Studi e ricerche su don Carlo De Cardona 4

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Il Centro studi calabrese Cattolici Socialità Politica per ricordare la figura di don Carlo De Cardona, che ha realizzato in Calabria gli ideali dell’enciclica sociale Rerum novarum, ha promosso la pubblicazione dei quaderni periodici Studi e ricerche su don Carlo De Cardona e il Movimento cattolico in Calabria.

QUADERNI GIÀ PUBBLICATI

I quaderni sono sfogliabili su internet all’indirizzo: issuu.com/deguzza/docs/studi-ricerche-don-carlo-de-cardona

• Il primo nuovo quaderno decardoniano Carlo De Cardona e l’associazionismo contadino in Calabria (1898-1927), è stato pubblicato nell’agosto 2018, dall’Editoriale progetto 2000 di Cosenza (formato 17x24, pagine 80, 33 foto, euro 8); curato da Demetrio Guzzardi, con i contributi di Nicola Paldino, mons. Francesco Savino, Carmensita Furlano, Demetrio Guzzardi, Igino Iuliano, Valentino Siciliano, Romilio Iusi, Luigi Intrieri.

• Il secondo quaderno Carlo De Cardona pioniere dell’apostolato sociale dei contadini e artigiani calabresi è stato pubblicato nel maggio 2020, dall’Editoriale progetto 2000 di Cosenza (formato 17x24, pagine 80, oltre 100 foto, euro 8); curato da Demetrio Guzzardi, con i contributi di Nicola Paldino, Attilio Romano, Lorenzo Coscarella, Demetrio Guzzardi, Biagio Giuseppe Faillace, mons. Francesco Savino, mons. Leonardo Bonanno, Francesco Capocasale, Franco Rizzo. La parte centrale del quaderno riproduce la mostra storica organizzata durante la Settimana della cultura calabrese 2018.

• Il terzo quaderno Carlo De Cardona a 150 anni dalla nascita (1871-2021) è stato pubblicato nel maggio 2021, dall’Editoriale progetto 2000 di Cosenza (formato 17x24, pagine 80, 49 foto, euro 8); curato da Demetrio Guzzardi, con i contributi di Nicola Paldino, Demetrio Guzzardi, Domenico Mantello. Nella parte iniziale del quaderno l’Almanacco decardoniano con 100 date tra passato e presente.

Studi e ricerche su don Carlo De Cardona

a cura di Demetrio GuzzarDi

Carlo De Cardona l’interprete calabrese della Rerum novarum

editoriale progetto 2000

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CARLO De Cardona l’interprete calabrese della Rerum novarum / a cura di Demetrio Guzzardi. - Cosenza : Progetto 2000, 2021.

80 p. : ill. ; 24 cm. - (Studi e ricerche su don Carlo De Cardona ; 4) ISBN 978-88-8276-580-4

1. De Cardona, Carlo. I. Guzzardi, Demetrio. 261.7

(Scheda catalografica a cura dell’Universitas Vivariensis)

© editoriale progetto 2000

Prima edizione, Cosenza, maggio 2022 ISBN 978-88-8276-580-4

Direttore editoriale: dott. Demetrio Guzzardi Direttore artistico: arch. Albamaria Frontino

Per informazioni sulle opere pubblicate ed in programma e per proposte di nuove pubblicazioni, ci si può rivolgere a: editoriale progetto 2000 - Via degli Stadi, 27 - 87100 Cosenza tel. 0984.34700 - e-mail: editore.guzzardi@gmail.com - www.editorialeprogetto2000.it

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DATI
EDITORIALI

TANTE LE INIZIATIVE PER RICORDARE DE CARDONA

Non è trascorso invano quest’anno decardoniano in cui abbiamo voluto solennizzare i 150 anni dalla nascita del nostro caro don Carlo De Cardona, il fondatore del movimento delle Casse rurali in Calabria, che tanto beneficio ha portato agli uomini del lavoro nei primi anni del Novecento.

Davvero tante le iniziative svolte per tener desta la memoria sull’opera sociale di questo prete che non si è tirato indietro anche davanti a macigni che ha incontrato sulla sua strada. L’inserto a colori presente in questo quarto quaderno è una documentazione di quest’anno intenso, vissuto, pur con le restrizioni antiCovid, in onore del grande pioniere del cattolicesimo sociale calabrese. La parte finale di questo numero è dedicata a don Luigi Nicoletti di San Giovanni in Fiore, l’allievo più significativo di don Carlo: «Proprio da lui appresi la Dottrina sociale della Chiesa, sentii per la prima volta le parole e capii il concetto di libertà e di democrazia». Nel prossimo anno (2023) spero che tanti vorranno ricordare i 140 anni della nascita di don Nicoletti, facendo rivivere un’altra straordinaria figura di apostolo della redenzione sociale. L’avvenimento che personalmente mi ha riempito di gioia è quello vissuto martedì 29 marzo 2022 per l’intitolazione di una strada a don Carlo De Cardona a Bisignano, il paese dove sono nato. Anche nella cittadina cratense il sacerdote di Morano stimolò 16 contadini a dar vita a una delle prime Casse rurali, che attualmente opera con il nome di BCC Mediocrati. Leggere su una targa, nei pressi della nostra storica sede, il nome di don Carlo è veramente il compimento di un anno in cui abbiamo seguito tante significative manifestazioni, tutte molto partecipate; quella di Bisignano ha avuto un’eco particolare, sia perché il convegno si è tenuto volutamente tra gli studenti delle scuole superiori bisignanesi, sia per l’attenzione data all’avvenimento da giornali e televisioni. Grande soddisfazione è stata quella di vedere che anche il quotidiano dei cattolici italiani, Avvenire, ha voluto mettere in rilievo l’intitolazione.

L’editore Demetrio Guzzardi, che si è speso tantissimo in questo anno, periodicamente mi informa delle tante tesi di laurea che sta raccogliendo e che verranno pubblicate in questi quaderni, segno della grande attenzione anche in ambito accademico su questa straordinaria figura di interprete e promotore della Rerum novarum.

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PRESENTAZIONE

LA VOCE “CARLO DE CARDONA” SULLA TRECCANI di emaNuela catalucci Dizionario Biografico degli Italiani - Treccani - Volume 33 (1987)

De Cardona Carlo nacque il 4 maggio 1871 a Morano Calabro (Cosenza) da Rocco e da Giovannina Ferraro in una famiglia della borghesia rurale. Conseguita la licenza ginnasiale a Castrovillari e la maturità classica a Cosenza, nel 1890 si trasferì a Roma, dove si laureò in filosofia e teologia alla Pontificia Università Gregoriana e conobbe il movimento democratico cristiano di Romolo Murri. Fu ordinato sacerdote il 7 luglio 1895 a Cassano Ionio e dal settembre di quell’anno fino all’ottobre 1911 fu segretario particolare di mons. Camillo Sorgente, arcivescovo di Cosenza.

Nel 1898 fondò La Voce cattolica, settimanale di intonazione democratico cristiana e murriana, di cui divenne direttore nel 1899. Su di esso De Cardona, che curava la rubrica La Domenica del popolo, sotto lo pseudonimo di Demofilo, si occupò soprattutto dei problemi del lavoro, delle condizioni degli operai, dei contadini, degli emigrati.

Nel 1901 fondò la Lega del lavoro, di ispirazione cattolica e aderente all’Opera dei congressi. Essa era composta da gruppi professionali e univa, in sezioni distinte, operai e contadini, con l’esclusione di possidenti e borghesi: era, inoltre, articolata in sezioni locali, dipendenti da un consiglio centrale. La Lega si proponeva l’istruzione degli operai, il miglioramento delle condizioni morali, economiche e igieniche del lavoro, l’incentivazione della cooperazione e il collocamento dei disoccupati.

Nel 1902 De Cardona fondò la Cassa rurale di Cosenza, come complemento delle leghe per l’emancipazione economica e politica dei lavoratori. Nel 1904, lasciata la direzione de La Voce cattolica, fu candidato ed eletto alle elezioni comunali a Cosenza, rimase nel Consiglio comunale fino al 1920, ricoprendo la carica di assessore alle Finanze dal 1908 al 1912. Fu, inoltre, consigliere provinciale dal 1905 al 1923. In occasione delle elezioni politiche e amministrative egli sostenne sempre, già prima del Patto Gentiloni, la necessità di candidature cattoliche, per contrastare i gruppi socialisti, repubblicani e liberali, con i quali non credeva si potesse arrivare ad una convergenza.

Nel 1905 De Cardona fu promotore della fondazione del periodico della lega cosentina, Il Lavoro e nel novembre dello stesso anno aderì alla Lega democratica di Murri e Giuseppe Fuschini.

7 STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

Nell’azione sociale dei cattolici la Rerum novarum rappresentò il punto di partenza per un radicale rinnovamento della Chiesa, attraverso l’alleanza con le masse popolari. Per lui democrazia cristiana non era solo un movimento di idee e di fatti nel campo economico, ma un radicale rinnovamento nelle coscienze, nell’economia, nella civiltà, secondo lo spirito cristiano.

De Cardona, nel 1906, promosse il primo congresso provinciale operaio, che si tenne a Cosenza nel marzo dello stesso anno; il congresso si proponeva di dare all’organizzazione una precisa base economica, costituendo una cooperativa in ogni lega. Fu in questa occasione ribadito il concetto fondamentale che tutte le leghe dovessero essere composte di soli lavoratori, principio che De Cardona difenderà anche l’anno seguente, al congresso dei giovani cattolici a Benevento. Quando l’enciclica di Pio X Pieni l’animo (1906) condannò la Lega democratica, La Voce cattolica dovette sospendere temporaneamente la pubblicazione, alcune diocesi calabresi furono messe sotto inchiesta e nel 1908 De Cardona fu costretto a lasciare l’insegnamento di filosofia presso il Seminario.

Sul finire del 1912, su invito dei deputati Giorgio Montini e Giovanni Maria Longinotti, si recò nel bresciano per conoscere le esperienze di un movimento cattolico così fiorente. Nello stesso anno, come presidente della Cassa rurale federativa di Cosenza, avviò a soluzione la crisi della Cassa di risparmio e finanziò la costruzione dell’impianto idroelettrico di San Pietro in Guarano.

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Cosenza, piazza Parrasio, la sede dell’episcopio in una foto dei primi del Novecento.

Terminato l’impegno nell’amministrazione cosentina, De Cardona partecipò, nel gennaio 1913, al primo convegno cattolico calabrese. Nel suo intervento sostenne che proprio le arretrate condizioni economiche della Calabria avrebbero potuto favorire la penetrazione del movimento sociale cattolico, propose la costituzione di Leghe del lavoro in tutta la regione e l’esclusione da esse di possidenti e notabili. L’assemblea accolse la mozione di De Cardona, deliberando l’istituzione di Casse rurali e cooperative agricole, ma respinse il principio di classe.

Nell’ottobre 1914 De Cardona fu chiamato a far parte del consiglio direttivo dell’Unione popolare. Nel mese successivo, a Genova, era relatore a una serie di riunioni sul tema dell’Azione cattolica nel Mezzogiorno, dove fissava i seguenti criteri: promuovere l’azione economica, attraverso il piccolo credito e il risparmio; educare i lavoratori al senso della collettività. Nello stesso anno partecipò, con Luigi Sturzo, Mario Cingolani e Bosco Lucarelli, al Segretariato di propaganda dell’Unione popolare per il Mezzogiorno. Il 24 ottobre 1914 fu ricevuto in udienza privata da Benedetto XV, che ebbe per lui parole di incoraggiamento.

Fra il 1914 e il 1915 fu direttore dell’Unione-Lavoro, giornale nato dalla fusione tra L’Unione, giornale curiale, e Il Lavoro, dietro intervento autoritario di mons. Trussoni, succeduto all’arcivescovo Sorgente. De Cardona intervenne al congresso regionale del movimento cattolico calabrese, tenuto a Crotone nel gennaio 1915, dove sottolineò il ruolo della cultura nello sviluppo della fede cristiana del popolo.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, De Cardona fu tra i fautori del pacifismo cattolico. Già in occasione dell’impresa di Libia, egli aveva sottolineato che la guerra era servita agli speculatori e nel 1914-1915 ribadiva che i cattolici dovevano far sentire la loro voce. De Cardona si rifiutò di diffondere le iniziative propagandistiche sollecitate dal governo Salandra, anche se fece effettuare ai suoi istituti creditizi sottoscrizioni per il prestito nazionale e prese parte attivamente al comitato esecutivo per la preparazione civile alla guerra, istituito per iniziativa del sindaco di Cosenza. Alla fine della guerra, nel febbraio 1919, partecipò, con Luigi Nicoletti, Giovanni Sensi, Luigi Agostino Caputo e Federico Sorbaro, alla fondazione della sezione cosentina del Partito popolare italiano (PPI), nella cui segreteria provinciale egli entrò nel 1920. L’azione sociale svolta da De Cardona aveva infatti gettato le premesse del popolarismo e del partito autonomo e aconfessionale dei cattolici. Nella sezione di Cosenza De Cardona capeggiò l‘ala sinistra, rifiutando ogni collaborazionismo col fascismo. Nel 1920 guidò le leghe contadine alla conquista di nuovi patti agrari, in una vertenza culminata con lo sciopero generale. Il fascismo distrusse l’opera sociale di De Cardona, liquidando le Leghe del lavoro, il partito e le Casse rurali; egli stesso fu costretto ad abbandonare Cosenza, su invito

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CARLO DE CARDONA VOCE SULL’ENCICLOPEDIA TRECCANI
DON

di mons. Nogara. Si ritirò, nel 1935, a Todi, ospite del fratello Ulisse; fu a Roma, presso il santuario del Divino Amore dal 1938 al 1939, poi a Collepepe (Perugia) fino al 1940. Tornò a Todi e vi rimase fino al 1941, quando il nuovo vescovo, mons. Aniello Calcara, lo richiamò a Cosenza. Dopo il fascismo ricomparve per pochi anni nella vita pubblica: nel 1943 costituì una cooperativa contadina, nel 1945 fece parte, come rappresentante della Democrazia cristiana della giunta comunale, espressione del Comitato di liberazione provinciale; nel 1946 fu candidato alle elezioni comunali, ma non eletto. Ritiratosi a vita privata dopo questo episodio, morì a Morano Calabro il 10 marzo 1958.

Tra i suoi scritti: Thomas d’Aquino. Lucerna viva di sapienza redentrice, Todi, 1941. Bibliografia. a. Guarasci, Carlo De Cardona e il movimento cattolico a Cosenza (18981906), in Atti del II Congresso storico calabrese, Napoli, 1961, pp. 653-674; P. Borzomati, I cattolici calabresi e la guerra 1915-1918, estratto da Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale. Atti del Convegno di Spoleto (7-9 settembre 1962), Roma, 1963, pp. 23, 26; P. Borzomati, Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Roma, 1967, pp. 258-261, 273-278, 319 s., 337 s., 349 s., 364 s.; P. Borzomati, I giovani cattolici nel Mezzogiorno d’Italia dall’Unità al 1948, Roma, 1970, pp. 24 ss.; G. GalliNa, Il Partito popolare a Cosenza dal 1919 al 1926, in «Historica», XXVII (1974), pp. 160-167; XXVIII (1975), pp. 3-18; s. cameroNi aNtoNioli-G. cameroNi, Movimento cattolico e contadino. Indagine su Carlo De Cardona, Milano, 1976; F. cassiaNi, I contadini calabresi di Carlo De Cardona (1898-1936), Roma, 1976; G. GalliNa, Il Partito popolare italiano a Cosenza, in Aspetti e problemi di storia della società calabrese nell’età contemporanea, Reggio Calabria, 1977, pp. 324 ss., 335-340; s. tramoNtiN, I problemi del Mezzogiorno nel Congresso cattolico di Taranto (1901), in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XIII (1978), p. 320; P. BorzoNiati, Carlo De Cardona e il movimento cattolico in Calabria dal 1900 al 1913, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XIV (1979), pp. 45-50.

10 EMANUELA CATALUCCI

ALLA SCUOLA DEI FATTI di don carlo De carDoNa Il lavoro, 27 luglio 1907 (n. 27, p. 1)

Dove i contadini e gli operai agirono con coraggio, i risultati delle elezioni comunali furono positivi; dove invece essi ebbero paura, furono negativi. Per questo motivo don Carlo invita i suoi a confidare maggiormente nella forza dell’ideale.

Un giornale di Cosenza dice che abbiamo ricevuto tre lezioni, in questi giorni: una a Serrapedace, la seconda a Pedace, la terza a Castiglione. Ma per quanto tale giornale sia dotto... in politica, questa volta si è ingannato. Noi infatti, di lezioni ne abbiamo ricevuto non tre soltanto: ne abbiamo invece ricevute parecchie; e ne riceviamo tutti i giorni, sempre. Noi e i nostri veri (sebbene pochi) amici amiamo l’aria aperta, e amiamo ancora più, di essere discepoli in quella scuola che si fa all’aria aperta, e che è precisamente la scuola della vita. Tante cose stiamo imparando a questa scuola. E in questi giorni, alla scuola dei fatti, abbiamo imparato la seguente favoletta.

* * *

Era una sera di està, e un leone sentiva lontano, laggiù nella valle del fiume, il gracidare sonoro di una rana: «grà… grà… grà…». Quantunque animale forte e coraggioso, il leone ebbe dentro di sé una certa paura e una certa curiosità di sapere quanto fosse mai grande l’animale che faceva una voce tanto grossa: «grà… grà… grà…». Quieto quieto, il leone si avvicina al pantano… guarda

Cosenza, via Padolisi (centro storico) in una foto dei primi del Novecento.

attraverso i cespugli, e vede... vede nientaltro che un misero ranocchio. Questa favoletta noi l’abbiamo imparato alla scuola dei fatti. Abbiamo visto meglio cosa c’è in fondo alla voce grossa di certi signori, cosa c’è in fondo alle loro minacce e a tutto l’apparato della loro potenza. C’è il misero ranocchio… della paura.

Il fondamento loro è uno solo: la paura. Ma non solamente la paura che sentono essi stessi. Soprattutto la paura che sentono gli altri, i quali temono di essere perseguitati, o in qualche modo danneggiati.

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STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

Nelle elezioni comunali del corrente mese, è avvenuto proprio questo: dove, negli operai organizzati, c’è stata la paura, si è perduto: dove invece, questa paura non c’è stata, i nostri hanno vinto. A Castiglione, fra gli altri, un bravo e schietto contadino appartenente alla Lega del lavoro, la notte di sabato è scomparso, e non si è visto che il giorno seguente, quando mancava poco per la chiusura delle urne. A Pedace, sei contadini non seppero resistere alle intimazioni padronali e l’ultimo giorno vennero meno al loro impegno. A Serrapedace, lo stesso. A Bisignano invece, a Rose a Luzzi – dove gli operai della Lega seppero essere fermi e generosi nel loro dovere verso l’ideale – i nostri hanno riportato una splendida vittoria. Di modo che, quando negli operai organizzati, non ci sarà più la paura, ma ci sarà il coraggio, la vittoria non mancherà più alla loro bandiera. Tanto più che essi certamente avranno – di anno in anno – un aumento nel numero degli elettori associati, e soprattutto una migliore esperienza delle lotte elettorali.

Deve dunque finire la paura, o amici. Ora ricordatevi: la paura è figliuola dell’ignoranza.

Il leone non sapeva chi fosse il ranocchio, e ne aveva una certa paura; quando lo vide, sentì vergogna di avere avuto paura di un animale così insignificante. Così, o amici, quando voi e i vostri compagni conoscerete bene e farete conoscere, chi sono, cosa fanno, cosa vogliono

certi omenoni, allora vi vergognerete di averne avuto paura.

Voi mi direte: «Sono forti, sono potenti, noi invece siamo pochi, siamo deboli». E io vi dico che questo vostro parlare dipende da ignoranza. Voi ancora ignorate che la forza vera è la forza dell’anima, della coscienza, dell’ideale. Coltivate la coscienza cristiana, coltivate l’ideale della democrazia, della giustizia, della liberazione da ogni ingiusta servitù: formatevi uomini cristiani, fieri della libertà, innamorati del bene e questa sarà la vostra forza.

Voi direte ancora: «Noi non intendiamo cosa è questo ideale, cosa è questa forza che vince ogni cosa».

E io di nuovo vi rispondo: «Lo intenderete, sapete come? con l’esperienza. Fate l’esperienza dell’ideale cristiano e democratico: piano piano, abituatevi a essere sinceri nel parlare, nell’agire, sempre: abituatevi a essere fedeli a ogni vostro dovere: abituatevi a sopportarvi, ad amarvi l’un con l’altro: abituatevi a fare con pazienza, con sacrifizii, poco a poco, tutte le opere buone, le Casse rurali, le cooperative, le scuole serali, il mutuo soccorso, il piccolo giornale… Con questa esperienza, voi certamente conoscerete la bellezza, la grandezza dell’ideale democratico cristiano, ne sentirete un fremito di gioia: ne avrete tutta la forza meravigliosa che fa vincere ogni battaglia. Così, o amici, il leone sentirà di essere leone e conoscerà che il ranocchio, per quanto faccia la voce grossa, è sempre ranocchio.

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CARLO DE CARDONA

SAN FRANCESCO DI PAOLA di don carlo De carDoNa Il lavoro, 4 aprile 1908 (n. 14, p. 1)

… bum… bum… ta - ta - bum… zzu - zzu… ra - ra - zzuu… Cioè musiche, tamburi e grancasse, ecco la festa di San Francesco, nei nostri paesi. Ma nessuno forse, si è ricordato di quello che San Francesco era…

Egli era un uomo povero, umile e potente. Noi invece vogliamo essere ricchi, siamo superbi, e la debolezza nostra è tanto grande, che una mosca, una pulce, una parola sola ci scoraggia e ci fa perdere la pazienza. E a questo non ci pensiamo.

Una volta il demonio voleva tentare l’ultimo colpo per abbattere l’anima di San Francesco e questa ancora era l’anima di un giovane a 18 anni. Ma non ne ricavò niente. Più tardi, il re di Napoli, Ferdinando I, gli offrì una coppa piena di monete d’oro... Immaginate! monete d’oro... Ma San Francesco rispose, che quel danaro non l’accettava; e presa una di quelle monete, la spezzò dicendo: «Ecco o re, il sangue dei poverelli». Alcuni mesi dopo, un altro re, Luigi XI di Francia, pensò che avrebbe guadagnato al suo desiderio, la volontà di San Francesco accarezzandolo con doni preziosi. Gli mandò in prima, due vasi di argento, perché li accettasse come grazioso regalo del sovrano. Francesco li respinse. Gli mandò poi

una statua della Madonna, tutta in oro, pensando: questa almeno è una cosa sacra e l’accetterà. Neppure questa volta volle accettare, e alle insistenze del sovrano rispose: «Di quest’oro sarebbe assai meglio che il re ne facesse limosine ai poveri». Finalmente gli venne offerto, in segreto, del danaro sonante. Ma era inutile: l’anima di San Francesco era più grande di tutte le ricchezze e le mene cortiggiane. Innanzi a lui, po-

13 STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

vero e umile, si deve piegare la testa del re.

Alla sua voce obbediva la natura, i macigni, i monti, il mare, il fuoco, la vita. I cuori più duri si spezzavano e si scioglievano in lagrime alla sua parola, semplice e dolce, e anche alla sua sola presenza. Tanta forza, una sì grande potenza, in un uomo così povero e umile, perché?

Perché quell’uomo, povero e umile, era pieno di amore. In nome dell’amore egli diceva al macigno: «Per carità, fermati». In nome dell’amore diceva al monte che impediva la fabbrica del suo monastero: «Per carità, scostati». Mosso da infocata carità, sanava l’infinita miseria dei suoi fratelli, guadagnava alla pace i cuori più superbi: le cose della natura, le pietre, l’acqua, il fuoco, le piante, le pecorelle, gli uccelli, i pesci intendevano e seguivano la voce dell’amore, perché infine tutte le cose sono figlie dell’amore, Dio. Quando egli, partito per la Fran-

cia, giunse sulla vetta di Pollino, e precisamente al valico di Campotenese, si fermò a guardare e benedire, l’ultima volta, la sua Calabria. In quel momento era così fervido l’amore suo alla terra nativa, alla Calabria nostra, che la roccia sulla quale i suoi piedi posavano, ne sentì il peso e ne riportò l’impronta.

Ecco o amici, la potenza per vincere nella giustizia: è la potenza dell’amore, dell’amore che è paziente, che non teme, che crede ogni cosa e spera ogni cosa. Ecco, come la primavera – grande e sublime –si manifesta anche nel piccolo fiore della valle e geme anche nell’umile voce del passero – così l’amore si afferma e vive anche nelle piccole opere del bene – nell’educare e nutrire la famiglia, nel sostenere il povero, nel fare la scuola ai fanciulli, nel promuovere le Casse rurali, le cooperative, e ogni altra cosa che dall’amore discende, come i fiori e i fiorellini dalla primavera.

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CARLO DE CARDONA

DON CARLO DE CARDONA:

L’INTERPRETE CALABRESE DELLA RERUM NOVARUM

di mons. FraNcesco saviNo Vescovo di Cassano all’Ionio pubblicato su L’Osservatore Romano, 4 maggio 2021, p. 6

Carlo De Cardona aveva da pochi giorni compiuto 20 anni (era nato a Morano Calabro il 4 maggio 1871) quando il 15 maggio 1891, il vecchio papa Leone XIII aveva consegnato alla Chiesa l’enciclica Rerum novarum, di cui quest’anno ricorrono i 130 anni dalla sua promulgazione. Gioacchino Pecci, eletto papa nel 1878, a 68 anni di età, ereditò tutte le problematiche risorgimentali che aveva accumulato Pio IX. Nei suoi 25 anni di pontificato portò nella Chiesa una «provvidenziale rivoluzione» in un clima di forte conflitto col neonato Stato unitario. Gli annali ricordano che la massoneria, che in quel momento governava il Paese, fece sapere che la cerimonia di insediamento del nuovo papa sarebbe stata disturbata da elementi facinorosi e quest’ultimo fu, quindi, costretto a celebrarla nella Cappella Sistina e non nella Basilica di San Pietro. Tuttavia, alla sera, le chiese e le case dei cattolici romani, fedeli al papa, furono illuminate a giorno, a dimostrazione di una grande devozione al pontefice.

Papa Leone XIII (1810-1903). Padre Matteo Liberatore (1810-1892).

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E RICERCHE SU
STUDI
DON CARLO DE CARDONA

L’enciclica Rerum novarum fu davvero fondamentale per porre l’attenzione sulla questione sociale, perché non solo analizzava e denunciava le situazioni di ingiustizia, ma proponeva un ventaglio di strumenti utili a superare la crisi. Il papa condannò categoricamente il conflitto sociale, proponendo la cooperazione tra le parti, nel rispetto delle persone, della giustizia e della verità.

Una prima stesura della Rerum novarum fu redatta dal gesuita salernitano padre Matteo Liberatore (1810-1892), da più parti considerato e stimato come il più grande filosofo di quei tempi, che aveva, tra l’altro, preso parte alla fondazione della rivista La Civiltà Cattolica e alla diffusione della dottrina di San Tommaso d’Aquino. Padre Liberatore insegnava Sociologia cristiana alla Pontificia Università Gregoriana, e aveva fra i suoi studenti il giovane Carlo De Cardona. Il 15 maggio 1891, giorno di promulgazione dell’enciclica – resta una data memorabile per tutti quei credenti che accolsero l’invito del papa:

«Andate al popolo, eliminate lo sconcio della lotta di classe, difendete le ragioni e gli interessi dei proletari, e in genere degli umili, di fronte ai detentori delle ricchezze, facendo prevalere, nella vita pubblica, non la violenza, ma le regole dell’Evangelo e le esperienze sociali della Chiesa. Trasfondete nel corpo sociale, uno spirito nuovo di giustizia e di fraterna benevolenza, svegliando ed educando il senso di solidarietà e di unità morale e civile, in tutti i campi del vivere umano».

L’arcivescovo di Cosenza, mons. Camillo Sorgente (1823-1911) anch’egli di Salerno, conosceva molto bene padre Liberatore e, appena il giovane Carlo De Cardona finì gli studi e fu ordinato sacerdote il 7 luglio 1895

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FRANCESCO SAVINO

zione

150 anni

a Cassano all’Ionio, dal vescovo cappuccino mons. Evangelista Di Milia, mons. Sorgente lo volle accanto a sé per organizzare le iniziative sociali del Movimento cattolico. Questo proprio perché sapeva dell’ardore infuso da padre Liberatore ai suoi studenti della Gregoriana. Le attese di mons. Sorgente non andarono deluse. De Cardona oltre a insegnare filosofia ai seminaristi di Cosenza, divenne il leader di un autentico movimento di popolo che cambiò radicalmente le condizioni sociali del cosentino: «Il mondo è diviso fra quelli che vivono rassegnati e quelli che vivono sperando» era una delle frasi ricorrenti del sacerdote moranese. I suoi molteplici interessi si rivolgevano alla promozione integrale delle fasce più fragili della popolazione. La sua opera fu espressione di un profondo radicamento nella sua terra natia e nel contempo di visione fortemente partecipe dell’azione del Movimento cattolico nazionale: dall’Opera dei congressi alla Democrazia cristiana di Romolo Murri, dal Partito popolare di Sturzo alla Democrazia cristiana di De Gasperi. Si impegnò direttamente dentro le istituzioni amministrative (consigliere comunale dal 1904 al 1920 e provinciale dal 1905 al 1923). Fu instancabile animatore di giornali cattolici (La Voce cattolica, L’Unione, Il Lavoro, Unione-Lavoro. Fu pacifista, antifascista e costretto a lasciare la sua terra durante il fascismo. Fu soprattutto vicino ai bisogni dei suoi contadini e operai.

Costruttore di solidarietà con la promozione delle Leghe del lavoro e di una fitta rete di Casse rurali. Costruttore di comunità che avevano l’obiettivo di una promozione globale delle classi subalterne attraverso l’istruzione e la lotta per il miglioramento delle condizioni economiche, morali

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Morano Calabro, mons. Francesco Savino intervistato dal TGR Calabria, dopo la celebra- eucaristica per i dalla nascita di don Carlo De Cardona. DE CARDONA L’INTERPRETE CALABRESE DELLA RERUM NOVARUM

e di sicurezza del lavoro. L’opera decardoniana risultò vincente per quasi un trentennio (1898-1935), poi il fascismo, in modo subdolo, recise alcune delle strutture più importanti e cadde l’oblio su don Carlo e su quello che insieme a tanti coraggiosi uomini e donne aveva costruito.

Risuona in questo sacerdote l’eco delle parole di papa Francesco quando dice che la politica, quella con la P maiuscola, è martirizzante. De Cardona ha saputo saldare il cielo e la terra, la preghiera e l’azione sociale; è stato un mistico, un innamorato di Gesù Crocifisso ed è vissuto tutto proteso a fare la volontà di Dio conformandosi a Cristo. L’amore verso gli ultimi è stato per lui causa di incomprensioni e tuttavia non si è mai arreso davanti a nessun ostacolo. Don Carlo fu visto dal fascismo come un dissidente e fu ostacolato pure da tanti esponenti dello stesso mondo cattolico. De Cardona ha ideato e realizzato le Casse rurali perché sapeva che, se un contadino o un artigiano chiedeva un prestito senza sufficienti garanzie, nessuna banca glielo avrebbe mai concesso; volle che i poveri potessero accedere al credito, senza dover ricorrere all’usura.

I tre principi cardini della Dottrina sociale della Chiesa furono codice culturale di vita per don Carlo: la destinazione universale dei beni, i beni comuni e la sussidiarietà. Si può sostenere, senza ombra di dubbio, che don Carlo ha interpretato l’economia secondo un indirizzo civile di comunione. A lui spetta il merito di aver anticipato, nella fedeltà alla Dottrina sociale della Chiesa, i contenuti del Concilio Vaticano II. Ringraziamo il Signore per il dono di don Carlo De Cardona alla Chiesa calabrese, nell’attesa del riconoscimento della sua beatificazione.

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Dal 2 dicembre 2018 il corpo di don Carlo riposa nella chiesa della Maddalena a Morano. FRANCESCO SAVINO

COSA CI DIREBBE OGGI DON CARLO DE CARDONA? di DomeNico GraziaNo direttore dell’Ufficio diocesano dello sviluppo Integrale intervento a Morano Calabro il 4 maggio 2021

Buona sera a don Carlo, che di sicuro stasera ci starà ascoltando dal cielo, buona sera a tutti voi qui presenti alla solenne celebrazione in occasione del 150° anniversario della sua nascita. Mi tocca, su incarico di mons. Savino, parlarvi di don Carlo e dell’attualità del suo pensiero e delle sue intuizioni, nonché dei consigli che egli ancora oggi, intenderebbe donare anche ai nostri tempi. Don Carlo è stato una figura poliedrica, un uomo dalle tante sfaccettature: il professore, sociologo, economista, educatore, politico, giornalista e – ma non da ultimo – prete. Ha parlato – e parla ancora – alla nostra terra di Calabria, ma potrebbe parlare ovunque per gli orizzonti spirituali, culturali e sociali che ha attraversato.

Ripercorriamo allora non solo la sua vita e la sua opera, ma anche quelle moderne intuizioni che ha manifestato lungo il suo operato: sono indiretti interrogativi circa alcune consapevolezze che, da credenti – ma non solo! – potrebbero far muovere diversamente la vita e anche il mondo. Le origini di don Carlo sono qui in questo nostro borgo, Morano, dove è nato il 4 maggio 1871. In questa parrocchia è stato battezzato, è cresciuto, si è accostato ai sacramenti, seguito da una famiglia nella quale ha respirato un’aria di sensibilità religiosa, di attenzione agli altri e di impegno solidale verso i poveri e gli ultimi.

Dopo i passaggi alle Scuole elementari nella sua Morano e gli studi al Ginnasio nella vicina Castrovillari e al Liceo Classico “Telesio” di Cosenza, consegue la laurea in Filosofia a Roma e viene ordinato sacerdote a Cassano il 7 luglio 1895. E da quel giorno iniziò per lui il suo annientamento (così ebbe a scrivere durante un anniversario del suo sacerdozio: «Quarantesimo del mio annientamento, secondo la promessa del Sacro Cuore: “io ti annienterò fino al punto che potrò edificare me nel tuo niente”» (Diario intimo).

A fine ordinazione il suo vescovo, mons. Evangelista Di Milia, cappuccino, gli comunicò che sarebbe diventato segretario particolare del vescovo di Cosenza mons. Camillo Sorgente, e in questa città si caratterizzò tutto il suo ministero sacerdotale.

Quando si parla di un uomo, siamo soliti raccontarne i fatti; quando poi si parla di un prete, che lo si vorrebbe proclamato santo, allora ci si accorge che non parliamo di una personalità passata, ma di qualcuno che è sempre moderno e attuale: egli è un uomo per tutte le stagioni.

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Il mio non è un intervento storico; ancor meno una sorta di biografia su don Carlo, vuole essere una mera attualizzazione delle sue intuizioni e delle sue consapevolezze e vuole semplicemente ricordare, alla luce del suo operato, ciò che per noi, credenti di questo tempo di cambiamenti, può acquistare ugualmente consapevolezza e, pertanto, impeto di impegno e di rinnovamento.

Cosa indica all’uomo di oggi l’operato di don Carlo?

Quello che dico di don Carlo può interessare ogni uomo e ogni credente. Un credente è un sacerdote, un re e un profeta. Fa riferimento a Gesù Cristo e vuole essere «sale della terra e luce del mondo». Don Carlo era convinto che, per il solo fatto di essere stati chiamati dal Signore a vivere l’esperienza cristiana, non si poteva non irradiarla nel mondo, nella gente che si incontra, nelle classi operaie che subivano soprusi, angherie e abbandoni. E l’ha fatto con tutta la sua creatività e la sua intelligenza: «un animatore intrepido», l’ha chiamato Giovanni Paolo II. Ebbe a scrivere, un giorno, a Federico Sorbaro, suo allievo che, grazie a don Carlo, imparò a scrivere e divenne da autodidatta, un giornalista cattolico e un sindacalista: «tutta quella struttura economica era per me lo strumento, l’espediente, per avvicinare anime calabresi ed educarle a Cristo».

Osservare e capire

Se guardiamo la Cosenza di allora, ci accorgeremmo che la situazione sociale non era affatto delle migliori e si registrava l’inesistenza di ogni organizzazione sociale cattolica, e, in parallelo, il dominio della massoneria nella vita civile. A don Carlo piace osservare e capire: cioè, fa discernimento; un credente non può vivere senza osservare e capire. È quella logica sottile, ma fondamentale, che nasce dal mistero dell’incarnazione: anche Dio è entrato nel mondo, ha osservato e capito e, infine, ha seminato il Vangelo. Nel primo anno di permanenza a Cosenza don Carlo costituisce il Comitato diocesano dell’Opera dei congressi, il cui compito era quello di promuovere attività economica e sociale per la crescita della popolazione più povera e più disagiata. Queste grandi capacità di don Carlo, gli derivavano dall’approfondimento dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, in cui veniva detto: «Andate al popolo, eliminate lo sconcio della lotta di classe, difendete le ragioni e gli interessi proletari, e in genere degli umili, di fronte ai detentori delle ricchezze, facendo prevalere, nella vita pubblica, non la violenza, ma le regole dell’evangelo e le esperienze sociali della Chiesa. Trasfondete nel corpo sociale, uno spirito nuovo di giustizia e di fraterna benevolenza, svegliando ed educando il senso di solidarietà e di unità morale e civile, in tutti i campi del vivere umano».

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Morano Calabro, una processione e, sullo sfondo, l’insegna della Cassa rurale.

Sembra di sentire l’eco anticipata di un documento del Concilio Vaticano II, la Gaudium et spes, dove si legge:

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».

E giù di lì ecco una serie di iniziative culturali, sociali ed economiche che sono state il fuoco (parafrasando Santa Caterina), con il quale don Carlo ha incendiato la Calabria del suo tempo: fonda una testata giornalistica La Voce cattolica per diffondere fra il clero e il popolo la Dottrina sociale della Chiesa; erige opere sociali quali la cooperativa cattolica di credito fra gli operai (marzo 1897); la Lega del lavoro nel maggio 1897 che contemplava una Cassa rurale contro l’usura, una cooperativa di consumo, una cooperativa di produzione e di lavoro per promuovere l’occupazione); nel gennaio 1897 la Cassa rurale dei depositi e prestiti di Cosenza; e potremmo continuare. Qualcuno potrà meravigliarsi del prosieguo, ma l’analisi storicoculturale di quei tempi non lascia alcun dubbio: un prete, non di rado, lo si vedeva coinvolto anche politicamente (basti pensare a don Luigi Sturzo). Nel 1905 fu eletto consigliere provinciale e rieletto senza interruzione fino al 1923 e dal 1904 al 1909 fece anche l’esperienza di consigliere comunale e assessore a Cosenza. E vi ritorna, come assessore comunale, dopo l’esilio

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a Todi in Umbria presso il fratello Ulisse, dal 1945 al 1946. Ma non fu più come prima: amarezze e delusioni lo avevano segnato e non mancò molto per ritirarsi nella sua Morano dove si spense.

Un credente non può non essere educatore

Senza un servizio educativo e, quindi, anche culturale si corre il rischio di essere o idealisti o, peggio ancora, ideologi. Don Carlo insegnò per vari anni nel Seminario di Cosenza e riunì intorno a sé un nutrito gruppo di giovani sacerdoti, tra i quali emerse don Luigi Nicoletti (fondatore nel 1919 a Cosenza del Partito Popolare di cui fu segretario provinciale e che, attraverso il periodico diocesano Parola di vita, condusse una campagna contro il razzismo tedesco e contro l’introduzione in Italia delle leggi razziali). Emozionante ripresentare alcune sue espressioni che denotano il suo vigore educativo:

«Il popolo è stato sempre l’oggetto a cui si è rivolta, a preferenza, l’azione educatrice della Chiesa. Il popolo – soprattutto in Calabria -, ha perduto la coscienza della sua dignità di fronte alle altre classi sociali, perché ha perduto la fede cattolica. In una parola siamo obbligati ad andare al popolo per farlo cristiano e, perciò libero e grande» (La Voce cattolica, 1899).

In don Carlo educare non era un gioco relativistico, ma un condurre alla Via e alla Verità che è Cristo. Non un sociologo, dunque, ma un credente che sa dove vuole andare e dove vuole condurre. E anche qui sembra risentire anticipato il Concilio Vaticano II: «Solo nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes, 22). Ascoltate cosa scriveva don Carlo su La Voce cattolica nel 1901: «Occorre non perdere tempo ad organizzare una società operaia, una cooperativa di credito, una scuoletta serale, un patronato di carità, un’opera insomma che unisca i lavoratori nella fraternità evangelica e manifesti la virtù rigeneratrice del cristianesimo».

E nel suo Diario intimo: «La dignità dell’uomo consiste nell’essere virtuoso. La virtù e l’onestà noi la conserviamo mediante la religione, perché solo con la religione l’uomo diventa civile, buono e virtuoso».

E pensare che, nel decennio scorso, la Chiesa italiana ha investito pensieri ed energie in un documento che portava questo titolo: Educare alla vita buona del Vangelo. Forse non ne abbiamo colto il valore e l’importanza, che, indubbiamente, don Carlo aveva anticipato.

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Un credente è sempre un uomo politico

Non stiamo qui a ricordare qualche documento di San Giovanni Paolo II –ad esempio la Christifideles laici del 1993 –, ma già il Concilio Vaticano II invitava i laici ad essere protagonisti nella vicenda politica degli uomini. Don Carlo De Cardona, sebbene prete, della politica ne ha fatto lo spazio per lo sviluppo dell’uomo e per la crescita della società. In un suo scritto invitava la Chiesa a «diminuire processioni e devozioni» e a tuffarsi nell’agone politico delle cose temporali. E tra i suoi obiettivi fondamentali, alla luce delle sue analisi, aveva annoverato soprattutto la lotta per la giustizia. Fu la Rerum novarum di Leone XIII, a cui egli si era ispirato, ad indicare «la giustizia tra gli uomini» un impegno più che mai urgente: la «giustizia – diceva don Carlo – nel campo sociale, nel mondo del lavoro e dell’economia». Mi sentirei di commentare queste parole, dicendo di percepire un brivido interiore per queste parole così moderne e attuali anche per la nostra terra di Calabria. E non solo. Come poter chiamare oggi, alla luce della testimonianza di don Carlo, questo impegno politico? Diremmo che la politica è una dimensione di quella carità sociale che trova nel Vangelo di Gesù Cristo la sua forma e la sua ispirazione: la sua non fu un’ansia filantropica o sociologica, ma un’opera culturale e sociale cristologicamente centrata. Così scriveva: «Oh, la giustizia che procede dalla Parola, dal Volto, dal Cuore di Cristo… Le comunità cristiane veramente tali sono creazioni di questo sole di giustizia…» (Diario intimo). In questo nostro tempo dalle mille malattie – e non certamente quella di un virus pandemico – non possiamo non sottolineare questa urgenza di fare politica, e politica buona, la cui intuizione fu presente nell’intelligenza credente di don Carlo.

Un’economia solidale

Don Carlo contribuì a far sorgere le Casse rurali, dietro di esse c’era non solo l’intento di aiutare i lavoratori del suo tempo a mettersi insieme e, quindi, a creare una cultura della cooperazione e del mutuo sostegno, ma anche a favorire un servizio bancario più attento alle necessità di chi aveva bisogno di soldi per produrre lavoro e, quindi, economia sana e umana. Oggi, forse, diremmo tutto ciò con quel concetto – che tale, purtroppo, sembra essere rimasto – di finanza etica. Don Carlo ne fu un propagatore convinto e acceso; e per tale obiettivo ne pagò le conseguenze anche personalmente. Ma l’economia e, con essa, il sistema bancario, per essere veri e dignitosamente umani, necessitano di recuperare il valore dell’uomo e il corretto uso del denaro, nonché, in maniera più che mai urgente, la custodia del denaro per la promozione di un’economia più corretta, più etica e

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più solidale. Esempi magisteriali attuali, ovviamente con le integrazioni legate allo sviluppo economico di questi ultimi decenni, sono l’enciclica Caritas in veritate di papa Benedetto e, non da meno, le encicliche Laudato sii e Fratelli tutti di papa Francesco.

Lo dico con estrema umiltà: nel suo piccolo mondo di allora il grande don Carlo ne ha anticipato non poche intuizioni.

Don Carlo è stato un credente e ciò vuol dire che la fede è un esplosivo che ci portiamo dentro, che, forse, abbiamo addormentato o azzittita. De Cardona quando parla dell’Eucaristia dice:

«L’Eucarestia è il fermento divino che riempie le anime di virtù cristiane; è il germe immortale da cui nascono e hanno rigoglioso sviluppo grandi idee, vigorosi affetti, eroici sacrifici. Dobbiamo avere fede nell’onnipotenza e nell’amore di Cristo: dobbiamo fissare lo sguardo sull’ostia» (La Voce cattolica, 1899).

E ancora la sua parola:

«Noi che ci occupiamo di Casse rurali e di interessi economici, non abbiamo mai dimenticato di essere sacerdoti e discepoli di Cristo, abbiamo sempre e solo cercato il Regno di Dio; abbiamo avuto di mira l’attuazione di un grande principio cristiano, la giustizia nell’amore… e attuare quella civiltà che è il vero vanto dell’uomo» (La Voce cattolica, 1913).

La fede è un rapporto vitale col Signore Gesù: conoscerlo, amarlo, seguirlo, ci ricorda il catechismo della Chiesa. E per don Carlo, Gesù Cristo era il più efficace conforto: occorre sempre stringersi a Lui, e, come spesso amava ripetere, «affidarsi alla Provvidenza e… pregare, soffrire, tacere». Una fede devota e profonda, la sua, ancorata alla Croce di Gesù, nutrita dall’Eucarestia, irrobustita dalla preghiera. Una radicata esperienza di credente.

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DOMENICO
Morano Calabro, busto bronzeo a De Cardona.
GRAZIANO

DON CARLO DE CARDONA E L’ARDENTE BRAMA DI NOVITÀ

di Demetrio GuzzarDi rettore Universitas Vivariensis intervento all’apertura della mostra bibliografica alla Biblioteca Nazionale di Cosenza, 7 giugno 2021

Era il 1977, l’anno della mia maturità a scuola. I professori ci incitavano: «Se presentate delle tesine sugli argomenti in programma, riuscirete a strappare dalla Commissione qualche voto in più». Chiesi al docente di storia se potevo realizzare un mio elaborato sulla Rerum novarum a Cosenza. Il prof. mi guardò sornione e sorridendo mi rispose: «Ma questo argomento non l’ho proprio spiegato…» e io di rimando: «Lo so, lo so… ma in questo periodo ho letto un libro su un prete cosentino – don Carlo De Cardona – che sulla scia dell’enciclica ha fatto grandi cose qui nella nostra città». Il prof. che conosceva la mia determinazione acconsentì, ma sottovoce mi disse: «Sono certo che mi farai fare una bella figura, però speriamo che quelli della Commissione, poi non chiedano ad altri tuoi compagni di parlare anche loro sul documento di Leone XIII…» con questa responsabilità non potevo fallire, parlai con i pochi che presentavano storia dicendo loro che cosa avevo in mente, mi diedero il via libera…, «ma almeno facci una sintesi su questa benedetta Rerum novarum».

Rilessi avidamente il volume (s aNtoNioli, G. cameroNi, Movimento cattolico e contadino. Indagine su Carlo De Cardona, Milano, Jaca book, 1976) e ne feci una sintesi, alla libreria Paoline comprai il testo della Rerum novarum (serie Il Pastore, n. 4, 1967) «L’ardente brama di novità» sottolineando i termini, che non mi sembravano per nulla papali:

«Le misere condizioni dei proletari, indegne dell’uomo […]; Gli operai soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni […]; Un piccolissimo numero di straricchi che hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile […]; Lo sconcio maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra […]; È obbligo dei padroni non imporre agli operai lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e col sesso…»

ma fra tutte, quella che mi si fissò in testa fu:

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STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

«Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio».

Le due parti dell’enciclica: Il socialismo, falso rimedio e Il vero rimedio l’unione delle associazioni operaie, li rilessi più volte; anche dei 45 punti feci uno schema (a ripensarci ora…, era semplicemente un riassunto), sentivo però che a questa tesina mancava qualcosa, dovevo portare almeno un mio personale contributo, non poteva essere solo un elaborato preso da altri testi. Dedicai un week-end alla rilettura del libro dei coniugi Cameroni, segnando i punti che volevo approfondire, ma chi mi poteva aiutare a capire certi passaggi o a sciogliere alcuni nodi? * * *

Carlo De Cardona era nato a Morano Calabro, un paesino calabrese ai piedi del Pollino, il 4 marzo 1871, dopo la maturità classica conseguita al “Telesio” di Cosenza, decise di diventare prete, seguendo l’esempio dello zio, don Cesare, che era il parroco di San Pietro a Morano. Nel 1890 si iscrisse a Roma alla Pontificia Università Gregoriana (l’Università del papa retta dai padri della Compagnia fondata da Sant’Ignazio di Loyola); come docente di Sociologia cristiana, trovò padre Matteo Liberatore, un gesuita salernitano, che aveva partecipato alla fondazione de La Civiltà Cattolica e che veniva definito «il più grande filosofo di quel tempo»; padre Liberatore fu l’estensore della prima bozza della Rerum novarum De Cardona come compagni alla Gregoriana, trovò un altro seminarista meridionale: Luigi Sturzo di Caltagirone; frequentante lo stesso Ateneo, ma di un anno più grande Romolo Murri, un giovane marchigiano, con la passione per le opere sociali e la politica; di Murri disse Sturzo: «Fu lui a spingermi definitivamente verso la democrazia cristiana». Gli anni romani di De Cardona furono vissuti sotto l’entusiasmo dell’avvenuta promulgazione della Rerum novarum, il 15 maggio 1891, che divenne anche la data simbolo per la festa dei lavoratori cattolici, che si sentivano amati e compresi dal vecchio papa Leone XIII.

Completati gli studi dai gesuiti, Carlo tornò in Calabria per l’ordinazione e nella cappella episcopale di Cassano venne consacrato sacerdote dal vescovo cappuccino, mons. Evangelista Di Milia. Al termine della funzione, l’invito inatteso di andare a Cosenza – che non era la sua diocesi – perché mons. Camillo Sorgente, arcivescovo della città bruzia, lo voleva come suo primo segretario. Sorgente era di Salerno, come padre Liberatore, e a soli 51 anni era stato nominato a reggere la sede della città di Telesio, arcidiocesi che poi guidò per 37 anni. Il compito che mons. Camillo affidò al giovane don Carlo non era per niente facile: organizzare il movimento cattolico che non era ancora partito in nessun posto della Calabria. Un gior-

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DEMETRIO GUZZARDI

no, durante un’udienza con Leone XIII, Sorgente presentò De Cardona al papa come «l’apostolo sociale del cosentino», il pontefice lo benedisse e gli ordinò di «cooperare per la plebe di Dio e il trionfo della fede».

Don Carlo si mise al lavoro, fondando circoli giovanili, giornali, cooperative, istituti bancari, ma si accorse subito che tra i cattolici che partecipavano, specialmente alle iniziative economiche, vi erano ricchi proprietari terrieri, che tutto avrebbero fatto, fuorché aiutare con prestiti o altro i più poveri: i contadini, gli operai, gli artigiani, insomma la categoria che l’enciclica leonina indicava come le più bisognose di attenzione. De Cardona lasciò a quei borghesi le iniziative avviate e, con il consenso di mons. Sorgente, ideò e fondò la Lega del lavoro: «Lega di operai che amandosi in Cristo, uniscono le loro forze per una generosa e legale difesa degli interessi morali ed economici del loro ceto»; a questa organizzazione erano ammessi solo «lavoratori di buona condotta e di sentimenti democratici cristiani».

Il prof. Luigi Intrieri, già presidente dell’Azione cattolica cosentina, in un suo studio ha definito il programma decardoniano col termine classismo pedagogico:

«Voi contadini dovete prendere nelle vostre mani, la causa del Risorgimento civile della Calabria. Ricordatevi che il cristianesimo non solo salva l’anima dell’uomo, ma gli fa riacquistare il dominio sulle cose, sulle forze della natura, sugli animali, su tutto».

Sembrano belle parole, ma don Carluccio, come lo chiamavano affettuosamente i suoi leghisti per via dei suoi lineamenti somatici, queste idee le mise in pratica proprio con quegli operai e contadini a cui amava ripetere: «Con le nostre Casse rurali renderemo un servizio alla Calabria, ma anche all’Italia, perché non ci può essere una grande Italia, finché c’è una Calabria misera e negletta». Tra le tante iniziative tutte realizzate dai

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L’insegna murale della Cassa rurale a Rose, paese vicino Cosenza. DON CARLO DE CARDONA E L’ARDENTE BRAMA DI NOVITÀ

contadini: le prime case del popolo (Cosenza Casali, 1907); il consorzio dei produttori dei fichi, qualcuno chiamò don Carlo il prete dei fichi secchi, perché De Cardona (negli anni 1907-1912) si recò personalmente a Marsiglia per contrattare un prezzo all’ingrosso favorevole ai produttori associati in cooperative; ma soprattutto la centralina idroelettrica a San Pietro in Guarano, totalmente finanziata dalla Cassa rurale, che oltre a dare la luce elettrica al centro presilano sette anni prima della città di Cosenza, spezzò il monopolio del barone Collice, proprietario delle filande e dei mulini. Con l’energia elettrica della centralina decardoniana «arrivò il futuro». De Cardona amava ripetere ai suoi leghisti:

«Oggi il lavoro, significa ignoranza, miseria, servitù; domani, il lavoro significherà intelligenza, agiatezza, libertà civile e politica. A questo domani noi vogliamo arrivare pacificamente. Il vento spira verso il nostro domani».

Pedagogica fu anche la scelta di costruire la nuova grande sede della Cassa rurale federativa di Cosenza in corso Umberto, proprio dove c’erano già altri importanti istituti bancari (Banca d’Italia, Banco di Napoli, Banca di Calabria), don Carlo con questa nuova ubicazione, volle dare grande dignità e importanza al piccolo credito dei contadini, degli operai e degli artigiani, quella sede rappresentava il simbolo della solidità economica del risparmio e degli investimenti della Lega del lavoro.

A Cosenza nella Chiesa dello Spirito Santo, De Cardona celebrava la Messa festiva per i leghisti, seguita in forma comunitaria con l’uso di un libretto, appositamente stampato dalla Lega. Nei locali di Palazzo Gallo e Palazzo Ercole Vetere funzionavano le scuole serali e il Circolo ricreativo con attività filodrammatiche. Venivano organizzate gite e manifestazioni sociali, specialmente il 15 maggio di ogni anno, anniversario della Rerum novarum. Don Carlo usò la parola detta e scritta, ma si impegnò soprattutto per la scuola serale, dove insegnava a leggere e a scrivere per eliminare l’analfabetismo, come farà negli anni Cinquanta a Barbiana don Lorenzo Milani. Così lo ricorda un sacerdote cosentino: «Dal Seminario, lo vedevamo rincasare a notte inoltrata, e sapevamo che, trascorreva la sera in mezzo ai braccianti, ai contadini, ai quali diede generosamente, con impeto, tutto se stesso».

Uno dei suoi amici più cari fu Federico Sorbaro, che a 12 anni iniziò a frequentare la scuola serale allo Spirito Santo. Lo stesso Sorbaro in una sua autobiografia scrive: «Il primo libro che ho letto fu il Vangelo, che don Carlo poi mi regalò». Lo scrittore Nicola Misasi, autore di testi veristi calabresi,

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* * *
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che ebbe il giovane Carlo De Cardona suo alunno al “Telesio”, mai tenero verso i preti, in un suo scritto racconto che don Carlo, un giorno vendette una Bibbia molto preziosa, per acquistare libri da regalare ai ragazzi che frequentavano la sua scuola serale.

Don Carlo puntava a smuovere e a promuovere una classe che non contava niente: «Senza una voce, non farete mai arrivare le vostre esperienze, nei luoghi dove vengono prese le decisioni». Lasciò andare al suo destino La Voce cattolica, il settimanale diocesano che aveva fondato e si dedicò a un piccolo foglio Il Lavoro che per otto anni (1905-1913) curò con articoli, incitamenti e ammonizioni. «Ma noi non sappiamo leggere» gli dicevano alcuni contadini che volevano seguirlo, e lui: «Manda tuo figlio alla scuola serale della Lega, fatti l’abbonamento a Il Lavoro e con gli altri del tuo paese che come te non sanno leggere, vai dal tuo parroco e digli di leggirvi il nostro giornale».

Il sogno di De Cardona, nei primi anni del Novecento, non era la fondazione di un partito cattolico, ma del Partito del lavoro, il partito degli operai, dei contadini, degli artigiani, fortemente contrastato dai socialisti, dai massoni e dagli anticlericali, che non vedevano di buon occhio che a capo di un potente e forte partito potesse esserci lui, don Carluccio, il prete amico di mons. Camillo. Questa sua determinazione fu premiata quando portò nel Consiglio comunale di Cosenza il primo operaio, e a San Pietro in

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Morano Calabro, 2 dicembre 2018. Un momento della traslazione del corpo di De Cardona. DON CARLO DE CARDONA E L’ARDENTE BRAMA DI NOVITÀ

Guarano una lista di contadini, promossa dalla Lega decardoniana, vinse clamorosamente sui candidati espressi dal barone Collice.

Don Carlo fu contrario all’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale; così scriveva in un articolo:

«È una seria minaccia per gli interessi della classe proletaria. La guerra è strage di vite umane, è la negazione più terribile della fratellanza. Chi ama la guerra è figlio di Caino, perché la guerra elimina il lavoro e lo spirito del lavoro. I più colpiti sono i lavoratori dei campi e delle industrie. Gli italiani hanno qualcosa di più serio da fare per la vita e per la Patria. Hanno un infinito bisogno di pace».

È emblematica la storia della sottoscrizione nichilista; per una strana vertenza agraria, nel novembre 1920, un padrone sequestrò e pignorò alcune mucche a un contadino di Cosenza. Don Carlo aprì subito una sottoscrizione; nessuno poteva donare più di un nichel (20 centesimi). In due giorni si raccolse molto più del necessario, i soldi del riscatto furono portati in alcuni sacchi di juta, ma tutti spicci. Dopo il pagamento la sera vi fu un comizio e una pacifica manifestazione dalla Prefettura a piazza Valdesi. Il corteo era capeggiato da don Carlo, seguivano le mucche riscattate e migliaia e migliaia di contadini. Fu un vero trionfo.

De Cardona fu uno strenuo oppositore del fascismo. Nel 1926 con uno scatto d’ira scaraventò in strada il ritratto del duce, che una mano ignota aveva appeso nel suo ufficio alla direzione della Cassa rurale federativa. Nel 1927 però scrisse un articolo di apertura dopo l’approvazione da parte del Governo della Carta del lavoro. Purtroppo tutto questo attivismo fu spezzato dalla dittatura fascista, che non poteva vedere di buon occhio che un prete, in nome del Vangelo, riuscisse a raccogliere attorno a sé questo consenso. * * *

Per tornare alla tesina della maturità, desideravo trovare una chiave di lettura tutta mia, cercavo una testimonianza che mi rafforzasse questo rapporto tra De Cardona e i suoi contadini. Sapevo che don Carlo per alcuni anni (1940-1948) fu benevolmente accolto nell’istituto della monaca santa, la beata Elena Aiello. Mi recai a via dei Martiri con mia madre, Giulia Ciccopiedi che, avendo partecipato come attrice al docufilm Un grido d’amore sulla storia di madre Elena, fu subito accolta con grande entusiasmo dalla madre generale suor Celina Bevivino: «Mio figlio Demetrio sta facendo una ricerca su don Carlo De Cardona; vorrebbe sapere perché andò via da qui». La madre chiamò suor Luisa Perna invitandola a dirmi tutto quello che sapeva. La piccola religiosa subito mi fece simpatia, anche per la sua spontaneità; lei, ne ero certo, sapeva il perché e nel suo dialetto misto a

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DEMETRIO GUZZARDI

UN VOLUME A LUNGO CERCATO E FINALMENTE TROVATO

Durante la tavola rotonda del 3 aprile 1976 (Carlo De Cardona: sacerdote, pensatore, sociologo, politico), l’ex sindaco di Cosenza, Francesco Vaccaro disse che don Carlo De Cardona «mi regalò un magnifico volume di quel grande teorico e sociologo Ketteler, di cui egli era seguace». Nei volumi conservati dagli eredi (VaccaroScirchio), il testo non si trovava; dopo accurata ricerca il libro è stato rintracciato nella Biblioteca Nazionale di Cosenza, catalogato nel Fondo Vaccaro.

Sicuramente il volume regalato da De Cardona a Vaccaro riserverà per gli studiosi decardoniani molte e piacevoli sorprese.

qualche parola in italiano, mi ingigantì la figura del mio don Carlo. De Cardona abitava in un fabbricato con una cameretta linda e ben areata fatta costruire appositamente da madre Elena Aiello nel recinto dell’istituto in via dei Martiri, ma, ormai anziano e un po’ arteriosclerotico – mi disse la suora – tutte le sere continuava a vedersi con i suoi amati operai, contadini e artigiani, in una cantina di Casale, e qualche volta, alzando il gomito, lo riaccompagnavano di notte a casa dalle suore cantando e schiamazzando. «Non potevamo tenerlo così…», furono le ultime parole pronunciate da suor Luisa, prima che la madre generale, un po’ imbarazzata, la interrompesse. Per me fu una grande testimonianza del classismo di De Cardona; don Carlo, che dai suoi avversari veniva apostrofato come il bolscevico bianco, aveva scelto per sempre quella gente e continuò a frequentarla per tutta la vita. De Cardona dovette lasciare la sua stanzetta in via dei Martiri, per essere accolto dai suoi familiari, prima dal fratello Ulisse a Todi (1948-1954) e poi dall’altro fratello Nicola a Morano Calabro, suo paese di nascita, dove morì a 87 anni il 10 marzo 1958. Ora sì potevo fare il mio elaborato. Inutile dire che il tempo a me riservato per gli orali dei miei esami fu tutto speso per presentare la mia tesina. Nessuno della Commissione conosceva fatti e situazioni che quel ragazzo di

Suor Luisa Perna.

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DON CARLO DE CARDONA E L’ARDENTE BRAMA DI NOVITÀ

La stampa cosentina ha dedicato grande spazio alle iniziative dell’anno decardoniano.

appena 18 anni esponeva con tanta convinzione e partecipazione. Forse fui uno dei pochi, che l’anno dopo (1978) quando Nanni Moretti mandò nelle sale cinematografiche, il suo Ecce bombo, capi qualcosa di quel film; mi rividi in quel maturando che Michele (Nanni Moretti) il protagonista di quella storia, aveva preparato e che davanti alla Commissione disse che avrebbe relazionato sulla poetica di Alvaro Rissa, «un poeta contemporaneo, amico dell’esaminando», che andò a sedersi anche lui al tavolo degli esami.

La storia di don Carlo mi è rimasta dentro e quando ho iniziato la mia attività di editore, ho sempre cercato di pubblicare libri e articoli su di lui, naturalmente una parte consistente della mia biblioteca personale è formata da libri e carte decardoniane, che ho sempre letto avidamente e conservato con grande cura. L’amicizia con Francesco Capocasale e Maria Locanto ha fatto nascere il Centro studi calabrese “Cattolici Socialità Politica” che oltre a valorizzare le personalità del cattolicesimo sociale e democratico calabrese periodicamente pubblica i quaderni Studi e ricerche su don Carlo De Cardona e il Movimento cattolico in Calabria; grande attenzione è riservata alle tesi di laurea di giovani universitari, che hanno la freschezza di chi si avvicina al mondo della ricerca.

Quest’anno, per i 150 anni dalla nascita di don Carlo, stiamo portando avanti una serie di iniziative per non dimenticare un sacerdote che ha preso sul serio «quell’ardente brama di novità» che la Rerum novarum chiedeva di realizzare.

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DEMETRIO GUZZARDI

STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE: INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO

Il Centro studi calabrese Cattolici Socialità Politica, per solennizzare i 150 anni dalla nascita di don Carlo De Cardona (4 maggio 1871) ha realizzato numerose iniziative che si sono svolte a Cosenza, in alcuni paesi del cosentino e anche in altri centri calabresi. In queste pagine, volutamente stampate a colori, si vuole fare memoria delle manifestazioni tenute e ringraziare quanti hanno collaborato per la buona riuscita e per dare un’ampia divulgazione sul piano regionale e nazionale.

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Locandina della diocesi di Cassano Ionio che a Morano Calabro ha voluto ricordare don Carlo De Cardona. A fianco la pagina 6 de L’Osservatore Romano di martedì 4 maggio 2021, con l’articolo di mons. Francesco Savino (il testo integrale è alle pagine 15-18 di questo volume).

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UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE
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INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO
Cosenza, 4 maggio 2021. Manifestazione per ricordare don Carlo De Cardona, presenti le autorità cittadine e provinciali e i rappresentanti del laicato cattolico.
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Il testo teatrale “La bandiera. Don Carlo De Cardona” di Romilio Iusi pubblicato dalla casa editrice Progetto 2000 di Cosenza, è stato presentato a Lappano (domenica 20 giugno 2021) e a San Pietro in Guarano (venerdì 25 giugno 2021). Le due manifestazioni sono servite per ricordare nelle due comunità l’opera svolta da don Carlo. A Lappano, alla presenza dell’arcivescovo di Cosenza-Bisignano mons. Francesco Nolè è stata scoperta dal sindaco Marcello Gaccione, una targa dove era ubicata la Cassa rurale; a San Pietro in Guarano la presentazione è stata programmata all’interno della festa patronale.

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INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO
40 UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE

Nella sede della Biblioteca Nazionale di Cosenza, dal 7 al 18 giugno 2021, si è tenuta una mostra bibliografia su don Carlo De Cardona. All’inaugurazione sono intervenuti: il direttore Massimo De Buono, il vescovo mons. Francesco Savino e Demetrio Guzzardi.

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INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO

In alto due locandine di incontri per i 150 anni dalla nascita di don Carlo De Cardona; nel riquadro in basso Catanzaro, via don Carlo De Cardona nei pressi della nuova sede a Germaneto della Banca di Credito Cooperativo Centro Calabria.

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UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE

Saler-

in visita alla comunità Regina Pacis (Città del Sole) a Cosenza, giovedì 4 novembre 2021 ha sostato per un momento di preghiera nella cappella dove riposa mons. Camillo Sorgente, arcivescovo di Cosenza e originario di Salerno. Sorgente, che volle De Cardona a Cosenza, morì il 2 ottobre 1911.

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INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO
Mons. Andrea Bellandi, arcivescovo di no-Campagna-Acerno,

Vibo Valentia capitale italiana del libro 2021. Mercoledì 23 marzo 2022, a Palazzo Gagliardi sono stati presentati i primi tre quaderni decardoniani. Ne hanno parlato: Titty Marzano, don Filippo Ramondino e Demetrio Guzzardi. L’artista Antonio Lagamba ha donato ai relatori una sua xilografia raffigurante don Carlo De Cardona.

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UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE
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youtube.com/watch?v=PjhzK3yZR70&ab_channel=DiocesiCassanoall%27Jonio INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO
Gli interventi della seconda giornata decardoniana si possono seguire su: https://www.
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L’anno decardoniano 2021 si è concluso con l’intitolazione di una strada a don Carlo De Cardona a Bisignano. Martedì 29 marzo 2022: un incontro con gli studenti delle scuole superiori e lo scoprimento della targa stradale.

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INIZIATIVE E FOTO DELL’ANNO DECARDONIANO

Martedì 29 marzo 2022 il quotidiano cattolico “Avvenire” ha dato notizia ai propri lettori dell’intitolazione a Bisignano di una via a don Carlo De Cardona.

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UNA GRANDE STORIA DA RACCONTARE

MONS. CAMILLO SORGENTE PROMOTORE DI UNA STAGIONE POSITIVA PER COSENZA

Resse l’Arcidiocesi cosentina per 37 anni, seppe leggere i segni dei tempi, affrontando i tanti problemi che affliggevano il Sud d’Italia di Demetrio GuzzarDi

Il Centro studi calabrese “Cattolici Socialità Politica” ha indicato il 2021 come anno decardoniano. Sono ben tre gli anniversari da celebrare: i 150 anni dalla nascita del servo di Dio don Carlo De Cardona (Morano Calabro 4 maggio 1871), i 130 anni dalla promulgazione dell’enciclica sociale di Leone XIII Rerum novarum (15 maggio 1891) e i 110 anni dalla morte di mons. Camillo Sorgente (2 ottobre 1911), l’arcivescovo cosentino che, per promuovere il Movimento cattolico, volle a Cosenza don Carlo De Cardona.

Camillo Sorgente nasce a Salerno il 13 dicembre 1823, da una famiglia agiata; il papà Luigi era un architetto, la mamma era donna Giuseppina Manganella; studia dai gesuiti, dove incontra Matteo Liberatore che sarà uno degli estensori della Rerum novarum. Sorgente viene ordinato sacerdote a Salerno il 26 settembre 1848 da mons. Zottoli (ausiliare di mons. Marino Paglia); durante l’epidemia di colera del 1855-56 che ha colpito le più importanti città del Regno di Napoli, il giovane prete si dedicherà in modo instancabile, nella sua Salerno, ad assistere i malati del terribile morbo; nel 1862, a furor di popolo, ricordando il suo impegno per gli ultimi, don Camillo viene nominato dal Municipio di Salerno priore della Collegiata dell’Annunziata.

Papa Pio IX, il 5 maggio 1874, lo nomina arcivescovo di Cosenza (lo sarà per 37 anni, dal 1874 al 1911; prima di lui aveva retto la diocesi per 39 anni mons. Lorenzo Puntillo); verrà consacrato vescovo il 17 maggio 1874, farà il suo ingresso a Cosenza il 29 luglio dello stesso anno. Sorgente si troverà suo malgrado coinvolto nell’assurda scaramuccia, con i responsabili della Prefettura cosentina, per il regio placet, con echi anche nelle aule parlamentari, per cui è costretto a vivere i primi cinque anni del suo episcopato in una residenza, che non era il palazzo arcivescovile.

Lo storico Ferdinando Cassiani, nel suo libro I contadini calabresi di don Carlo De Cardona, ha voluto suddividere l’episcopato cosentino di Sorgente in due parti: la prima (1874-1895) tutto proteso alla formazione dei seminaristi (suo grande merito fu aver saputo cercare, trovare e incoraggiare gli uomini più adatti alla realizzazione dei suoi progetti molto arditi); scrive

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Cassiani: «allo scoccar dei tempi nuovi Cosenza esplose come un vulcano, dalla lava troppo a lungo compressa». Oltre alla riapertura del Seminario cosentino, che era stato chiuso a causa dei danni provocati dal sisma del 1854, si dedicò alla visita pastorale, l’assistenza ai poveri, agli orfani e ai malati; e inoltre la salvaguardia della devozione popolare. Grande fu la sua attenzione per l’architettura ecclesiastica e l’arte sacra, in primis il restauro della Cattedrale, con l’eliminazione del barocco, per riportare alle originarie linee gotiche-cistercensi la principale struttura architettonica ecclesiastica della città; Sorgente, nella sua visione ecclesiologica, vedeva il restauro come un simbolo di un ritorno della comunità cristiana alle sorgenti del Vangelo. L’arcivescovo affidò a Giuseppe Pisanti, un affermato architetto lucano, ma di formazione napoletana, questo importante lavoro; Pisanti si era distinto nel rifare la facciata del Duomo di Napoli e poi in Calabria aveva lavorato a Oppido Mamertina e a Montalto Uffugo. Qualche anno fa, l’architetto cetrarese Carlo Andreoli, con un suo articolo, ha portato alla conoscenza degli storici che l’attuale trono in marmo della Cattedrale di Salerno (realizzato nella metà del XVIII secolo da valenti marmorari napoletani) era nel Duomo di Cosenza e, non ritenuto consono al nuovo stile che Sorgente e Pisanti stavano progettando, fu donato, nel 1900, al vescovo di Salerno mons. Valerio Lespro per il suo giubileo sacerdotale. Stessa cosa avvenne anche per l’imponente altare marmoreo, che fu smontato e portato nella chiesa ancora in costruzione a San Pietro in Guarano. Padre Francesco Russo, nella sua monumentale Storia dell’Arcidiocesi di Cosenza, scrive che mons. Sorgente (pp. 545-550) fu instancabile nel percorrere continuamente la vasta diocesi, utilizzando un mulo o un calessino per raggiungere anche i borghi più lontani e impervi. C’è un episodio accaduto a San Giovanni in Fiore che lo storico ricorda: la gente del centro silano «non vedeva un vescovo a memoria d’uomo, la calca, le grida acclamanti, furono tali da imbizzarrire il cavallo, che sbalzò dalla sella il povero vescovo, e questi malgrado le contusioni e il dolore, fece lo stesso le sacre funzioni, tra l’entusiastica soddisfazione del popolo».

Tra le tante cose che meritano di essere ricordate dell’episcopato di mons. Sorgente, l’interessamento per il ritorno dei Minimi a Paola (1901) e a Paterno (1904) e, nel 1906, per ridare nuovo splendore al Santuario di Laurignano, riuscì a far venire dalla Puglia i padri Passionisti; negli stessi anni fu anche artefice della venuta delle suore Canossiane a Cosenza.

Il secondo periodo del suo ministero episcopale è tutto illuminato dall’enciclica sociale Rerum novarum, con la nascita della stampa cattolica e la formazione delle associazioni dei lavoratori.

Mons. Sorgente volle don Carlo De Cardona come suo segretario, pur non essendo un suo diocesano; infatti De Cardona, nativo di Morano, ap-

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parteneva alla diocesi di Cassano all’Ionio, ma avendo frequentato a Cosenza il Liceo classico “Bernardino Telesio” e alloggiando nel Seminario cosentino, era conosciuto molto bene da mons. Sorgente. Sicuramente negli anni di studi romani alla Gregoriana, il giovane Carlo De Cardona, avrà accolto con entusiasmo le tesi di sociologia cristiana di uno dei suoi professori, il gesuita padre Matteo Liberatore, amico e compaesano di Sorgente. De Cardona venne ordinato sacerdote il 7 luglio 1895 nella cappella dell’episcopio di Cassano da parte del vescovo cappuccino Evangelista Di Milia, che subito dopo la sacra funzione gli comunicò qual era il desiderio di Sorgente: averlo a Cosenza per affidargli compiti nuovi, che nessun prete cosentino era stato in grado di portare avanti. Nel suo Diario scritto durante il periodo nero dell’esilio, il 7 luglio 1939, don Carlo ricordò che, non potendo rifiutare l’invito di mons. Sorgente, gli disse che avrebbe accettato la sua offerta solo per un anno, ma poi non fu così… Sorgente, nel 1896 con il cardinale Gennaro Portanova, arcivescovo di Reggio Calabria, fu il promotore e uno dei relatori del primo Congresso

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MONS. CAMILLO SORGENTE E LA STAGIONE POSITIVA A COSENZA

cattolico regionale, tenutosi nella città dello Stretto. Durante un’udienza con Leone XIII, Sorgente presentò al papa il suo giovane segretario come «l’apostolo sociale del Cosentino»; il pontefice gli mise la mano sul capo benedicendolo e gli comandò «di operare per la plebe di Dio e il trionfo della fede».

Il periodico decardoniano Il Lavoro del 29 settembre 1906, riportando una delle tante iniziative promosse da don Carlo De Cardona, scrive che «mons. Sorgente era presente spiritualmente e fisicamente nella Chiesa dello Spirito Santo – circondato da tredici bandiere bianche della Lega del lavoro – in mezzo a un popolo di lavoratori ansiosi di ricevere la parola e la benedizione del pastore delle anime».

Lusinghiero l’apprezzamento dell’arcivescovo di Rossano mons. Orazio Mazzella: «Sorgente comprese – primo fra tutti i vescovi calabresi –la necessità di organizzarsi, di agire rifiutando ogni compromesso con le forze liberali e il clientelismo politico calabrese, soprattutto perché la loro azione non era solo in funzione antisocialista».

Sicuramente il giudizio più positivo che ci resta su Sorgente è quello di mons. Gottardo Scotton visitatore pontificio, che visitando le diocesi meridionali per conoscere le attività sociali ivi presenti, così scrive:

«A Cosenza c’è un vescovo che io ho sempre considerato il tipo di vescovo. Ha trovato una diocesi infame e se non ha ancora potuto guarirla del tutto, ha però risanato molte piaghe. Ha trovato un clero disgraziato ma ha un Seminario fiorente da cui sono usciti molti buoni preti. È l’unico vescovo del napoletano che abbia fatto il Comitato diocesano».

L’attività di De Cardona, sempre sostenuta da mons. Camillo Sorgente, era quella di saldare Chiesa e popolo, costruire la comunità ecclesiale con la partecipazione dei lavoratori, per realizzare il rinnovamento voluto da Leone XIII anche a Cosenza. Con l’avvento di Pio X, che non gradiva l’eccessiva presenza sociale della Chiesa e con i venti del modernismo, Sorgente difese davanti al pontefice a spada tratta De Cardona e le sue iniziative; con una lettera del 12 settembre 1908, papa Sarto tributò pubblica lode all’opera sociale decardoniana. Pio X, il 17 maggio 1911, in occasione del XXXVII di episcopato di mons. Camillo Sorgente, lo nominò conte romano e assistente al soglio pontificio; ma dopo appena 4 mesi, il 2 ottobre 1911, l’arcivescovo morì a Cosenza a 88 anni. Ai funerali celebrati in Duomo partecipò moltissima gente che volle accompagnare la salma al cimitero cittadino; il suo corpo fu temporaneamente tumulato nella cappella del Suffragio per poi essere portato nel 1940 nel Duomo; dopo i recenti lavori (anni 2000), i resti del vescovo sono stati riportati nel cimitero cosentino accanto a mons. Roberto Nogara e mons. Dino Trabalzini.

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don Luigi Nicoletti

Don Luigi Nicoletti è nato a San Giovanni in Fiore il 6 dicembre 1883, ordinato sacerdote il 9 giugno 1906. È stato l’allievo prediletto di don Carlo De Cardona con cui ha condiviso le battaglie per il riscatto sociale dei contadini calabresi. Ha concluso la sua vita terrena il 3 settembre 1958.

Da pagina 60 a pagina 79 ripubblichiamo integralmente il suo libro “Pensieri” (1938).

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DON CARLO DE CARDONA È MORTO

di don luiGi Nicoletti

Democrazia Cristiana - quindicinale - 22 marzo 1958 - anno XVI, n. 6

La sera del 10 marzo una telefonata da Morano Calabro mi annunziava la morte di don Carlo De Cardona. Perdurano, dopo dieci giorni, nel mio spirito memore e riconoscente, lo sgomento doloroso e la tristezza senza parola, col cordoglio di non essere potuto accorrere al letto della sua agonia e con l’unico conforto di aver celebrato la Santa Messa e pregato per la sua grande anima di apostolo e di martire, morto nella sua volontaria francescana povertà, dimenticato dai suoi numerosi beneficiati, non onorato da enti, da consessi e da associazioni che avrebbero dovuto esprimere la loro gratitudine e il loro rimpianto per un precursore e creatore di opere benefiche, per il generoso e disinteressato milite dell’Idea, per il servo fedele e operoso e della religione e della patria, per il difensore delle classi lavoratrici, poco o niente conosciuto dalla più giovane generazione. Eppure sino a un decennio fa la sua figura e il suo nome s’imponevano all’ammirazione e al rispetto generale per le sue benemerenze nel campo religioso, culturale, economico, amministrativo e politico. Quando si pensa alle bugiarde e interessate esaltazioni di piccoli uomini e agli stamburamenti assordanti e noiosi per modestissime opere e presunti o gonfiati meriti, che siamo costretti a sopportare in quest’ora non lieta (nella quale si scambia per storia un’insignificante cronaca, i cui rumorosi attori attribuiscono a proprio onere il godimento

parassitario di un’eredità nobilissima) l’indifferenza e il silenzio sull’uomo che ha onorato la Calabria e l’Italia con la sua opera geniale e salvifica rivelano una mortificante ignoranza e un’iniqua e incomprensibile ingratitudine.

Lo conobbi nel 1900; ero studente liceale e fui conquistato all’Idea da uno di quei suoi ardenti discorsi, nei quali la vigoria del pensiero e l’incandescenza del sentimento soggiogavano l’uditorio, travolgendo ogni resistenza. Erano tempi difficili: dominavano la massoneria e l’irreligione; nella scuola statale pontificavano il positivismo e il materialismo; le classi lavoratrici subivano il fascino del credo marxista; l’anticlerica-

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Don Carlo De Cardona

lismo era di moda sulle cattedre, nella stampa e nelle... botteghe di barbiere.

Dalle labbra di don Carlo appresi la Dottrina sociale della Chiesa, sentii per la prima volta le parole e capii il concetto di libertà e di democrazia. Per opera sua si svegliò in me la vocazione al sacerdozio. Perché egli era veramente un maestro. Intelligenza vivida, mente

poliedrica, cultura profonda, spirito irrequieto e impetuoso, parola efficace e suadente erano qualità che si imponevano e alle quali era assicurata la vittoria.

L’indimenticabile mons. Sorgente, l’allora settantenne vescovo che aveva tutte le risorse e le sante audacie della giovinezza, intravide nel giovane prete, che aveva studiato a Roma

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presso i La prima pagina del quindicinale Democrazia Cristiana fondato e diretto da don Luigi Nicoletti; in questo numero listato a lutto viene ricordato don Carlo De Cardona. DON CARLO DE CARDONA È MORTO

padri gesuiti, l’uomo provvidenziale e lo volle suo segretario per concedergli la libertà di seguire il suo genio. E don Carlo insegnò filosofia nel Seminario, rivelando profondità di dottrina e modernità d’intuizioni e di metodo, fondò circoli giovanili, fece nascere e diresse un battagliero giornale, La Voce cattolica. Poi creò la vasta rete delle Casse rurali, che debellarono l’usura in Calabria e trasformarono numerosissimi braccianti agricoli in piccoli proprietari; dette vita a fiorenti cooperative e a numerose Leghe del lavoro. Fu per parecchie legislature consigliere provinciale del fedele mandamento di Rose; fu consigliere e assessore comunale del capoluogo. Nella pubblica amministrazione ebbe vedute ampie e moderne e la sua parola meditata e sostanziata di pensiero era ascoltata con rispetto da amici e avversari. Nelle piazze e nei congressi i suoi discorsi provocavano entusiasmi e consensi consapevoli. Giornalista di classe aveva una vigoria polemica, alla quale non si resisteva.

Questo in breve l’uomo che, pur vivendo in mezzo alle lotte, instancabilmente operoso, non venne mai meno ai suoi doveri strettamente religiosi: di costumi angelici, amante della preghiera, caritatevole, pronto sempre alle rinunzie e al sacrificio. Mise tutto se stesso e le sue eccezionali qualità a servizio dell’Italia, ma per sè nulla chiese. Per le sue mani passarono milioni e lui è morto povero!

Fu, anche lui, come tutti gli spiriti nobili e gli apostoli dell’ideale, signum cui contradicitur sull’esempio del Divino maestro. Ebbe il suo Getsemani e il suo Golgota; perciò l’ho chiamato martire. Per il suo spirito democratico e la modernità delle vedute fu, insieme al sottoscritto e ad altri giovani sacerdoti, ritenuto un modernista; per la difesa

delle classi lavoratrici e la riforma dei patti agrari un rivoluzionario; per la sua attività un politicante Aveva generosamente contribuito a salvare la Cassa di risparmio in un lontano giorno di pericolosa crisi e nessuno si mosse a salvare il solido istituto delle Casse rurali, quando una sciagurata e miope politica del regime ne volle la morte, nonostante che parecchi milioni in quei tempi la Cassa rurale avesse investito in titoli di Stato.

Ma la gratitudine non è una pianta che facilmente nasce nel mondo idolatra del danaro, che Papini chiamava «sterco del demonio». Il quale sterco è ottimo concime soltanto per la mala pianta dell’affare e della disonestà.

Dio misericordioso, per non fargli ancora un’ultima volta constatare la tristezza e la viltà degli uomini, in quest’ultimo scorcio della lunga vita, gli aveva offuscato la vivida intelligenza, e così si è spento senza ulteriori consapevoli sofferenze.

Tre anni fa c’incontrammo nel suo paese natio. Non mi riconobbe. Quella sua mirabile lucidità mentale era come un sole velato da dense nubi. Dopo lo scambio di vane frasi mi disse: «Rimettimi sulla via dell’Est, dov’ero diretto»: intendeva dire verso il convento dei cappuccini. Povero e caro maestro. Nel mesto tramonto della sua vita operosa cercava l’Est. La sua anima ardente, santificata dalla carità e dalla sofferenza, era protesa verso l’alba, verso l’aurora della vita eterna. Ora l’ha raggiunta, ottenendo da Dio la vera gloria, che non può, nè sa dare il mondo, perché questo per i veri grandi non ha che incomprensione, ingratitudine e oblio.

Pace al suo nobile spirito e condoglianze vivissime ai parenti, che l’hanno circondato di affettuose cure, e ai pochi superstiti amici.

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LUIGI NICOLETTI

DON LUIGI NICOLETTI SI ISPIRÒ SEMPRE A PRINCIPI FORTI

E DA ESSI SEPPE TRARRE LA CERTEZZA NEL TRIONFO DELLA LIBERTÀ E LA FORZA PER NON CEDERE ALLA TIRANNIA di GiovaNBattista GiuDiceaNDrea Idee per la sinistra, 2008, n. 15-16

Luigi Nicoletti che animò i primi passi del movimento popolare cattolico, che resse l’Azione Cattolica su posizioni antifasciste durante il ventennio, che guidò la ricostruzione della Democrazia Cristiana dopo la Liberazione in provincia di Cosenza è nato il 6 dicembre 1883 a San Giovanni in Fiore, dove riposa dal 1958, accanto al padre, l’avvocato Antonio e alla madre, Teresa Zumbini, sorella del famoso scrittore Bonaventura.

L’Amministrazione comunale di San Giovanni (di sinistra) murò sulla facciata di Palazzo Nicoletti una lapide in cui lo onora come «sacerdote esemplare, educatore e maestro, scrittore profondo, politico di adamantina struttura, assertore e difensore della libertà, della verità, della giustizia…». Luigi Nicoletti si laurea in teologia e viene ordinato sacerdote nel giugno 1906 e da allora si prodiga nella costruzione – assieme a don Carlo De Cardona –del movimento contadino e operaio di ispirazione cattolica. Nel 1905 fondò il periodico Il Lavoro e nel 1910 un altro periodico, L’Unione. Nel 1910 la nascente Lega dei contadini della sua San Giovanni in Fiore gli propose la candidatura per il Consiglio provinciale, il cui seggio in quel collegio era appannaggio da 20 anni del candidato conservatore Domenico Lopez. La battaglia fu dura e contro di lui si scatenò l’armamentario dei pregiudizi, particolarmente roventi

contro un prete a quei tempi considerato una vergogna perché sovversivo. Don Luigi (come da allora lo chiamarono familiarmente tutti) ai pregiudizi e alle insinuazioni personali rispose solo con gli argomenti del riscatto dei lavoratori: la lotta contro il latifondo assenteista e per i diritti di chi lavora e la fine delle usurpazioni silane. Si collaudò come oratore appassionato, che parlava diritto al cuore degli umili e compì il miracolo: la roccaforte della conservazione crollò; per soli 4 voti, ma crollò. Nel 1916 consegue la laurea in Letteratura, che gli consente

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STUDI E RICERCHE SU DON CARLO DE CARDONA

di qualificare la missione di educatore che svolgeva nelle scuole superiori di Cosenza e favorisce la sua passione per gli studi letterari, che trasfuse in pregevoli opere di filologia e di critica dantesca e soprattutto manzoniana. Riscosse (e riscuote) successo il suo I personaggi dei Promessi sposi

Le vicende della Prima guerra mondiale lo trovano impegnato in Trentino e sull’Isonzo. Le sue passioni dominanti furono sempre il giornalismo e l’organizzazione contadina. Nel 1914 tiene a battesimo un nuovo periodico, UnioneLavoro, nato dalla fusione delle sue due prime creature giornalistiche. A guerra finita lo scontro di classe diventa violento per la nascita del fascismo che egli, a differenza di molti esponenti cattolici, guardò sempre con sospetto. Nel 1924 l’assassinio di Matteotti lo fa insorgere assieme ad altri consiglieri provinciali per dichiarare «la loro irriducibile avversione al fascismo». Il famoso discorso di Mussolini, che tracotante irrideva al Parlamento che avrebbe potuto trasformare in un bivacco dei suoi manipoli, viene così commentato da Nicoletti nel periodico L’Unione:

«Il suo linguaggio brutale e scortese ha schiaffeggiato a sangue la dignità parlamentare; le sue parole sono state il necrologio della XX legislatura e la minaccia di una dittatura senza scrupoli».

Don Luigi traeva dai suoi principi l’ispirazione non solo per assumere posizioni tanto coraggiose, ma anche per scorgere con chiarezza (rara in quei tempi) i pericoli derivanti da una nascente dittatura. Lo stesso coraggio e la stessa chiarezza di idee egli li conservò negli anni seguenti. Nel 1936 il vescovo

lo chiamò a dirigere il periodico Parola di vita, nato nel 1925 come organo ufficiale dell’Azione cattolica, che si fece portatore di idee controcorrente, come la difesa della pace mentre il fascismo ingaggiava la guerra in Etiopia e preparava quella in Spagna, oltre ad alimentare il bellicismo che preludeva al rovinoso uragano della Seconda guerra mondiale. La tendenza all’alleanza con il nazismo fu contrastata da don Luigi su due fronti: quello della denunzia delle violenze della dittatura hitleriana e quello della condiscendenza a essa di una parte del clero cattolico.

Nel numero del 21 giugno 1937 di Parola di vita don Luigi firma l’editoriale, Prepotenza e viltà, nel quale, dopo aver dichiarato che si rivolge al nazismo e al clero cattolico, stigmatizza:

«Il forte (il nazismo) due volte vile, che opprime il debole e lo calunnia e (il clero cattolico) che spesso diventa banditore ufficiale della prepotenza nazista».

E nel successivo numero del 3 agosto 1937 nell’editoriale Non praevalebunt preconizza con coraggiosa lucidità:

«Passerà anche questa raffica devastatrice, demoniaca e forsennata del nazismo, e tornerà il trionfo di Dio nel regno delle coscienze».

Nel dicembre 1937, sempre su Parola di vita, esprime il suo disgusto per le teorie razziste:

«L’etica neomanichea del razzismo è basata sulla differenza dei globuli rossi: tutti puri quelli ariani e tutti spuri quelli non ariani».

Queste posizioni coraggiosamente controcorrente non potevano sfuggire

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GIOVAMBATTISTA GIUDICEANDREA

alla critica occhialuta dei gerarchi fascisti che su Calabria fascista emettono il loro verdetto inappellabile di condanna, definendo don Luigi Nicoletti «guerrafondaio, contrario alla morale cattolica, macchiato di pece massonica, bolscevica e giudaica, denigratore del regime».

Ma don Luigi non si fece intimidire e continuò la sua battaglia fino alla caduta del fascismo, quando poté riprendere la sua attività politica: fece parte del Comitato di Liberazione assieme a Fausto Gullo e Pietro Mancini e fu membro del Comitato di epurazione, al quale diede il suo contributo di serenità ed equilibrio, per evitare gli eccessi sempre in agguato in tempi di aspri scontri come erano quelli.

Quando fu scoperta la cosiddetta congiura degli 88 ex gerarchi fascisti, don Luigi non esitò a difendere da quelle accuse – indubbiamente esagerate – Luigi Filosa e gli altri 87, rispondendo a chi se ne stupiva: «Se li avessi accusati non sarei stato diverso da loro», ribadendo il principio che non ci si accanisce contro il proprio avversario e non si risponde ai torti subiti infliggendone agli altri.

Da segretario della Dc condusse una lotta culturale e politica senza quartiere contro quelli che riteneva i pericoli e le degenerazioni dello stalinismo (apparendo, forse, un anticomunista, ma le critiche di Kruscev al XX Congresso confermarono le sue parole).

Don Luigi non fu tenero contro le degenerazioni che cominciavano a diffondersi nel suo partito, che si avvaleva della potenza della Cassa di risparmio e dell’Opera Sila, denunziando sul suo giornale «abusi, favoritismi e sperperi che farebbero arrossire anche un negro».

Don Luigi Nicoletti è stato un uomo forse scomodo, perché era uno di que-

gli spiriti non faziosi, che non esitano a rimproverare anche al proprio partito i difetti rimproverati all’avversario. Nicoletti è stato certamente illuminato da principi alti, dai quali sapeva trarre certezza sulla caducità delle dittature, e anche il coraggio per non piegarsi ad esse. Come tutti i grandi idealisti ed innovatori è morto in assoluta povertà, sorretto dall’affetto dei suoi discepoli e dei numerosi estimatori.

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DON LUIGI NICOLETTI PER LA LIBERTÀ CONTRO LA TIRANNIA

La copertina del libro “Pensieri” stampato a Cosenza nel 1938 dalla tipografia L’economica. Don Luigi Nicoletti lo dedicherà «A tutti i miei discepoli, sempre cari, di ieri e di oggi».

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LUIGI NICOLETTI

PENSIERI

di luiGi Nicoletti Cosenza, tip. L’economica, 1938

Prima di apporre a questo umile libretto il titolo che porta e che mi sembrava un po’ presuntuoso, ne ho cercati altri, ma non sono riuscito a trovarne uno che n’esprimesse il contenuto e lo scopo. Che cosa sono questi Pensieri? Sono pensieri. Non originali, forse, non distribuiti per argomento, senza alcuna pretesa d’insegnare agli altri qualche cosa. Non han nulla delle lunghe e fastidiose elucubrazioni, nè delle meditazioni filosofiche. Sono gettati sulla carta come sono sbocciati dal cuore, senza lavoro di lima o di bulino. Ho detto dal cuore, perché ogni idea, prima di trovare l’espressione nelle parole, è passata attraverso la fiamma del sentimento, ricevendone calore, luce e vita. Ho detto sbocciati, perché sono venuti fuori spontaneamente. Non sono disceso a pescarli nelle profondità dell’anima, come pesci nelle acque profonde del mare, ma sono esplosi ex abundantia cordis, come erbe e fiori di prato.

Chi ha visto il nostro altipiano silano nei primi giorni di maggio potrà intendere quel che dico. Primule delicate, umili viole, sgargianti papaveri, spadacciole, narcisi, giunchiglie, speroni di cavaliere, trifogli, e con essi rovi, cardi, asfodeli, brocche di biancospini, e malve e ortiche, tutta una vegetazione spontanea, dovuta a un unico humus, a semi dispersi qua e là dal vento o da insetti, al sole che schiude col suo calore i germi e con la sua luce colora i fili d’erba e le corolle. Si parla di tante cose diverse, che fan pensare o sorridere, che rivelano tutte esperienze della vita e conoscenze del cuore umano. Alle volte la parola ha un tremito di pianto, alle volte un sospiro di nostalgia, alle volte un gemito di rimpianto o l’anelito di una speranza. Talvolta punge, ma come l’ago iniettatore di liquido ristoratore, taglia, ma come il ferro del chirurgo, per risanare. Il riso non è mai amaro: birichino, ma buono.

Il pensiero, per non riuscire pesante, è abbellito da un’immagine, e questa non ha nulla di retorico, di sforzato. Mi accorgo che pronunzio un giudizio sull’opera mia e ciò non è consentito dalla critica. Il giudizio deve pronunziarlo il lettore. Ma come si fa a interdire a una madre di contemplare i propri figlioli senza goderne e manifestare la propria soddisfazione?

È forse questa l’ultima mia pubblicazione. A un morente si perdona ancora di più. Perciò non chiedo venia ai pazienti lettori. Del resto, che male può fare un mazzolino di fiori offerto senza esserne richiesti? Quando siano trovati senza odore e senza bellezza, si fa presto a gettarli nella pattumiera. Immacolata 1937 (XVI)

61 STUDI E RICERCHE SUL MOVIMENTO CATTOLICO IN CALABRIA

Chi ha saputo conservare sempre fresca e vigorosa la giovinezza dello spirito non si vergogna delle rughe e dei capelli bianchi.

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I polmoni logori dalla tubercolosi non resistono all’aria ossigenata della montagna, come le deboli volontà non son capaci di nobili e magnanime fatiche.

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Il pianigiano, che ignora l’esistenza delle Alpi o dell’Himalaya, crede di aver compiuto un’ardita ascensione quando abbia raggiunto la cima di una collina.

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Si dice che l’occhio sia lo specchio dell’anima; questo non vuol dire che ne rifletta sempre esatta l’immagine; può lo specchio essere concavo o convesso e allora l’immagine è sempre deformata.

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Gorgoglia l’acqua che bolle nel paiolo e quella di una sorgente montana. Il gorgoglìo della prima, però, cessa appena si spegne il fuoco; quello dell’altra è perenne. Così gli affetti frivoli e semplici hanno bisogno di stimolanti per vivere un breve tempo; i veri e profondi non conoscono attenuazioni né soste.

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L’amore che s’immola è il legno che arde e si consuma per dar luce e calore a chi ne ha bisogno.

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L’acqua del sottosuolo che, silenziosa e non vista, mantiene in vita l’albero verde e prosperoso; la fiamma che arde, sempre uguale e nutrita da puro olio di ulivo; l’ombra che tempera gli ardori e dà refrigerio al viandante stanco; lo zefiro carezzevole, portante il profu-

mo dei primi fiori; il balsamo che sana le piaghe più inciprignite; il morbido origliere su cui riposa il capo stanco dalle fatiche del pensiero; il porto fido, che offre ricovero alla nave sbattuta dai marosi… sono pallide immagini dell’amore materno.

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L’amore materno, che comincia con la sofferenza, è l’unico amore che sempre soffre.

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Non si può fare a meno dell’amore di una mamma. Il Verbo Eterno tra gli uomini si scelse un padre putativo, ma volle una madre reale. E Gesù, che fu l’uomo dei dolori, un solo umano dolore volle risparmiarsi: la morte della mamma.

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La lagrima è il linguaggio delle grandi gioie e dei grandi dolori.

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La moneta cartacea deriva il suo valore dall’oro depositato nelle casse dello Stato; così la parola dell’uomo dalla dovizia del sentimento.

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C’è analogia tra le diverse plaghe terrestri e le diverse anime degli uomini. Alcune di queste hanno l’aridità del deserto e lo squallore della landa o la triste uniformità della steppa; altre fanno pensare all’orto di Renzo o alle jungle misteriose o alle foreste intricate e impervie; altre ancora ad acquitrini, a paludi, a maremme. Poche sono quelle che presentano varietà e bellezza di panorami, con amenità di colline, con letizia di verde, con un perenne esplodere di fiori e alitare di profumi, con ininter-

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rotto risonare di canti e mormorio di fresche sorgenti.

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Bisogna distinguere sorriso da sorriso. Il sorriso di tenerezza, come quello che dice un grande amore e a cui manca ogni altra adeguata espressione, o quello che sorprendiamo sul labbro di una madre, la quale contempla il figliolo dormente nella culla; il sorriso di gentile pietà, come quello rivolto all’orfano derelitto, all’infermo inchiodato nel suo lettuccio, a chiunque ci apre il suo cuore piagato; il sorriso di soddisfazione di chi è riuscito a realizzare un suo sogno o a riportare un qualsiasi trionfo; il sorriso di commiserazione per tutto ciò che è vanità e miseria di anime piccole; il sorriso stereotipo e falso della cortesia suggerita dal protocollo e dalla convenienza; il sorriso untuoso dell’inferiore verso

il superiore, o di chi chiede un favore; quello sprezzante dell’orgoglioso, che si crede dispensatore generoso di onore agli altri; quello melenso dell’idiota; quello indefinibile del damerino, del mondano o della donna emancipata, che vorrebbe essere indice di spirito e lo è di volgarità e di stupidaggine; il sorriso amaro e maligno che offende e ferisce quanto l’oltraggio.

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Assistiamo talvolta, meravigliati e sgomenti, a crolli improvvisi di fortune familiari e nazionali o a naufragi inaspettati di anime che credevamo salde e irreprensibili. C’era un disordine occulto, che operava lentamente ma inesorabilmente il logorio, la disgregazione e la rovina. Così l’acqua profonda e non vista, col suo lavorio ininterrotto, finisce col provocare le frane spaventevoli e funeste.

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Tutto par che ci sorrida quando l’anima è lieta, e tutto è triste quando l’anima ci piange.

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Un campo di stoppie, rivoltato dall’aratro per una seconda seminagione, ammonisce l’uomo che nel fare il bene non bisogna avvertire stanchezze.

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Tommaso Da Kempis nel suo Doctrinale juvenum scriveva: «Prendi un libro nelle tue mani come Simeone il giusto prese il Bambino Gesù fra le braccia per reggerlo e baciarlo».

Ai tempi del Da Kempis non si concepiva un libro corruttore. Oggi, il mistico medievale, per tanta produzione libraria moderna, avrebbe ammonito: «Prendi con le molle ben disinfettate questa roba lurida e gettala nel fuoco, perchè non ti contamini l’anima e l’uccida».

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La religione è come la colonna salvatrice d’Israele, sfuggito alla schiavitù e marciante verso la Terra promessa. Ci sottrae alle insidie dei nemici della nostra anima e ci rischiara le tenebre della mente e del cuore.

Due cuori che s’intendono e si amano sono come due ruscelli, che s’incontrano e, confondendo le loro acque, formano un solo corso, con unico mormorìo e con maggiore certezza di non essere esauriti dalle estive evaporazioni.

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La devastazione prodotta dalle eruzioni vulcaniche rattrista lo sguardo e il cuore: il regno del silenzio e della morte dove trionfava la vita; ma l’uomo industre trae dalla lava indurita i blocchi

per costruire la sua casa o lastricare le vie della città, e nella terra divenuta più fertile prosperano le viti e gli ulivi. Così la sventura, che si abbatte su individui e popoli, pare che tutto abbia distrutto definitivamente, ma in seguito rivela la sua provvidenziale utilità.

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Certe dame della carità, promotrici di balli licenziosi e amanti di far rumore, farebbero bene a chiamarsi dame della vanità

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Basterebbe che le donne facessero con spirito cristiano metà delle penitenze che sostengono per il mondo e si acquisterebbero il Paradiso.

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Certe labbra e visi di donne orribilmente pitturati fan pensare a certi muri, la cui bianchezza è stata imbrattata con scritte e figure di cattivo gusto da monelli male educati.

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Certe mostre si distinguono soltanto per la loro mostruosità.

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Come potrebb’essere un tripudio la vita umana, se è annunziata dallo spasimo materno?

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Quando il dolore lo morde o la sventura si abbatte sulla sua casa, lo stolto grida che Gesù si è dimenticato di lui, mentre è lui che ha dimenticato una mangiatoia, un orto e una croce.

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La religione, che nelle anime è energia operante, testimonia la sua bontà nel

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bene che produce e diffonde; se ciò non fa, muore e mortifica. Così l’acqua che si muove raggiunge i solchi per vivificarli, produce l’energia che investe e dà moto alle macchine, generando luce e calore; mentre, se ristagna, si corrompe e contamina l’aria coi suoi tristi miasmi.

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Gli spiriti pipistrelli fuggono la luce del sole, avvezzi come sono alle tenebre; tutt’al più tollerano i deboli chiarori del crepuscolo. Anche la selce sprigiona una scintilla di fuoco nel forte attrito col ferro, come all’urto del dolore anche le anime più dure diventano capaci di un atto di bontà.

Ci sono degli uomini i quali sembrano forniti di tutte le virtù e sono tutti dolcezza e bontà, finché non sono messi a una prova dolorosa. Basta che si urti la loro suscettibilità o che li si contraddica in qualche loro ben dissimulata passione, perché rivelino a un tratto la loro vera natura. Così il vino vecchio, riposto in una bottiglia, ci appare limpido e trasparente, finché una forte scossa non muova il fondiglio che quello tutto intorbida.

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Non c’è infelice che non abbia il conforto di una speranza, come non c’è deserto che non abbia la sua oasi verdeggiante.

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Èdiffuso il pregiudizio che il camaleonte viva di sola aria; l’uomo camaleonte invece non si ciba che di roba solida.

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Ad alcune donne bastano cento vocaboli e una sola idea presa a prestito per intessere conversazioni, ch’esse e gli sciocchi credono intellettuali.

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Conosco degli uomini che, dopo aver letto un libro o un articolo di rivista, ve lo rovesciano addosso alla prima occasione come elucubrazione propria. Così del becchime fa il colombo coi suoi nati.

*Esopo, per fustigare i vizi ed esaltare le virtù degli uomini, dovette incomodare molte bestie, alle quali attribuì il pensiero e la parola. Lasciò da parte – se ben ricordo – il pappagallo, il camaleonte e il porco. Eppure i novantanove centesimi degli uomini ne han sempre ricopiata la natura. (Ma forse egli non conosceva questi tre animali.

*La gran maggioranza degli uomini rifugge dalle fatiche del pensiero; crede forse esser meglio vivere dei prodotti del cervello altrui, come quel contadino, che lasciava i prodotti del proprio orto ai bruchi e agli uccelli e rubava quelli dell’orto del suo vicino.

*Molta gente scrive, oggi, versi senza ritmo, senza rima e senza senso. Se vi permettete di farne loro umile lagnanza, vi risponderanno che voi non capite la loro poesia. L’asino e la gazza, se capissero il vostro fastidio nell’ascoltarli e potessero difendersi con la parola, vi direbbero che voi avete torto a posporre il loro canto a quello dell’usignolo.

*Volete scrivere poesie stile Novecento? Stendete una breve prosa, di senso oscuro, ansimante; spezzettatela in parti di diversa lunghezza, allineate queste in senso verticale, e avrete la cittadinanza nel regno di Parnaso.

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*

Una dama, che aveva assistito a un feroce match, nel quale un peso massimo era rimasto esanime e boccheggiante sul ring, la notte non potè dormire. Domandata del perchè, rispose che la ragione dell’insonnia era la preoccupazione per il cimurro del suo cagnolino pechinese.

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Certe fanciulle vanno al mare o in montagna con l’anima sana e col corpo si e no debilitato; tornano in città col corpo si e no rinvigorito e con l’anima contaminata e malata.

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Giacché la moda ha un’ostinata preferenza pei costumi dei popoli primitivi, perchè imita sempre il nudismo degli abissini e disdegna di vestire come gli esquimesi?

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Il peccato originale era una schiavitù dolorosa e disperata. L’uomo non mostra di accorgersi del gran beneficio della redenzione e pare non faccia alcun conto della sua libertà. Le tendenze al male sono come una nostalgia delle catene infrante e il peccato fa pensare a una bramosia di servitù.

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Il dolore nobilita e spegne ogni desiderio di vanità; il piacere deprime e inchioda nel fango del mondo. Chi ha gli occhi alla greppia e al truogolo non sente gl’inviti del cielo; mentre chi è disteso sulla croce non guarda più sulla terra, ma in alto, dove gli sorride la visione di Dio.

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La filantropia mondana è acquazzone rumoroso, che fa male ai campi su cui si rovescia; la carità cristiana è pioggerella silenziosa, che penetra nel profondo e alimenta la vita.

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I genitori, incoscienti e deboli verso i figli, sono come l’agricoltore che lascia inselvatichire l’ulivo per non recidere i rami inutili e nocivi, mentre l’esperto potatore li taglia per fare a suo tempo una buona raccolta.

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Non possono, i due occhi del corpo, guardare uno un oggetto e l’altro un altro. Neanche quelli dell’anima possono esser rivolti uno al bene e l’altro al male, ma devono decidersi o per il primo o per il secondo.

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Ammonisce la liturgia: memento homo quia puluis es et in pulverem reverteris. L’uomo, invece, dimentica questa verità e, quando è riuscito a salire troppo in alto, non pensa che l’attende la terra, in cui marcirà. L’acqua del più alto zampillo ridiscende inesorabilmente in basso.

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La botanica c’insegna che, quanto più un albero affonda le sue radici nel sottosuolo, tanto più leva la sua chioma in alto. Così quanto più l’uomo si umilia, tanto più la grazia divina lo esalta.

*

L’ape, destinata da Dio a produrre il miele, quando caccia il suo pungiglione nelle carni vive di un animale, muore. Così l’uomo virtuoso, quando vien meno alla sua missione di bontà e si volge al male, perde la vita dello spirito.

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*

Ho inteso spesso rivolgere a Dio questo stolto rimprovero: «Perché ci ha dato il libero arbitrio, quando sapeva che con esso si poteva peccare?». Un uomo, che abbia trasformato un aratro in arma omicida e con questa soppresso un fratello, potrebbe ugualmente lamentarsi della creazione del ferro.

*

La vita terrena è il crepuscolo serotino, mentre la morte è il crepuscolo mattutino; quello è seguito dalle tenebre che sempre più infittiscono, finché non si delinea a poco a poco il secondo, che prelude all’aurora e poi al meriggio eterno.

*

Perché Dio ha voluto la morte? Perché, senza la dissoluzione dei semi nella terra, non si ha la letizia delle messi.

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L’uomo senza esperienza è un cieco senza bastone.

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Il vecchio, che continua a peccare, può rassomigliarsi a un albero, che non ha portato mai frutto, e il cui tronco imputridito non è neppure utilizzabile per legna da ardere.

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Perché i giusti son quasi sempre perseguitati? Domandate ai ragazzi perché tiran sassi soltanto contro gli alberi fruttiferi.

*

Il cervo che, specchiandosi nel fonte, lodava le sue corna e disprezzava le lunghe gambe, fa pensare alla donna,

che disprezza le sue qualità muliebri e preferisce di mascolinizzarsi.

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Si porta nudo il corpo perché questo sia solidale con l’anima, ch’è anch’essa nuda di... virtù.

*

Una volta le calze cadute eran segno di sciatteria; da qualche tempo invece significano eleganza.

*

Le bestie, che hanno solo l’istinto, non si sono mai strappati il vello o le penne per sembrar più belle. Ma l’uomo che ha la ragione, per non somigliare loro, va con la pelle scoperta.

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Non chiedere al vulcano in eruzione se ha fuoco nel suo seno, nè allo zeffiro di primavera se porta profumi dall’Occidente.

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La gioia è rara e di breve durata, come un lembo di cielo azzurro e luminoso, schiudentesi tra nubi dense e malinconiche, o come trillo gioioso e fuggitivo d’uccello, portato via dall’impeto della bufera.

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Il ricordo è la rugiada bevuta dall’avida corolla, per non appassire innanzi tempo; è il viatico sostentatore del pellegrino, l’olio che rifornisce la lampada perché non si spenga.

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I fiori attirano col fascino delle loro corolle l’avidità degli insetti: alcuni per fornire le linfe che nutrono e possono essere trasformate in miele; altri per im-

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prigionare gl’incauti visitatori e procurare loro la morte. La bellezza degli uni è congiunta alla bontà che vivifica e dà la gioia; quella degli altri è un’insidia che alletta e uccide.

*

II freddo dell’inverno e le forti gelate uccidono i germi dannosi alle piante, assicurando una buona raccolta di frutti sane e saporose. Così spesso l’indifferenza e la cattiveria degli uomini uccidono il germe della vanità e dell’orgoglio, rendendoci buoni e operatori di bene.

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Chi sa molto parla poco; chi poco sa parla molto.

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La vacca e la capra ingeriscono molta erba o biada, che il loro particolare apparato digerente permette di ruminare e trasformare in carne e latte. Un asino troppo ingordo può non riuscire a digerire tutto quello che ha mangiato e morire di colica. Così la lettura abbondante e disordinata, per menti che non comprendono e non assimilano, può determinare confusione e ignoranza.

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C’è il silenzio suggerito dalla prudenza, ed è virtuoso; c’è quello suggerito dalla viltà, ed è spregevole.

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Gli spiriti consapevoli sono sempre scontenti dell’espressione della loro vita interiore; il poeta, il pittore, lo scultore, il musicista o chi ha un grande amore o un forte pensiero da comunicare ad altri, sentono che dell’intimo travaglio gran parte resta nel fondo, inespressa. Ciò che riescono a riversar fuori mi par

che si possa rassomigliare a quei tenui vapori, levantisi da liquidi in ebollizione; sono poca cosa, ma bastano a rivelarne il profumo e la bontà.

*

Ci sono oreficerie con vetrine di lusso, di sera tutte sfolgoranti di luce, che dà a monili di nessun valore riflessi di oro fino o di brillanti, ingannando i gonzi; altre sono molto modeste: vi si trovano a dovizia autentici gioielli, il cui valore risalta subito agli occhi degli esperti conoscitori. Così uomini mediocri ostentano una falsa grandezza, mentre altri, veramente grandi, nascondono al volgo i loro tesori d’ingegno e di bontà, contenti della lode dei pochi che sanno apprezzarli.

*

Alla barca, che ha il vento favorevole e che non deve superar lunghe distanze, basta una vela da spiegare, la quale permetta al barcaiolo di riposare o dormire. Ma, se il vento è contrario e il mare diventa minaccioso, c’è bisogno di remi, di un buon timone e dei vigili sforzi dei marinaio. Così, in certe ore della vita, l’entusiasmo momentaneo basta per tirare innanzi, spensierati; ma, quando sorgono difficoltà e contrasti e la sventura si abbatte su di essa, occorrono vigore di animo, forza di volontà, pazienza coraggiosa e vigile fatica, per non finire in un pauroso naufragio.

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Per vivere bene, sono necessari cervello, cuore e fegato. Se di questi tre organi uno solo non funziona regolarmente, si vive male.

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Senza avere appreso il nuoto è pericoloso allontanarsi dalla spiaggia e affidar-

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si alle onde del mare. Senza una seria educazione cristiana anneghiamo facilmente nel gran pelago della vita.

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I sette peccati mortali.

Il superbo è «la zucca che monte sublime», e non pensa alla prossima caduta da una altezza che non l’è dovuta; è la vescica gonfia, il cui turgore non è grandezza.

L’avaro è un tantalo, cui la propria passione tiene legato presso una fonte e sotto i rami di un albero carico di frutti, a soffrir la sete e la fame.

Il lussurioso è lo stolto, che al fuoco non si riscalda, ma si brucia; è il ladro che ruba, pur potendo avere il necessario e goderne.

L’iracondo è il liquido che s’intorbida, appena si agiti il fondiglio della bottiglia.

Il goloso è l’uomo che ha cervello e cuore nell’apparato digerente.

L’invidioso è un fiore, il quale guarda di malocchio gli altri, che si levano sopra di lui, e ritiene sottratto a sé l’umore della terra che quelli alimenta.

L’accidioso è l’acqua che, invece di scorrere per mantenersi viva e riuscire utile ai campi e alle industrie, intristisce nello stagno.

*

Il bombice mangia le foglie di gelso e produce la seta. L’asino, può mangiarne quante vuole, ma non sa dare che sterco.

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Guardate le donne che a casa, per via, in treno, in chiesa, dappertutto, col piumino o col lapis, si confezionano il viso e le labbra. La mente ricorre al gatto che con la zampetta si strofina il capo e gli

orecchi. Ma, mentre questo lo fa per pulirsi, quelle lo fanno per sporcarsi.

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Quei poeti o prosatori, che sperano la fortuna dei loro libri dalla presentazione di un uomo illustre, mi fanno pensare al cuculo, che depone un uovo nel nido di altro uccello. Sia questo un’aquila o un usignolo, da quell’uovo non nascerà che un cuculo.

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Gli improvvisati apostoli o i rumorosi benefattori dell’umanità per autoproclamazione s’illudono di lasciare dietro di sè tracce indelebili di una grandezza, ch’è soltanto nella loro fantasia. Per essere quelli che credono di essere, dovrebbero rinunziare all’orgoglio e alla mania di far rumore, attingere volontà di bene e costanza di operosità in un pensiero meditato e profondo, in un sentimento buono e perenne, che non conosca interruzioni nè soste, derivare dall’alto luce, guida e stimolo di azione. Invece si fanno trascinare da passioni egoistiche e accecare dalla vanità, non lasciando sul loro passaggio che tracce di un’opera distruttrice.

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Soltanto i grandi fiumi, che sgorgano dagli alti, candidi ghiacciai, scendono nei piani a irrigare coi loro canali le campagne, ad attivare i commerci con la navigazione, aumentando il volume delle acque nel periodo di maggior disgelo, sotto l’azione del calore solare, e non temendo, nei periodi di magra, di essere esauriti dalle evaporazioni; mentre i torrenti s’ingrossano per momentanei acquazzoni, distruggono e travolgono ogni cosa col torbido impeto delle loro acque e, dopo breve tempo, di loro non resta che un letto arido, ingombro

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di sabbia e di pietre, con qualche stagno, dalle acque morte e tristi.

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La felicità consiste, non nel possedere molto o nel maggior numero di comodità, ma nella contentabilità. Difatti, chi impiegava dodici ore, con una sconnessa e cigolante diligenza, per recarsi in città, sentiva minor fastidio di chi oggi impiega un’ora per la medesima distanza, con una comoda macchina. Quel che una volta era ritenuto lusso di pochi privilegiati, ora è divenuto necessità per molti, e nessuna agiatezza è sufficiente a soddisfare i sempre nuovi bisogni.

*

Agli alunni che non studiano si attribuisce quasi sempre un’intelligenza non messa a profitto; gli studiosi, invece, sono chiamati sgobboni, con la negazione sottintesa della loro intelligenza. Cosicché Dante, cui il poema sacro fece «per più anni macro», Alfieri, Leopardi, Manzoni e tanti cultori delle lettere e delle scienze, erano poveri sgobboni, con scarsa intelligenza, la quale invece rifulge, sebbene non usata, in tanti asini, che accrescono il patrimonio zoologico delle patrie.

*

Quando non c’è burro o zucchero, si ricorre alla margarina o alla saccarina; quando manca il rossore si deve fare uso del rossetto.

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La presenza di esseri cari rende più ameni i luoghi in cui ci si trova, più intense le gioie che si godono, meno pungenti i dolori che ci affliggono; come i panorami si son resi più suggestivi e le forre, i dirupi e le aspre rocce ci appaio-

no meno paurosi, se tutto è inondato di sole o rischiarato dal plenilunio.

*

La landa e la steppa sono meno tristi, se la solitudine è allietata dal canto d’un uccello.

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Ci sono delle piante che subito inaridiscono, se a una notte manca la rugiada o a un giorno la pioggia naturale o artificiale. Così anime deboli si accasciano in un attimo, appena viene meno il conforto di un affetto insostituibile.

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Ci sono esseri spregevoli, che ti sfruttano e ti diffamano; come il pidocchio che si nutre e ti disonora.

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Perché, proprio gli uomini che hanno più difetti, sono quelli che trovano sempre da ridire sugli altri e di questi sono giudici severi? Ci pare di poter rispondere che, occupati nel frugare i vizi altrui e a fare l’esame di coscienza al prossimo, non hanno tempo di frugar se stessi e fare l’esame della propria coscienza.

*

Ci sono uomini di maniere rudi e poco espansivi, ma con un cuore d’oro; altri tutti manierosi e sempre sorridenti, ma con un cuore freddo e cattivo. I primi fanno pensare a certi orci di creta patinati e coperti di polvere, i quali contengono vino purissimo e generoso; gli altri a vasi di cristallo, con presuntuose etichette, ma contenenti vino acescente o liquido stantìo.

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Le menti piccine e i cuori gretti deformano e immiseriscono le cose grandi e

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nobili, facendo spesso odiare le virtù di cui vorrebbero essere maestri.

*

L’acqua distillata è pura, ma non disseta nè riesce gradevole al gusto; essa mi fa pensare all’onestà passata attraverso il filtro severo dei regolamenti.

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C’è una regolarità crudele, come c’è un’irregolarità suggerita dalla carità.

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Incrudelire contro il forte ridotto all’impotenza o contro il ricco sbalzato dalla ruota della fortuna è sempre una viltà. Perché allora Esopo condanna soltanto l’asino, che tira un calcio al leone morente, e non fa altrettanto per il cinghiale e per il cavallo? Esopo espone al ridicolo l’asino che, coperto da una pelle di leone, dopo avere spaventato le fiere della foresta, col suo raglio rivelò la sua vera natura. E perché non anche le fiere, che, né dagli zoccoli né dal portamento nè dagli orecchi, avevan riconosciuto il somaro?

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Ci sono degli uomini che restano attaccati a dei falsi principi o a pregiudizi, anche quando tutto ne dimostra all’evidenza l’inconsistenza: credono, così, di essere uomini di carattere, mentre sono semplicemente testardi. Altri cambiano con disinvoltura il loro bagaglio ideale una volta la settimana, credendosi saggi e dicendosi discepoli dell’esperienza, mentre sono dei volubili girella.

*

Ci sono uomini che vivono solo la vita animale. In essi vediamo soltanto stomaco, muscoli e nervi, e nessun lampeggiar di spirito. Viene la tentazione

di pensare che Dio, nell’attimo della concezione del corpo, si sia dimenticato di creare l’anima che lo informasse.

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Quando le madri erano donne, parlando dei loro nati, dicevano: «I miei bambini»; ora che sono molto spesso bambole di Norimberga li chiamano pupi e pupette.

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L’elasticità della coscienza non è disgraziatamente soggetta alla sclerosi come quella delle arterie.

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Ci sono donne, che per tre mesi viaggiano o si divertono in montagna o su una spiaggia, allo scopo di farne un resoconto dettagliato, per tutti gli altri nove mesi dell’anno, a quanti hanno la fortuna di avvicinarle.

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Non ho ancora incontrato una mamma, che non mi abbia decantato le virtù dei suoi figli senza l’aumento del cento per cento.

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La ragione senza cuore è sorda; il cuore senza ragione è cieco.

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Per avere dal pino la trementina profumata e utile in medicina o da certi alberi orientali i balsami odorosi e risanatori, bisogna inciderne il tronco. Anche il cuore umano, per operare miracoli di bontà, deve aver ricevute le ferite della sofferenza.

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Il ventilabro disperde l’inutile pula, per lasciare sull’aia i chicchi di grano che forniranno al corpo il pane, come

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il dolore sgombra l’anima d’ogni vanità e vi lascia le virtù che sono il pane dell’anima.

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È stolto chi prova tristezza dinanzi a un albero che d’inverno ha perduto il verde delle sue foglie, perché non pensa alla linfa inerte, ma non morta, che attende i tepori della primavera per esplodere in gemme, turgide di vita nuova; non meno stolto è chi compiange il giusto colpito dalla sventura, che gli ha strappato ogni gioia, perché non pensa che la fede gli fa attendere dalla bontà del suo Dio il rigoglìo di un’immancabile primavera gioiosa.

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L’albero per virtù propria affonda nella terra le sue radici e si leva in alto coi rami; la pianta rampicante per salire ha bisogno di un sostegno; tra gli uomini pochi somigliano al primo, moltissimi alla seconda.

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Di tutte le bestie solo le scimmie si sforzano di imitare gli altri; forse per questo Darwin ne volle fare le progenitrici nostre. Che ne dicono le nostre donne, le quali fanno di tutto per sembrare quel che non sono?

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La cornacchia di Esopo, che si vestì delle penne del pavone e dalle compagne fu depennata e umiliata, era un’eccezione. Se il favolista maldicente fosse vissuto nei nostri tempi e avesse conosciuto le nostre donne dai capelli ossigenati, avrebbe scritto di una moltitudine sterminata di cornacchie, vestite delle piume rossicce di barbagianni, tollerate con pazienza longanime dalle altre specie di uccelli.

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Le antiche oche schiamazzando salvarono il Campidoglio; le oche moderne schiamazzano senza nulla salvare.

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Ci sono delle donne, che dell’ape hanno il pungiglione, invece che l’operosità e il miele.

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Molti figliuol prodighi non avvertono l’umiliazione della loro miseria, perché trovano le ghiande più saporite del pane di grano della mensa paterna.

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L’antico aviatore Icaro dette col volo la morte a se stesso, mentre il moderno la dà al suo prossimo.

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La corona d’alloro quasi sempre cinge un capo che fu prima martoriato da una corona di spine.

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L’uomo che teme la morte è come un prigioniero, che si sia tanto affezionato al carcere squallido e tetro da non avvertire più il bisogno della libertà.

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Il bambino ha fretta di esser giovane, il giovane di essere uomo; questo, pur di acquistare sempre più e di raggiungere vette più alte, desidera che il tempo trascorra veloce; quando poi si accorge di essere vecchio se ne rammarica.

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Una gioventù senza nobili sogni preannunzia una vecchiaia senza lieti ricordi.

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C’è una falsa umiltà, ch’è autentica superbia. Si negano o si svalutano spesso

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LUIGI NICOLETTI

i doni ricevuti da Dio per sentirseli esaltare dagli altri ed essere ritenuti anche modesti.

Si tratta di una superbia messa a profitto, come un capitale che frutti indebiti interessi.

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Intrepidi dinanzi al pericolo sono gli eroi e gli incoscienti. San Lorenzo disteso sulla graticola e Tommaso Moro sul palco dinanzi al boia trovarono la forza di scherzare; il marinaio e il soldato non tremano di fronte alla morte. L’asino e il tacchino non scappano dinanzi all’automobile che sta per investirli.

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Si vedono talvolta asini, estenuati dalle fatiche e dagli anni, con le ossa sporgenti e coperti di guidaleschi, correre con giovanile baldanza. Questo perché qualche monello crudele ha posto nell’orecchio un po’ d’esca accesa o sotto la coda una spina. Come per le bestie così per gli uomini, il dolore riesce talvolta a dissipare la stanchezza e a moltiplicare l’energie.

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Le vette possono essere raggiunte dalle aquile e dai rettili.

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La funzione dell’aggettivo è quella di aggiungere al nome una determinazione che valga a distinguere una persona o cosa da altre simili. Così si chiama onesto un uomo per distinguerlo da chi non lo è, rosso un garofano per distinguerlo dal bianco e dal giallo, mio un libro che non è di altri. Ci sono poi gli aggettivi inutili che i grammatici chiamano esornativi, come chi dicesse: la bianca neve. Oggi, invece, che molte cose sono svuo-

tate di contenuto, l’aggettivo è divenuto il surrogato del nome. Non c’è oggi una verità vera?

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Certi aggettivi non dovrebbero comportare il superlativo, come vero, onesto, giusto. Difatti la verità, l’onestà, la giustizia, o ci sono o non ci sono. Chi è onesto è onesto. Il superlativo vorrebbe dire che si può essere onesti a metà. E allora?

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Un giovane studente attribuiva le sue bocciature alla iettatura, anziché alla propria ignoranza. Prima degli esami toccava un anello di ferro. Il professore, che se ne accorse, gli disse: «L’asino non deve tenere né portar con sé anelli; i ferri immunizzatori li porta ai piedi».

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Il cane segue il padrone, anche se l’ha bastonato, perché gli vuol bene; segue spesso un estraneo che mangia, per averne soltanto un tozzo di pane o un osso, e lo lascia appena il cibo è esaurito. Così l’uomo domanda per lo più in moglie una donna che ama e le è fedele; qualche volta una che ha dei beni, per abbandonarla, appena quelli sono finiti.

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Il dolore dà un senso alla vita, come il sale alle vivande.

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La fortuna e i piaceri spesso addormentano l’anima e le impediscono la visione di quel che la vita è e deve essere.

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Il dolore è la sveglia che la richiama alla realtà dai facili e seducenti sogni.

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PENSIERI

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Il bocciuolo di un fiore rimarrebbe sempre chiuso e inaridirebbe miseramente, e la sua intima bellezza verrebbe da tutti ignorata, senza il raggio di sole che lo schiude, colorando i suoi petali e sprigionando tenui profumi. Così ci sono anime nobili con ignoti tesori nascosti, timide e pudibonde, chiuse in se stesse e anche disprezzate dagli uomini, che guardano alle apparenze. Bastano la luce di un sorriso buono e il calore di un affetto gentile perché esse mostrino la loro bellezza morale, il profumo di delicate virtù.

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La carità cristiana nasconde e vela i difetti del prossimo, come la neve che copre le brutture e il fango col suo manto.

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La virtù e la bontà esercitano un fascino particolare anche a distanza, come il rosaio diletta coi suoi profumi anche chi ne è lontano.

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Il vero affetto – come il materno e quello delle anime privilegiate – dà senza nulla chiedere, perché è inesauribile; nè valgono ad attenuarlo le offese, le incomprensioni o le ingratitudini. Come l’acqua che bolle sul fuoco non perde il suo calore per qualche goccia di acqua fredda che possa in essa cadere.

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La vicinanza e la familiarità di anime virtuose e gentili comunicano agli altri sempre qualche cosa della loro bontà, come ai liquidi comunicano il profumo del loro legno i recipienti che li contengono.

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Le grandi idee e i forti affetti sono compresi da pochi uomini, che ne fanno vita del loro spirito, resistendo alla loro violenza e serbandosi a essi fedeli, senza lasciarsi distogliere da forza avversa; i più li sciupano, alterandone la bellezza e l’intensità, quando non ne sono sopraffatti per debolezza innata. Così un liquido ad alta temperatura riscalda un vaso di metallo e vi conserva il medesimo calore, se quello è foderato di ottimo isolante; si raffredda, se attraversa un tubo refrigerante; manda in frantumi il vetro fragile, disperdendosi.

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Ognuno può rendersi utile quando lo voglia. La formica con un morso al piede del cacciatore salvò la colomba; il topo liberò il leone, rodendo il laccio con cui si era lasciato prendere. Anche un rudere può offrire le pietre per un nuovo edifizio e la sua ombra al viandante stanco, o diventare rifugio per un uccello notturno.

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Ci sono anime, cui l’egoismo, l’indifferenza o il malvolere altrui hanno rese scettiche e prive d’ogni sensibilità, ma che, al calore di un amore tenero e pietoso, diventano buone e capaci di operare gran bene. Similmente i ghiacciai alpini, finché soffiano i venti freddi, restano immobili nella loro imperturbabile durezza, ma, dardeggiati dal sole estivo, si commovono nelle viscere profonde, sprigionando quindi infiniti corsi d’acqua, i quali scendono al piano a refrigerio delle campagne e a rendere proficua la fatica dell’uomo.

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Un malato di stomaco, dall’odore emanante da una gustosa pietanza, è indotto a lodare la bontà e la capacità nu-

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triente della medesima, ma il male che lo tormenta gli impedisce di mangiarla. Così alcuni spiriti infermi apprezzano la religione cattolica per il fascino irresistibile ch’essa esercita su di loro, ma non sanno nutrirsene, a causa dei peccato che li intossica o Dei rispetto umano che li asservisce.

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L’uomo che s’insuperbisce delle opere sue e crede di poter fare a meno di Dio mi fa pensare a uno scarabeo, il quale credesse di essere il creatore di un mondo, solo perché è riuscito a formare una pallottola di sterco, avente la medesima forma del globo terrestre.

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All’uomo ripugna di riconoscere i propri difetti, che spesso vuol far passare per virtù. Così la vigliaccheria è chiamata prudenza, la caparbietà fermezza, l’avarizia previdenza, l’orgoglio dignità, la pedanteria regolarità, la pigrizia contentabilità, l’insolenza spirito, naturalmente nelle virtù degli altri vede spesso difetti, e il loro coraggio diventa audacia, la liberalità sciupio, la coerenza presunzione, la fermezza ostinazione, l’educazione scarsezza di spirito, la religiosità tartufismo.

Don Abbondio si credeva prudente, ritenendo padre Cristoforo temerario, e in ciò almeno era d’accordo con don Rodrigo. Donna Prassede riteneva se stessa caritatevole e zelante, giudicando la buona Lucia una falsa santerella. Esopo non ha forse con la sua autorità fatto credere che l’avidità della formica sia soltanto previdenza e la contentabilità della cicala spensierata pigrizia?

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La bellezza del corpo, senza la bontà dell’anima, è come una ricca cornice

che chiuda un brutto dipinto, mentre la nobiltà dell’anima in un essere deforme è come un capolavoro rinchiuso in una povera cornice.

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Di fronte alla Chiesa di San Fedele, a Milano trovasi il monumento di Alessandro Manzoni. Ho visto il povero Don Lisander in bronzo, con un colombo vivo sul capo, tutto lordato di sterco. Io non ho mai capito questo bastardo francescanesimo, il quale tollera e vuole che la ventris prologues dei pennuti deturpi i migliori nostri templi e i più insigni monumenti di arte. Il poverello d’Assisi amava gli uccelli, ma non sappiamo che questi gli lordassero mai il saio o la fronte. Il buon Manzoni sembrava chiedere ai milanesi, con un sorriso indulgente e rassegnato: perché farmi un monumento quando esso doveva servire all’evacuazione e alla toilette dei piccioni? «Avete fatta una bella azione! m’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo!».

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L’acqua, ch’è pura alla sorgente, può essere inquinata da infiltrazioni nocive, se la conduttura non è buona. Così la religione viene talvolta pervertita e deturpata da quelli che, non così pura come l’hanno ricevuta da Dio, la comunicano agli altri a loro edificazione, ma essa, inquinatasi nella loro anima corrotta, finisce col nuocere, anziché recare giovamento.

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La beneficenza, che non ha un’anima di carità, è una vivanda senza sale, un fuoco dipinto che non riscalda.

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Quando si ha la fortuna di godere la benevolenza di anime nobili, si ha la

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PENSIERI

sorpresa di vedere giudicate le nostre opere e virtù mediocri come pregevoli e belle. La bontà supposta in noi è soltanto in quelle anime. Così l’altoparlante ingrandisce o irrobustisce anche una voce esile; così il legno odoroso profuma la polvere inodora e la fiala di vetro fa sembrare colorata l’acqua.

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La fama degli uomini cantata dai poeti mi assomiglia al bollore gorgogliante di un liquido in una pentola sovrapposta a un fornello acceso. Spegnete questo e vedrete ridotte le proporzioni del liquido, che non si muove più nè borbotta, mandando fuori soltanto un po’ di vapore.

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Ho visto esposte in una vetrina delle fette di zucca e delle cortecce di cedro, le une e le altre candite. Credo che, a mangiarle, si senta di entrambi il dolce dello zucchero, ma che, con esso, il cedro faccia sentire il proprio profumo, mentre la zucca non abbia un proprio sapore. Ho pensato allora a due diverse categorie di persone: quelle che valgono per sè, senza le inzuccherature delle lodi e delle adulazioni degli uomini, e quelle la cui insipida anima è occultata dalle apparenze ingannatrici.

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Quanto bene o quanto male possono produrre poche parole nell’anima di chi le ascolta! Bastano poche gocce di rugiada ad animare una pianta languente per l’arsura del giorno e poche gocce di acido nitrico a logorare una stoffa.

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Si possono conoscere in certo qual modo l’indole e i costumi di un uomo o di una donna da ciò che contengono le loro valige, quando viaggiano.

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Per le nostre virtù conosciamo sempre la sola moltiplicazione; per quelle degli altri preferiamo la sottrazione

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Ci sono nella classe degli intellettuali non pochi che, pur vivendo lontani dalla religione, avvertono un’acuta nostalgia di Dio. Se non sono proprio dei ciacchi e non vivono la sola vita dei senso, essi devono essere scontenti e sentire interiormente frequenti crolli di quanto alimentava le speranze più ardite e di amori più forti della loro giovinezza. Ma non hanno il coraggio di confessarselo, e quindi di confessarlo ad altri, per un irragionevole timore di perdere, presso quelli che loro somigliano, la miserabile gloriola di una millantata superiorità, ch’è invece povertà di spirito. Per pigrizia mentale e per orgoglio non sanno fare una coscienziosa revisione del loro bagaglio intellettuale e s’irrigidiscono in un atteggiamento d’ignorante disprezzo verso una religione, che ha fatto piegar la fronte e le ginocchia ai più grandi geni dell’umanità. E, quando vedono altri che il loro timore e il loro orgoglio non hanno avuto e si sono meritata – con l’umile preghiera a Dio e con dolorose rinunzie – la gioia della fede, li deridono e fingono di compatirli, invidiandone però, in cuor loro, il coraggio e la letizia, perché rappresentano per essi un rimprovero e una condanna.

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Alcuni uomini muovono la pietà più che lo sdegno. Essi sono dei poveri, i quali, pur invidiando la ricchezza altrui, si gloriano con malcelata stizza della loro miseria, e rassomigliano a boriosi villani rifatti, i quali hanno acquistato, presso orefici disonesti, brillanti

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falsi e oggetti di oro falso, o da fraudolenti antiquari falsi cimeli, e non vogliono confessare, per orgoglio, di essere stati vittime di un inganno.

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Valeva la pena che l’uomo progredisse tanto nella scienza e nelle industrie, quando tali progressi dovevano servire ad accrescere e a perfezionare i mezzi di distruzione e i ritrovati della scienza dovevano divenire strumenti di morte?

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C’è chi opera il bene silenziosamente; c’è invece chi, prima e dopo il beneficio, si affanna a farlo sapere al maggior numero di uomini. Ho notato la stessa cosa nelle galline. Alcune depongono il loro uovo in silenzio; altre, prima e dopo, vi annunziano il gran dono con un interminabile e fastidioso coccodè.

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Se i vanitosi indovinassero i pensieri e gli apprezzamenti del pubblico in mezzo al quale ostentano i loro abiti, la loro ricchezza o le loro presunte virtù, si asterrebbero da tanti sacrifizi che quell’ostentazione impone. Una signora che, per comprare un abito elegante e seguire i capricci della moda, lesina sugli alimenti, s’indebita e si sottopone a limitazioni e umiliazioni, non provoca ammirazione, ma soltanto salaci commenti, amare censure e forse denigrazioni e calunnie. Ma la vanità è nebbia che acceca e inganna.

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Quando siamo vittime di un infortunio, oltre che sopportare il danno, dobbiamo spesso, nostro malgrado, sorbirci lezioni di saggezza da parte di chi, nei nostri panni, si sarebbe regolato diversamente.

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La gratitudine è un fiore che raramente sboccia nel cuore degli uomini, e, quelle poche volte che vi sboccia, ha bisogno di sempre nuovi benefizi per non appassire.

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Qualcuno sarebbe tentato a non credere alla divinità del cristianesimo, solo perché, tra tanti battezzati, pochi ne vede vivere secondo lo spirito del Vangelo. Pensi costui che infinite specie d’insetti succhiano il nettare dei fiori, mentre le sole api secernono il miele. Pensi ancora che l’intossicazione di un organismo spesso non è dovuto all’alimento ch’è buono, ma alla deficiente o cattiva funzionalità dell’apparato digerente.

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L’arte di educare è difficilissima; richiede intelligenza, amore e spirito di sacrifizio, ma sopratutto equilibrio. Troppa rigidezza inasprisce, troppa dolcezza vizia e disperde. L’acqua per troppo freddo si congela, per troppo caldo si evapora.

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A tre categorie di uomini si ubbidisce: a chi si teme, a chi può esserci utile, a chi si ama e si venera. Nel primo caso l’ubbidire è viltà servile, nel secondo calcolo, nel terzo vera ubbidienza.

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La terra germina i fiori più belli e delicati. San Francesco d’Assisi vede in essi la bontà del Creatore, il pittore un modello da riprodurre sulla tela, la fanciulla un ornamento per soddisfare la sua vanità; l’asino li strappa per nutrirsene, quando non li calpesta indifferente.

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PENSIERI

Difendiamo i giardini e i frutteti con siepi di rovi o con altri muri di fabbrica. Anche la virtù vien difesa dalle sofferenze e dalla fortezza, che si oppone agli assalti dei malevoli.

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Ho osservato che il beccaio, per meglio scorticare un animale, prima lo gonfia. Non fa la medesima cosa l’adulatore a colui cui vuole spillare un favore?

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Che cosa pensare della religione di tanti cattolici, i quali tengono lontano il sacerdote dai moribondi col pretesto di risparmiare loro una forte emozione? Se credono nell’immortalità e conoscono la dottrina della Chiesa, sono iniqui e infami; se non ci credono, sono meno che pagani. Si preoccupano di un corpo, che sarà pasto dei vermi, e non si curano dei destini dell’anima, ch’è eterna. D’altronde, l’emozione è soltanto nella loro fantasia, mentre la religione è fonte di conforto e di salvezza, e spesso ridà, con la salute dell’anima, quella corporale. E il medico, il notaio, l’ossigeno perché non vengono allontanati? Non fanno essi pensare alla morte? Non destano anch’essi emozione?

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Rispondiamo sempre sì alle suggestioni del male e sempre no agli inviti del bene e ai richiami della coscienza. Per essere felici, anche in questa terra, bisogna invertire le risposte.

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Le mamme possono imparare qualche cosa dalla chioccia. Questa non affida ad altre galline i propri pulcini, li sorveglia, li segue, anche quando camminano da soli e possono procurarsi il cibo, li difende dal falco sotto le sue ali protettrici. Quante mamme si ricordano di es-

sere tali soltanto nei primi giorni di vita dei loro figlioli, lasciandoli poi indifesi contro tanti nemici della loro anima!

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Il galateo è utile perché rende piacevole la nostra compagnia e ci fa fare belle figure in società. Ma è povera cosa senza l’educazione del cuore e la bontà dell’animo. La vernice dà un bello aspetto a un vecchio mobile, ma il rodìo del tarlo ci avverte subito che non bisogna fidarsi delle apparenze.

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«Un cuore e una capanna» era una volta il motto per i matrimoni d’amore. «Uno stipendio vistoso e un’automobile » è il motto di tante spose moderne. Il cuore è meglio tenerlo disoccupato e la capanna non permette le necessarie dissipazioni.

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I corsivi e gli stelloncini che leggiamo sui giornali di provincia, più bugiardi di un’epigrafe e in cui l’iperbole e l’invenzione trionfano spudoratamente, provocano in noi un sorriso d’incredulità e di compatimento, che è come la spilla la quale sgonfi una vescica. La qual cosa non ci distoglie dal desiderare, anche noi, e talvolta mendicare, le lodi altrui, pur sapendole insincere. Se il pensare al sorriso di chi legge i soffietti titillatori della nostra vanità vale a spegnere quello di compiacenza che sfiora il nostro labbro.

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Perché i nove decimi degli uomini e i novantanove centesimi delle donne si vergognano del loro vero nome, registrato nei libri di battesimo e in quelli dello stato civile, nomi che ricordano grandi santi e persone care, e che quindi dovrebbero sentire orgoglio di portare? Perché

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quegli inintelligibili bisillabi, che una volta si usavano per i cagnolini e i pappagalli? O sono giudicati brutti e disonoranti nomi, e non bisogna imporli, o sono invece belli e degni di essere portati, e allora non è onesto nè di buon gusto mutilarli, spezzettarli, contaminarli.

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Il dentifricio deve certamente produrre felicità, se tutti quelli che l’usano ridono tanto frequentemente.

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L’inverno non è triste per chi, nella buona stagione, ha lavorato e messo in

Don Luigi Nicoletti fu sempre molto attento nel dialogare con i suoi interlocutori. Alcune sue frasi restano ancora famose; nel 1938 stamperà il volume “Pensieri”. I dialoghi immaginari tra uomini e animali furono successivamente pubblicati come articoli nel giornale da lui diretto “Democrazia Cristiana” e poi raccolti nel volume “Qui parlano le bestie” stampato a Cosenza nel 1955. Nell’ottobre 2019 il Centro studi calabresi Cattolici Socialità Politica ha realizzato una nuova edizione con disegni a colori e in appendice alcuni scritti di e su don Luigi Nicoletti.

serbo le necessarie provviste e attende la gioia della nuova primavera. Così la vecchiaia non è paurosa per chi ha vissuto utilmente la sua vita, operando il bene, e apre il cuore alla speranza della felice eternità.

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Non si può dire morto il fiore che appassisce o viene reciso dalla falce, se qualche seme del suo ovario è caduto sulla terra, perché rivivrà in altri fiori che gli somigliano. Anche l’uomo rivivrà dopo morto, nel bene che ha operato nelle anime che dalle sue virtù hanno ricevuto la vita.

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SOMMARIO

Tante le iniziative per ricordare De Cardona presentazione di Nicola PalDiNo 5

La voce “Carlo De Cardona” sull’enciclopedia Treccani di emaNuela catalucci 7

Alla scuola dei fatti articolo di don carlo De carDoNa (27 luglio 1907) 11

San Francesco di Paola articolo di don carlo De carDoNa (4 aprile 1908) 13

Don Carlo De Cardona l’interprete calabrese della Rerum novarum articolo di mons. FraNcesco saviNo (4 maggio 2021) 15

Cosa ci direbbe oggi don Carlo De Cardona? di DomeNico GraziaNo 19

Don Carlo De Cardona e l’ardente brama di novità di Demetrio GuzzarDi 25

Una grande storia da raccontare Iniziative e foto dell’anno decardoniano 33

Mons. Sorgente promotore di una stagione positiva per Cosenza di Demetrio GuzzarDi 49

DON LUIGI NICOLETTI

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Don Carlo De Cardona è morto articolo di don luiGi Nicoletti (22 marzo 1958) 54

Don Luigi Nicoletti per la libertà contro la tirannia articolo di GiovamBattista GiuDiceaNDrea (2008) 57 “Pensieri” testo di don luiGi Nicoletti (1938) 60

Finito di stampare nel mese di maggio 2022 dallo Stabilimento tipografico De Rose - Montalto Uffugo per conto dell’editoriale progetto 2000 - Cosenza

80 INDICE - COLOPHON
ISBN 978-88-8276-580-4 euro 8.00 9 7 8 8 8 8 2 7 6 5 8 0 4
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