O Madre

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O Madre

Daniela Matronola

riuscì a metterci sotto il collo del cappone: poi salì coi piedi sulle due estremità del ciocco e cominciò a oscillarci sopra, insistendoci su con tutto il peso del corpo. Pensò che per pressione dei suoi scarsi cinquanta chili il cappone, sotto, sarebbe morto soffocato. Zia Elena a quel punto gli guardò gli occhi: chiusi strizzati, ne concluse che il cappone aveva esalato l'anima. Così scese dal ciocco, zia Elena, e dal collo del cappone, e si chinò per riprendere il pollo dalle zampe. Senonché quello, con un inaspettato guizzo da gatto, saltò in piedi e cominciò a correre per l'aia, sballonzolando disordinatamente in giro la testa ancora attaccata al collo rotto. Nel tempo sotto la guida materna ben altre abilità zia Elena aveva affinato, al punto di diventare la disossatrice ufficiale e pressoché unica: da vero chirurgo, a mani rigorosamente nude, sapeva incidere la pelle del tacchino in pochi punti precisi (due o tre al massimo), anatomicamente ineccepibili, escludendo le zampe, e con delicatezza sapeva sfilare la carcassa ricavando un sacco indenne da spaccature, un ventre enorme e infrangibile pronto a essere rimpinguato d’ogni bendidìo. Quel primo d’aprile, a scuola, il mio mal di pancia, sintomo oggettivo, avevo trovato anche il modo d’aggravarlo, per la resistenza che avevo opposto ostinatamente a tutta una serie di fitte segnaletiche. E perché avevo resistito? Perché avevo un bel posto a sedere davanti, e temevo che se lo avessi lasciato, anche solo per due minuti, ci avrei trovato piazzato qualcun altro e poi non avrei avuto forza sufficiente, o meglio abbastanza voglia, di far valere il mio diritto – perché avrei dovuto proprio litigare per riconquistarlo. Avrei dovuto vestire i panni, falsi, di chi sa rivalersi, e la spunta, per giunta, facendo piazzate inaudite del tutto strumentali. Non sarei mai stata in grado di fare partacce. E neppure di fare la parte. Proprio non ero una capace di barare. Detestavo persino travestirmi – anche solo per gioco. L’ultimo martedì grasso ne aveva fornito la prova lampante. Tutti noi bambini ci eravamo ritrovati a volteggiare con aria indifferente attorno a una ventina di sedie addossate le une alle altre per gli schienali e messe al centro dell’aula – i banchi erano stati accantonati contro le pareti per essere adibiti a tavoli su cui sistemare le pizze e i dolci di carnevale fatti dalle madri (c’erano anche il salame di cioccolata della madre di Amanda e la brioche rustica di mia madre che le Pucci Nardi, le gemelle diverse, definivano babà salato: una ciambella bionda e fragrante, perfetta, con una imbottitura di dadini di salame, tutto rosolato e croccante per la cottura in 71

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