tipico: ti cresce qualcosa e ti dicono di eliminarla, non ti cresce niente e si domandano cos’hai che non va.

14


In confronto, il mio migliore amico Chaz Bernstein era già un uomo fatto, almeno fisicamente. Lungo, alto, terribilmente goffo e sgraziato, almeno lui ne aveva di peli da radere. Non era proprio un bel vedere, in realtà: piccoli aculei neri, come una spruzzata di cioccolato fondente, che crescevano tra enormi piramidi di brufoli rossastri. Se non l’avessi conosciuto così bene sono sicuro che mi sarebbe sembrato, così come a tutti quelli che lo incontravano per la prima volta, affetto da qualche male incurabile. Ma il punto è che lui si radeva, e nel linguaggio universale quello doveva essere senz’altro un punto a favore, soprattutto tra le ragazze. Per lo meno si accorgevano che esistevi, e non poteva che essere un passo nella giusta direzione. Gli aculei sul mento, non importa se simili a una spruzzata di cioccolato fondente, dovevano per forza essere un vantaggio. Con questi pensieri oscuri che rimbombavano come un martello pneumatico nella mia testa, passai le mani sul mio bel visino liscio come la seta e poi per tranquillizzarmi affondai la mano nella tasca del giubbino di jeans, e lì lo trovai. Il pacchetto gommoso di carta argentata. Lo accarezzai delicatamente, lo sentivo tra le dita, gli dicevo: «Stanotte! Stanotte!». Non appena vidi Chaz girarsi, chinandosi come al solito sul suo accendino con la faccia tra le mani, decisi di recuperare il pacchetto argentato dalla tasca del giubbino e di trasferirlo, pronto per l’azione imminente, nella tasca dei pantaloni, pensando a mio zio Harold e ai suoi consigli sui preservativi e roba così. La rapida spirale di memorie adolescenziali fece un balzo indietro all’ultima festa, con quelle ragazze nuove di Orange Grove. Quelle che ci aveva presentato qualcuno, che conoscevano qualcuno, che frequentavano qualcuno che metteva sempre la musica sbagliata: i Bee Gees, ovviamente, i dannati Bee Gees. Quando di buona musica ce n’era in abbondanza, come gli Stones, Lou Reed, Bob Marley, i Who, i Pink Floyd, i Frijid Pink. Ma eccole lì, piccole allodole felici che canticchiavano in continuazione quei dannati Bee Gees, Love to Love You Baby di Donna Summer e Rod Stewart, sempre così sopra le righe. Che importava? Non ci mettevo molto: mi bastava muovere le anche nel mondo giusto, una scrollata sensuale delle

15


spalle (e chi se ne fregava della musica), qualche battutina simpatica, uno sguardo misto di superiorità e disprezzo, un ballo e un abbraccio, e poi, quasi per caso, finivo in camera con una di quelle ragazze di Grove. Mentre Chaz con i suoi occhi da ranocchio, per non parlare di Peter e Aaron, e perfino il cinico Solly (lui già ben comodo su un divano con una delle ragazze) mi seguivano con lo sguardo, verdi di invidia, con quell’espressione ostile alla “ma come diavolo fa?”. Guardavano me, petto in fuori, che imboccavo spavaldamente una porta verso l’oscurità. E ci ero arrivato così vicino, cristo santo, ero stato a tanto così dal momento culminante; nonostante l’intrusione dei dannati Bee Gees. Ma che problema avevano? Per quale motivo ti facevano andare avanti senza battere ciglio e poi sul più bello ti bloccavano? Così, all’improvviso? Mentre l’unica cosa che avresti voluto è che le cose si fossero spinte solo un pochino più in là. Era come se conoscessero esattamente il punto in cui fermarsi, e ogni volta lo spostassero quel tantino più in là. Anche per me, anche se sembrava che mi ci facessero arrivare così facilmente. Alla fine arrivava sempre la bandiera rossa, quella dannata bandiera rossa, che ti faceva sentire come affetto da chissà quale malattia. Come potevano tirarsi indietro ogni volta, dopo aver lasciato vagare le tue dita ed essersi persino svestite per te – be’, quasi svestite – mentre gli altri facevano del loro meglio in un salone pieno di pessima musica, senza riuscire a nascondere quei pensieri pieni di invidia. Tornai indietro con la memoria a quella volta sul treno quando, tornando a casa dalla visita ai parenti a Bulawayo insieme a Solly (l’unico che aveva avuto il permesso di accompagnarmi in quel viaggio a nord alla fine del terzo anno), avevamo incontrato quelle ragazze che facevano le guide. Quelle stupide. Il meglio – be’, più o meno – di Boksburg, tutte ai nostri piedi. Mi ero arrampicato sulla cuccetta più in alto con una di loro, ci eravamo tolti tutti i vestiti fino a restare completamente nudi: ero rimasto completamente nudo con una ragazza, per la prima volta, la prima volta! Solly, di sotto, cercava come poteva di strusciarsi con le altre, ma nonostante la maglietta quasi a brandelli non aveva speranze, e mi chiedeva,

16


nella debole, verdognola luce notturna: – Come sta andando, Danny? Quando devono scendere queste qui? – Pur sapendo benissimo che io stavo arrivando al momento cruciale: un guastafeste, che tentava di ostacolarmi con i suoi trucchetti psicologici, solo perché lui non sarebbe arrivato da nessuna parte. Non ci si sarebbe neanche avvicinato. Ero solo al terzo anno (be’, alla fine del terzo anno) e c’ero già così vicino, perché (e lui lo sapeva benissimo) ce l’avevo praticamente fatta. Ma allora perché si era fermata all’ultimo momento? Perché aveva schioccato improvvisamente la frusta? Perché aveva addomesticato la tigre del circo? Perché, perché? Avrebbe potuto, anzi dovuto essere già passato. Il ciclo. Una vera, dannata bandiera rossa. Un piccolo pene di cotone bianco già sul posto. Che mi importava di cos’altro c’era lì dentro? Ero così giovane, e avevo quell’ambizione, quell’enorme ambizione: anch’io avrei potuto facilmente infilarmi lì dentro. E per di più, ancora al terzo anno, segnare il mio primo punto, un record! E alla fine delle vacanze, nella mia stanza, Chaz, Peter e Aaron, e anche quel musone di Solly si sarebbero congratulati con grandi pacche sulle spalle. E avrebbero percepito lo splendore. Seduto lì, in mezzo a loro, sarei stato una fiamma splendente. Anche se la mia faccia, liscia come seta, non avesse mostrato il minimo cambiamento, sarei stato un sole: un sole adolescente attorno a cui gli altri ruotano, imparano, aspirano, schiattano per l’invidia. Io. Fiamma abbagliante. Incontenibile. – C’è qualcosa nell’aria stasera… Lo senti…? Come se dovesse succedere qualcosa di grosso. – Chaz soffiò una nuvola di fumo nell’aria nebbiosa. – Vuoi dire dove stiamo andando…? – Alzai gli occhi verso di lui; era parecchio più alto di me. – Voglio dire i tumulti nei sobborghi neri, gente che muore ammazzata per le strade… E se si trattasse di noi? Se stesse succedendo qui… ora, nelle nostre strade? Guardai dritto davanti a me, soffiando fuori una densa colonna di nebbia gelata. In quel momento mi era difficile capire di cosa stesse parlando.

17


La sua mente poteva essere ovunque, ben lontana da dove erano concentrati i miei pensieri. – Eh già… cosa succederebbe? – Be’… cosa succederebbe? – Chaz tentò nuovamente di irrompere nei miei pensieri. – Cosa succederebbe, cosa? – Lo sai, se fossimo noi qui, ora, a combattere contro la polizia, contro la SAP? – Ah, capisco, – dissi, risvegliandomi dal torpore, un torpore in cui mi sembrava di aver passato una buona metà della mia vita. – Noi non ci piegheremo, amico mio. Non ci piegheremo mai. Ci vidi, vidi tutti noi, seduti contro il recinto sul retro della scuola, che ci alzavamo e iniziavamo la rappresaglia. Sarebbe stato verosimile? Peter, Solly, Aaron, Chaz e io che ci difendevamo con vigore, con i nostri nasi grandi, ben puliti e adunchi e le uniformi scolastiche perfettamente stirate contro fruste e pallottole? Oh certo, ne avevamo parlato. Ne avevamo parlato senz’altro. Detestavamo l’apartheid, detestavamo tutto quanto, anche se qualsiasi libro che parlasse di cambiamento, di differenti sistemi sociali, politici ed economici era bandito in Sudafrica. Avevamo letto Bertrand Russell, e attraverso Russell avevamo imparato qualcosa di Marx e Lenin e Bakunin e Kropotkin, i cui scritti e insegnamenti erano proibiti. Sapevamo del comunismo e del socialismo e del vero significato dell’anarchismo, che non era certo quello che ci veniva ripetuto a casa e a scuola: che l’anarchismo significava che il mondo era andato sottosopra perché ai neri era stato concesso il diritto al voto. Eravamo anche riusciti a mettere le mani su una copia del proibito Let My People Go di Albert Luthuli e ora, per gentile concessione di mio zio Harold, avevamo anche una copia del doppiamente proibito The Rise of the South African Reich di Brian Bunting. E quello era veramente estremo. Ma che cosa sapevamo veramente dell’apartheid? Dai nostri caldi e comodi letti, che la domestica rifaceva per noi ogni mattina, cosa ne sapevamo veramente di cosa significasse avere un diverso colore di pelle in Sudafrica? Dell’essere poveri, infred-

18


doliti, affamati, senza educazione scolastica? Per cui, certo, ne avevamo parlato, ne avevamo parlato spesso, Chaz, Solly, Aaron, Peter, io, la combriccola, la ciurma, i ragazzi. Ne avevamo parlato diligentemente, a lungo, con determinazione, come quando parlavamo di sesso: praticamente tutto il tempo. Avevamo strofinato i pollici nel sangue come fratelli e giurato che un giorno avremmo fatto qualcosa. Ma alla fine era proprio come per il sesso: in teoria avevamo fatto centinaia di conquiste, in pratica l’unica cosa che riuscivamo a fare era continuare a competere e sognare. – Sì Chaz, – tornai a ribadire lentamente, quasi masticando le parole, – noi non ci piegheremo, amico. Non so come, ma non ci piegheremo!

19



INDICE

pag. 11

Uno – L’inizio

pag. 293

Due – La fine

pag. 313

Note


c o l l a n a > p o e s i a

Qualche altro giardino di Jane Urquhart Tradotto da: Laura Ferri

Cemento e carota selvatica di Margaret Avison A cura di: Laura Ferri

ISBN: 978−88−6110−008−4 Prezzo: € 12

ISBN: 978−88−6110−013−8 Prezzo: € 13

Estasi di Carol Ann Duffy Traduzione e cura di: Bernardino Nera e Floriana Marinzuli

Ore diverse di Stephen Dunn Tradotto da: Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi

ISBN: 978−88−6110−012−1 Prezzo: € 13

ISBN: 978−88−6110−014−5 Prezzo: € 13

L’assassino della lingua di Gwyneth Lewis Tradotto da: Paola Del Zoppo ISBN: 978−88−6110−007−7 Prezzo: € 12

c o l l a n a >

L ’ i t a l i a n a

Il trionfo dell’asino di Andrea Ballarini ISBN 978−88−6110−027−5 Prezzo: € 17,50


c o l l a n a > n a r r a t i v a

Confessioni di una giocatrice d’azzardo

Sale e miele

di Rayda Jacobs

di Candy Miller

Tradotto da: Filippo Nasuti

Tradotto da: Carla de Caro

ISBN: 978−88−6110−015−2

ISBN: 978−88−6110−002−2

Prezzo: € 16

Prezzo: € 16

Sweet Sixteen

Saloon

di Birgit Vanderbeke

di Aude Walker

Tradotto da: Paola Del Zoppo

Tradotto da: Tatiana Moroni

ISBN: 978−88−6110−019−0

ISBN: 978−88−6110−011−4

Prezzo: € 13

Prezzo: € 14

c o l l a n a > n o t e

a

m a r g i n e

Non finito calabrese di Peppe Voltarelli ISBN 978−88−6110−028−2 Prezzo: € 7,50


c o l l a n a > n o i r

Nato di sabato di Ray Banks Tradotto da: Carla De Caro

L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin Tradotto da: Ondina Granato

ISBN: 978−88−6110−000−8 Prezzo: € 15

ISBN: 978−88−6110−001−5 Prezzo: € 15

Un’indagine senza importanza di Robert Hültner Tradotto da: Paola Del Zoppo

Senza via d’uscita di Val McDermid Tradotto da: Francesca De Marco e Francesca Galli

ISBN: 978−88−6110−004−6 Prezzo: € 15

Il trucco della morte di Astrid Paprotta Tradotto da: Filippo Nasuti ISBN: 978−88−6110−022−0 Prezzo: € 14

ISBN: 978−88−6110−005−3 Prezzo: € 15



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.