Finestre sull'arte magazine n2

N.2 ANNO I

GIUGNO LUGLIO AGOSTO 2 0 1 9

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◊

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RENDEZ-VOUS

GRAND TOUR

OPERE E ARTISTI

Cosimo I de’ Medici

Il Trionfo della Morte di Bonamico Buffalmacco

Adolfo Wildt

La Camera degli Sposi di Mantova

CONTEMPORARY LOUNGE

Le biccherne senesi

Sylvie Fleury

◊

DENTRO LA MOSTRA

La Maniera emiliana a Fontanellato

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Emilio Isgrò

26. 5. – 6. 10. 2019 RIEHEN / BASILEA Untitled (Detail), 2015, Öl auf Leinwand, 241,3 × 165,7 cm, © Rudolf Stingel, Foto: John Lehr

FONDATION BEYELER

Jean (Hans) Arp, Scarpa azzurra rovesciata con due tacchi sotto una volta nera, 1925 c. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Jean Arp © by SIAE 2019.

13.04 / 02.09.2019 La mostra è organizzata dal Nasher Sculpture Center Con il supporto di Institutional Patrons EFG Lavazza

La natura di Arp è generosamente sostenuta da National Endowment for the Arts Swiss Arts Council Pro Helvetia

La mostra è resa possibile grazie a

Con il sostegno di

I programmi educativi sono realizzati con il sostegno di Fondazione Araldi Guinetti, Vaduz

Dorsoduro 701, 30123 Venezia

guggenheim-venice.it

DIRETTORE RESPONSABILE

DIRETTORE EDITORIALE

ART DIRECTOR

HANNO COLLABORATO

Federico Giannini

Natascia Bascherini REDAZIONE

Ilaria Baratta (responsabile), Gabriele Giannini, Marina Umelesi IMPAGINAZIONE

Nicola Grossi

COORDINAMENTO EDITORIALE

Manuela Graziani DIGITAL UNIT

Simone Lazzaroni, Tommaso Vietina FOTOGRAFIA

Daniele Rocca

Lorenzo Bonoldi, Michele Dantini, Francesca Della Ventura, Claudia Farini, Chiara Guidi, Francesca Interguglielmi, Giacomo Montanari, Antonio Paolucci, Cristina Principale RINGRAZIAMENTI

Andrea Acampa, Claudia Anselmi, Elisa Ascani, Raffaella Cecconi, Giulia Crespi, Silvia Deforza, Laura Drago, Lara Facco, Laura Fava, Marino Ierman, Barbara Izzo, Cristina Klarer, Salvatore La Spina, Alessandro Oldani, Ilaria Pedriali, Maria Elena Pizzi, Elisa Rizzardi, Margherita Ruocco, Silvio Salvo, Alessandro Sartori, Georgia Stellin, Lucia Steri, Marzia Vidulli

CONCESSIONARIA PUBBLICITARIA

Danae Project Srl finestre@danaeproject.com 0585 624705 EDITORE

Danae Project STAMPA

Industrie Grafiche Pacini Via A. Gherardesca, 56121 Ospedaletto (PI) REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE DI MASSA

aut. n. 5 del 12/06/2017

Alessandro Pasquali

PHOTO CREDITS

Cover Emilio Isgrò, Benedite (1990; acrilico su carta montata su tavola, 38 x 28 cm). Foto Archivio Emilio Isgrò

p. 58 - foto di Palazzo Vecchio p. 60 - foto di Palazzo Vecchio © Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Museo del Bargello, Firenze p. 62 - Cosimo I

Adolfo Wildt. Le immagini del potere © GAM - Comune di Milano p. 28 - Uomo antico p. 32 - Maschera di Mussolini p. 33 - Nicola Bonservizi p. 34 - Vittorio Emanuele III

Camera degli Sposi Foto di Alessandro Pasquali – Danae Project © Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Palazzo Ducale, Mantova

© Musei Civici - Comune di Forlì p. 30 - Autoritratto p. 37 - San Francesco

Emilio Isgrò Lorenzo Palmieri p. 78 - Ritratto di Emilio Isgrò

© Musei Vaticani p. 32 - Pio XI

Tutte le foto: courtesy Archivio Emilio Isgrò.

© Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Pinacoteca di Brera, Milano p. 36 - Uomo d’arme Mecenatismo culturale Andrea Basile p. 50 - Ritratto di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo Marco De Scalzi p. 51 - Ritratto di Beatrice Trussardi Cosimo I © Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Gallerie degli Uffizi, Firenze p. 52 - Cosimo I p. 57 - Eleonora di Toledo Andrea Jemolo. © Museo delle Cappelle Medicee p. 55 - foto della Sagrestia Nuova © Comune di Firenze p. 56 - Cosimo I 6 • FINESTRE SULL’ARTE

Sylvie Fleury Foto di OKNOStudio.

Tutte le foto: courtesy l’artista e Istituto Svizzero, Roma.

Fabrizio Cotognini Tutte le foto: courtesy l’artista Bertoja e Mirola © Musée du Louvre, Paris p. 106 - Venere che scopre Adone p. 115 - Costruzione del tempio di Ercole p. 119 - Tre figure sedute p. 122 - Marte, Venere e Cupido © Comune di Bologna p. 108 - Ratto delle Sabine © Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Galleria Nazionale di Parma p. 110 - Madonna della Misericordia p. 112 - Amore e Psiche p. 113 - Figura femminile ignuda © Christ Church Picture Gallery, Oxford

p. 110 - Madonna della Misericordia © British Museum, Londra p. 111 - Presentazione di Cristo al Tempio p. 119 - Tre donne in corsa © Albertina Museum, Vienna p. 114 - Lancia di Ercole p. 120 - La caduta degli angeli ribelli © Royal Collection Trust p. 117 - Sei cavalli in lotta p. 121 - Ugolino Rossi © Comune di Milano p. 118 - Angeli della giustizia Canopi egizî © Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino p. 123 - Canopi di Uahibra © Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Museo Archeologico Nazionale di Napoli p. 125 - Canopi di Paefciau(em)auyaset p. 126 - Canopi di Paefciau(em)auyaset © Comune di Trieste p. 125 - Canopi di Cia-en-heb Trionfo della Morte Foto di Alessandro Pasquali – Danae Project © Opera della Primaziale Pisana Biccherne senesi Tutte le foto tranne l’allegoria del Buon Governo: © Archivio di Stato di Siena Divieto di ulteriore riproduzione Leonardo mai visto © Comune di Milano

EDITORIALE. Cara Lettrice, Caro Lettore, una delle più grandi sfide della filosofia è sempre stata la ricerca d’una definizione del concetto di “opera d’arte”: dopo secoli, ancora non ne siamo venuti a capo, e probabilmente sarà impossibile trovare una soluzione. L’arte, potremmo dire con certo margine di sicurezza, non è ontologicamente fornita di tratti sufficienti per consentirci d’operare una classificazione fissa, necessaria e definita dei suoi oggetti. L’idea di arte è basata, avrebbe detto Wittgenstein, su di una rete di “somiglianze di famiglia”: che cosa potrebbero avere in comune le incisioni rupestri degli uomini preistorici, un’icona cretese, gli affreschi della Cappella Sistina, e l’ultima installazione che abbiamo osservato alla Biennale di Venezia? È impossibile trovare un minimo comune denominatore, ma si possono ravvisare alcune somiglianze che s’incrociano e che potrebbero permetterci di stabilire, per analogia, che un certo oggetto rientra nella categoria delle opere d’arte.

Nel numero di Finestre sull’Arte on paper che stai per leggere abbiamo voluto prendere in esame una di queste somiglianze: l’opera d’arte come atto politico. Quando entriamo in un palazzo rinascimentale, quando osserviamo una pala trecentesca, quando visitiamo una mostra dedicata all’Italia risorgimentale, quando c’interroghiamo sul significato di un’opera prodotta da un artista contemporaneo, ci troviamo sempre di fronte a una «fedele rappresentazione di uno spirito», per utilizzare le parole del critico Lewis Hyde. L’arte, occorre ricordare, non è quasi mai “bellezza” fine a se stessa: è sempre la rappresentazione visiva d’un messaggio, spesso carico di tensioni, che però mai trascende il contesto storico, economico, sociale e culturale che lo ha prodotto, benché certi elementi possano tornare o essere considerati attuali a distanza di tempo. E in questo numero abbiamo cercato di radunare alcuni esempî dai quali possano emergere con certa chiarezza (seppur, com’è ovvio che sia, senza pretesa di completezza) le connessioni tra arte e politica e tra arte e potere, cercando anche di dimostrare come, al contempo, l’opera d’arte non sia mero racconto d’una situazione contingente. Arte e realtà possono anche non essere perfettamente sovrapponibili: nel suo dar corpo a un significato, l’arte, ha scritto Arthur Danto, «si colloca sempre a una certa distanza dalla realtà».

La copertina è dedicata a Emilio Isgrò: riteniamo che, in tempi recenti, pochi artisti come lui abbiano saputo dar vita a un’arte altrettanto impegnata e “politica”, e nella lunga intervista che ci ha concesso avremo modo d’ap8 • FINESTRE SULL’ARTE

profondire il suo assunto secondo il quale l’arte è la più alta forma di politica di cui oggi disponiamo. L’occasione d’una notizia d’attualità, ovvero la riapertura al pubblico della Sala delle Asse dipinta da Leonardo da Vinci nel Castello Sforzesco per Ludovico il Moro, ci offre l’opportunità d’entrare nelle “stanze del potere”: un percorso che prosegue nell’articolo dedicato alla Camera degli Sposi, la magnifica e sontuosa celebrazione della corte gonzaghesca nel Castello di San Giorgio a Mantova, che ci porta nella Firenze del Cinquecento per conoscere i termini del mecenatismo di Cosimo I de’ Medici, e che arriva fino alle “immagini del potere” di Adolfo Wildt, artista che sta giustamente riemergendo da quell’oblio cui la sua vicinanza al fascismo lo aveva condannato. Al mecenatismo contemporaneo sono invece dedicate le pagine del dibattito, con dieci personalità della cultura che si confrontano su cosa voglia dire “essere mecenati” oggigiorno e su quali siano i problemi, le difficoltà e le opportunità del settore. Il viaggio prosegue a Siena, dove conosceremo da vicino la storia delle “biccherne”, straordinarie tavole che per secoli hanno coniugato arte, governo, finanza. Con un approfondimento su Autoritratto di Carla Lonzi abbiamo inteso sottolineare l’importanza di questo testo per comprendere l’arte italiana del secondo dopoguerra (anche nei suoi connotati politici), mentre tornando indietro nel tempo, nell’Emilia del Cinquecento, la mostra La Maniera emiliana. Bertoja, Mirola, da Parma alle Corti d’Europa ci dà modo di conoscere da vicino due singolari interpreti dei fasti farnesiani (Jacopo Zanguidi detto “il Bertoja” e Girolamo Mirola), che tuttavia, in questa sede, abbiamo voluto presentare come esponenti di spicco d’un linguaggio internazionale che si formò grazie agli scambi, favoriti da una certa temperie politica, tra artisti che si muovevano da un paese all’altro. Il numero si completa con un’analisi del Trionfo della Morte proposta dal professor Antonio Paolucci, già ministro dei beni culturali e direttore dei Musei Vaticani, con due approfondimenti su altrettanti artisti contemporanei (Sylvie Fleury e Fabrizio Cotognini) e con una presentazione dei canopi egizî (e di alcuni esemplari importanti conservati nei musei).

Ti auguro una buona lettura nell’auspicio che il percorso che abbiamo immaginato possa incontrare il tuo interesse e il tuo gradimento.◊ Federico Giannini Direttore responsabile

Solo a Vienna

THE BEST OF BRUEGEL WWW.KHM.AT

S o m m a r i o.

64

53 28

Adolfo Wildt Le immagini del potere

14

testo di Ilaria Baratta

40

AGENDA.

OPERE E ARTISTI

LA CRITICA

Autoritratto storico-politico conversazione con Michele Dantini a cura di Francesca Della Ventura

44

ATTUALITÀ

Mecenatismo culturale

52

RENDEZ-VOUS

testo di Claudia Farini

64

Wunderkammer.

130

Cosimo I de’ Medici

GRAND TOUR

La Camera degli Sposi testo di Lorenzo Bonoldi

78 Emilio

CONTEMPORARY LOUNGE

Isgrò

intervista di Federico Giannini

90 Sylvie

CONTEMPORARY LOUNGE

Fleury

10 • FINESTRE SULL’ARTE

testo di Chiara Guidi

138 107

98 Fabrizio

CONTEMPORARY LOUNGE

Cotognini

testo di Cristina Principale

106

Art Gallery.

166

DENTRO LA MOSTRA

Bertoja e Mirola La Maniera emiliana testo di Federico Giannini

123 Canopi

WUNDERKAMMER

egizî

138 Il Trionfo GRAND TOUR

della morte testo di Antonio Paolucci

148 Biccherne senesi GRAND TOUR

testo di Francesca Interguglielmi

160 Leonardo mai visto ATTUALITÀ

148 12 • FINESTRE SULL’ARTE

Il restauro della Sala delle Asse testo di Ilaria Baratta

AGENDA. Svizzera

FRANCO GRIGNANI (1908-1999)

POLISENSORIALITÀ FRA ARTE, GRAFICA E FOTOGRAFIA 17 FEBBRAIO 2019 | 15 SETTEMBRE 2019 CHIASSO WWW.CENTROCULTURALECHIASSO.CH M.A.X. MUSEO

SPECCHIO

Franco Grignani fu artista che si mosse sul sottile confine che

IL RIFLESSO DELL’IO

lega arte, design e grafica, che l’ha consacrato come un arti-

17 MAGGIO 2019 | 22 SETTEMBRE 2019 ZURIGO WWW.RIETBERG.CH

sta tra i più profondi innovatori del Novecento. La mostra è il risultato di una lunga ricerca scientifica condotta nell’archivio Franco Grignani.

RIETBERG MUSEUM Una rassegna che ripercorre la plurimillenaria storia culturale dello specchio: dall’antico Egitto ai Maya in Messico, dal Giappone a Venezia, o spaziando nell’ambito del cinema e dall’arte contemporanea, le civiltà di tutto il globo hanno realizzato specchi, attribuendovi significati e poteri diversi.

HODLER – SEGANTINI – GIACOMETTI CAPOLAVORI DELLA FONDAZIONE GOTTFRIED KELLER 24 MARZO 2019 | 28 LUGLIO 2019 LUGANO WWW.MASILUGANO.CH MUSEO D’ARTE DELLA SVIZZERA ITALIANA La rassegna riunisce per la prima volta dopo cinquant’anni alcuni dei capolavori più significativi della Fondazione Gottfried Keller, tra cui il famoso Trittico della natura di Giovanni Segantini che, per partecipare all’esposizione, lascia per la seconda volta in cento anni la sua originale sede di Sankt Moritz. I visitatori potranno ripercorrere attraverso le opere presenti le principali tappe della storia dell’arte svizzera degli ultimi due secoli.

14 • FINESTRE SULL’ARTE

Lombardia

LO SPIRITO DELLE COSE

ARGENTI E PREZIOSI DEI CONTI D’ARCO 30 MARZO 2019 | 30 NOVEMBRE 2019 MANTOVA WWW.MUSEODARCOMANTOVA.IT MUSEO DI PALAZZO D’ARCO La mostra espone l’argenteria della famiglia

XXII TRIENNALE DI MILANO

d’Arco, custodita gelosamente come un te-

1 MARZO 2019 | 1 SETTEMBRE 2019 MILANO WWW.TRIENNALE.ORG

soro da trasmettere in eredità di generazione in generazione, che restituisce i ricordi del vivace passato e rivela tra i suoi riflessi,

TRIENNALE DI MILANO

appunto, lo “spirito delle cose”.

La Triennale riafferma la propria decisione di dare una nuova continuità all’Esposizione Internazionale, la cui XXI edizione è stata organizzata nel 2016, dopo ben vent’anni di pausa. L’esposizione è composta da una mostra tematica e da 22 Partecipazioni Internazionali, che coprono tutti i continenti offrendo una proposta diversificata in termini di temi, prospettive, contesti e provenienze. La mostra internazionale di quest’anno s’intitola Broken Nature: Design Takes on Human Survival.

ROY LICHTENSTEIN. MULTIPLE VISIONS

1 MAGGIO 2019 | 8 SETTEMBRE 2019 MILANO WWW.MUDEC.IT MUDEC L’arte di Lichtenstein ha affascinato fin dai primi anni della pop art generazioni di creativi, dalla pittura alla pubblicità, dalla fotografia al design e alla moda e il potere seduttivo che essa esercita sulla cultura visiva contemporanea è ancora molto forte. In mostra circa cento opere tra stampe anche di grande formato, sculture, arazzi, un’ampia selezione di edizioni provenienti da prestigiosi musei, istituzioni e collezioni private europee e americane oltre a video e fotografie.

FINESTRE SULL’ARTE • 15

AGENDA. Lombardia

RE-M MANTEGNA 25 APRILE 2019 | 21 LUGLIO 2019 BERGAMO WWW.RE-M.IT ACCADEMIA CARRARA Attribuita ad Andrea Mantegna a seguito dell’eccezionale scoperta dello scorso anno, recentemente restaurata e presentata a Londra e a Berlino, la Resurrezione di Cristo torna adesso alla propria sede, l’Accademia Carrara di Bergamo, dove è protagonista di un

LEONARDO IN FRANCIA

DISEGNI DI EPOCA FRANCESE DAL CODICE ATLANTICO

evento espositivo dedicato.

18 GIUGNO 2019 | 15 SETTEMBRE 2019 MILANO WWW.AMBROSIANA.IT VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA La mostra approfondisce gli ultimi anni di attività di Leonardo da Vinci, attraverso una selezione di 23 fogli dal Codice Atlantico databili al soggiorno francese di Leonardo, presso la corte di Francesco I. In particolare s’incentra sui disegni architettonici e idraulici di Leonardo eseguiti in Francia tra il 1516 e il 1518, posti tutti tradizionalmente in rapporto con i progetti del Re di Francia Francesco I per una nuova residenza reale da erigersi a Romorantin.

BERENICE ABBOTT

BERENICE ABBOTT. TOPOGRAPHIES 20 APRILE 2019 | 8 SETTEMBRE 2019 LECCO WWW.MUSEILECCO.ORG PALAZZO DELLE PAURE La mostra presenta ottanta fotografie in bianco e nero, capaci di ripercorrere l’intera carriera di Berenice Abbott, e declinate in tre sezioni che definiscono la sua cifra espressiva più caratteristica: Ritratti, New York e Scienza.

16 • FINESTRE SULL’ARTE

AGENDA. Piemonte

CARLO VIDUA, UNA VITA IN VIAGGIO

DAL MONFERRATO ALL’ESTREMO ORIENTE 1785/1830 15 DICEMBRE 2018 | 31 DICEMBRE 2019 CASALE MONFERRATO WWW.COMUNE.CASALE-MONFERRATO.AL.IT/MUSEO-VIDUA MUSEO CIVICO La rassegna presenta la straordinaria collezione etnografica dell’esploratore Carlo Vidua: oggetti rari, meravigliosi taccuini cinesi acquerellati, gioielli, tessuti, libri e documenti frutto delle lunghe peregrinazioni nei cinque continenti del viaggiatore monferrino nato a Casale Monferrato nel 1785 e morto in Indonesia, nel 1830.

IL RINASCIMENTO A BIELLA

SEBASTIANO FERRERO E I SUOI FIGLI. 1519 – 2019 19 APRILE 2019 | 18 AGOSTO 2019 BIELLA WWW.ILRINASCIMENTOABIELLA.IT PALAZZO FERRERO, PALAZZO LA MARMORA E MUSEO DEL TERRITORIO BIELLESE Focus della rassegna sono le opere dei quali furono committenti Sebastiano Ferrero, i suoi fratelli, i suoi figli e i suoi nipoti. Disperse col passare del tempo, le opere sono oggi collocate in diverse collezioni pubbliche e private, sia italiane, sia straniere. Ferrero fu un ricco e potente diplomatico biellese, prima al servizio dei Savoia, e poi a Milano dei francesi dopo la conquista da parte loro del Ducato.

CARLO FORNARA

ALLE RADICI DEL DIVISIONISMO 1890 – 1910 25 MAGGIO 2019 | 20 OTTOBRE 2019 DOMODOSSOLA WWW.COLLEZIONEPOSCIO.IT CASA DE RODIS La retrospettiva si focalizza in modo diretto sui decennî che intercorrono tra il 1880 ed il 1910, gli anni di maggiore creatività e capacità innovativa di Fornara, di cui ricorre il cinquantenario della scomparsa. In mostra, un’importante selezione di tele (alcune delle quali oggetti di interventi di restauro realizzati proprio in funzione della loro esposizione in questa mostra), affiancate da una sezione riservata ai disegni del maestro.

18 • FINESTRE SULL’ARTE

Veneto

ALBRECHT DÜRER

LA COLLEZIONE COMPLETA DEI REMONDINI 20 APRILE 2019 | 30 SETTEMBRE 2019 BASSANO DEL GRAPPA WWW.MUSEIBASSANO.IT PALAZZO STURM Per la prima volta viene presentata al pubblico la collezione completa delle opere grafiche del celebre artista di Norimberga facenti parte del patrimonio museale bassanese. La raccolta è una

BIENNALE DI VENEZIA 2019

delle due più complete e importanti al

11 MAGGIO 2019 | 24 NOVEMBRE 2019 VENEZIA WWW.LABIENNALE.ORG

mondo: comprende 123 xilografie e 91

VARIE SEDI

nel 1849 alla città.

calcografie che appartenevano a Giambattista Remondini e che furono donate

Che tu possa vivere in tempi interessanti: è quanto si augura il titolo della Biennale di Venezia del 2019, curata da Ralph Rugoff e intitolata May you live in interesting times. La Biennale arriva quest’anno all’edizione numero 58.

ARSHILE GORKY. 1904 – 1948 8 MAGGIO 2019 | 22 SETTEMBRE 2019 VENEZIA WWW.CAPESARO.VISITMUVE.IT CA’ PESARO – GALLERIA INTERNAZIONALE D’ARTE MODERNA Le opere più importanti della carriera di Arshile Gorky sono riunite in una mostra che permette di riaffermarne il valore della sua esperienza all’interno dello sviluppo e definizione dell’arte americana del XX secolo, evidenziando come la sua influenza prosegua tuttora.

FINESTRE SULL’ARTE • 19

AGENDA. Veneto

BURRI

L A PITTURA, IRRIDUCIBILE PRESENZA 10 MAGGIO 2019 | 28 LUGLIO 2019 VENEZIA WWW.CINI.IT

ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE Con circa cinquanta opere provenienti da importanti musei italiani e stranieri, dalla Fondazione Burri e da prestigiose collezioni private, la mostra ricostruisce nella sua interezza la parabola storica di uno dei più grandi protagonisti dell’arte italiana ed europea del XX secolo e riporta Burri a Venezia dopo la memorabile personale che nel 1983 vide protagoniste 18 opere del ciclo Sestante nel suggestivo edificio degli ex Cantieri Navali alla Giudecca, segnando una tappa fondamentale nella carriera dell’artista.

LUIGI PERICLE

BEYOND THE VISIBLE

JEAN DUBUFFET E VENEZIA 10 MAGGIO 2019 | 20 OTTOBRE 2019 VENEZIA

11 MAGGIO 2019 | 24 NOVEMBRE 2019 VENEZIA WWW.QUERINISTAMPALIA.ORG

FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA

WWW.ACPPALAZZOFRANCHETTI.COM

PALAZZO FRANCHETTI

Luigi Pericle è al centro di un grande pro-

La mostra è dedicata allo stretto legame tra Jean Dubuffet e la città

getto di recupero critico e filologico: l’im-

di Venezia, ricordando le due celebri mostre che furono allestite nella

portante piano di studio, restauro, conser-

laguna e che hanno segnato il percorso dell’artista francese: l’esposi-

vazione, catalogazione del suo patrimonio

zione a Palazzo Grassi nel 1964 e al padiglione francese della Biennale

artistico ha adesso una delle sue punte nella

nel 1984.

rassegna veneziana, organizzata nel periodo dell’edizione 2019 della Biennale di Venezia.

20 • FINESTRE SULL’ARTE

Veneto ADRIAN GHENIE

THE BATTLE BETWEEN CARNIVAL AND FEAST 19 APRILE 2019 | 18 NOVEMBRE 2019 VENEZIA WWW.CINI.IT

GALLERIA DI PALAZZO CINI La mostra vede esposte al secondo piano della casa-museo di Campo San Vio circa dieci tele pensate e realizzate appositamente per questo progetto, il cui titolo, in virtù del riferimento al carnevale, richiama un legame con la città di Venezia. Il titolo suggerisce inoltre l’attenzione prestata dall’artista alla tradizione, senza rinunciare tuttavia ad uno sguardo all’attualità.

SEBASTIANO RICCI. RIVALI ED EREDI

OPERE DEL SETTECENTO DELLA FONDAZIONE CARIVERONA 6 APRILE 2019 | 22 SETTEMBRE 2019 BELLUNO MUBEL.COMUNE.BELLUNO.IT

PALAZZO FULCIS La mostra mette in dialogo uno dei capolavori di Sebastiano Ricci, il ciclo dei dipinti del Camerino d’Ercole, con opere dei grandi del Settecento che furono rivali di Ricci o che subirono il fascino della sua lezione. Tra i vari artisti esposti in mostra, si trovano Giovan Gioseffo del Sole, Jacopo Amigoni, Nicola Grassi, Giuseppe Nogari, Francesco Fontebasso, Antonio Bellucci.

LA NATURA DI ARP 13 APRILE | 2 SETTEMBRE 2019 VENEZIA WWW.GUGGENHEIM-VENICE.IT

COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM L’esposizione intende presentare la produzione artistica di Hans Arp basata sul ripensamento radicale delle forme d’arte tradizionali. Durante la sua carriera, Arp ha realizzato numerose opere di varî materiali e formati, in particolare sculture, ma ha compiuto inoltre disegni, stampe, tessuti, collage, rilievi dipinti. Fondatore del movimento Dada e pioniere dell’astrazione, ha sviluppato un linguaggio di forme organiche e curvilinee che si muovono con fluidità tra astrazione e rappresentazione.

FINESTRE SULL’ARTE • 21

AGENDA. Emilia Romagna

MIQUEL BARCELÓ

IL TEMPO È UN FIUME CHE MI TRASCINA, E IO SONO IL FIUME 1 GIUGNO 2019 | 6 OTTOBRE 2019 FAENZA WWW.MICFAENZA.ORG

MIC - MUSEO INTERNAZIONALE DELLE CERAMICHE Le opere di Barceló sono poste in dialogo con le ceramiche custodite nel museo faentino e, per quest’occasione, l’artista ha creato un’installazione appositamente per il MIC. Sono presenti i suoi pri-

ANTONIO FONTANESI E LA SUA EREDITÀ

mi lavori in argilla, compiuti alla fine degli anni Novanta, e attraverso

DA PELLIZZA DA VOLPEDO A BURRI

altri capolavori selezionati si giunge alle ceramiche realizzate nel

6 APRILE 2019 | 14 LUGLIO 2019

presente.

REGGIO EMILIA WWW.MUSEI.COMUNE.RE.IT

PALAZZO DEI MUSEI La mostra non soltanto ricostruisce il percorso artistico di Antonio Fontanesi attraverso le opere più importanti, ma offre anche un inedito contributo critico alla conoscenza della sua arte insistendo sull’influenza che il pittore ha avuto sugli artisti delle generazioni più giovani:

IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO

molti infatti si riconobbero nel suo particolare approccio alla natura e al paesaggio, sospeso

12 APRILE 2019 | 15 SETTEMEBRE 2019

tra l’esigenza di rappresentazione del vero e

FERRARA

l’urgenza di esprimerne le più intime emozioni.

WWW.MEISWEB.IT

MEIS Nel Rinascimento gli ebrei erano presenti e attivi a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e ovviamente Roma. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto: analizzare questo dialogo significa riconoscere il legame della cultura italiana con l’ebraismo ed esplorare i presupposti ebraici della civiltà rinascimentale.

22 • FINESTRE SULL’ARTE

Toscana

A PASSI DI DANZA

ISADORA DUNCAN E LE ARTI FIGURATIVE IN ITALIA TRA OTTOCENTO E AVANGUARDIA

COSTRUIRE UN CAPOLAVORO: LA COLONNA TRAIANA 18 GIUGNO 2019 | 6 OTTOBRE 2019

13 APRILE 2019 | 22 SETTEMBRE 2019

FIRENZE

FIRENZE

WWW.UFFIZI.IT

WWW.VILLABARDINI.IT

GIARDINO DI BOBOLI

VILLA BARDINI E MUSEO BARDINI L’esposizione permette di ripercorrere il viaggio dei La prima rassegna italiana dedicata alla danzatrice americana

colossali blocchi marmorei che compongono la Co-

Isadora Duncan e al suo rapporto con le arti figurative italiane.

lonna Traiana: dalle cave di Luni furono trasportati

Un legame raccontato attraverso dipinti, sculture, documenti,

fino al Portus Romae percorrendo 200 miglia mari-

fotografie inedite, per un totale di circa 170 pezzi visibili nei

ne, e poi fino alla capitale risalendo il Tevere.

due piani di Villa Bardini e in una sezione speciale delle grandi sculture al Museo Stefano Bardini.

OMAGGIO A COSIMO I 6 GIUGNO 2019 | 29 SETTEMBRE 2019 FIRENZE WWW.UFFIZI.IT

GALLERIE DEGLI UFFIZI Tre mostre alle Gallerie degli Uffizi riunite sotto il titolo Omaggio a Cosimo I per approfondire la figura di Cosimo I de’ Medici nel cinquecentenario della nascita: I cento Lanzi del Principe, che ha per oggetto la storica guardia medicea (i Lanzi), Una biografia tessuta. Gli arazzi in onore di Cosimo I, sulla serie di otto arazzi che raccontano i momenti salienti del governo del primo granduca Medici, e Il villano e la sua botticella. Divertimenti nel nuovo giardino, dedicata a quella che fu forse la prima scultura realizzata per il Giardino di Boboli.

FINESTRE SULL’ARTE • 23

AGENDA. Lazio

LUDWIG POLLAK

ARCHEOLOGO E MERCANTE D’ARTE

CLAUDIO IMPERATORE

MESSALINA, AGRIPPINA E LE OMBRE DI UNA DINASTIA

5 DICEMBRE 2018 | 15 SETTEMBRE 2019

6 APRILE 2019 | 27 OTTOBRE 2019

WWW.MUSEOBARRACCO.IT

ROMA

MUSEO BARRACCO

ROMA

WWW.ARAPACIS.IT

MUSEO DELL’ARA PACIS

Le opere in mostra ripercorrono la storia professionale e personale del grande collezioni-

La mostra guida i visitatori alla scoperta della vita e del

sta Ludwig Pollak: dalle sue origini nel ghet-

regno del discusso imperatore romano, dalla nascita a

to di Praga, agli anni d’oro del collezionismo

Lione nel 10 a.C. fino alla morte a Roma nel 54 d.C.,

internazionale, alla tragica fine nel campo di

mettendone in luce la personalità, l’operato politico e

sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau.

amministrativo, il legame con la figura di Augusto e con il celebre fratello Germanico, il tragico rapporto con le mogli Messalina e Agrippina, sullo sfondo della corte imperiale romana e delle controverse vicende della dinastia giulio-claudia.

MORTALI IMMORTALI

TESORI DEL SICHUAN NELL’ANTICA CINA 26 MARZO 2019 | 18 OTTOBRE 2019 ROMA WWW.MERCATIDITRAIANO.IT

MERCATI DI TRAIANO La mostra presenta reperti in bronzo, oro, giada e terracotta, databili dall’età del bronzo (II millennio a.C.) fino all’epoca Han (II secolo d.C.) provenienti da importanti istituzioni cinesi. L’intento della mostra è far conoscere i tratti evocativi della cultura del popolo Shu, raccontata attraverso i suoi oggetti più significativi, come le misteriose maschere in bronzo provenienti dagli scavi archeologici del sito di Sanxingdui.

24 • FINESTRE SULL’ARTE

Lazio

DONNE ROMA NELLA CAMERA OSCURA

FOTOGRAFIE DELLA CITTÀ DALL’OTTOCENTO A OGGI 27 MARZO 2019 | 22 SETTEMBRE 2019 ROMA

CORPO E IMMAGINE TRA SIMBOLO E RIVOLUZIONE 24 GENNAIO 2019 | 13 OTTOBRE 2019 ROMA WWW.GALLERIAARTEMODERNAROMA.IT

WWW.MUSEODIROMA.IT

GAM - GALLERIA D’ARTE MODERNA

ROMA La rassegna espone circa 320 immagini per celebrare i 180 anni della nascita ufficiale della fotografia con uno straordinario excursus negli ambiti più significativi della storia fotografica della capitale prima dell’avvento del digitale.

Una riflessione sulla figura femminile attraverso artisti che hanno rappresentato e celebrato le donne nelle diverse correnti artistiche e temperie culturali tra fine Ottocento, lungo tutto il Novecento e fino ai giorni nostri.

L’ARTE DI SALVARE L’ARTE FRAMMENTI DI STORIA D’ITALIA 5 MAGGIO 2019 | 14 LUGLIO 2019 ROMA HTTPS://PALAZZO.QUIRINALE.IT

PALAZZO DEL QUIRINALE La mostra espone alcuni dei più significativi beni culturali recuperati in mezzo secolo di intensa e proficua attività investigativa, unitamente a opere restituite al patrimonio artistico nazionale grazie all’azione di diplomazia culturale messa in atto di concerto con il Ministero per i beni e le attività culturali. I visitatori potranno ammirare oggetti che sono stati trafugati da chiese, musei, aree archeologiche, biblioteche e archivi, e conoscere nel contempo la storia del loro recupero.

FINESTRE SULL’ARTE • 25

AGENDA. Campania/ Basilicata

JAN FABRE ORO ROSSO

26 MARZO 2019 | 15 SETTEMBRE 2019 NAPOLI WWW.MUSEOCAPODIMONTE.BENI-

RINASCIMENTO VISTO DA SUD

MATERA, L’ITALIA MERIDIONALE E IL MEDITERRANEO TRA ‘400 E ‘500 19 APRILE 2019 | 19 AGOSTO 2019 MATERA

CULTURALI.IT

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MUSEO DI CAPODIMONTE

MUSEO NAZIONALE DI ARTE MEDIEVALE E MODERNA DELLA BASILICATA

Antologia di sculture e di disegni di Jan Fabre, databili dalla fine degli anni Settanta, in dialogo con alcuni autentici capolavori delle collezioni storiche di Capodimonte. Si parlerà di sangue, metamorfosi, immagini del sacro e trionfo dell’amore.

Una mostra di ampia portata, con duecento opere da diversi musei italiani ed europei, per documentare come il Rinascimento si sviluppò, tra Quattro e Cinquecento, nell’Italia meridionale, con una visione allargata a includere il contesto del Mediterraneo. La rassegna si prefigge dunque l’obiettivo di rovesciare il punto di vista tradizionale su uno dei più importanti periodi storico artistici e vuole offrire una nuova lettura del Rinascimento, mettendo in luce la centralità delle rotte mediterranee, gli scambi e i rapporti tra le culture, i viaggi degli artisti e delle loro opere.

CARAVAGGIO NAPOLI 12 APRILE 2019 | 14 LUGLIO 2019 WWW.MATERA-BASILICATA2019.IT NAPOLI WWW.MUSEOCAPODIMONTE.BENICULTURALI.IT

MUSEO DI CAPODIMONTE La mostra, dedicata al soggiorno napoletano di Caravaggio, mette a confronto sei opere del Merisi, provenienti da istituzioni italiane e internazionali, e ventidue quadri di artisti napoletani, che ne registrano immediatamente la novità venendone travolti, con soggetti ricorrenti nei dipinti del maestro.

26 • FINESTRE SULL’ARTE

MICHELE CHIOSSI CARRARA IMPERIAL a cura di Vittoria Coen

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VÔTRE spazi contemporanei Piazza Alberica, 5 - I° piano Carrara

Info: +39 3384417145 - associazionevotre@gmail.com Thanks to: BELLARIA SUPPORTS THE ART’S SPIRIT

| OPERE E ARTISTI

|

Adolfo Wildt

Le immagini del potere testo di Ilaria Baratta

Artista “gotico e barocco”, come lo definirono già i suoi contemporanei, tormentato, condannato all’oblio per la sua vicinanza al fascismo: Adolfo Wildt è stato uno dei più significativi artisti del primo Novecento, ed è tempo oggi di rileggere la sua arte senza pregiudizî. In questo contributo, si prende in esame l’arte di Wildt rileggendola con gli occhi della critica coeva e con particolare riferimento alle immagini del potere.

G

otico e barocco: così è stato definito lo stile di Adolfo Wildt (Milano, 1868 – 1931) da grandi esponenti della critica a lui contemporanea. In effetti, trovandosi di fronte alla maggior parte dei suoi capolavori, l’osservatore rimane di certo colpito dalle forme caratteristiche delle sue sculture, dai tratti drammatici e, si potrebbe quasi dire, caricaturali dei

Uomo antico FOTO PAGINA A FIANCO:

Adolfo Wildt, Vir temporis acti

(Uomo antico) (1914, da un’opera del 1911; marmo, 56 x 40 x 39 cm; Milano, Museo del Novecento)

volti dei soggetti rappresentati. E resta ammaliato dalla luminosità sprigionata dal marmo delle sue opere, materiale favorito da questo artista del primo Novecento: una luce che si espande sull’intera superficie marmorea, estremamente liscia, levigata, epidermica.

La scrittrice e critica d’arte Margherita Sarfatti (Margherita Grassini; Venezia, 1880 – Cavallasca, 1961) dichiarò, nel suo celebre libro Segni colori luci, pubblicato nel 1925: «Adolfo Wildt, il primo maestro dell’arte del marmo che abbia oggi l’Italia, è l’erede dei marmorari e tagliapietre antichi per la perfezione vigile e precisa con la quale incide senza debolezze nella materia lucida e dura, il segno della sua volontà. La polisce con infinito amore, la rende preziosa come una gemma, vi scava ombre nere e crudeli. Tanto ha superato le FINESTRE SULL’ARTE • 29

Autoritratto FOTO SOPRA:

Adolfo Wildt, Autoritratto (Maschera del

dolore) (1909; marmo, 37 x 31 x 17 cm; Forlì, Musei Civici)

difficoltà della tecnica, tanto si è assoggettata la materia, da godere nel piegarla con minuziosa pietà, e con l’amore e il rancore della passione. Tende ad annullarne il peso e la consistenza, e trasfigurarla tutta in spiritualità di espressione. Inclina talvolta verso un tormento barocco e spagnoleggiante; tal’altra ricorda i gotici angolosi e dolorosi; due epoche, il ’600 della scomposta virtuosità, il ’300 della rigidezza architettonica, l’una e l’altra trasmodanti nello spasimo. La sua opera si può discutere, ma è opera d’arte personale, vera e commovente».

Questa celebrazione fu accompagnata dall’ingresso di Wildt, nello stesso anno, nel Comitato Direttivo del “Novecento Italiano”, gruppo diretto e sostenuto dalla stessa Sarfatti, e fondato sull’originario “Gruppo dei Sette”, composto da Anselmo Bucci, Leonardo Du30 • FINESTRE SULL’ARTE

dreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Questi erano accomunati dalla volontà di un ritorno all’ordine dopo la stagione delle avanguardie: un ordine che si ispirava all’antichità classica e alla purezza delle forme. Al sopraccitato Comitato Direttivo, costituito nel 1924 quando il gruppo Novecento si presentò alla XIV Biennale di Venezia, appartenevano Arturo Tosi, Funi, Marussig, Sironi, Alberto Salietti, la stessa Margherita Sarfatti e Adolfo Wildt: loro scopo era conferire al movimento un carattere nazionale, un obiettivo raggiunto successivamente nel 1926 e nel 1929, in occasione delle loro due grandi mostre milanesi (la prima da febbraio a marzo nel Palazzo della Permanente, la seconda da marzo ad aprile nella stessa sede). La Sarfatti considerò da quel momento Wildt come il massimo e il più originale interprete della tradizione italiana.

Un altro grande critico d’arte e giornalista che riconobbe nell’artista questo legame tra il barocco e il gotico fu Mario Tinti (Livorno, 1885 – Firenze, 1937). Parlando dello stile di Wildt, scrisse: «lo stile movimentato nasce dalla necessità ad andare sempre più oltre, a gridare e a cantare di più. Wildt confessa di preferire quasi la testa della Santa Teresa del Bernini al Davide di Michelangelo, o almeno di comprendervi la ricerca più spinta dell’animazione.

Wildt ammira capolavori della scultura quanto più sono slanciati nell’espansione sentimentale, quanto più sono sbalzati per la valorizzazione delle ombre. Così questo stile è servito in modo straordinario a dare forma artistica al dolore, perché tanto nella figura misera come in quella armoniosa e serena, il dolore non si concreta sì vivamente come nella violenza agitata: l’arte di Wildt può essere considerata, sotto questo aspetto (l’aspetto stilistico, del mezzo d’espressione) come uno sviluppo del barocco; ma del barocco migliore che non è degenerazione del classico, bensì effusione libera ed entusiastica della fantasia, che si ricollega per la sua ricerca del carattere al gotico, e che prepara l’arte moderna, tendente a rendere tutta la mobilità e la spiritualità della vita».

E ancora Ugo Ojetti (Roma, 1871 – Fiesole, 1946), altro scrittore, critico d’arte e giornalista, dedicò nel 1926 a Wildt un lungo articolo dal titolo Lo scultore Adolfo Wildt sulla rivista Dedalo, dove affermò che questo suo «desiderio di traforare e alleggerire e rendere il marmo quasi capace di galleggiare è un carattere degli

scultori gotici».

Esemplificativa di questo connubio tra gotico e barocco, apparentemente inconciliabili, è la sua celebre opera Vir temporis acti (Uomo antico), la cui prima versione, risalente al 1911, si presentava come un grande torso marmoreo privo di braccia, con le gambe

lio Sommariva (Lodi, 1883 – Milano, 1956). Dalla versione originale sono stati tratti dallo stesso Wildt altri esemplari, tra cui quello del 1914, oggi conservato al Museo del Novecento di Milano, che presenta però solo la testa. Tuttavia, quando il primo Vir temporis acti venne esposto alla Triennale di Milano,

“Inclina talvolta verso un tormento barocco e spagnoleggiante; tal’altra ricorda i gotici angolosi e dolorosi”: così, nel 1925, Margherita Sarfatti descriveva Adolfo Wildt. mozzate e una spada in bronzo dorato conficcata sul basamento come una croce; questa fu inviata al collezionista prussiano Franz Rose, e alla sua morte, nell’anno successivo, venne donata dal fratello Carl al museo di Königsberg. Inoltre Franz Rose ne possedeva un altro esemplare, costituito dal solo busto, che venne donato all’Associazione Artistica: entrambi sono andati dispersi e conosciamo il loro aspetto grazie alle straordinarie fotografie di Emi-

l’opera suscitò critiche: venne definito immorale perché troppo nudo, e il poeta e critico Nino Salvaneschi (Pavia, 1886 – Torino, 1968) confessò di non riuscire a comprendere le «morbose deformazioni di quest’artista bizzarro» che aveva messo «al posto delle mammelle, due specie di bottoni per la luce elettrica». E quando la testa in marmo fu esposta a Roma alla Società degli Amatori e Cultori nel 1915, Wildt venne definito come «un pazzo che ha cre-

Ritratto di Margherita Sarfatti FOTO A SINISTRA:

Adolfo

Wildt, Ritratto di Margherita Sarfatti (1930; marmo, altezza 47 cm; Collezione privata). Foto di Francesco Bini

FINESTRE SULL’ARTE • 31

Maschera di Mussolini

Pio XI

FOTO SOPRA:

FOTO SOPRA:

Adolfo Wildt, Maschera di Mussolini (il

Duce) (1924; marmo di Carrara, 60 x 49 x 22 cm; Milano,

Adolfo Wildt, Pio XI (1926; marmo con

dorature, altezza 113 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani)

Galleria d’Arte Moderna)

duto di stupire il mondo con una caricatura goffa e barocca della verità».

Egli sperimentava giungendo ai limiti della deformazione, come si nota nell’Uomo antico del Museo del Novecento: le sopracciglia aggrottate causano la presenza di due protuberanze sulla fronte, il naso grosso e deforme sulla punta, la bocca semiaperta e grossolana

nelle narici, si insinua tra i denti e fra i peli della barba delle sue teste virili, passa nei padiglioni degli orecchi fino ad ottenere la trasparenza della cartilagine […]

Attraverso la stilizzazione del Wildt, alcuni pezzi di scultura, dall’intensa, lucente patina giallognola assumono carattere caricaturale; altri hanno qualcosa di tormentoso nella contrazione spasmodica dei muscoli del volto, altri, infine, nella loro rigida statica offrono il senso di una calma e grave solennità». E ancora:

Wildt taglia le forme, svuota gli occhi, apre la bocca dei soggetti rappresentati, perché è attraverso questi punti che il dolore può fuoriuscire dall’uomo, liberandolo dal tormento. rivela l’arcata inferiore dei denti e gli zigomi sono alquanto pronunciati. Nella stessa occasione, però, i critici Arturo Lancellotti (Napoli, 1877 – Roma, 1968) e Antonio Maraini (Roma, 1886 – Firenze, 1963) rimasero meravigliati da questo tormento insito nelle opere dell’artista milanese: «pare si diverta a strabiliare il pubblico con la virtuosità del suo scalpello che affonda

32 • FINESTRE SULL’ARTE

«si direbbe quasi che nel viso ami rendere soprattutto quelle parti che dalla loro natura cartilaginea assumono un aspetto tipico. Il marmo sotto le sue mani […] si trasforma quasi in una materia compatta levigata.

Si direbbe che raggiungere la squisitezza tattile che in queste hanno talvolta oggetti d’arte, sia la tendenza inconscia di Wildt».

Il suo stile del tutto personale è ancorato alla dimensione del tempo che provoca un continuo cambiamento della forma all’interno di quello che il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel (Berlino, 1858 – Strasburgo, 1918) definisce “divenire cosmico”. La vita è un perpetuo divenire, un cambiamento continuo a cui è sottoposta ogni forma, percepibile a confronto con

il passato. Quest’ultimo diviene quindi nelle opere dell’artista elemento dello scorrere del tempo ed è attraverso un particolare espediente ch’egli intende giungere all’affermazione su di esso: la maschera.

Marco Bazzocchi, nel suo saggio sulle maschere di Wildt nel catalogo della mostra Wildt. L’anima e le forme che si tenne nel 2012 presso i Musei San Domenico di Forlì, fa risalire al pensiero di Georg Simmel la teoria secondo cui i singoli tratti del volto sono in continuo rapporto reciproco e creano un effetto di concentrazione maggiore rispetto al resto del corpo.

Secondo il filosofo, dietro al volto esiste un principio spirituale, che si potrebbe definire anima. Ed è per questa ragione che nelle maschere di Wildt traspare una sensazione di spiritualità. L’effetto di drammaticità, concentrato nei volti delle sue sculture, è reso ulteriormente dal lavoro di lucidatura del marmo: è da questo legame profondo tra la luce che si riflette dalla superficie marmorea e l’espressione drammatica del volto che le maschere di Wildt evocano una dimensione di eternità, superando i limiti della vita terrena. Per l’artista il dolore cosmico di cui parlava Simmel si concentra pienamente nell’individuo, soprattutto nel viso: per sfuggire da tale tormento, dallo scorrere del tempo, Wildt taglia le forme, svuota gli occhi, apre la bocca dei soggetti rappresentati, perché è attraverso questi punti che il dolore può fuoriuscire dall’uomo, liberandolo dal tormento. In particolare, l’artista crea spesso dei vuoti negli occhi, poiché attraverso essi avviene il passaggio di un’interiorità che si libera verso l’esterno.

Significativo è in questo senso il suo Autoritratto come Maschera del dolore, opera realizzata nel 1909 in marmo su fondo in marmo dorato. Questa è l’immagine fisica del suo stesso tormento, a seguito di tre anni d’impotenza creativa. La sofferenza è tangibile negli incavi degli occhi, nelle sopracciglia aggrottate, nella bocca semiaperta in una sorta di grido. «In quella strana e potente Maschera del Dolore […] l’angoscia lungamente contenuta dell’impotenza ad esprimersi, si convertiva in una specie di rabbia

Nicola Bonservizi FOTO A SINISTRA:

Adolfo Wildt, Nicola Bonservizi (1925;

bronzo e stele in marmo di Siena dorato sul fondo, 228 x 60 x 60 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)

FINESTRE SULL’ARTE • 33

Vittorio Emanuele III FOTO SOPRA:

Adolfo Wildt, Vittorio Emanuele III (1929;

bronzo, 94 x 134 x 62 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)

impaziente d’ogni tramite, che lo spingeva a immettere, con diretto lavoro, la forza rifluente alle sue dita, nella durissima grana», affermò il pittore e scrittore Ugo Bernasconi (Buenos Aires, 1874 – Cantù, 1960).

Il fondo oro non è semplice elemento decorativo, ma è espressione di singolarità del volto-maschera: in questo caso richiama gli sfondi della raffigurazioni sacre, per evidenziare il valore cultuale dell’opera d’arte, ma l’elemento d’oro può essere qualsiasi dettaglio di un’opera: una corona, un nastro, una ciocca di capelli; sarà sempre rappresentativo di un valore particolare che l’artista intende fornire al suo capolavoro. L’originale maschera del 1909 venne inviata a Döhlau e sfortunatamente distrutta durante i bombardamenti della 34 • FINESTRE SULL’ARTE

seconda guerra mondiale; ne sono stati ritrovati alcuni frammenti nel corso di una campagna di scavo compiuta nel 2002. Tuttavia, come per la scultura precedentemente citata, l’artista ne realizzò altre versioni in marmo, tra cui quella oggi custodita nel Musei Civici di Forlì.

Successivamente, dopo più di un decennio da queste significative opere che gli avevano valso elogi e critiche, e a seguito, come affermato, dell’adesione al Comitato Direttivo del Novecento Italiano, Wildt decise di partecipare nel 1926 alla I Mostra del Novecento Italiano. Cominciò a delinearsi da quest’occasione un aspetto dell’artista, di cui ancora oggi si percepiscono gli effetti: un aspetto per così dire politico, che gli causò, oltre a numerose critiche persino dopo la sua morte, un generale accostamento o identificazione della sua arte con il regime fascista. Dopo la sua scomparsa, nel 1931, furono molti i critici che lo denigrarono con l’intento di condannare la sua arte all’oblio, e tuttora

lo stesso artista viene spesso assunto tra gli esponenti dell’arte del regime. È necessario tener conto però che la sua produzione è fortemente legata all’epoca in cui visse: un tempo d’incertezze e di profondi cambiamenti a cui la sua arte intende sfuggire attraverso la grande maestria e il virtuosismo con i quali riesce a padroneggiare la superficie marmorea. Come il critico Ugo Ojetti scrisse

neò il grande ritorno alla tradizione italiana, oltre che il valore artistico e simbolico della scultura: «la pittura e la scultura qui rappresentate sono forti come l’Italia d’oggi è forte nello spirito e nella sua volontà. Difatti nelle opere qui esposte ci colpiscono questi elementi caratteristici e comuni: la decisione e la precisione del segno, la nitidezza e la ricchezza del colore, la solida plasticità delle cose e delle figure. Guardate ad esem-

Per il filosofo tedesco Georg Simmel, dietro a un volto esiste un principio spirituale: i volti tormentati di Wildt, con le loro sensazioni di spiritualità, sembrano incarnare questo pensiero. ne Lo scultore Adolfo Wildt: «artista senza pace egli è, e senza bellezza, se per bellezza s’intende proporzione e serenità e, pur nel dolore, il ritmo e la cadenza che trasformano il grido in canto e il tumulto in armonia.

Ma in questo suo rotto tormento, in questa incessante fatica di trovare, per rivelarlo, un insolito linguaggio, in questa volontà d’esprimere l’invisibile e di torcere il corpo umano finché ne sprizzi l’anima, Wildt è anche d’una sincerità così schietta che forse un giorno sarà considerato come il vero esponente della nostra epoca stanca e ansiosa, dicono, credula e curiosa, affannata picchiar su ogni pietra nei muri del suo carcere pur di trovare la via della fuga verso l’infinito e la speranza».

Tornando alla I Mostra del 1926, l’artista decise di esporre l’erma di Nicola Bonservizi, corrispondente parigino del Popolo d’Italia ucciso nel 1924 in giovane età dall’anarchico Ernesto Bonomini. Bonservizi era amico di Benito Mussolini e fondatore del Fascio di Parigi e della rivista Italie Nouvelle. Wildt realizzò la scultura, destinata alla nuova sede milanese del Popolo d’Italia, nel 1925, e fu deciso di inaugurarla il 28 ottobre dello stesso anno, in occasione del terzo anniversario della Marcia su Roma, alla presenza di Mussolini; quest’ultimo compose anche l’epigrafe scolpita sul basamento in marmo di Siena, che recita: «Nicola Bonservizi combattente giornalista fascista suggellò con la sua vita la purezza della sua fede. Muoio per l’Italia, egli disse spirando. Urbisaglia 2-12-1890 / Parigi 263-1924». Il monumento in marmo con il ritratto bronzeo del martire fascista, esposto alla Mostra del Novecento Italiano, venne donato a Mussolini per la Galleria d’Arte Moderna di Milano, dove si trova tuttora. Un’opera decantata durante il discorso inaugurale della mostra tenuto da Mussolini stesso, che con orgoglio ne sottoli-

pio la testa magnificamente scolpita del mio povero e fedele amico Bonservizi; non vi appare di leggere nel cavo profondo delle sue occhiaie la tragedia della sua fine improvvisa?». Ojetti la definì «la più ammirevole […] delle molte maschere e busti esposti da Wildt in questi anni» e la stessa Sarfatti dichiarò: «logico, incisivo, chiaro e senza reticenze è Adolfo Wildt […] Non si contenta mai di incidere, di rifinire e di levigare […]

Tutto questo gli serve per disprezzare la conquista sopra la materia, e volgerla ad altri fini; non per compiacersene. Così il suo Bonservizi. La nobile testa, sopra l’erma di bronzo, arde, candida fiamma di sacrificio, sopra un altare». Il colore del marmo di Siena ricorda inoltre quel fondo oro già utilizzato in capolavori precedenti per dare grande valore a una particolare opera.

La stima dell’artista verso Margherita Sarfatti è documentato in scultura da un’opera in marmo su basamento in bronzo che Wildt realizzò nel 1930: la critica e giornalista tra le più importanti dell’epoca venne ritratta con fattezze dolci, delicate e quasi nobili, allontanandosi in questo caso dalle opere finora citate, che presentavano un’urgenza di liberazione attraverso suggestive cavità negli occhi e nella bocca: qui è rappresentata una testa pensosa e naturalistica, e dalla lettera che lei stessa scrisse all’artista il 30 agosto 1930 si percepisce la sua riconoscenza e commozione: «sono molto commossa della sua delicata, pensosa e forte interpretazione di me. Come mi ci ritrovo, come mi ha capito bene, amico e artista impareggiabile! Mi pare di vedere in quel volto un dolore, vinto non domo, fieramente contenuto. Sono io così? Io non lo so. Ma lei certo vede, sente, sa! Grazie. Grazie dal fondo del cuore». La studiosa Rachele Ferrario, nel suo libro dedicaFINESTRE SULL’ARTE • 35

Uomo d’arme FOTO A SINISTRA:

Donato Bramante, Uomo dallo spadone

(1486 circa; affresco staccato trasportato su tela, 285 x 127 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

to a Margherita, si chiede se Wildt, nel rappresentarla con il volto stilizzato e quasi da bambina, con gli occhi statici e l’anima già fuggita via, non avesse già desiderato «bloccarla nel tempo immobile della classicità».

L’opera si trova in collezione privata, ma alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro è custodito il gesso, donato dagli eredi Wildt.

Il loro rapporto di amicizia fu fondamentale, come già accennato, per la presenza di Wildt nell’ambiente artistico e culturale di quell’epoca, poiché si deve a lei l’ingresso nel gruppo Novecento, per la grande considerazione che ebbe della sua arte e del suo personale stile, e l’esecuzione da parte dell’artista del ritratto di 36 • FINESTRE SULL’ARTE

Mussolini, con il quale lei aveva uno stretto rapporto, dato che ne aveva scritto la biografia: un’opera che definì la capacità, da parte di Wildt, di rappresentare egregiamente personaggi del potere, e che alimentò la sua immagine di artista ufficiale del regime fascista.

Pur non avendolo mai visto, lo scultore portò a compimento un busto raffigurante il Duce utilizzando una fotografia in bianco e nero. Alla fine, non ne risultò un busto: ne risultò la maschera di un busto. Come scrive la storica dell’arte Elena Pontiggia, «il ritratto di Wildt non esprime un soggetto, ma un tipo ideale, colto con sensibilità visionaria. Quello che interessa all’artista non è tanto l’uomo Mussolini, con le sue caratteristiche fisiche, ma l’idea che incarna. È un’espressione idealizzata, sottolineata dalla posa frontale che accentua la simmetria e la fissità del volto». Ricorderà anni dopo la stessa Sarfatti: «l’eccellente scultore Wildt non volle vedere Mussolini prima di plasmarne quel busto, improntato di tanta maestosa autorità romana, ‘Non voglio turbare con la testimonianza confusa dei sensi l’idea chiara che mi sono venuta facendo di lui nella mia testa’». Di fronte a quel volto quadrato che lo raffigurava, Mussolini approvò pienamente il suo ritratto e stringendo calorosamente la mano all’artista si complimentò dicendo che si trattava veramente di un’opera d’arte. Il 28 ottobre 1923, in occasione del primo anniversario della Marcia su Roma, il gesso di quel potente ritratto di Mussolini venne esposto per la prima volta all’inaugurazione della Casa del Fascio di Milano; l’anno successivo era presente alla Biennale di Venezia la sua fusione in bronzo, mentre nel 1925 era visibile all’Esposizione Internazionale d’Arti Decorative di Parigi. In breve tempo, quella scultura del Duce in marmo o in bronzo divenne simbolo ufficiale del regime, giungendo nelle principali mostre italiane ed europee, e fu riprodotta in numerose immagini a stampa su giornali, cartoline, libri, testi scolastici. Era una sorta di potente feticcio, un’immagine del potere che ebbe un’ampia diffusione. Alla Galleria d’Arte Moderna di Milano è tuttora esposta la maschera che Wildt eseguì nel 1924 su lastra di marmo verde.

Inizialmente il ritratto fu oggetto di critiche, collocato in posizione così elevata, in una tribuna alla Biennale di Venezia del 1924: «grosso, tozzo all’esagerazione il Mussolini è foggiato, conciato, diremo meglio, alla romana», scriveva La Stampa, e inoltre con la fronte troppo bassa ma, come affermò Ojetti, ormai era un’immagine che viveva di vita propria tanto divenne popolare, trascinando con essa anche il suo autore.

Nella nuova sede dell’Università di Milano ve n’era un bronzo vicino al ritratto del re; sulle pareti delle aule scolastiche la sua immagine era affiancata al re e al Crocifisso e nel 1934 la celebre foto Paoletti del busto in gesso di profilo si trovava sul frontespizio dei tredici volumi editi da Hoepli degli Scritti e Discorsi di Benito Mussolini.

San Francesco FOTO SOPRA:

Adolfo Wildt, San Francesco (1926; marmo

con nimbo in bronzo dorato, 45 x 47 x 29 cm; Forlì, Musei Civici)

Solo tre anni più tardi rispetto alla prima esposizione del ritratto del Duce, Wildt presentò alla Biennale di Venezia un altro busto-ritratto che mostrava al pubblico ancora un personaggio di potere, questa volta però dell’ambiente ecclesiastico: Pio XI, al secolo Achille Ratti, pontefice dal 1922 al 1939, anno della sua morte. Ideata e cominciata nel 1924, l’opera monumentale venne terminata due anni dopo e fu affiancata alla Biennale del 1926 al San Francesco: al primo sguardo si nota il carattere opposto delle due sculture messe in dialogo nella stessa edizione della Biennale. Quel San Francesco dal volto esile, in cui si ritrova il tratto gotico di cui si accennava precedentemente, e che Ojetti descrisse «con un bardiglio da pecorella, con gli occhi da bimbo tardivo e stupefatto», era in netto contrasto con il potente, solenne e austero Pio XI. E la stessa potenza e solennità è ulteriormente evidenziata dalla grande mitria dorata che il pontefice porta fieramente sul capo (si pensi a come l’utilizzo di elementi in oro rimandasse all’importanza e alla singolarità del soggetto ritratto). La superficie marmorea di Pio XI è minuziosamente rifinita con cura orafa: per questo aspetto FINESTRE SULL’ARTE • 37

aspetto troppo irreale poiché troppo lucido, il ritratto del pontefice fu definito vuoto, come un grande vaso di porcellana bianco e oro, simile a quelli realizzati da Giò Ponti per la Ginori. In effetti l’opera suscitò una rilevante quantità di critiche: da Margherita Sarfatti che, dopo aver notato il confronto tra l’ascesi gotica del San Francesco e la «cattolicità guerriera, milizia bellicosa e trionfale» di Pio XI, affermò che alcuni particolari, come il collo e le mani, apparivano troppo minutamente e minuziosamente realistici rispetto all’austera ieraticità dello stile, a Lancellotti, secondo il quale Wildt non era riuscito a rendere la maestà papale per aver fatto «di questo marmo una cosa preziosa lucidandolo come un avorio e curandolo in ogni particolare». Inoltre il critico d’arte Michele Biancale ebbe da dire sulla scelta allestitiva della scultura alla Biennale: la statua era stata posta al centro della rotonda sotto la luce diretta di un lampadario di Venini: «la santità del Pio XI è eterizzata dall’ametista del grande lampadario muranese del Venini che colma di bagliori mobili i rilievi accentuati del volto, che sotto il ricchissimo triregno sembra un campioncino di maestà pontificali». Oggi la monumentale scultura è custodita nei Musei Vaticani.

L’espressione del potere fu affrontata dall’artista attraverso un ulteriore personaggio di spicco che aveva un ruolo influente sulla popolazione: re Vittorio Emanuele III. Il suo busto in bronzo è simile per forma e dimensioni a quello di Mussolini e simboleggia la forza, evocata dai tralci di quercia posti attorno alla testa. Il ritratto bronzeo, appartenente alla Galleria d’Arte Moderna di Milano, raffigura il re come un eroe vittorioso, e destò ancora una volta gli elogi della Sarfatti, la quale affermò che questo era un «bellissimo esempio di ritratto eroicizzato, pur nella maestosa imponenza somigliante e fedele ai fini lineamenti del Sovrano. Nessun ritrattista ufficiale, anzi, ne rese mai con tanta precisione la pensosa gentilezza di stirpe.

Ma questo sforzo vi si palesa nel tormento del ceselSan Sebastiano lo sul marmo, scavato e stilizzato alla guisa di certe FOTO SOPRA: Cosmè Tura, San Sebastiano (1460-1465 maschere orientalizzanti del tardo romano impero».

Quest’opera infatti appariva più realistica del Pio XI: i circa; tempera su tavola, 74,5 x 32 cm; Berlino, Staatliche tratti del volto erano più naturali, seppur anch’essi miMuseen, Gemäldegalerie) nuziosamente dettagliati. Realizzata nel 1929, l’opera raffigurante re Vittorio Emanuele III, salito al trono venne associato alle finezze dell’Officina ferrarese di nel 1900 a seguito dell’uccisione di suo padre UmberCosmè Tura e di Francesco del Cossa o a un Uomo to I da parte dell’anarchico Gaetano Bresci, venne red’arme di Bramante. Nonostante ciò, a causa del suo plicata più volte in marmo e in bronzo; il particolare 38 • FINESTRE SULL’ARTE

della testa fu visibile al pubblico alla Fiera Internazionale di Milano del 1930 e l’anno dopo il volto marmoreo venne esposto alla prima Quadriennale di Roma.

Non a caso Wildt eseguì i ritratti di questi personaggi, tra loro legati dalle vicende storiche contemporanee all’artista: figure di potere che in quell’epoca possedevano il controllo in tutti gli ambiti, sia governativo, che ecclesiastico. Nello stesso anno della Marcia su Roma, il 1922, Pio XI divenne infatti pontefice, e in seguito fu Vittorio Emanuele III a chiedere al Duce di formare un governo.

lerata negli ultimi anni, almeno a partire dagli inizî del nuovo secolo, con una rinnovata ondata di studî dedicati alla sua produzione, e mostre significative).

Rileggere oggi l’arte di Wildt senza pregiudizî significa intanto conoscere uno dei più grandi artisti del primo Novecento, recuperare il suo contributo restituendolo al posto che gli spetta nella storia dell’arte, e calarsi nel contesto storico, sociale e culturale in cui lavorò, e in seconda battuta equivale anche ad avanzare, più o meno esplicitamente, una riflessione più lucida e ponderata sui rapporti tra arte e politica, senza che si ecce-

Quando Wildt eseguì il ritratto di Mussolini, non diede forma a un soggetto ma, come ha sottolineato la studiosa Elena Pontiggia, a un tipo ideale, colto con sensibilità visionaria. È indubbio che per molti anni ha pesato, sulla considerazione e sul giudizio relativo all’opera di Wildt, l’associazione della sua arte al regime fascista, e lo scultore ha subito una damnatio memoriae che per diverso tempo ha impedito una serena collocazione critica della sua opera (la riscoperta è cominciata negli anni Ottanta con gli studî di Paola Mola, e ha conosciuto un’acce-

da nell’uno o nell’altro verso, ribadendo con fermezza la condanna per certe scelte e senza omettere ciò che dev’essere raccontato e spiegato, ma nel quadro di una corretta contestualizzazione della sua produzione e riconoscendo l’indiscutibile valore delle sue opere e la misura dell’apporto che ha garantito alla storia dell’arte. ◊

Bibliografia essenziale Stephen Gundle, Christopher Duggan, Giuliana Pieri, The Cult of the Duce: Mussolini and the Italians, Oxford University Press, 2015 Rachele Ferrario, Margherita Sarfatti, Mondadori, 2015 Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Le arti e il fascismo: Italia anni Trenta, Giunti, 2014 Paola Mola (a cura di), Wildt. L’anima e le forme, catalogo della mostra (Forlì, Musei San Domenico, dal 28 gennaio al 17 giugno 2012), Silvana Editoriale, 2012 John W. O’ Malley, Storia dei Papi, Fazi Editore, 2011 Elena Pontiggia, Da Boccioni a Sironi: il mondo di Margherita Sarfatti, Skira, 1997

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| LA CRITICA

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Autoritratto storico-politico

conversazione con Michele Dantini a cura di Francesca Della Ventura

Come procedono le ricerche sulle trasformazioni dell’arte nel passaggio da primo a secondo Novecento, in un momento cruciale come gli anni che subito seguono la seconda guerra mondiale?

Tra difficoltà e nuove proposte, uno dei momenti fondamentali per rileggere la storia dell’arte di quegli anni (e non solo) è il libro Autoritratto di Carla Lonzi, pubblicato nel 1969. Un contributo per sottolineare gli aspetti salienti di quel saggio fondamentale.

F

rancesca Della Ventura: Lo studio delle “continuità|discontinuità” storico-artistiche fra primo e secondo Novecento, ovvero gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, necessita ancora di analisi approfondite, malgrado gli anni in questione appaiano cruciali. A questo proposito tu suggerisci, a mio avviso correttamente, che gli storici dell’arte si aprano più risolutamente alle ricerche degli storici politici e della cultura.

Autoritratto FOTO PAGINA A FIANCO:

La prima edizione di Autoritratto di

Carla Lonzi (De Donato Editore, Bari, 1969)

Michele Dantini: Occorre tener conto che l’interpretazione storico-artistica della transizione tra fascismo e Repubblica, cui dedico alcune ricerche nel mio libro più recente, Arte e politica in Italia tra fascismo e Repubblica, prevede alcune difficoltà. Per motivi storici, politici e militari, per frammentarietà e mimetismi, il Novecento italiano è per larghi tratti più simile a una tradizione diasporica che non alle tradizioni continentali. Una seconda difficoltà è poi legata allo specifico “oggetto” della storia dell’arte. “Evento” è qui infatti l’opera d’arte stessa; e questa non è mai la semplice illustrazione di circostanze politiche o sociali.

Francesca Della Ventura: Gli studi riguardanti la storia dell’arte nel periodo di transizione fra Fascismo FINESTRE SULL’ARTE • 41

e Repubblica non sono numerosi, talvolta anche a causa dell’estrema dispersione degli archivi. È interessante che tu segnali Miti e ideologie di Niccolò Zapponi, apparso nel 1981, come uno dei migliori testi di storia culturale dedicato al tema “continuità|discontinuità”.

Michele Dantini: Miti e ideologie ha il merito di chiarire alcune questioni primarie, proponendo un avvicinamento tra storia politica, storia dell’arte e antropologia culturale. Zapponi è ben cosciente del contributo che le opere d’arte hanno offerto nel corso del Novecento alle religioni politiche e ai processi di consenso in ambito di regimi dittatoriali. E sottrae alcuni movimenti del secondo dopoguerra a una troppo facile e unilaterale consacrazione da Sinistra.

Zapponi tuttavia si interessa prioritariamente di storia letteraria, soprattutto la poesia dei “novissimi” e il Gruppo 63. Talune sue categorie critico-storiografiche (“internazionalizzazione” ad esempio, o “secola-

Carla Lonzi FOTO SOTTO:

Ritratto di Carla Lonzi

rizzazione”) smettono di funzionare se traslate all’ambito della storia figurativa. Questo è interessante.

Francesca Della Ventura: Carla Lonzi è figura emblematica e innovativa non solo per l’arte italiana del secondo dopoguerra, ma anche per il pensiero femminista di quegli anni. Uno dei suoi testi critici più significativi è Autoritratto, pubblicato nel 1969. Lonzi pubblica qui una serie di conversazioni registrate fra il 1965 e il 1969 e condotte a quattordici artisti, tutti uomini, eccetto Carla Accardi. Il risultato del riassemblaggio delle conversazioni operato dalla Lonzi è un testo in cui la critica e gli artisti conversano fra di loro su argomenti diversi.

Michele Dantini: Autoritratto raccoglie affermazioni e testimonianze di vari artisti di due diverse generazioni postbelliche, la prima, interprete dell’immediato dopoguerra e della Ricostruzione; e la seconda, all’apice negli anni immediatamente successivi al boom e all’“americanizzazione” dei consumi. Nigro, Rotella, Consagra, Scarpitta, Turcato, Alviani, Accardi appunto. E poi Castellani, Paolini, Kounellis, Fabro, Pascali. Twombly è introdotto sulla scena ma resta muto per l’intera durata della conversazione-“convito”. Non appartiene invece né all’una né all’altra generazione il convitato più anziano di Autoritratto, Lucio Fontana, esponente della generazione dell’entre-deux-guerres qui chiamato da Lonzi a rivestire il duplice ruolo di mentore e trait d’union tra le due metà del secolo. Gli artisti qui sono introdotti da Lonzi anche come testimoni di un’importante fase di transizione della storia italiana, e incoraggiati a parlare liberamente: sono anche testimoni civili.

Francesca Della Ventura: Uno dei punti più interessanti di Autoritratto è quello in cui Pascali paragona l’“artista italiano” all’“artista americano”...

Michele Dantini: Per Pascali l’“artista italiano” è predestinato a una sorta di separatezza o isolamento.

Perché ha come unici interlocutori i componenti di una comunità ristretta, composta per lo più da amici, appassionati, collezionisti e intenditori. Non tutti mali vengono per nuocere: questo gli garantisce gioco e libertà, come Pascali riconosce. Al tempo stesso è evidente il suo rammarico per l’impossibilità di svolgere un ruolo più ampio. Al contrario, l’“artista americano” fa parte di una società che ha le sue stesse credenze e memorie,

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e dispone di una cerchia più larga cui rivolgersi.

Francesca Della Ventura: Come tu stesso segnali in un tuo ampio saggio di imminente pubblicazione, Pascali stesso ammette di far parte di un mondo artistico contemporaneo in cui l’arte stessa non ha alcuna conseguenza storica o sociale effettiva.

disponibili a autori, temi e ideologie provenienti da tutt’altre tradizioni, varie e conflittuali tra loro ma accomunate dal tratto antistoricista, anche di Destra.

Cattolicesimo comunitarista e “mistico”, radicalismo angloamericano, controcultura hippie, socialismo utopico ottocentesco, ecologismo radicale, “Germania segreta”. È una circostanza, questa, segnalata per prima proprio da Zapponi, con riferimento all’ambito

Lo studio della storia dell’arte fra primo e secondo Novecento necessita ancora di analisi approfondite, e occorre che gli storici dell’arte si aprano più risolutamente alle ricerche degli storici politici e della cultura.

Michele Dantini: L’artista pugliese definisce in effetti le proprie installazioni come una sorta di surrogato di una sfera pubblica assente: esse suscitano negli spettatori l’illusione di partecipare alla vita pubblica.

Le affermazioni di Pascali si comprendono meglio quando si contestualizzano e si riferiscono anche al particolare rapporto che, a questa data, tiene assieme gli artisti della generazione più giovane e la Repubblica nata dall’antifascismo. In Autoritratto troviamo inquietudini storico-politiche che hanno equivalenti nella storiografia contemporanea e nelle riviste della Sinistra radicale. Anche l’antiamericanismo degli anni Sessanta, di cui Autoritratto è un documento di tutto rilievo, si presta a studi più accurati a venire. Autoritratto, è evidente, segna allora, in tacita coincidenza con l’inizio della fortuna italiana di Beuys, quel momento storico-artistico in cui, nel nostro paese, da posizioni che si vogliono di Sinistra critica, ci si rende per la prima volta

Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione FOTO SOPRA:

filosofico e letterario; da lui però datata alla seconda metà degli anni Ottanta.

Francesca Della Ventura: Si può dire dunque che Autoritratto dà inizio ad un momento storico-artistico in cui da posizioni nettamente di Sinistra si passa a tenere in conto ideologie che sono contraddittorie, alcune delle quali derivanti dalla Destra. Un percorso politico e culturale che avrà il suo punto nevralgico all’inizio degli anni Ottanta, con l’affermazione del Partito Socialista di Bettino Craxi, in cui una certa ideologia patriottica è il fil-rouge alla base anche di alcune “riletture artistiche” degli anni Venti e Trenta (basti pensare, ad esempio, all’importanza ideologica di una mostra quale Gli Anni Trenta. Arte e Cultura in Italia, curata da Renato Barilli, vicino al PSI, e datata 1982).

Michele Dantini: Autoritratto sfiducia determinate narrazioni resistenziali. Questo è. E determinate pregiudiziali storiografiche sembrano mostrare la corda a taluni tra i convitati di Lonzi, anche se Lonzi stessa appare relativamente defilata rispetto a simili questioni. È probabile che proprio l’aggressività politica, militare e americana faccia cadere, assieme ad altre circostanze, aut aut considerati sino ad allora invalicabili; e incoraggi a avviare politiche della memoria (anche artistica) di tipo affatto diverso. ◊

Giulio Paolini, Teresa nella parte di

Giovanna d’Arco in prigione (1969; Torino, Collezione Anna Paolini Piva). Opera realizzata per Carla Lonzi.

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| ATTUALITÀ

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Mecenatismo culturale

E

siste ancora una cultura del mecenatismo in Italia? E in caso affermativo, quanto è diffusa? Solitamente, quando si pensa al rapporto tra cultura e investimenti nel nostro paese, si tende a rilevare una sorta di paradosso: malgrado si continui a insistere con la retorica che descrive l’Italia come il paese dell’arte (fino addirittura a scadere nelle bufale che di volta in volta assegnano al nostro paese presunte percentuali, peraltro sempre improbabili, di opere d’arte sul totale mondiale), allo stesso tempo occorre registrare come il sostegno alla cultura sia ancora lontano da quello che si registra in altri paesi europei, dove il mecenatismo è un istituto che ha una storia recente molto più viva e articolata. La Francia, per esempio, già dal 2003 ha introdotto una legge che garantisce un credito d’imposta pari al 60% della donazione a chi garantisce somme per sostenere la cultura: secondo l’associazione Admical, che dal 1979 promuove il mecenatismo in ogni settore (dal sociale allo sport, dalla cultura all’istruzione) e ogni anno stila accurati report sull’andamento e sull’evoluzione del mecenatismo, nel 2016 (l’anno per il quale sono disponibili i rilevamenti più recenti), l’istituto del mécénat culturel ha portato al patrimonio ben 500 milioni di euro. Per fare un raffronto con l’Italia, nei primi tre anni e mezzo di vita di Art Bonus, il credito d’imposta del 65% delle erogazioni liberali, sono entrate nelle casse pubbliche somme pari a circa 200 milioni di euro. Certo: in Francia la cultura del mecenatismo è più radicata e ha una storia recente più longeva, ma le cifre indicano che l’Italia ha

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ancora molto terreno da recuperare.

Nell’ambito di un quadro complessivo fatto di necessità urgenti e immediate e di risorse che si faticano a trovare, una strategia che favorisca il mecenatismo (non soltanto quello delle grandi aziende, ma anche quello delle piccole imprese e dei privati cittadini) è imprescindibile per un paese che intenda rendere più sostenibile la spesa per la cultura e al contempo riesca ad aumentare gli investimenti in un settore che è fondamentale anche per lo sviluppo economico e sociale: investire in cultura significa anche abbattere le spese in altri settori.

Certo, negli ultimi anni, in Italia è cresciuto l’interesse verso il tema del mecenatismo culturale, ma siamo ancora molto indietro rispetto a tanti altri paesi europei dove il rapporto tra pubblico e privato è più virtuoso, e dove molti musei e istituti pubblici riescono ad attirare fondi e investimenti privati con maggior successo.

Quali sono i principali problemi che i mecenati devono affrontare nel nostro paese? Su quali aspetti dovrebbe intervenire la politica con più urgenza? Come fare in modo che aziende e privati investano in cultura (per esempio, in manutenzione e conservazione di beni pubblici, in sostegno ai musei, alle biblioteche, agli archivi, ai parchi, ai teatri, alle fondazioni lirico sinfoniche per le loro attività, in organizzazione di mostre... )? In Italia è sufficientemente diffusa, presso aziende e privati, la mentalità del mecenate? Ne abbiamo parlato con direttori di musei, imprenditori, dirigenti, docenti universitari esperti del settore.

PATRIZIA ASPRONI PRESIDENTE CONFCULTURA E PRESIDENTE MUSEO MARINO MARINI, FIRENZE

“Money, it’ s a gas”, suonavano una volta i Pink Floyd. Il tema della sostenibilità si è ormai esteso a tutto il contesto economico e sociale. La UE con il suo nuovo ciclo di programmazione 2030 ne ha riconosciuta la centralità, configurando uno schema a tre pilastri fondato appunto su una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile. E la cultura è certamente trasversale rispetto a questi tre fronti rappresentando d’altro canto il quarto pilastro della sostenibilità.

Può una forma di crescita umana sociale (e politica) fare a meno della sostanza culturale? Certamente no. È sostenibile un modello sociale ed economico in cui la cultura non rappresenti una direttrice di investimento? La risposta è retorica. Eppure gli ultimi anni mostrano come l’intervento pubblico si sia dolorosamente contratto proprio sul settore culturale. Serve allora trovare vie complementari perché la crescita “a base culturale” non ammette sospensioni. Da qui l’importanza del mecenatismo e del fundraising, spesso intesi come un unico specifico.

Nell’enciclopedia Treccani al primo corrisponde la definizione “tendenza a favorire le arti e le lettere, accordando munifica protezione a chi le coltiva” e il mecenate è indicato come colui che è “generoso, illuminato”. Illuminato: così si può considerare chi sostenga un progetto artistico o culturale, perché capace di vedere in esso qualcosa che altri occhi non riescono a scorgere. Il fundraising è la pratica di “raccolta fondi”, un processo che per il valore sociale dei suoi obiettivi rende indispensabile un approccio strutturato , fondato su skills e professionalità specifiche, senza improvvisazione e con molta strategia: la raccolta fondi

è un passaggio di un modello di restituzione sociale dell’investimento, in cui il coinvolgimento dei donatori non ha solo un obiettivo economico ma è piuttosto un tool di partecipazione sociale.

Tale pratica è fortemente riconosciuta nei paesi anglosassoni e lì accompagnata da adeguate politiche di defiscalizzazione. A mio parere queste due “competenze” sono state confuse nel ruolo e nella funzione dall’introduzione dell’Art Bonus. Iniziativa dalle intenzioni lodevoli ma dalle applicazioni spesso farraginose, come dimostrato da una partecipazione ancora troppo scarsa rispetto alle potenzialità. È quindi arrivato, credo, il momento di pensare ad un mecenatismo 5.0, che guardi al futuro. Ovvero, non solo denaro. Beninteso, le risorse finanziarie sono indispensabili e le donazioni ancora di più, ma può non essere abbastanza.

Il tessuto culturale italiano (fitto e vivace, a dispetto di stime parziali e piagnistei) è fatto di tantissime associazioni e organizzazioni culturali che non hanno bisogno solo di supporto economico ma anche (spesso soprattutto) di competenze. Il valore di queste ultime per la cultura, oggi, non è da meno di quello del denaro, perché allo stesso modo permette di trasformare le idee in progetti autosufficienti e a loro volta generatori di valore, economico, sociale e umano.

Accade ancora che brillanti intuizioni, a volte perfino rivoluzionarie, evaporino non di fronte alla carenza di risorse ma a quella di indicazioni professionali: legali, fiscali, di marketing o comunicazione, per esempio.

Eppure in molti casi basterebbe il suggerimento su un benchmark o un consiglio sul posizionamento, un incrocio utile di contatti per possibili collaborazioni, un’informazione su un bando di gara europeo per reperire fondi o (considerata anche la rigidità della nostra burocrazia) un supporto nella raccolta delle informazioni utili all’avvio dello stesso progetto culturale.

Chi è in possesso di competenze di questo tipo e volesse metterle a disposizione gratuitamente, deve essere definito, a buon diritto, mecenate. Ossia, un prestatore di servizi professionali che (come accade già da tempo e in modo sistematico negli States) contribuisce alla vita e alla sostenibilità di istituzioni e attività culturali tanto quanto un finanziatore.

Ci sono professionalità ormai fuori dal ciclo proFINESTRE SULL’ARTE • 45

duttivo che potrebbero così essere indirizzate verso contributi in consulenze temporanee ma strutturate e focalizzate su progetti specifici, in modo da capitalizzare gli interventi e contribuire al raggiungimento degli obiettivi. E poiché la cultura è bene comune, mettere a disposizione esperienza e conoscenza per valorizzarla è un atto di senso civico. E poi, volete mettere l’orgoglio di essere definiti mecenati culturali? Non ha prezzo.

tegica. Nel mecenatismo c’è utopia, uno spirito romantico che spinge a voler condividere le cose facendo tutto quello che è nelle proprie possibilità, un atteggiamento libero che io sinceramente intorno a me non vedo. Del resto è quasi inevitabile trarre un tornaconto da un buon investimento in arte: io che ero conosciuto per la mia azienda leader nel settore dei materiali elettrici adesso ormai non sono quasi più ricordato come imprenditore ma la maggior parte delle persone mi conosce come fondatore di un museo.

GIULIO BARGELLINI IMPRENDITORE E FONDATORE DEL MUSEO MAGI ‘900, PIEVE DI CENTO

PIERO BOCCARDO DIRETTORE DEI MUSEI DI STRADA NUOVA, MUSEO

Io in realtà non credo che nell’età contemporanea sia cresciuto un vero interesse per il mecenatismo culturale. Forse, e lo dico provocatoriamente ma lo penso davvero, in Italia dei veri mecenati non ce ne sono. Nella mia visione un mecenate è uno che fa le cose perché le sente e le vuole fare, non perché ha un tornaconto in termini di immagine, o di sgravî fiscali, o di strategia politica. Il mecenatismo culturale deve essere passione, non si fonda sulle leggi, sulle strategie, sulla mentalità imprenditoriale che spinge a investire in arte.

Sia chiaro, favorire l’impiego di capitali privati a sostegno della cultura, della conservazione, del restauro è importantissimo. Lo Stato da solo non può farcela ed è giusto che le imprese possano trovare una motivazione utile nel decidere di impiegare parte delle loro risorse intervenendo sul bene pubblico. Credo che non sarebbe poi così difficile arrivare a capire come fare a motivare imprese e privati a investire in cultura. Ma questo per me non è mecenatismo, è intelligenza stra-

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DI SANT’AGOSTINO E MUSEO DEL TESORO, GENOVA

Nonostante l’Italia appaia ancora molto indietro rispetto ad altri paesi europei dove il rapporto tra pubblico e privato è più virtuoso, e dove molti musei e istituti pubblici riescono ad attirare fondi e investimenti privati con maggior successo, un cambiamento significativo è stato prodotto in seguito all’approvazione, nel 2014, del decreto legge che ha istituito il cosiddetto Art bonus ovvero un credito d’imposta pari al 65% dell’importo donato per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo quale incentivo del mecenatismo a favore del patrimonio culturale. Tanto più che il suo funzionamento, via internet (artbonus.gov.it), è abbastanza agile sia da parte del museo (o Soprintendenza) che propone un intervento, sia da parte di chi decide di assumersene il relativo costo e beneficiare del credito di imposta. Nonostante i buoni esiti dell’Art bonus, finora non è comunque una procedura ben nota né alle aziende, né ai privati.

In altri paesi, in particolare gli Stati Uniti, la deduzione è pari quasi al 100% e questo spiega la nascita di gruppi americani di sostegno economico ai restauri di intere città, per esempio Venezia (Save Venice), o di istituzioni (Friends of FAI), ma all’estero dove i musei godono di più autonomia gestionale e sono soggetti a molti meno vincoli politici e amministrativi, i musei stessi hanno favorito la nascita di associazioni americane di sostegno per un singolo istituto museale (la recente nascita degli American Friends of Capodimonte lascia comunque ben sperare).

Quello che è molto importante, e che in Italia non è facile ottenere dai mezzi di comunicazione, è che all’intervento del mecenate, in particolare se si tratta di una società o di un’impresa, segua un adeguato ritorno di immagine, ovvero si ottenga la visibilità che l’entità dell’erogazione liberale merita. Sicché (bisogna ammetterlo) è più facile che operazioni di questo genere riguardino città (Milano, Roma, Firenze) che garantiscono una maggior attenzione da parte del pubblico.

è infatti possibile detrarre il 65% delle donazioni che le singole persone e le imprese fanno a favore di beni culturali pubblici: sul tema del mecenatismo questo rappresenta per l’Italia un grande passo avanti che pone il nostro paese in linea con le migliori pratiche al livello internazionale.

A seguito dell’azione di sostegno e promozione dell’Art bonus, che ha previsto anche numerose iniziative di formazione/informazione sul territorio nazionale, i dati registrati sul portale www.artbonus. gov.it all’inizio del 2019 contemplavano oltre 1500 enti beneficiarî iscritti, 10.000 mecenati ed un totale di erogazioni liberali pari a 320 milioni di euro.

Sulla base dei risultati ottenuti in questi primi anni di applicazione si ritiene che la legge abbia riscosso un grande successo a tutti i livelli: sia da parte degli enti potenziali beneficiarî, sia da parte dei mecenati. In tutta Italia, anche se a diverse velocità, si stanno promuovendo iniziative di fundraising creando una nuova cultura di gestione del patrimonio culturale che vede finalmente pubblico e privato non in antitesi ma partner strategici.

I cittadini, le imprese e le fondazioni bancarie hanno giocato un ruolo chiave rispondendo con entusiasmo e partecipazione potendo beneficiare, da un lato, di un credito di imposta favorevole e, dall’altro, di una procedura estremamente semplice: l’unico adempimento previsto è un bonifico con una causale riportante le informazioni indicate dal beneficiario!

Certamente ci sono aspetti migliorabili che riguardano da un lato l’allargamento dei potenziali beneficiarî e delle raccolte fondi ammissibili (al momento circoscritte prevalentemente ai beni culturali pubblici ed ai soggetti dello spettacolo finanziati dal CAROLINA BOTTI FUS), dall’altro al limite di spettanza del credito d’imposta annuo per le imprese (oggi 5 per mille DIRETTORE CENTRALE ALES S.P.A. E REFERENTE dei ricavi), ma chiaramente queste estensioni devoMIBAC PER ART BONUS no fare i conti con le coperture finanziare da assicuIn Italia, con l’articolo 1 del D.L. 31.5.2014, n. rare alla misura fiscale.

83, è stato introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a sostegno della cultura e dello spettacolo, il cosiddetto Art bonus, con l’intento di incentivare il mecenatismo a favore del patrimonio culturale pubblico.

L’Art bonus rappresenta un’autentica rivoluzione nell’ambito della cultura e introduce strumenti concreti ed operativi per sostenere, tutelare e valorizzare il patrimonio culturale. Con l’Art bonus FINESTRE SULL’ARTE • 47

ALESSANDRO CROCIATA ECONOMISTA DELLA CULTURA, DOCENTE DI ECONOMIA APPLICATA, GRAN SASSO SCIENCE INSTITUTE, L’AQUILA

Benché si parli molto dell’argomento e ci siano iniziative, in Italia, presso le aziende e presso i privati, non è diffusa la mentalità del mecenate. Si è poi sedimentata un’idea vecchia e obsoleta della figura del mecenate, inteso come colui che eroga una parte della propria ricchezza per amore e piacere dell’arte. Ma se oggi vogliamo parlare di mecenatismo dell’arte, dobbiamo necessariamente sostenere un cambio di paradigma: sostenere l’arte non significa semplicemente allocare parte di una ricchezza prodotta altrove, cioè dalla fortuna e dal benessere del mecenate, distraendola dalle sue proprietà, verso un settore che assorbe ricchezza.

Questo è sbagliato: bisogna ragionare in termini di investimenti, certamente con una ricchezza prodotta altrove, ma che viene allocata per produrre nuova ricchezza attraverso la produzione di un nuovo valore. È dunque il modello che deve cambiare: occorre cercare di far capire perché sostenere l’arte e la cultura (anche se non è semplice), ovvero perché è un investimento, dal momento che l’accesso alla cultura consente agli individui di potenziare il proprio modello mentale. In altri termini: i consumi culturali e la pratica culturale consentono all’individuo un empowerment, che è un qualcosa che gli altri beni non dànno e che permette di potenziare le capacità individuali attraverso un allargamento del modello mentale. Questo avviene per una serie di meccanismi che dipendono dalla tipicità del bene culturale stesso, che è un bene complesso, e chi consuma richiede l’acquisizione di uno stock di informazioni, di capacità e di conoscenze, e già questo richiede un’apertura. Altro elemento è, per esempio, l’asimmetria informativa che caratterizza i beni cul48 • FINESTRE SULL’ARTE

turali, dove per “asimmetria informativa” s’intende l’impossibilità di valutare preventivamente la qualità del bene culturale: per esempio, questo avviene quando si va a teatro a vedere uno spettacolo, e non lo si può valutare bene finché non lo si sta consumando.

Questo espone a un rischio, ovvero si compra qualcosa non potendo valutare la sua qualità, e la propensione al rischio rende l’individuo più proattivo. Questa proattività (che è peraltro un modo per misurare la sua flessibilità mentale) colloca l’individuo lungo un sentiero di azioni positive per se stesso e per la società che lo ospita (per esempio, lo porta ad avere maggior rispetto per l’ambiente). Di conseguenza, il comportamento virtuoso dell’individuo può anche dipendere in ultima analisi da una dotazione di capitale culturale che l’individuo accumula durante gli anni. Questo capitale culturale può essere fornito dal pubblico o dal privato, che possono favorirlo. E allo stesso tempo la proattività dell’individuo permette risparmî economici: un investimento preventivo in cultura permetterebbe risparmî notevoli, per esempio, in termini di politiche ambientali, o anche in termini di politiche sanitarie. Ci sono tantissimi studî che dimostrano come l’accesso culturale migliori il benessere psicologico: se noi pensiamo che, almeno nel 2013, la quota maggiore di spesa pubblica per sanità era destinata all’ospedalizzazione per malattie depressive, potremmo agevolmente verificare quanto l’accesso culturale faccia diminuire il tasso di ospedalizzazione per queste malattie, con un risparmio notevole in termini macroeconomici di risorse pubbliche allocate sulla sanità.

Anche questo fa parte della produzione di valore, e di conseguenza emerge facilmente come non stiamo più parlando di un mecenate che eroga ricchezza prodotta altrove semplicemente per il gusto del bello o per il piacere estetico in termini ottocenteschi.

Altro tema rilevante è cercare di capire come le aziende possano beneficiare di questa apertura mentale: un approccio potrebbe essere, per esempio, quello delle imprese creative driven, che sta fiorendo anche nel nostro paese seppur, al momento, con timidi accenni. Significa portare l’arte e la cultura all’interno delle aziende, ma non come semplice esposizione al bello, che comunque è sempre un plus che si dà per migliorare la salubrità degli ambienti di lavoro, ma portando processi creativi in azienda e facendo partecipare il lavoratore a questi processi creativi: questo gli permette di maturare un’apertura mentale che può essere misu-

rata attraverso, per esempio, la riduzione di conflitti è solo importante il singolo contributo da parte interpersonali, la capacità di orientarsi verso il problem dei soci, ma più che altro l’invito a far partecipasolving, l’aumento della produttività. re cittadini e visitatori per dare loro occasione di identificarsi con il museo. Vogliamo che tornino con la famiglia o altri amici. Man mano si svilupperanno rapporti più duraturi, si troveranno dei donatori generosi.

CECILIE HOLLBERG DIRETTORE DELLA GALLERIA DELL’ACCADEMIA, FIRENZE

Probabilmente la cosa più semplice è trovare dei benefattori che offrano dei finanziamenti di piccole entità per interventi di restauro; a queste donazioni solitamente il museo risponde con benefit quali visite speciali, targhe con ringraziamenti, eccetera. Naturalmente, queste offerte di finanziamento sotto forma di restauro dipendono sempre dal luogo in cui si trova il museo e da quanti altri soggetti possono essere interessati a presentare un’offerta simile.

Il vantaggio, con minori limitazioni d’ordine burocratico, lo offrono i cosiddetti “friends”: la costituzione di una fondazione o associazione di “amici del museo” concede ai soci più libertà di spesa e meno vincoli, un’amministrazione più snella e nello stesso momento anche un rapporto con il museo più durevole. Nel 2017 abbiamo fondato l’Associazione degli Amici della Galleria dell’Accademia di Firenze con la quale ora siamo entrati nel terzo anno di attività. Già nel primo anno abbiamo ricevuto una donazione di un busto in marmo per le nostre collezioni.

Questo è un risultato molto soddisfacente e non scontato da ottenere in Italia. In altri paesi, un museo come la Galleria dell’Accademia di Firenze avrebbe diverse associazioni a supporto e potrebbe chiedere ai soci delle quote molto più elevate di quelle da noi richieste. Tuttavia non

STEFANO L’OCCASO STORICO DELL’ARTE, MINISTERO DEI BENI CULTURALI

Suppongo che un alleggerimento dell’apparato burocratico annesso a sponsorizzazioni ed erogazioni liberali (Art Bonus) possa essere un primo passo per agevolare queste procedure. E forse potrebbe essere utile una formula intermedia tra le due modalità sopra dette. A voler interpretare rigidamente la norma, chi offre una sponsorizzazione ha diritto a una visibilità mediatica, ma non a detrazioni d’imposta; viceversa, chi accede alle erogazioni liberali, ha diritto a una visibilità minima. Una soluzione intermedia potrebbe essere d’aiuto? Uno strumento di tal fatta potrebbe essere almeno oggetto di una sperimentazione. Un ulteriore stimolo potrebbe essere la “commistione” tra i cosiddetti “canoni concessorî” e il mecenatismo: talvolta il confine è sfumato.

Altro problema riguarda la formazione delle figure o l’utilizzo di professionalità capaci di operare a favore del mecenatismo. Nell’ampio spettro delle realtà museali, abbiamo visto esempi straordinarî, a esito tuttavia di esperienze individuali e non di una competenza diffusa. Ancora: si potrebbe ragionare su una rete di collaborazione, per far sì che la “visibilità” dei beni di maggior risalto possa servire ad attrarre risorse anche a sostegno delle istituzioni che, per loro natura, offrono minor richiamo agli investimenti. A esempio, adotFINESTRE SULL’ARTE • 49

tando alcuni beni simbolo come vetrina per contributi di applicazione all’arte contemporanea. Siamo tutti destinati anche a beni più bisognosi ma di minor “fa- coscienti dell’inestimabile valore del nostro patrimoscino”, quanto meno da un punto di vista mediatico. nio storico, delle cure e degli ingenti finanziamenti che richiede, penso però sia fondamentale cercare di porlo in una stringente relazione di continuità con il presente e con la produzione artistica attuale. L’arte italiana del domani è necessariamente legata al sostegno degli artisti del presente. È quanto mi sono personalmente prefissata quando ho costituito la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel 1995, offrendo loro uno spazio espositivo ma anche e soprattutto il supporto alla produzione di opere e progetti. Nel settembre 2014 ho fondato il Comitato Fondazioni Arte Contemporanea, composto da 14 istituzioni private, la cui prima missione è stata l’interlocuzione con il Ministero. Dal comune scambio di visioni e di expertise, si è sviluppato l’Italian Council, il principale progetto della Direzione PATRIZIA SANDRETTO RE REBAUDENGO Generale Arte e Architetture Contemporanee e Periferie del Mibact. Attraverso un bando, giunto oggi alla PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE SANDRETTO RE terza edizione, l’Italian Council valorizza il talenti del REBAUDENGO, TORINO nostro paese favorendo la collaborazione tra musei La parola mecenate è ritornata da qualche tempo nel pubblici e privati, come nel caso dell’opera Atlante delle nostro vocabolario. Ha perso la sua patina antiquata storie omesse realizzata a Pompei da Lara Favaretto nel ed è entrata a far parte, a tutti gli effetti, del lessico 2018, cofinanziato dalla Fondazione Sandretto Re Redella cultura. È un fatto positivo. Significa che nella baudengo e dal Museo Madre di Napoli. Credo prosfera dei rapporti fra pubblico e privato qualcosa sta fondamente in questo tipo di esperienze e, d’altra parcambiando. Sono convinta che il fenomeno del mece- te, in tutte quelle iniziative che schierano i privati a natismo italiano crescerà ma non sarà un processo favore dell’arte e della cultura contemporanea. Ho breve. Gli esempî internazionali sono ottimi sempre voluto che la Fondazione Sandretto Re Remodelli ma dovremo cercare la nostra strada. baudengo fosse in prima fila.

Occorre tenere conto infatti che per esempio negli Stati Uniti i musei sono istituzioni private, sostenute dallo Stato solo in minima parte.

Il contrario di quanto accade nel nostro paese.

L’introduzione dell’Art Bonus nel 2014 (la normativa, resa stabile nel 2016, che consente un credito d’imposta pari al 65% dell’importo donato), incentiva le erogazioni liberali a sostegno del patrimonio culturale pubblico italiano, contribuendo in modo decisivo a dare valore e visibilità al mecenatismo. Il programma del Mibact, Chiamata alle arti. Mecenati d’oggi per l’Italia di domani, lancia un appello forte alla responsabilità dei MICHELE TRIMARCHI singoli cittadini, delle istituzioni e delle aziende private. L’Art Bonus presenta però a mio avviso alcune pro- ORDINARIO DI CULTURAL ECONOMICS, UNIVERSITÀ blematiche che andrebbero risolte, come l’esclusione DI BOLOGNA dei beni privati dai possibili beni oggetto della donazione. Soprattutto, è una misura rivolta verso l’ambito Nel sistema culturale italiano i luoghi dell’arte (mudelle antichità e manca ancora di uno specifico ambito sei, teatri, siti archeologici, eccetera) sono tuttora 50 • FINESTRE SULL’ARTE

isolati in torri d’avorio di norma prive di connessioni permeabili con il tessuto urbano e pertanto con la comunità che lo abita o lo visita. Preda di turisti di massa frettolosi, i luoghi dell’arte non registrano quella partecipazione quotidiana della quale godono in molte esperienze straniere. Un’impresa o anche un mecenate stabiliscono di sostenere un’istituzione culturale e le sue attività in quanto condivisa da un’estesa comunità che comprende tanto neofiti quanto appassionati; non è un caso che in Italia l’interesse degli sponsor (parlare di mecenatismo è comunque prematuro) si rivolge al Teatro alla Scala, al Colosseo e alla Fontana di Trevi. C’è un ventaglio di sponsor locali che sostengono con sforzi comunque contenuti le più importanti istituzioni del proprio territorio (ad esempio i teatri d’opera), ma manca una cultura del mecenatismo che può passare solo attraverso una convinta e ampia partecipazione civica, il che presuppone un elevato grado di permeabilità materiale e simbolica dei luoghi dell’arte rispetto ai flussi individuali e collettivi che riempiono gli spazi urbani e spesso lambiscono musei e teatri senza mai poterci entrare e trascorrere del tempo. La questione è culturale, dunque, e dipende dall’ossessione di considerare la cultura speciale, il che la continua a mantenere estranea nei confronti della vita quotidiana. La cultura ha tanti fattori specifici, ma certo non ha nulla di speciale: di fatto parla di noi e delle nostre vite.

che purtroppo rappresentano un tema spinoso per chiunque voglia investire in cultura nel nostro paese.

Se guardiamo quello che succede all’estero, a paesi che hanno una tradizione consolidata in questo senso, vediamo che esistono sistemi di defiscalizzazione molto efficienti, in grado di attrarre e incentivare investimenti e donazioni da parte di privati, siano essi imprese o singoli cittadini: il tutto avviene in modo semplice e trasparente, con benefici per chi riceve ma anche per chi dona, che non rimane attanagliato nella macchina della burocrazia. Da noi non funziona così, anche se va detto che dei tentativi recentemente sono stati fatti: penso soprattutto all’Art Bonus introdotto dall’ex ministro Franceschini, che sicuramente ha aiutato molte grandi organizzazioni ad avvicinarsi al mondo della cultura e dell’arte, intervenendo soprattutto nel campo della conservazione e del restauro dei nostri beni culturali. L’Art Bonus non è uno strumento perfetto, ma sicuramente un primo passo meritevole in questa direzione, su cui si potrebbe continuare a lavorare. Va dato atto anche all’attuale ministro Bonisoli di aver avviato una serie di tavoli di lavoro tematici con i rappresentanti del mondo della cultura, per mettere a fuoco le specifiche necessità dei vari comparti. Questo atteggiamento di apertura fa ben sperare soprattutto noi che ci occupiamo di arte contemporanea e di produzione culturale, non di conservazione e tutela, che abbiamo delle necessità più specifiche, essendo un settore per definizione in costante evoluzione.

Mi auguro che ci sia poi il tempo di elaborare gli stimoli raccolti, trasformandoli in progetti, decreti, leggi... dando continuità al lavoro fatto, senza disperderlo per poi ricominciare daccapo.

BEATRICE TRUSSARDI IMPRENDITRICE E PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE NICOLA TRUSSARDI, MILANO

Se vogliamo parlare di mecenatismo in ambito culturale, o più in generale di rapporto pubblico-privato, non possiamo prescindere dalle questioni fiscali, FINESTRE SULL’ARTE • 51

| RENDEZ-VOUS

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Cosimo I de’ Medici FIRENZE

testo di Claudia Farini

Nel 2019 ricorre il quinto centenario della nascita di Cosimo I de’ Medici, venuto alla luce il 12 giugno del 1519: fu il primo granduca di Toscana, ed è passato alla storia per aver allargato i confini dello stato mediceo, per la sua accorta politica estera e per il suo mecenatismo. Sotto il suo governo fiorì il Cinquecento fiorentino e videro la luce molti capolavori, tra i quali uno dei monumenti simbolo di Firenze: gli Uffizi, che tuttavia Cosimo non riuscì a veder terminati.

Nel 2019 ricorre il cinquecentenario dalla nascita del primo granduca di Toscana: Cosimo I de’ Medici (Firenze, 1519 – 1574), figlio di Maria Salviati e del celebre condottiero conosciuto come Giovanni dalle Bande Nere, ma nato Ludovico de’ Medici. Firenze ha ospitato e ospiterà per tutto il 2019 mostre, conferenze e spettacoli teatrali volti ad approfondire i trentasette anni di governo del duca: il suo ruolo all’interno della dinastia medicea, il suo contributo all’unificazione della Toscana, e il suo enorme apporto al patrimonio artistico. Tra le adesioni a questa serie di manifestazioni culturali da parte dei varî enti fiorentini, particolare

interesse riveste quella dell’Accademia delle Arti del Disegno, la cui sede è stata teatro di un ciclo di sei conferenze, che riprenderà da settembre, intitolato Cosimo I mezzo millennio.

Cosimo I de’ Medici FOTO PAGINA A FIANCO:

Agnolo di Cosimo Tori detto

Bronzino, Ritratto di Cosimo I de’ Medici (1545 circa; olio su tavola, 74 x 58 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture) FINESTRE SULL’ARTE • 53

La storia dell’antico istituto, infatti, è strettamente legata alla figura del duca che, nel 1563, sancì la nascita dell’“Accademia et Compagnia dell’Arte del Disegno”, ratificandone lo statuto, in accoglienza della richiesta avanzata da Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574) e altri artisti, al fine di tutelare e promuovere lo studio delle arti. Nonostante nel corso dei secoli l’Accademia sia stata sciolta, rifondata e più volte dotata di nuovi statuti, è da quella cinquecentesca che inizia il suo percorso storico.

Il 31 gennaio del 1563 venne elevato a nume tutelare dell’istituto Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 –

al suo servizio, e dovette limitarsi ad accoglierne a Firenze le spoglie.

Al 1559, però, risalgono una serie di lettere che Vasari indirizzava al Buonarroti, su richiesta di Cosimo, per avere indicazioni riguardo i lavori di completamento che stavano conducendo in due importantissimi ambienti da lui lasciati incompiuti: la Sagrestia Nuova e la Biblioteca, presso il complesso di San Lorenzo.

Per quanto attiene alla Sagrestia, vista anche la scarsa collaborazione di Michelangelo, i progetti finirono per risolversi, nell’insieme, in pochi interventi riguardanti la sistemazione della sepoltura di Lorenzo il Magnifico

La politica culturale di Cosimo era tesa ad affermare la preminenza dell’arte e della lingua toscana nel contesto culturale italiano come riflesso del prestigio politico dello stato mediceo.

Roma, 1564), ancora in vita, eletto dai membri riuniti «Guida, Padre, Maestro». E difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, se si pensa alla considerazione che dell’anziano maestro avevano gli artisti fiorentini, primo tra tutti Vasari, strettissimo collaboratore di Cosimo I a partire dal 1554. Il biografo aretino, com’è noto, indicava Michelangelo quale uno dei più alti esempî a cui guardare nella pratica delle arti, mandato, scriveva nell’edizione giuntina delle sue Vite, dalla Provvidenza proprio per mostrare «che cosa sia la perfezzione nell’arte del disegno, nel lineare, dintornare, ombrare e lumeggiare, per dare rilievo alle cose della pittura e con retto giudizio operare nella scultura».

Più avanti, inoltre, precisava che poiché «nella pittura, nella scultura e nell’architettura, gli ingegni toscani sempre sono stati fra gli altri sommamente elevati e grandi» la volontà divina assegnò a Buonarroti proprio Firenze «dignissima fra l’altre città» come patria.

Nella politica culturale di Cosimo, tutta tesa ad affermare la preminenza dell’arte e della lingua toscane nel contesto culturale italiano, come riflesso del prestigio politico dello stato mediceo, Michelangelo ebbe un ruolo chiave (nonostante la sua decisione di non fare mai ritorno a Firenze dopo la partenza del 1534).

Lo dimostra anche la scelta di concedergli, nel 1564, esequie pubbliche e solenni, al cui programma e alla cui realizzazione lavorarono molti membri dell’Accademia. Infatti, nonostante i suoi numerosi tentativi in tal senso, il duca non riuscì mai ad averlo direttamente 54 • FINESTRE SULL’ARTE

e del fratello Giuliano, con la traslazione dei corpi e la collocazione dell’apparato scultoreo, la pulitura delle membrature architettoniche, la realizzazione degli arredi liturgici. Nel secondo caso, invece, l’anziano artista partecipò, per quanto possibile, più attivamente, e inviò un modello in creta per la scalinata del ricetto della Biblioteca, sul quale lavorò, elaborandolo e concretizzandolo, Bartolomeo Ammannati (Settignano, 1511 – Firenze, 1592).

Osserva Emanuela Ferretti, nel saggio Vasari, Ammannati e l’eredità di Michelangelo nei cantieri di San Lorenzo che «se Dante è l’insuperato campione del volgare e della supremazia linguistica toscana, così Michelangelo è espressione del primato fiorentino sulle arti». È faci-

Sagrestia Nuova A FIANCO IN ALTO:

Firenze, veduta della Sagrestia Nuova

verso la tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, opera di Michelangelo. Foto di Andrea Jemolo

La Tomba del Magnifico e di Giuliano de’ Medici A FIANCO IN BASSO:

La tomba di Lorenzo il Magnifico e

Giuliano de’ Medici nella Sagrestia Nuova.

Foto di Andrea Jemolo

Cosimo I de’ Medici FOTO A SINISTRA:

Alessandro Allori, Ritratto di Cosimo I (1572; ardesia, diametro 112 cm; Firenze, Palazzo Vecchio, Studiolo di Francesco I)

le intuire, alla luce di queste considerazioni, come un altro organismo fu in tal senso molto importante: l’Accademia Fiorentina, sorta, per volere del duca, già nel 1541 dallo scioglimento e dalla ricostituzione, con diverso nome e con un preciso ordinamento interno, di quella degli Umidi, fondata l’anno prima, tra gli altri, da Luca Martini e Giovanni Mazzuoli.

Nel trasformare una libera e privata associazione di letterati in un’istituzione ufficiale, Cosimo presentava se stesso come continuatore del celebrato mecenatismo mediceo e, soprattutto, si assicurava l’impegno di dotti umanisti, stipendiati come funzionarî dello stato, nella promozione linguistica del toscano, e in particolare del modello dantesco e petrarchesco, tramite lezioni, commenti e una consistente produzione poetica. Oltre, evidentemente, a garantirsi un controllo più stringente su quanto quei dotti scrivevano.

Tutto ciò assume un’ importanza ancora più degna di nota se si considera il percorso di Cosimo I. Egli proveniva da un ramo secondario della famiglia dei Medici, e ottenne improvvisamente la responsabilità della guida di Firenze nel 1537, a diciotto anni, a se56 • FINESTRE SULL’ARTE

guito dell’assassinio del duca Alessandro, che morì in assenza di eredi legittimi. Posto al comando senza alcuna preparazione, esclusivamente in forza di una bolla dell’imperatore Carlo V del 1530, in cui si stabiliva che se Alessandro fosse morto senza prole legittima, il potere sarebbe passato al parente più prossimo, Cosimo riuscì, nel corso degli anni, a costruire per se stesso e per il proprio stato una posizione di primo piano nel complesso panorama italiano.

Se non arrivò mai a conquistare la corona di re di Toscana, sua massima e forse inattuabile aspirazione, poté comunque, primo tra i Medici, indossare quella granducale che gli venne concessa da papa Pio V con una cerimonia solenne nel 1570. Al primato toscano nel campo delle arti, che promosse e di cui si servì, riuscì ad accostare la precedenza politica, per dignità, del granducato sugli altri stati territoriali. Tuttavia i primi anni non furono semplici. Pochi mesi dopo l’ascesa al comando il giovane Medici, con l’aiuto di milizie imperiali già inviate da Carlo V in gennaio, dovette combattere a Montemurlo i numerosi fuoriusciti fiorentini, con a capo Filippo Strozzi.

Eleonora di Toledo FOTO IN ALTO:

Agnolo di Cosimo Tori detto Bronzino,

Ritratto di Eleonora di Toledo con il figlio Giovanni de’ Medici (1545; olio su tavola, 115 x 96 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture)

I dissidenti avevano preso le armi mossi dall’intenzione di rovesciare il dominio mediceo e da quella, ormai anacronistica, di restaurare la Repubblica. La vittoria ducale fu piena e decisiva. Ma, nonostante il supporto asburgico, il legame politico tra Cosimo e questa potentissima famiglia di sovrani, fu duraturo quanto, FINESTRE SULL’ARTE • 57

58 • FINESTRE SULL’ARTE

Il Salone dei Cinquecento FOTO PAGINA A FIANCO IN ALTO: Il

Salone dei Cinquecento

in Palazzo Vecchio.

Cappella di Eleonora FOTO PAGINA A FIANCO IN BASSO:

La Cappella di Eleonora

in Palazzo Vecchio.

spesso, ambiguo.

Cosimo, sebbene molto giovane, capiva certamente che senza l’appoggio imperiale non sarebbe riuscito a imporre il suo governo. Allo stesso modo l’imperatore aveva tutto l’interesse di mantenere stabile lo stato fiorentino e di scongiurare nuovi sollevamenti. Ma per ottenere ciò necessitava di un alleato fidato, la cui potenza fosse controllabile. Anche per questo mai, durante il suo regno, accettò di concedere al nobile fiorentino la sovranità su Siena, territorio che nel disegno espansionistico di quest’ultimo ricopriva un’importan-

celebre tavola degli Uffizi. L’immagine di Eleonora restituita da questo ritratto di stato, di cui molte copie vennero realizzate, possiede tutte le caratteristiche della ritrattistica più felice dell’artista, pittore ufficiale di corte, che raffigura più volte tutti i membri della famiglia ducale. Eleonora, leggermente di tre quarti, impassibile, con la mano destra poggiata sulla spalla del piccolo Giovanni, nella purissima qualità della luce, è figura esemplare del proprio rango sociale, definito oltre che dal suo contegno, dalla preziosa seta bianca dell’abito, decorata con motivi ad arabesco e melograno stilizzato, e dai vistosi gioielli. L’eleganza e la ricchezza di cui è vestita la sua persona sono celebrazione del prestigio del consorte e della dinastia.

Ovviamente anche il duca fu effigiato dal Bronzino, che lo dipinse in più occasioni (coinvolgendo anche la propria bottega) sia in veste militare che, quarantenne, in abiti di corte. Nel dipinto degli Uffizi, anch’esso il primo di un notevole numero di repliche con e senza varianti, e anch’esso databile al 1545, Cosimo si fa ritrarre con indosso l’armatura e lo sguardo concentra-

Nel 1570 Cosimo ottenne la corona di granduca, che gli fu concessa da papa Pio V con una solenne cerimonia. za centrale. A poco valsero le numerose prove di fedeltà date da Cosimo, i suoi sforzi bellici per la causa imperiale, nonché le ingenti somme di danaro concesse in prestito. Fu il figlio di Carlo, Filippo II di Spagna, a cedere, infeudando il territorio senese al ducato di Firenze nel 1557. Da parte sua il duca, soprattutto in età avanzata, non si fece scrupoli a praticare spesso la via degli accordi segreti con i regnanti francesi, per lungo tempo rivali degli Asburgo, con cui si contendevano il controllo sulla Penisola.

In ogni caso, nei primi anni del suo governo, ciò che gli premeva di più era rinsaldare al meglio i legami con la nobiltà vicina alla casata imperiale, e ci riuscì unendosi in matrimonio con Eleonora di Toledo, figlia di don Pedro Álvarez che governava il Regno di Napoli come viceré per conto di Carlo V. Si sposarono nel 1539 e due anni dopo nacque il loro primo figlio maschio, Francesco, futuro secondo granduca di Toscana.

Nel 1545 la duchessa venne immortalata, insieme al quarto figlio Giovanni, da Agnolo di Cosimo Tori, conosciuto come Bronzino (Firenze, 1503 – 1572), nella

to, aristocraticamente distaccato.

Tuttavia, come osservato da Elizabeth Pilliod nel suo saggio Cosimo I and the Arts, è il busto bronzeo con cui lo ritrae Benvenuto Cellini (Firenze, 1500 – 1571), ancora nel 1545, a costituire «la più esplicita affermazione di potere» prodotta dall’arte del duca, di cui è efficacemente veicolata l’immagine di «vigile guerriero pronto a difendere la sua gente e il suo territorio». Nell’opera, oggi conservata al Museo Nazionale del Bargello, Cosimo è presentato secondo la maniera dei ritratti imperiali, con l’armatura abilmente cesellata, il volto altero girato di tre quarti e, ben in vista, la collana con l’insegna del prestigioso Ordine del Toson d’Oro in cui venne ammesso per volere di Carlo V. Forse proprio in forza della sua potenza espressiva, nel 1557 il busto fu scelto per essere posto a presidiare le fortificazioni di Portoferraio fatte erigere dal Medici, al quale il nuovo imperatore Ferdinando I aveva assegnato il territorio.

L’opera è la prima prova affrontata da Benvenuto di ritorno dalla corte francese, e anticipa di poco la commissione ducale per il Perseo, ancora oggi collocato sotto la Loggia dei Lanzi (seppure privo del piedistallo FINESTRE SULL’ARTE • 59

Per Cosimo fu importante anche l’affermazione della propria immagine: per questa ragione commissionò molti ritratti ai tanti grandi artisti della Firenze dell’epoca. originale che è conservato al Bargello).

Il bronzo dell’eroe che ha sconfitto la Gorgone, concepito come pendant della scultura Giuditta e Oloferne di Donatello, all’epoca anch’essa sotto la Loggia, fu conclusa e consegnata solo nel 1554. Circa nove anni di lavorazione, che vengono raccontati con enfasi da Cellini all’interno della sua autobiografia, e che si concludono con un singolare doppio trionfo: quello pubblico di Cosimo sui nemici del ducato, potentemente riaffermato dall’episodio mitologico prescelto, e quello personale di Cellini di cui si legge tra le pagine della Vita, su coloro che considera i suoi rivali, i suoi detrattori, e sulle enormi difficoltà tecniche dell’impresa.

Il 1554 è un anno importante nel contesto del mecenatismo ducale anche per un’altra ragione: iniziò la prolifica collaborazione con Giorgio Vasari. Fino a quel momento la sua presenza alla corte di Cosimo era stata estremamente limitata, ed era opinione dell’artista che ciò fosse da ricondurre all’influenza che sul duca 60 • FINESTRE SULL’ARTE

aveva avuto Pier Francesco Riccio, suo ex precettore e maggiordomo di corte. Così, dopo il ritiro di questi a vita privata, nel 1553, Vasari rientrò a Firenze. Probabilmente aveva contribuito alla sua chiamata anche la morte, avvenuta pochi anni prima, di Niccolò Pericoli, noto come Tribolo (Firenze, 1500 – 1550), scultore e architetto al quale era stato affidato l’importante compito di soprintendere ai giardini ducali, primo tra tutti quello di Boboli, legato al Palazzo Pitti che era stato acquistato nel 1550 da Eleonora e Cosimo per farne la nuova reggia ducale. Infatti fu proprio Vasari a subentrare nei progetti di Tribolo a Boboli, ma anche a Castello. Tuttavia la più importante impresa in cui l’artista aretino venne inserito sin dal suo arrivo furono i lavori all’interno di quello che oggi è detto Palazzo Vecchio, dei quali, in breve tempo acquisì la direzione.

Subito dopo il matrimonio, nel 1540, la coppia ducale aveva lasciato la residenza in Via Larga per trasferirsi nell’antico Palazzo dei Priori, da quel momento ribat-

Arazzi medicei FOTO A SINISTRA:

Gli arazzi medicei nella Sala dei

Duecento a Palazzo Vecchio.

tezzato “Ducale”. Scelta evidentemente molto significativa: nell’edificio che era stato la sede delle autorità della Repubblica veniva a insediarsi in quel momento il sovrano con la sua famiglia. Altrettanto significativa però fu la decisione di risparmiare la mole arnolfiana della costruzione, culla della civiltà fiorentina, senza abbattere, e limitando il più possibile gli interventi alla ridistribuzione interna degli spazî. In questo senso è interessante ciò che scrive Vasari nei Ragionamenti, in cui illustra a Francesco I come suo padre il duca abbia salvato le «mura maternali» del Palazzo «per avere esse, con questa forma vecchia dato origine al suo governo nuovo». Cosimo non intendeva porsi come colui che seppellisce la memoria della Repubblica, ma come il sovrano che ne conservava la storia e ne perfezionava, sostituendola, la guida politica.

Per tutti gli anni Quaranta si susseguirono i necessarî lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’edificio, su direzione dell’intagliatore e architetto Battista di Marco del Tasso (Firenze, 1500 circa – 1555), che si era fatto apprezzare soprattutto per il suo progetto della Loggia del Mercato Nuovo. Le strutture dovevano adeguatamente ospitare gli ambienti abitativi del nucleo famigliare, del seguito di corte (sebbene questo fosse molto contenuto, almeno all’inizio) e, chiaramente, le nuove

aule di rappresentanza. I primi spazî a essere restaurati e decorati furono le stanze dell’appartamento della duchessa, tra le quali la Cappella di Eleonora, ambiente ricavato dal Tasso e riccamente affrescato, a partire dal 1540, dal Bronzino. Successivamente Vasari operò nel Quartiere di Leone X, al primo piano del Palazzo e nel Quartiere degli Elementi al secondo. I suoi compiti riguardarono la correzione di alcuni interventi architettonici del Tasso, la creazione di nuove stanze e la decorazione pittorica, al cui programma iconografico lavorò con il suo amico Cosimo Bartoli, membro dell’Accademia Fiorentina. Lo affiancarono nella pittura Cristofano Gherardi, Marco Marchetti da Faenza e Jan van der Straet, non semplici esecutori, ma validi aiuti anche nell’ideazione.

Ancora nei Ragionamenti il maestro aretino spiega a Francesco il rapporto simbolico che lega i due quartieri sovrapposti: ogni sala del nucleo architettonico al primo piano è dedicata a un personaggio della famiglia Medici, di cui sono narrate le principali vicende, e a ciascuna corrisponde, nel quartiere soprastante, un ambiente in cui è svolto un soggetto mitologico presentato come affine, con finalità celebrative. Così vennero creati una serie di abbinamenti molto significativi: alla prima stanza con episodî tratti dalla vita di papa Leone X, considerato iniziatore della fortuna cinquecentesca della famiglia, corrisponde, al piano di sopra, quella decorata con allegorie degli Elementi, che sono all’origine del mondo; a Cosimo il Vecchio e al nipote Lorenzo sono abbinate, rispettivamente, le divinità legate alla fecondità e all’abbondanza, Cerere e Opi; al secondo papa mediceo, Clemente VII, il dio Saturno (in questo caso gli affreschi con le storie del dio decorano non una sala ma un terrazzo, costruito sulla vecchia Torre di Nembrot). Il condottiero Giovanni dalle Bande Nere e il figlio Cosimo I, infine, incarnano, secondo questi paralleli, l’ardore di Ercole e la potenza di Giove. In tale sintesi tra passato e presente e nella identificazione degli “Dèi terrestri” come li chiama Vasari, con quelli celesti, è svolto il tema della celebrazione dinastica.

Operazioni molto importanti, ovviamente, furono riservate anche al Salone dei Cinquecento, originariamente voluto dal Savonarola per accogliere le sedute del ConFINESTRE SULL’ARTE • 61

siglio Maggiore. Nell’imponente sala, che in età repubblicana avrebbe dovuto ospitare i leggendarî affreschi di Leonardo e Michelangelo, Cosimo I intervenne dai primi anni del suo trasferimento nel Palazzo, con la commissione dell’“Udienza”, che doveva chiudere la testata nord. L’opera fu affidata a Baccio Bandinelli (Firenze, 1488 – 1560) per la parte scultorea raffigurante il duca Alessandro, Cosimo I, suo figlio, il padre Giovanni, Leone X in trono e Clemente VII in atto di incoronare Carlo V imperatore. Alla progettazione architettonica lavorò invece Giuliano di Baccio d’Agnolo (Firenze, 1491 – 1555). Il complesso marmoreo, ispirato al modello dell’arco di trionfo romano, venne concluso, dopo la morte di Bandinelli, da Vasari che rialzò il palco sottostante, aggiunse l’ordine tuscanico superiore, e inserì le decorazioni in stucco dorato. È significativo che questo sia il primo lavoro promosso dal duca per il Salone: la collocazione dell’“Udienza”, che doveva fungere da quinta al trono ducale, è chiaramente volta a riaffermare il cambiamento politico di cui è teatro il Palazzo, e la condizione di sottomissione dei sudditi qui accolti.

Dal 1563 Vasari fu chiamato, con numerosi aiuti, ad alzare il soffitto e ad affrescarlo insieme alle pareti, e gli fu richiesto di terminare i lavori nel giro di due anni af-

finché il Salone fosse pronto per le nozze di Francesco I e Giovanna d’Austria. Il programma iconografico è vasto e teso ancora una volta all’esaltazione della figura del sovrano con l’illustrazione delle vittorie militari, le allegorie delle città del ducato e, nel centro del soffitto, l’apoteosi di Cosimo incoronato dalla personificazione di Firenze.

Negli stessi frenetici anni, l’aretino seguì il progetto dell’edificio che avrebbe dovuto costituire la nuova sede delle Magistrature fiorentine, gli organismi amministrativi della Repubblica. Esse sopravvissero nel nuovo regime, ma vennero concepite dal duca esclusivamente quali strumenti esecutivi sotto il suo controllo. Private delle loro prerogative e parificate l’una all’altra per importanza, dovevano essere ospitate, nel disegno di Cosimo, all’interno di un edificio sobrio e funzionale, che fosse espressione tanto della loro livellatura, quanto dell’assoggettamento al potere ducale. Dal 1559, quindi, Vasari lavorò al progetto del palazzo che fu chiamato “Fabbrica dei XIII Magistrati” e, più tardi, semplicemente “Uffizi”.

Il sito per la costruzione venne individuato tra il Palazzo e l’Arno, e nel 1560 iniziarono gli scavi, a cui seguì la posa della prima pietra l’anno successivo. Alcune Ma-

Cosimo I de’ Medici FOTO A SINISTRA:

Benvenuto Cellini, Busto di Cosimo I de’ Medici (1545-1547; bronzo, altezza 110 cm; Firenze, Museo del Bargello)

62 • FINESTRE SULL’ARTE

gistrature s’insediarono a partire dal 1568, ma i lavori sarebbero stati conclusi solo agli inizî degli anni Ottanta. Né il committente né l’architetto, che morirono entrambi nel 1574, avrebbero visto la struttura terminata, e comunque già dieci anni prima, con la consegna (più formale che sostanziale) del comando da Cosimo al figlio Francesco I, Vasari veniva gradualmente estromesso dalla fabbrica.

L’artista passò così, in breve tempo, a un altro progetto, su richiesta della famiglia: l’edificazione del Corridoio che doveva collegare il Palazzo Ducale con la residen-

stamento. Come Cosimo I, infatti, il personaggio biblico, figlio di Giacobbe, proviene da un ramo secondario della famiglia e come lui è, nonostante questo, destinato al comando.

I cartoni vennero realizzati dal Bronzino (a cui è riferita la maggior parte di essi), dal suo maestro Pontormo e da Francesco Salviati, mentre la realizzazione dei tessuti fu affidata ai fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. Fu questa la prima esperienza dell’arazzeria istituita a Firenze dal duca, su direzione dei due artisti nordici, che stipularono con lui un contratto in cui si impegnavano a

Al 1554 risale l’inizio della prolifica collaborazione con Giorgio Vasari. A lui si deve il progetto di una delle maggiori imprese del governo di Cosimo: la costruzione degli Uffizi. za Pitti, dall’altra parte del fiume. Scavalcando case e botteghe su Ponte Vecchio, il passaggio fu costruito per permettere ai Medici di trasferirsi agevolmente da un edificio all’altro senza mai toccare il suolo cittadino, e venne portato a termine in soli otto mesi.

In conclusione di questo excursus sulla figura di Cosimo I in qualità di committente, pur considerata l’impossibilità di trattare tutti gli interventi del duca durante i suoi quasi quarant’anni di regno, è forse importante accennare almeno a un ultimo tema: l’arazzeria. In occasione del cinquecentenario, infatti, sono stati ricondotti a Firenze dieci arazzi che facevano parte del ciclo di venti panni fatti tessere, tra il 1546 e il 1553, da Cosimo per decorare interamente la sala dei Duecento in Palazzo Ducale. Il soggetto scelto per quest’impresa artistica è quello della vita di Giuseppe, desunto dall’Antico Te-

tenere ventiquattro telai, di cui almeno la metà doveva essere sempre attiva, anche allo scopo di permettere la formazione di giovani apprendisti. Veniva così a essere istituita, in un momento di grande fortuna degli arazzi, la manifattura medicea, tra le prime in tutta la Penisola.

Nel 2014 si è tenuta la mostra itinerante Il Principe dei sogni, ospitata a Roma, Milano e Firenze, che riuniva per la prima volta, dopo più di un secolo, il ciclo di venti panni, smembrato nella seconda metà dell’Ottocento tra la città toscana e la capitale. A distanza di cinque anni, in occasione delle celebrazioni per la nascita di Cosimo, gli arazzi tornano a essere esposti nel loro insieme, a rotazione di quattro per volta, nella Sala dei Duecento. ◊

Bibliografia essenziale Umberto Dorini, I Medici. Storia di una famiglia, Odoya, 2015 Francis Ames-Lewis, Artistic centres of the italian Renaissance. Florence, Cambridge University Press, 2012 Marco Ariani, Arnaldo Bruni, Anna Dolfi, Andrea Gareffi, La Parola e l’immagine. Studi in onore di Gianni Venturi, Olschki Editore, 2011 Cristina Acidini, Giacomo Pirazzoli (a cura di), Ammannati e Vasari per la città dei Medici, Pagliai, 2011 Claudia Conforti, Vasari, Mondadori Electa, 2010 Roberto Cantagalli, Cosimo I de’ Medici, Mursia, 1985 Ettore Allegri, Alessandro Cecchi (a cura di), Palazzo Vecchio e i Medici, S.P.E.S., 1980, Firenze

FINESTRE SULL’ARTE • 63

| GRAND TOUR

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La Camera degli Sposi MANTOVA

testo di Lorenzo Bonoldi

La Camera degli Sposi di Mantova, nota anche come “Camera Picta”, è uno degli ambienti più famosi di tutto il Rinascimento: affrescata tra il 1465 e il 1474 da Andrea Mantegna per il marchese Ludovico Gonzaga, è un capolavoro che celebra l’illustre committente ma si pone anche come una delle realizzazioni più radicalmente originali e innovative della sua epoca.

Camera degli Sposi Andrea Mantegna, affreschi della Camera degli Sposi (1465-1474; Mantova, Castello di San Giorgio), veduta dell’ambiente.

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A

mmirata da secoli e definita “la camera più bella del mondo” già nel 1475 (vale a dire a un solo anno dalla conclusione dei lavori di decorazione), la Camera degli Sposi richiama ancora oggi a Mantova centinaia di migliaia di visitatori ogni anno. Opera simbolo del Rinascimento italiano, la Camera Picta (come viene chiamata nei documenti antichi) è senza ombra di dubbio uno dei più grandi capolavori di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506).

L’artista, padovano di nascita e cittadino della Repubblica di Venezia, venne insistentemente invitato a Mantova dal signore della città Ludovico Gonzaga, a partire dal 1458. L’invito venne definitivamente accettato solo all’inizio degli anni Sessanta del Quattrocento, quando il pittore si stabilì in città con l’intera famiglia. Da quel momento il Mantegna, già artista di acclamata fama, legò il proprio nome a quello di Mantova in maniera indissolubile, al punto tale che Giorgio Vasari arriverà a chiamarlo erroneamente “pittor mantoano” nelle sue Vite.

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Scena della Corte FOTO SOPRA: Parete

nord della Camera degli Sposi,

scena della Corte.

Andrea Mantegna fu al servizio della corte gonzaghesca per oltre quattro decennî, lavorando per tre diverse generazioni del casato. Nove di questi anni furono impiegati per dipingere le pareti della Camera Picta. Le coordinate temporali di questo lungo cantiere pittorico sono riportate per iscritto all’interno della camera stessa: nella targa sorretta da putti alati sopra la porta di ingresso è riportata la data della fine dei lavori, il 1474, inserita all’interno dell’iscrizione dedicatoria. La data di inizio è invece nascosta, dipinta come un finto graffito nel finto marmo che decora la strombatura di uno dei vani delle finestre. Vi si legge “1465 di 16 junii”, ovvero 16 giugno 1465.

L’intera decorazione pittorica della Camera tende a ridefinire (e al contempo a impreziosire) lo spazio architettonico reale. I finti bassorilievi che ornano

la volta, su finti fondi a mosaico dorato, sono così mirabilmente eseguiti, che spesso possono essere scambiati per opere effettivamente tridimensionali. Le pareti della stanza sono dipinte in maniera tale da sembrare le arcate di un padiglione retto su pilastri, e di sovente il confine fra lo spazio fisico e

preziosi tendaggi lavorati a intrecci geometrici di ispirazione moresca o a motivi a griccia, elemento decorativo particolarmente in voga nelle corti più raffinate del Rinascimento. I tendaggi appaiono chiusi su due delle quattro pareti. Sulle altre, invece, essi appaiono aperti, scostati o addirittura av-

Straordinario capolavoro e opera simbolo del Rinascimento italiano, la Camera degli Sposi (detta anche “Camera Picta”) si deve al genio di Andrea Mantegna che la affrescò tra il 1465 e il 1474. la scena affrescata si fa estremamente labile: alcuni cani, ad esempio, appoggiano le loro zampe sulla cornice dell’affresco, come a varcare il limite fra realtà e finzione artistica.

Fra i pilastri che fingono di reggere la volta è dipinta una sbarra metallica, a cui sono appesi

Scena dell’Incontro FOTO SOTTO:

Parete ovest della Camera degli Sposi,

scena dell’Incontro.

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L’oculo Il celebre oculo della Camera degli Sposi.

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volti attorno ai pilastri del padiglione, allo scopo di mostrare allo spettatore cosa accada al di là di essi.

Sulla parete del camino, nota come “scena della Corte”, compare un grande ritratto collettivo della corte gonzaghesca. Il committente dell’opera, Ludovico Gonzaga, secondo marchese di Mantova, è qui ritratto attorniato da figli e figlie, da cortigiani e consiglieri. Fra i personaggi che lo affiancano spicca la moglie Barbara Hohenzollern di Brandeburgo, di nobilissima stirpe tedesca, giunta in sposa a Mantova nel 1433, all’età di soli dieci anni. I membri della coppia marchionale sono gli unici personaggi ritratti da seduti. Tutti gli altri sono in piedi, in segno di rispetto. Sotto i piedi dei Gonzaga sono raffigurati pregiati tappeti orientali. Si tratta di un elemento iconografico oltremodo interessante, e spesso inosservato, che racconta la ricercatezza e il lusso della corte. Tappeti simili a questi si ritrovano in altre opere di Mantegna, ad esempio nel Martirio di San Cristoforo nella cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova e nella maestosa Pala di San Zeno a Verona.

Fra i personaggi che circondano il marchese e sua moglie vengono raffigurati anche due personalità di spicco, figure chiave di quel clima di rinnovamento culturale e artistico che vide i Gonzaga fra i principali protagonisti. Nel personaggio attempato, con il berretto nero e lo sguardo mesto rivolto in basso, ritratto immediatamente dietro Ludovico (e da lui parzialmente nascosto) si è soliti riconoscere la figura di Vittorino da Feltre (Feltre, 1378 circa – Mantova, 1446), che proprio a Mantova aveva fondato la Ca’ Zoiosa, la scuola alla quale si formarono alcune delle figure più celebri del Rinascimento. Fra queste, oltre agli stessi Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, anche Federico da Montefeltro (futuro duca di Urbino) e Gregorio Correr (futuro abate di San Zeno, nonché committente della celebre pala mantegnesca). Per quanto Vittorino fosse morto già da quasi vent’anni al momento dell’inizio dei lavori nella Camera Picta, è verosimile pensare che il marchese di Mantova lo abbia fortemente voluto ritratto al suo fianco, a significare con anacronistico omaggio la sua riconoscenza al maestro per gli insegnamenti ricevuti. Del resto anche Federico da Montefeltro volle che un’effige di Vittorino fosse posta all’interno del suo celebre Studiolo nel Palazzo Ducale di

Urbino. Sulla stessa parete compare il ritratto di un altro illustre personaggio del tempo: alle spalle di Barbara, vestito in nero, è Leon Battista Alberti.

Numerosi furono i rapporti fra i signori di Mantova e l’architetto: già alla metà degli anni Trenta del Quattrocento Alberti dedicò la versione latina del De Pictura al padre di Ludovico, Gianfrancesco Gonzaga, e lo stesso Ludovico gli affidò gli importanti progetti della Tribuna della Santissima Annunziata a Firenze e delle chiese di San Sebastiano e Sant’Andrea in Mantova.

Se alla ricchezza delle vesti, dei tessuti e degli arredi è demandato il compito di raccontare la raffinatezza e la ricercatezza della corte mantovana, alla presenza di Leon Battista Alberti e di Vittorino da Feltre è affidato un compito altrettanto importante: mostrando all’interno del proprio entourage, fra i propri famigliari, cortigiani e famigli, anche queste personalità di spicco, il Gonzaga intendeva presentarsi come il signore di una corte colta ed erudita, propensa a ergersi protettrice e promotrice delle arti.

Fra i varî personaggi ritratti nella scena della corte, appare anche la figura di una nana. La presenza dei nani presso la corte gonzaghesca è ampiamente attestata nei documenti storici, e sono numerose le loro effigi in ambito gonzaghesco. Nello stesso Palazzo Ducale di Mantova si trovano altre immagini di nani: nell’affresco raffigurante il Giuramento di Luigi Gonzaga nella Camera dei Capitani nell’Appartamento Grande di Castello e negli affreschi di Pisanello in Corte Vecchia. E ancora, un nano in armatura compare sulla medaglia fusa dallo stesso Pisanello per Gianfrancesco Gonzaga. Ai nani era affidato il compito di intrattenere i membri della famiglia e i loro ospiti. Ed è forse per questo motivo che la nana effigiata nella scena (forse quella di nome Lucia, ricordata in alcuni documenti) è l’unico personaggio che guarda fuori dalla scena, direttamente in direzione dello spettatore.

Altra presenza significativa è quella del cane accovacciato sotto lo scranno di Ludovico. Altri sei cani compaiono nella stanza, sull’altra parete affrescata: una coppia di molossoidi, un levriero, due segugi e uno spinone. Ma al cane ritratto nella parete della Corte sembra essere riservato un ruolo privilegiato. Si tratta con ogni probabilità di Rubino, il bracco favorito del marchese, ricordato in FINESTRE SULL’ARTE • 69

una numerosa serie di documenti d’archivio. Al contempo, però, il cane è da intendersi anche come elemento simbolico, con rimando al tema della fedeltà. Con questo stesso significato, infatti, l’immagine di un cane compare sul verso di una medaglia realizzata per Ludovico da Bartolomeo Melioli (Mantova, 1448 – 1514) nel 1475, in cui il signore di Mantova appare seduto su uno scanno, sotto il quale siede il fido animale. Davanti a loro sono Minerva e la personificazione della Fede, e la scena è accompagnata dall’iscrizione “Fede e Pallade assistono il Principe fedele e saggio”.

L’intera decorazione della Camera degli Sposi tende a ridefinire lo spazio reale: finte architetture e finti rilievi rendono labile il confine tra spazio fisico e scena affrescata, l’intera stanza è un capolavoro di illusionismo, e certi finti rilievi sono così mirabilmente eseguiti da poter essere scambiati per opere tridimensionali.

Decorazioni FOTO IN ALTO:

le decorazioni a griccia dei finti tendaggi.

Il marchese Ludovico, signore della corte e committente dell’opera, è l’unico personaggio rappresentato due volte all’interno della Camera Picta.

Compare infatti anche sulla parete nota come “Scena dell’Incontro”, ove è ritratto insieme ad altri personaggi. Fra questi, oltre alle illustri presenze dell’imperatore Federico III d’Asburgo e di re Cristiano I di Danimarca, spicca il secondogenito del marchese, Francesco Gonzaga, il primo membro del casato ad aver vestito la porpora cardinalizia, ovvero il primo Gonzaga ad aver intrapreso la

1465 di 16 junii FOTO AL CENTRO:

l’iscrizione che reca la data d’inizio dei

lavori: il 16 giugno del 1465.

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Tappeto FOTO IN BASSO:

Il tappeto nella Scena della Corte.

Finti rilievi FOTO SOPRA:

le pitture che simulano rilievi.

via della carriera ecclesiastica che, verosimilmente, i Gonzaga auspicavano potesse concludersi con una elezione a papa. Cosa che, nella realtà, non avvenne mai. A dar forma a questo sogno del casato, tuttavia, Mantegna dipinse sullo sfondo della scena una veduta di Roma, sede del Papato. Vi si riconoscono alcuni celebri edifici romani: la Piramide Cestia, il giro delle Mura Aureliane, il Colosseo e Castel Sant’Angelo.

Ancora di Roma, ma questa volta della Roma antica, racconta anche la decorazione della volta.

Qui compaiono infatti i primi otto cesari, ritratti in clipei sorretti da putti alati, dipinti a grisaille. Al centro del soffitto è il celebre oculo aperto sul cielo, dal quale si affacciano alcuni personaggi, forse i servitori della corte, a controllare cosa avvenga all’interno della camera. Insieme ad essi è un pavone, simbolo di gloria e di bellezza, ma anche di immortalità. E ancora, dalla balaustra dell’oculo,

compaiono, in ardita e perfetta prospettiva, putti dalle ali variopinte. Identici, nella forma e nelle dimensioni, a quelli raffigurati in grisaille sotto i cesari, ma questa volta a colori, quasi che fossero queste delle figure riportate alla vita grazie allo spirito del Rinascimento. Una rinascita molto simile a questa era già stata messa in scena da Mantegna nella Pala di San Zeno a Verona: anche qui, gli angeli che circondano il trono della Vergine rassembrano da vicino quelli scolpiti a decoro dell’architettura che contiene la sacra conversazione. Ma se nell’opera veronese Mantegna, nel riportare alla vita gli antichi eroti, li vestì di abiti colorati e li munì di aureole, per renderli angeli, a Mantova nessun’aggiunta si rese necessaria. Al solo colore fu demandato il compito di riportare in vita l’antico.

Altri putti alati, addirittura con bellissime ali da farfalla, compaiono infine sopra la porta di ingresso alla Camera, raffigurati nell’atto di sorreggere la FINESTRE SULL’ARTE • 71

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tabula dedicatoria in cui, in lingua latina, è ricordato come Andrea Mantegna avesse dipinto quest’opera per Ludovico Gonzaga e per

Ludovico e Francesco Gonzaga FOTO A SINISTRA:

l’Incontro tra Ludovico (a sinistra) e

Francesco Gonzaga (a destra).

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la moglie Barbara, “incomparabile gloria delle donne”. Nell’iscrizione, Mantegna definisce il proprio lavoro un “opus tenue”. Il riferimento letterario è al concetto di tenuitas, ovvero la sottigliezza usata nel rendere i dettagli più minuti, reso celebre nel famoso aneddoto raccontato da

Nella “Scena della Corte”, Mantegna ha dipinto una raffigurazione del potente committente, il marchese Ludovico Gonzaga, e di tutta la sua corte: ne risulta un ritratto collettivo della corte gonzaghesca, altamente celebrativo.

Plinio a proposito di Apelle e Protogene. E sono proprio i dettagli minutissimi della Camera ad averla resa celebre come uno dei più sommi capolavori del Rinascimento Italiano.

E proprio fra i tanti dettagli della camera si nasconde anche l’autoritratto di Mantegna: celato nella decorazione a candelabra di uno dei pilastri, compare infatti il viso del pittore, che evidentemente non ha resistito alla tentazione di ritrarre anche se stesso all’interno di quel capolavoro che richiese nove anni di minuzioso lavoro per poter essere portato a compimento. ◊

I cani FOTO PAGINA PRECEDENTE, IN ALTO:

uno dei molossoidi.

FOTO PAGINA PRECEDENTE, AL CENTRO:

probabilmente

Rubino, il bracco preferito del marchese Ludovico.

FOTO PAGINA PRECEDENTE, IN BASSO:

lo spinone.

La corte gonzaghesca FOTO A FIANCO: Scena

della Corte, ritratto collettivo

della corte gonzaghesca.

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Affacciati dall’oculo PAGINA A FIANCO IN ALTO:

i putti che reggono la tabula dedicatoria.

Roma PAGINA A FIANCO IN BASSO:

la veduta di

Roma.

Mantegna FOTO A SINISTRA:

l’autoritratto di Andrea Mantegna.

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| CONTEMPORARY LOUNGE

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Emilio Isgrò intervista di Federico Giannini

Emilio Isgrò Ritratto di Emilio Isgrò. Foto di Lorenzo Palmieri

Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937) ha vissuto diverse stagioni dell’arte italiana, dagli anni Sessanta a oggi, innovando, prendendo posizione, lasciando il segno. La sua è un’arte impegnata, perché Isgrò considera l’arte come la più alta forma di politica che abbiamo. In questa intervista, l’artista parla dei suoi ultimi lavori e del ruolo dell’arte nella società contemporanea.

P

artiamo dal Suo nuovo progetto. Fino al 4 agosto, il Museo della Battaglia di Anghiari accoglie una Sua opera inedita che si misura con la perduta battaglia di Leonardo da Vinci. Ci sembra il modo più interessante per introdurre il Suo lavoro e la Sua figura: Lei cancella le parole, mentre la storia (assieme, in certo modo, allo sperimentalismo di Leonardo) ha cancellato la Battaglia di Anghiari. Come misurarsi con un lavoro non più esistente, che conosciamo soltanto per vie traverse? E come renderlo ancora attuale attraverso l’arte contemporanea, tenendo comunque presente che la Battaglia di Anghiari FINESTRE SULL’ARTE • 79

Pacem in terris FOTO SOPRA:

Emilio Isgrò, Pacem in terris (2019; tecnica mista su tela, 140 x 200 cm)

era un’opera dalla forte connotazione politica?

Quando sono stato avvicinato dal direttore del Museo di Anghiari, ho capito che loro volevano o speravano da me un’azione diretta su qualcuno dei disegni preparatorî sul tema della guerra che Leonardo aveva eseguito. D’altra parte la cancellatura,

“Laddove non c’è nessuna libertà, manca anche la libertà di creare non solo bei quadri, ma anche reddito ed economia.

Lo slancio economico, entro certi limiti, coincide con lo slancio estetico”.

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essendo un processo linguistico autonomo, non può vivere di citazioni stilistiche e formali. È un discorso indipendente anche dallo stesso argomento che tocca. Quindi fare un omaggio a Leonardo utilizzando, per esempio, l’aggettivo “bestialissima” da lui attribuito alla guerra, mi sembrava un po’ ovvio e anche un po’ retorico. Ho preferito fare un discorso sulla possibilità che la pace ha di affermarsi nel mondo, in un momento in cui il mondo è letteralmente in guerra, all’interno dei varî paesi, tra nazione e nazione. C’è un mondo fatto, nei casi più innocui, di risse da paese e, in casi più gravi, di viltà ed efferatezze. Un mondo in cui si afferma una durezza che forse non avevamo mai conosciuto: oggi una persona ragionevole viene tacciata di buonismo, e chiunque coltivi un minimo sentimento di pietà umana o di commiserazione viene guar-

dato con sospetto. Allora io mi sono ricordato che c’è un’enciclica di papa Giovanni XXIII, chiamata Pacem in terris: fu scritta negli anni Sessanta, in un momento difficile per la realtà mondiale, quando si temevano in ogni minuto la guerra atomica e una confrontation che eliminasse tutti gli abitanti del pianeta, o quasi. Io credo che oggi il pianeta sia abitato da persone esposte a troppi rischi: viene impoverito e sfruttato in maniera bestiale, come a volte vengono sfruttati gli stessi uomini. Ho tenuto presente tutto questo, e il mio contributo alla Battaglia di Anghiari non è stato quello di fare un gioco sottile sull’opera sparita, come fa spesso l’artista concettuale: sarebbe diventato un gioco un po’ mentalistico, che lo stesso Leonardo non avrebbe approvato. Ho fatto invece un lavoro ex novo e dichiaro che la cancellatura s’impregna, cancellando la pacem in terris e affidando a una nuvola di api il compito di trarre il polline dalle parole più vitali da trasmettere. Ho affidato a quest’opera il mio omaggio a Leonardo.

Alla luce di ciò, pensa che oggi, in Italia e nel mondo, l’arte abbia ancora un peso per la società? Possiamo ancora sperare che l’arte possa renderci consapevoli delle sfide che il mondo di oggi ci lancia?

Oggi l’arte contemporanea (e non) ha subito uno strano destino. Di solito l’arte viene fatta per risvegliare le coscienze, come si diceva un tempo, e per far vedere anche ai ciechi le realtà che i ciechi non vogliono vedere. Oggi invece assistiamo a un’arte che sembra fatta per accecare e per creare conformismo.

Oggi l’arte è una delle massime attrezzature che il conformismo planetario ha nelle proprie mani per appiattire il mondo: questo vale per l’arte americana, per l’arte cinese, per l’arte europea. Oggi gli artisti apparentemente sembrano tutti uguali. Ma sappiamo che non è così: non sempre riusciamo a vedere gli artisti che vorremmo vedere, perché non sempre i musei li espongono, non sempre hanno attenzione mediatica, non sempre sono degnati dallo sguardo del pubblico. Naturalmente questo non deve farci disperare: quando ero giovane, la situazione, per certi aspetti, era analoga a quella di oggi. Allora, il conformismo era puramente ideologico, per non dire politico. Oggi invece c’è un conformismo mercantilistico che certamente non giova alla libertà dell’arte, perché l’artista non desidera conoscere o vedere, ma desidera trarre comunque un profitto dal proprio lavoro. Questo è giusto e comprensibile, però c’è un limite a tutto: l’artista non vuole piacere (il che sarebbe giusto). Vuole compiacere.

La Sua arte continua dunque a confrontarsi con ciò che succede nel mondo. Un mondo che spesso è stato fisicamente presente nella Sua arte, con le carte geografiche. Carte dalle quali Lei ha cancellato i luoghi: la conformazione del territorio rimane, i toponimi invece vengono obliterati, spariscono nomi di città, di regioni, di intere nazioni, non esistono più confini. Che cosa significa cancellare un luogo da una carta geografica?

Che valore potrebbero comunicare le Sue carte geografiche in un mondo che, al contrario, sembra essere sempre più intenzionato a sottolineare i nomi dei luoIl pubblico però non sembra esserne avveduto: ghi piuttosto che a cancellarli? spesso tocca constatare come buona parte del pubDa un lato volevo comunicare la necessità di abolire blico oggi consideri l’arte non come uno strumento tutti i muri che un po’ dappertutto vengono costruiti, politico (e Lei ha più volte ribadito che l’arte, oggi, e dall’altro lato, in antitesi, forse veniva sottolineato il è la più alta forma di politica che abbiamo), bensì rischio di un’omologazione del mondo che non offre come un mezzo di evasione, come un divertissement. agli uomini libertà, ma piattezza. E laddove non c’è Come ristabilire un rapporto più profondo? nessuna libertà, manca anche la libertà di creare non Stabilendo un rapporto più diretto tra gli uomini. solo bei quadri, ma anche reddito ed economia. Lo Cosa che in questo momento è chiaramente difficislancio economico, entro certi limiti, coincide con lo le, per via di quelle cortine che i nuovi strumenti di slancio estetico. Sembra in contraddizione ma non è comunicazione, anche digitale, hanno frapposto tra così. Quando qualcuno crea un’opera impegnativa, gli uomini. Il nostro non è il tempo della comunicaimportante, quando gli artisti osano, osano anche gli zione, è il tempo del silenzio: la gente oggi crede di imprenditori. Se invece gli artisti si accontentano del comunicare, ma per schiere di persone la comuniprevedibile, questo non succede. cazione si riduce spesso a un like, e questa non è li-

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Libro cancellato FOTO A DESTRA:

Emilio Isgrò, Libro

cancellato (1964; 40 x 60 cm; Milano, Museo del Novecento)

bertà... è riflesso condizionato. Meglio comunque un eccesso d’informazioni che nessuna informazione: ma qui si parla in un’ottica di liberazione sempre più ampia, che faccia progredire le nostre vite, anziché farle regredire.

“Il nostro non è il tempo della comunicazione, è il tempo del silenzio”.

Rispetto alle varie epoche che Lei ha vissuto (mi riferisco in particolar modo agli anni Sessanta, Settanta e Ottanta), come è cambiato secondo Lei il rapporto tra pubblico e arte?

d’incidere sulla realtà. Ma anche allora un eccesso di conformismo ideologico nuoceva alla libertà dell’arte. Oggi non ci sono partiti fermi, non ci sono schieramenti ideologici pieni di buone intenzioni: ed è l’arte che deve andare nel mondo a mani scoperte e nude, è essa stessa il punto di riferimento, è essa stessa la prova che il mondo va cambiato. Ma prima deve cambiare se stessa.

E gli artisti di oggi riescono a percepire questa urgenza, o si stanno condannando da soli all’irrilevanza?

Se devo giudicare da ciò che mi dicono i giovani artisti che vengono a trovarmi, io devo dire che qualcuno ha questa percezione. Generalmente però non se ne accorgono, ma d’altra parte questo non si deve giudicare Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, effettiva- come un fatto negativo: il mondo può essere cambiato mente, quando l’arte si metteva al servizio di un’i- in meglio, ma quelli che cambiano il mondo in meglio deologia più o meno progressista, poteva sperare sono le persone. Oggi in tutto il mondo, anche nell’arte, è diffuso un prodotto medio, e mancano le punte.

Una società media non porta a niente. E l’arte non Modello Italia è democratica, l’arte seleziona, l’arte sceglie anche il FOTO PAGINA A FIANCO: Emilio Isgrò, Modello Italia (2012; proprio pubblico, e non tutti sono obbligati a fruirne, anche se è auspicabile che un gran numero di persone 300 x 190 cm; Parma, CSAC – Centro Studi Archivio e segua l’arte. Ma l’arte non è fatta per unire, è fatta per Comunicazione dell’Università di Parma) dividere sulle cose giuste.

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Che non esista un’arte per tutti, Lei lo ha sottolineato più volte. Mi viene in mente Wilde, che stabiliva il problema dell’impossibilità di un’arte popolare nei termini d’un problema di gusto, ma anche di educazione. Ma se non può esistere un’arte per tutti, ognuno può avere comunque una sua arte?

Ma certo: chi ama le statuette di padre Pio ha la sua arte. Chi ama l’immaginetta di sant’Antonio da Padova fruisce comunque di un’esperienza estetica.

Ci sono varî livelli. Noi siamo partiti negli anni Sessanta con l’ipotesi della pop art. Un’arte che doveva essere popolare. Oggi però abbiamo un’arte populista, che viene gestita anche (se non soprattutto) da certi gruppi sociali che vengono considerati anche gruppi elitari. Ed è un paradosso: abbiamo un’arte populista che è fruita dalle élite. Un’arte populista che deve piacere a tutti: di conseguenza un artista che non vende è assimilabile ai politici che non vengono votati. Ma l’arte non funziona in questo modo: l’arte può anche non ricevere alcun voto. Possono esserci artisti che vendono meno dei più conclamati artisti internazionali, ed essere però più importanti.

“L’arte non è fatta per unire: è fatta per dividere sulle cose giuste”.

Un problema di linguaggio che si estende anche oltre l’opera. Pensiamo al giornalismo d’arte. E Lei, com’è ben noto, è stato per molto tempo giornalista: secondo Lei, dati i presupposti di cui abbiamo sinora discusso, c’è ancora spazio per un giornalismo d’arte nel nostro paese?

Sì, c’è, ma a una condizione: che si impari a comunicare con una certa chiarezza. Negli anni scorsi è accaduto (e forse entro certi limiti ci sono caduto anche io) che gli artisti facessero opere o per gli altri artisti o per i critici, come se fosse una vergogna cercare di parlare al pubblico, o cercare di captare una platea indifferenziata. Giocare anche con l’ovvio non significa essere ovvî, significa far parlare in maniera più profonda anche l’ovvietà. E prendiamo poi il confronto con l’arte antica: spesso il pubblico non si rende conto di comprendere l’arte antica E non c’è solo un’arte populista: c’è anche un ancor meno dell’arte contemporanea. L’arte antica pubblico che si approccia all’arte in maniera popunon è facile. Cosa si può capire delle Stanze Vatilistica. cane se non si sa quale fosse il dibattito culturale di Non c’è possibilità di voto sul giudizio estetico. Il quel periodo? like non vale per l’arte. L’arte è una lingua che va imparata. Chi non conosce l’inglese, lo spagnolo o il cinese, si deve arrangiare. Per l’arte vale lo stesso.

“Gli artisti facevano opere o per gli altri artisti o 84 • FINESTRE SULL’ARTE

Dichiaro di non essere Emilio Isgrò FOTO SOPRA:

Emilio Isgrò, Dichiaro di non essere Emilio

Isgrò (1971; foto performance Centro Tool Milano)

La corsa di Alma FOTO PAGINA A FIANCO, IN ALTO:

Emilio Isgrò, La corsa

di Alma (1969; 130 x 350 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori)

per i critici”. Oggi com’è la situazione? È peggiorata, perché le fanno direttamente per i mercanti. Certo, intendiamoci: non ci vedo niente di male, ma questo se il mercante si configura come un committente. Certo anche non assimilabile a Lorenzo il Magnifico, ma sicuramente assimilabile a un committente che abbia un minimo di attenzione verso la cultura e la conoscenza. Anche perché l’ignoranza non produce ricchezza.

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Torniamo indietro nel tempo, agli anni Sessanta: il Suo recente libro Autocurriculum costituisce una straordinaria raccolta di piccoli e grandi ritratti d’illustri personalità della cultura del XX secolo, che Lei ha personalmente conosciuto. A un certo punto scrive, per esempio, che con i Suoi colleghi immaginò un premio da assegnare al personaggio più antipatico, e con largo vantaggio questo premio andò a Calvino. Di Aldo Palazzeschi si dice che dava pochissimo peso alle cose, per esempio tendeva a minimizzare la stagione del suo esordio in poesia. Montale viene definito “sferzante”, Pasolini non sopportava le neoavanguardie (a cominciare dal Gruppo ‘63), mentre di Piero Manzoni dice che non veniva preso sul serio, ma che era in realtà un artista concettuale “dal volto umano fatto di dolore e di angoscia”. Con quale dei personaggi incontrati 86 • FINESTRE SULL’ARTE

“Non credo che tutto il pubblico oggi possa capire le istanze più aggiornate o più liberatorie dell’arte. Il pubblico che però sente questa esigenza si allarga sempre più. Come in politica: si comincia ad avvertire una certa paura per le ricette facili”. lungo il Suo cammino sente ancora di provare maggiori affinità, e da chi invece si sente più lontano?

Calvino non era un uomo simpatico, ma devo confessare, avendo letto Calvino quando ero ragazzo e

Mediterraneo FOTO A SINISTRA:

Emilio Isgrò, Mediterraneo (1970; 52 x 90 cm)

Zanzotto: di lui mi colpiva la sua apertura anche per ciò che apparentemente non lo riguardava direttamente. Io allora avevo già fatto le prime cancellature e lui era molto affascinato da questo linguaggio, nonostante lui venisse considerato un regressivo dalle avanguardie dell’epoca (secondo me a torto), era in effetti molto aperto. Non aveva una grande simpatia per il Gruppo 63, e il Gruppo 63 non ce l’aveva per lui, come non ce l’aveva per Pasolini. Su Pasolini, peraltro, è fin troppo facile parlare: aveva un carisma straordinario e anche un grande coraggio civile, perché era un atto coraggioso mettersi in rotta di collisione con certi gruppi letterarî del tempo, cosa che lui faceva. Però era anche un uomo accorto, aveva anche la capacità di usare il cinema come strumento di penetrazione delle proprie idee per esempio. Parlando più in generale, ho sempre amato le persone prive di pregiudizî e capaci di una qualche onestà intellettuale. Lo stesso Giovanni Testori, considerato un cattolico reazionario, era però un uomo molto più aperto di quanto si pensi. O almeno lo è stato con me, e noi eravamo amici. I grandi poeti, i grandi scrittori, i grandi artisti, sono sostanzialmente uomini liberi. Lucio Fontana esprimeva la propria libertà e il proprio coraggio, per esempio, anche attraverso una naturale adesione ai progetti dei più giovani. Gli artisti che si salvano avendolo apprezzato, di averlo trovato privo di spes- non sono quelli che crescono troppo, ma quelli che sore dopo averlo riletto da adulto. La sua leggerez- mantengono una dose d’innocenza per tutta la vita. za era proprio questa. Un uomo di grande spessore umano e intellettuale era Paolo Scheggi: lui aveva una specie di febbre addosso. Io l’ho frequentato Ha citato il Gruppo 63: cosa la divideva da non per molto tempo, per uno o due anni, ma mi quell’esperienza? sono bastati per percepire che Paolo Scheggi fosse Il fatto di concepire la cultura come un apparato un uomo che aveva addosso la febbre del vero aristituzionalizzabile immediatamente. E mi disturbatista. Poi sul suo lavoro, per quanto interessante, è va un certo atteggiamento accademico e professola critica che si è espressa. Piero Manzoni, quando rale. C’erano però delle eccezioni, non tutti erano l’ho conosciuto, mi faceva più l’impressione di un così, ma il tono prevalente era quello. artista tardo-dada che di uno scopritore di nuovi linguaggi, come noi allora speravamo. Eppure ci sono opere di Manzoni (penso a capolavori come Stiamo peraltro parlando del periodo in cui nacla Base del mondo) in cui effettivamente aprì le porte a un certo concettuale. E se dovessi citare altri per- que la cancellatura. Autocurriculum contiene anche sonaggi, potrei dire che ero molto amico di Andrea un’interessante definizione delle Sue cancellature, FINESTRE SULL’ARTE • 87

che vengono delineate non come un modo per distruggere la parola, ma come mezzo per salvaguardarla per tempi migliori, ovvero per quando la capacità di riflettere “si sarebbe finalmente saldata alla necessità di creare”. L’assunto è che gli esperimenti delle neoavanguardie letterarie non erano riusciti a riscattare la parola poetica “dal rischio di naufragare per sempre nel mare della comunicazione visiva”. Secondo Lei come è andato proseguendo il cammino verso quei “tempi migliori” al cui servizio s’è posta la Sua opera? E questi “tempi migliori” arriveranno prima o poi?

Se devo parlare sul piano delle sensazioni personali, è chiaro che i tempi migliori, per gli argomenti che ho toccato io, sono proprio quelli attuali. Il mio lavoro non ha avuto una grande fortuna nell’immediato: ha avuto una fortuna di scandalo e di nicchia, mentre invece è un discorso che si generalizza e che anche chi non è specialista, in qualche modo, ha sentito o orecchiato. Quindi questo tempo è arrivato. Ma certe istanze, per quanto innovative possano essere percepite dal pubblico (che di solito è conservatore, perché l’uomo è conservatore: socialmente è più facile conservare che innovare, e quindi ciò vale anche sul piano della creazione estetica), rimangono comunque un discorso di minoranza. Non credo che tutto il pubblico oggi possa capire le istanze più aggiornate o più liberatorie dell’arte. Il pubblico che però sente questa esigenza si allarga sempre più.

Come in politica: si comincia ad avvertire una certa paura per le ricette facili. E allora la società forse potrebbe prendere coscienza e maturare un’autoconsapevolezza più forte. Certo, è vero che oggi le masse sono indotte a valutare il mondo sul piano della pura convenienza personale, e posso capire che certi problemi sociali ci siano. Ma posso anche capire che certi problemi sociali non si risolvano a cannonate: e non è solo un problema dell’Italia.

Questo lo si dice non perché si è buoni, ma perché si è intelligenti. Io stesso non mi considero un buonista, e credo che la mia arte lo dimostri. Non credo che l’uomo sia così buono come spesso lo si dipinge, ma credo che non sia neanche così malvagio.

la Costituzione, il debito pubblico, le enciclopedie.

Quali erano le reazioni del pubblico? E a che cosa Lei mirava quando cancellava certi istituti che buona parte del pubblico magari ritiene intoccabili?

Il pubblico mi considerava in genere un nichilista. E questo accadeva a destra e a sinistra. Tuttavia non ho affidato allo scandalo il segreto della crescita di ciò che ho fatto: non ho mai assecondato la lettura distruttiva che parte del pubblico dava alle mie opere. Ho sempre detto che la cancellatura aveva una funzione costruttiva, una funzione dialettica, tra il sì e il no, tra l’essere e il non essere della parola.

Una parola che adesso, nella società mediatica, è in pericolo. Che possibilità ha di resistere realmente la parola umana in una società che non si parla più, ma comunica tramite frasi brevi, like o slogan?

Da questo mondo può venir fuori un altro Kant, un altro Platone?

Nel 1971, Lei dichiarava di “non essere Emilio Isgrò”. Più di trent’anni dopo ha invece dichiarato di “essere Emilio Isgrò”. Per concludere, chi è, o chi non è, l’Emilio Isgrò del 2019?

Forse c’è una certa possibilità che Emilio Isgrò cerchi di essere ciò che gli concede la vita, di andare incontro alla vita: quando ho dichiarato che non ero Emilio Isgrò, in effetti avevo la stessa volontà di esserci di quando poi avrei scritto “dichiaro di essere Emilio Isgrò”. Ma quando ho dichiarato la prima frase, vivevo in una società per certi aspetti simile alla nostra, dove l’anonimato era la prospettiva di tutti (si pensi a cosa facevano gli artisti pop in quel periodo). E allora dire di non esserci era un modo per dire di esserci di più. Ma era anche un modo per sfuggire alla morte: quando Ulisse volle sfuggire a Polifemo, disse di chiamarsi “Nessuno”.

Quando poi, tanti anni dopo, ho dichiarato di essere Emilio Isgrò, ho soltanto voluto sottolineare che, se per tanti anni ero in qualche modo sparito dalla storia dell’arte, era per una mia scelta precisa, e che conoscendo anche la mia funzione d’artista che mi portava a esserci, nel momento in cui ho deciso di tornare in campo con la mia azione artistica e culturale, l’ho dedicato con una certa determinazione, Lei stesso poco fa ha detto che la Sua arte spes- e con l’arroganza che hanno anche gli uomini più so ha destato scandalo. Come quando cancellava fragili di fronte alle prepotenze del potere. ◊ 88 • FINESTRE SULL’ARTE

Cancellazione del debito pubblico FOTO SOPRA:

Emilio Isgrò, Cancellazione del debito pubblico (2011; 280 x 400 cm; Milano, Università

Luigi Bocconi)

www.emilioisgro.info

FINESTRE SULL’ARTE • 89

Flag purple e Flag yellow Sylvie Fleury, Flag purple e Flag yellow (entrambe 2019; stoffa, 200 x 300 cm). Courtesy: l’artista e Istituto Svizzero, Roma. Foto © OKNOstudio

| CONTEMPORARY LOUNGE

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Sylvie Fleury testo di Chiara Guidi

Dopo aver esposto in prestigiose sedi in tutto il mondo, Biennale di Venezia compresa, per Sylvie Fleury (Ginevra, 1961) si aprono quest’anno le porte della prima personale in Italia, con cui afferma di nuovo il suo linguaggio articolato e riflessivo, tra ready-made duchampiani e glam warholiano.

C

hasussures Italiennes è il titolo della prima personale di Sylvie Fleury in Italia, a Roma, nella storica e preziosa Villa Maraini, ora prestigiosa sede dell’Istituto Svizzero, ed è una mostra a trecentosessanta gradi sulla sua ricerca che, come un vettore soft, a partire dall’ingresso della sede espositiva, nel lussureggiante giardino dove è installata dal 2016 la monumentale opera luminosa e permanente in neon violet MIRACLE (cubitali lettere della celebre, omonima fragranza di Lancôme), ci guida nel mondo esclusivo ed unico dell’artista elvetica.

Il mondo di Sylvie, fin dai primi anni Novanta, è un articolato e riflessivo linguaggio che ha generato un continuo e permanente still life sulla nostra contemporaneità, dove la cultura del ready made propria dell’a-

vanguardia duchampiana si salda nel focus dell’oggetto di matrice warholiana, un oggetto che esprime la società dei consumi, ma stavolta non appartiene più a quello dei larghi consumi da supermarket (del quale, in Fleury, resta solo l’iconico carrello gold su base di specchio), non è il frutto della comunicazione di massa studiata da Marshall McLuhan, ovvero non si rivolge a quei prodotti della società moderna e modernista del boom economico: gli oggetti di Fleury appartengono generazionalmente a una precisa volontà di shopping ed esprimono soprattutto il senso critico della scelta e l’azione come atto esclusivo di appartenenza (o meglio: di “post-appartenenza”).

Appartengono idealmente a un esclusivo ed ideale club per intenditori, un club patinato, che aderisce consapevolmente a un life style, a un immaginario della bellezza FINESTRE SULL’ARTE • 91

Retrospective, L’oeil du vampire e Flag purple FOTO PAGINA A FIANCO IN ALTO:

Sylvie Fleury, da sinistra

a destra: Retrospective (2008/2016; armadietto di legno con specchio, LED, ottone e scarpe personali dell’artista, 220 x 180 x 45 cm), L’oeil du Vampire (yellow) (2015; vetroresina, 138 x 140 x 80 cm), Flag purple (2019; stoffa, 200 x 300 cm). Courtesy: l’artista e Istituto Svizzero, Roma. Foto © OKNOstudio

glam in evoluzione, della seduzione globale che le bibbie della moda divulgano fra dettagliati e sempre aggiornati codici di stile. E si pone in quello stretto cuneo tanto dibattuto, promosso e indagato che è quello della relazione fra arte e moda, i cui confini Sylvie Fleury, con la sua opera, è riuscita a dilatare, sovrapponen-

Chaussures Italiennes è il titolo della prima personale italiana di Sylvie Fleury, una mostra completa su tutta la sua ricerca, organizzata a Roma, a Villa Maraini, sede dell’Istituto Svizzero. doli, portando nell’arte un patrimonio fashion che lei è riuscita a rendere una nuova avanguardia di genere.

La seduzione è sempre presente, è venata, è sottesa, è pink (su di una parete, in una delle ultime sale della mostra dietro a coppie di colonne in prezioso marmo venato, come un manifesto, con una grafica da street style, ha graffito la scritta in rosso e nero More Feminism Less Bullshit), ed è quella trasformata in icona dalla grande fotografia del fashion internazionale (ne è calzante esempio la mostra HandBags, ultimo progetto di Juergen Teller, in corso, in questa primavera 2019, al Museo di Villa Pignatelli a Napoli, con oltre seicento scatti che narrano di un oggetto feticcio come la borsa), che i magazine divulgano nelle loro pagine fra esotici editoriali, advertising con immaginarî stravaganti, e sofisticate cover, mentre interpretano lussi, prodotti, slogan, palette, grafiche e trend che non riguardano 92 • FINESTRE SULL’ARTE

più solo il potere d’acquisto e/o il semplice possesso: questo corpus diviene una nuova forma di evoluta comunicazione, posta nell’emancipazione, con desiderî ammiccati, irrinunciabili must have, che contribuiscono a creare il sistema visivo di Fleury.

Un codice SF per vivere il proprio tempo con una prospettiva globale, per un’estetica da calendario (dove per calendario non s’intende quello delle fasi solari o lunari, ma quello delle stagioni, utilizzate dal mondo della moda per le loro collezioni: Fall Winter, Pre Full, Summer, Cruise... ), e che possa essere un manuale non scritto, ma consono a ogni singola scelta, a ogni singolo acquisto. Il mondo di Sylvie è un pensiero così contemporaneo da esprimere la classicità dei nostri giorni, aggiungendo all’arte una inaspettata, insolita, ironica e talvolta provocatoria iconografia.

Il titolo della mostra racchiude sia il soggetto principe sia il tributo, ovvero le scarpe. Il soggetto appartiene all’artista fin dai primi anni Novanta, appartiene al suo agire, al suo vivere, alla sua arte. Potremmo dedicare un capitolo a Sylvie Fleury trasformando Il sandalo di Empedocle di Bertolt Brecht, dedicato alla leggendaria fine nell’Etna dell’antico filosofo (c’è un verso della poesia che recita: “sciolse con cura il sandalo dal suo piede”) ne Lo stiletto di Sylvie Fleury, elevando a protagonisti i suoi coturni dalle orme filosofiche, che per una felice calzata parlano del senso di appartenenza a un pensiero, a un’epoca. Come nei light box che riproducono immagini di gusto cinematografico alla Truffaut e che sono porzioni di gambe accessoriate, in primo piano, davanti a dettagliate carrozzerie anteriori di automobili, con scarpe iconiche, frame da video posti sopra i caminetti marmorei che confermano la volontà di essere manifesto.

Forgiando il nostro piede possiamo forgiare il nostro

Radiant, L’oeil du vampire e More Feminism less bullshit FOTO PAGINA A FIANCO IN BASSO:

Sylvie Fleury, da

sinistra a destra: Radiant (2015; neon, 215 x 242 cm), L’oeil du Vampire (yellow) e L’oeil du vampire (violet) (entrambi 2015; vetroresina, 138 x 140 x 80 cm), More Feminism less bullshit (2019; graffiti con vernice spray, dimensioni variabili). Courtesy: l’artista e Istituto Svizzero, Roma. Foto © OKNOstudio

FINESTRE SULL’ARTE • 93

Andre et Robert FOTO A SINISTRA:

Sylvie Fleury, Andre et Robert (green and

rainbow effect) (2019; dimensioni variabili). Courtesy: the artist and Istituto Svizzero, Rome. Foto © OKNOstudio

94 • FINESTRE SULL’ARTE

Ash plumes from the iron soul A FIANCO:

Sylvie

Fleury, Ash plumes from the iron soul (2010; scatole di legno e pannelli d’alluminio, macchina per il fumo, supporti con piume). Courtesy: l’artista e Istituto Svizzero, Roma.

Foto © OKNOstudio

pensiero. Sono chaussures per camminare in un solco linguistico che esprime ogni senso intimo femminile, un display che è un monitor di propaganda, di osservazioni, di pratiche artistiche e di caute avvertenze.

Retrospective è un’opera che ben evidenzia il titolo della mostra: infatti è un cabinet, ed è un armadio-scarpiera retroilluminato che mette in mostra, con una campionatura scientifica, le scarpe tutte ben allineate che Sylvie Fleury ha indossato per i suoi video, per i suoi opening, per le sue performance: una reale retrospettiva portatile di modelli unici, privati, ma che adesso sono divenuti elementi necessari, come monumenti esclu-

Andre et Robert FOTO PAGINA A FIANCO:

Sylvie Fleury, Andre et Robert (green

and rainbow effect) (2019; dimensioni variabili). Courtesy: l’artista e Istituto Svizzero, Roma. Foto © OKNOstudio

sivi che testimoniano, rintracciano e decodificano il mondo di Sylvie.

Ogni scarpa, ogni calzata non descrive un piede, ma un’epoca. È una pura storia del costume. Interpreta sociologicamente, mostra sempre la qualità e la validità delle singole scelte. Sylvie Fleury sceglie, informa, avverte.

Ludovico Zorzi, che è stato studioso e professore di storia dello spettacolo ed esperto di cultura teatrale italiana, ha dedicato la sua vita allo studio della commedia dell’arte e alle sue rappresentazioni, ed è famoso in campo storico-artistico anche per un suo libro postumo, Carpaccio e la rappresentazione di sant’Orsola (Einaudi, 1988), interamente dedicato al Carpaccio e ai suoi nove telari del ciclo di Sant’Orsola: nel saggio vengono anche descritte in modo minuzioso le calzate delle figure femminili, le “chopine”, zoccoli con zeppe alte, che nel caso di certi modelli arrivavano a cinquanta FINESTRE SULL’ARTE • 95

mantico, a Retrospective, permettendoci così di rintracciare le radici delle identità femminile dei nostri giorni.

FOTO SOPRA: Sylvie Fleury, My life on the road (with Rossetti, mezzi manichini da esposizione, mezzi busti con gambe, manichini che sono ancora metafisici peramethysts) (2016; acrilico e glitter su tela, base di legno, ché ancora stranianti, sono verniciati come carrozzerie cinque pietre di ametista, 260 x 170 x 60 cm). Courtesy: di auto di grossa cilindrata, sono vestiti con micro gonl’artista e Istituto Svizzero, Roma. Foto © OKNOstudio ne in pelle metalizzata in Courrèges style; doppi arazzi con mani smaltate di rosso, fusioni in bronzo di potenti motori automobilistici, e altre sculture da un Garden centimetri (nonostante una legge del 1430, emanata Jap Fruit, e poi glitter, ametisti, neon, installazioni e un dalla Serenissima, vietasse un’altezza superiore agli trionfo di inneggianti piume dai colori primarî: gialle e otto centimetri), e che portavano solo certe dame nella rosse e blu poste a servizio di controllo, come sentinelle,

My life on the road

Nel linguaggio articolato e riflessivo di Sylvie Fleury il readymade duchampiano si salda a istanze warholiane. società tardo-quattrocentesca (sono conservati esempî di queste calzature a Palazzo Mocenigo e al Museo Correr di Venezia). Zorzi le ha classificate non come dettagli, o semplici accessorî, ma come dispositivi artistici dal profondo valore iconografico ed estetico, che svelano l’epoca e la struttura sociale. Questi socles potrebbero essere collegati in parallelo, per il valore se-

per il vaporizzato pneuma dello stivale, come nessun capo nativo americano avrebbe potuto immaginare, e restano sempre tutte opere manifesto che muovono le lancette della mostra in questo quadrante del 2019, che sembra accogliere inedite ma ipotizzabili pagine di François Sagan dal titolo “Bonjour Sylvie”. ◊

www.sylviefleury.com 96 • FINESTRE SULL’ARTE

| CONTEMPORARY LOUNGE

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Fabrizio Cotognini testo di Cristina Principale

“Penso a un libro col quale attraverso il caos le cose riconoscano le loro affinità e la creatività reinventi un’altra storia dell’arte” (Fabrizio Cotognini)

I

l titolo di una recente mostra collettiva, titolo anche dell’opera con la quale Fabrizio Cotognini (Macerata, 1983) vi ha partecipato, introduce immediatamente alla sua conoscenza: La memoria e l’oggetto (2017). Naturalmente guardando al lavoro degli ultimi quindici anni non si tratta di questi soli elementi, ma la contaminazione dei due è centrale nel suo approccio all’immagine, dove «in campo sono messe forme che stanno mutando, che si sforzano di formarsi, forme che manifestano un processo di costruzione».

La bugia FOTO PAGINA A FIANCO:

Fabrizio Cotognini, La bugia,

dettaglio (2016; matita, inchiostro e acquerello su carta francese, 29,7 x 42 cm; Collezione Salvatore Mirabile)

Artista premiato sin da molto giovane, ha svoltato l’angolo del sistema internazionale dell’arte. Innanzitutto attraverso la via dello studio, parimenti teorico e tecnico, e grazie a un’innata ma anche allenata riconoscenza al passato, alla storia del pensiero e dell’arte, e all’accumulo di preziosità di cui si nutre.

Infatti le forme prime della sua impalcatura visiva sono omaggi, prima ancora che citazioni, al patrimonio artistico internazionale, ad autori e modi di progettare e fare, che vanno sommandosi a un proprio fulgido immaginario, che attiene saldamente al vocabolario del fantastico.

La sua pratica si identifica come un episodio vincente e isolato dalle correnti, dal momento che oltre a un’attitudine da esploratore, archeologo, collezionista e frequentatore d’aste, Cotognini è un inventore e maneggia, a partire dalla matita, moltissimi materiali. E tanti sono gli oggetti della sua collezioFINESTRE SULL’ARTE • 99

ne, messa insieme con taglio scientifico, quasi tassonomico, quanti risultano gli oggetti che invece produce, contribuendo ad alimentare una figurazione molto peculiare.

A partire dai disegni, che non sono solo disegni, meglio detti scene, fatti “anche” ma non solo di segno grafico puro. Premesso dunque che il portfolio di Cotognini va affrontato ricercando un’ulteriorità, si attesta che la sua originalità inventiva s’appoggia a un linguaggio ormai desueto in quello che è il diluvio di immagini dei nostri giorni, che affonda nella carta e pulsa poi nella tridimensione. Come su di una bilancia calibratissima, la maestria tecnica è soppesata al lavoro di concetto, quello che lui stesso definisce la «masticazione concettuale». La ricerca della bellezza empirica pesa quanto il gioco poetico del bel ragionamento. Certo è che “bello” apparirà anche “mostruosamente bello”, visto che le opere

Artista premiato sin da molto giovane, Fabrizio Cotognini è un artista dotato di un’innata e allenata riconoscenza al passato, alla storia del pensiero e dell’arte. accolgono un ricco proliferare di esseri di strane fattezze. È improbabile non riconoscervi una spinta simbolica evocativa, che chiama ad altri mondi, ad altre temporalità, alla fantasiosa possibilità dell’arte. Ciò ricorrendo a conclamati temi iconografici e riferendosi a cicli fantastici, scelti in base a «un rigoroso processo di estrazione, distillazione e infine di riproposizione» dell’antichità.

Rievocare e riproporre l’antico e rivisitarlo alla luce, talvolta e per taluni, squallida della contemporaneità, profila il suo esercizio che potrebbe dirsi afferente al neoantico e, a tratti, d’utilità didattica.

Accanto alla storia già scritta, vi sono le sue osservazioni, figure e parole irrinunciabili. Un primo livello di rapporto con gli esemplari di Cotognini ha a che fare con la tecnica e l’oculatezza con cui coinvolge 100 • FINESTRE SULL’ARTE

la materia. La charta-chartae in primis, suo supporto d’elezione. E qui ricorrere alla declinazione latina vuole essere un indizio per comprendere la molteplicità dei casi disponibili: la carta, che sostiene la materia a venire, è selezionata e avvalorata in base al peso, la provenienza, l’età, la texture, e può essere

Contamination of historical archetype FOTO SOPRA:

Fabrizio Cotognini, Contamination of historical archetype (2017; inchiostro, biacca, matita rossa,

pantone e mylar su un’incisione originale del XVII secolo montata su carta francese nera, 120 x 80 cm; Collezione Salvatore Mirabile)

FINESTRE SULL’ARTE • 101

Navi fantastiche FOTO SOPRA:

Fabrizio Cotognini, Navi fantastiche

(omaggio a Jurgis Baltrušaitis) (2013; lapis, sanguigna, biacca, colore organico su carta giapponese montata su tavola, 300 x 190 cm).

Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani

immacolata o quella di antiche stampe o incisioni originali su cui poi agisce. Stesso detto per le tavole lignee di supporto, che hanno un ruolo precipuo mai casuale, un valore in sé come i metalli e altri preziosi. Ma a ben guardare, tutte le opere sono ottenute con tecnica mista, mista di trattamenti e lavorazioni, da cui emerge la specializzazione dell’artista nell’arte orafa.

Il contatto e la reazione tra gli elementi, che riguardi i materiali quanto i contenuti, è la sua cifra tout court.

La parte di produzione che ne rende particolarmente riconoscibile la firma riguarda i contributi grafici, quelli che si presentano in certe serie come fogli singoli e che nel tempo hanno preso assieme forma di pagine nei libri d’artista. E come tiene a sottolineare per ognuno di questi: «Il libro è un libro 102 • FINESTRE SULL’ARTE

di pagine…», tutte allineate su un unico asse orizzontale, non da sfogliare ma da seguire, che narrano storie molteplici unificate dal suo sguardo.

Il processo di costruzione a cui si alludeva in principio ben si descrive nell’identità di queste pagine che si mostrano come taccuini di viaggi che Cotognini tiene quando esplora i territori della cultura visiva.

Le sue carte appaiono come assemblaggi di appunti e riferimenti; come a mantenere sempre uno stato in itinere, di progettualità in via d’essere d’invenzioni e scoperte possibili.

Lo si nota inoltre dalla distribuzioni geometrica di certe linee e forme, dall’andamento della scrittura, dalla continuità che mantengono tutte le cose tra loro nello spazio, tracce appoggiate ai supporti, opere in forma di eleganti e ponderati bozzetti.

L’impressione d’insieme quasi richiama il Codice Atlantico leonardesco.

L’artista lavora con la storia quanto col suo estro immaginifico, che vede le parole slegate da un funzione formale (Contamination of Historical Archetype, 2017) e il colore, i colori, impossessarsi delle forme che sono il centro della scena. Come scrive Fabio Ionni a proposito, la potenza di queste costruzioni sta «tra il ricordo e l’esplorazione, nel gioco delle citazioni, che guarda alle opere dei grandi maestri

e alla cultura popolare, e nel ricorso alla simbo- quale interviene su pagine sciolte di Manipolazione di logia naturale che spesso rende visibili dinamiche Cultura di Fabio Mauri che si era a sua volta servito della vita dell’uomo: fiori, piante, animali, insetti, di foto, testi e aree di monocromo nero per anaaccompagnano frammenti, ritagli di immagini che, lizzare il rapporto tra potere e immagine in questo sottratti alla loro condizione formale, appunto, fun- suo libro d’artista del 1976: Cotognini agisce sulla gono da viatico per l’elaborazione di un nuovo im- struttura originale amplificando da un lato il procemaginario, di una nuova opera». dimento “sottrattivo” utilizzato da Mauri nelle aree Ed è propriamente nella relazione con un passato scure, dall’altro aumentando esponenzialmente visivo e di conoscenze, fatto di numerosi richiami l’inserimento di variabili visive. È da qui che vene ponti interdisciplinari, in una terra di confine tra gono a generarsi quelle che troveremo come “abrapittura, scultura e scrittura che nascono i suddetti zioni nobili” di immagini precostituite che dànno libri d’artista (genere di cui Cotognini è appassiona- vita ad altre occasioni per l’arte. Si diceva infatti che to) e la volontà di ricorrere alla teca, alla vetrina da la prospettiva è quella della storia della cultura e museo, come scatola magica dentro la quale custo- dell’arte, e l’artista attinge a ritroso dall’archeologia dire e lasciar guardare reperti e opere. al Novecento col medesimo trasporto, coinvolgenRecuperato il ruolo della teca e della scenografia, do diacronicamente nei suoi echi artisti e pensatori e dunque la qui necessaria distanza d’osservazione, memorabili, creazioni, architetture e sistemi legviene a ricrearsi il piacere della scoperta, che nel gendarî. Allo stesso modo non mancano contributi suo caso può anche essere dall’immaginario visivo ri-scoperta, che contemcollettivo a noi coevo, pla la categoria del mepost-contemporaneo, ai raviglioso in un universo quali conferisce aura e luartistico invece dominato centezza, anche laddove dalla richiesta d’interamancherebbe. zione, dalla preghiera e È come se Cotognini fadalla promessa dell’especesse da custode in un rienza corporale al limite palazzo del sapere, dicon l’extrasensoriale. sponendo del mazzo di Similmente e in questo chiavi che apre preziose senso, appare l’impiego stanze alla visita di folti del fondo nero, di contro gruppi di turisti incurioal foglio bianco, e della siti. Le stanze sono quelle cancellatura come posche progetta per le sue le sibilità per far emergere installazioni ambientali, dalle immagini quanto di che possono vedere innon svelato vi è ancora; sieme sculture, ready made volontà di parcellizzare, e innesti tecnologici, coisolare, quindi puntuastruite ponendo l’accento lizzare, proteggere porsugli allestimenti e sulla zioni sottostanti al nero ricerca di un’atmosfera o all’oro, che va via via immaginifica, di volta in aggiungendosi nei lavori volta contestualizzata (è No monster’s land degli ultimi anni, riattuail caso, sempre uno tra gli lizzando determinati conaltri, di Reversed Theatre, FOTO SOPRA: Fabrizio Cotognini, No monster’s tenuti e negandone altri.

2018). land vol 1, dettaglio (2018; biacca e oro 24k su Esemplare, estrapolandoPer entrarvi serviranno, carta francese nera, 29,7 x 42 cm; Collezione ne uno, è il lavoro Simulachiamiamole pure, le sue zione di pensieri (2015) nel chiavi di lettura. La simBruno e Ilenia Paneghini) FINESTRE SULL’ARTE • 103

Should be higher FOTO A SINISTRA:

Fabrizio Cotognini, Should be higher

(2019; marmo, rame, argento e oro su libro d’artista).

Courtesy do ut do, foto Andrea Chemelli

ria-metafora-attributo-emblema-segno smettono di essere teoricamente distinti per farsi complessivamente delle sollecitazioni. Come suggeriscono gli approfondimenti sul simbolismo di Hans Biedermann, «chi considera le molteplici manifestazioni del pensiero simbolico antico da un punto di vista puramente razionale e scientifico, sarà portato a chiedersi, tra il divertito e il sorpreso, come abbiano potuto affermarsi idee che a noi paiono così singolari. La nostra ragione calcolatrice e il nostro pensiero scientifico procedono ormai da lungo tempo in modo diverso dagli autori del Physiologus dei primi secoli dell’era cristiana, del Bestiarium medioevale e dei manuali di emblemi dell’epoca barocca. In questi testi non si ricercano definizioni razionali e documentate bensì il significato profondo che ha per l’uomo il mondo…».

Ebbene Cotognini con Physiologus Cotogninianus (Cotognini’s bestiarium) liber rarissimus del 2015, ospitando una teoria di animali e di ibridazioni, vuole riscrivere queste consapevolezze acquisite. Stesso detto della sua altra monografia d’autore Taumaturgus Opticus del 2016, lì dove sembrerebbe procedere in modo sia intuitivo che speculativo.

E così come di Jurgis Baltrušaitis (a cui lui stesso fa molto riferimento) si dice di uno studioso “della continuità”, altrettanto di Cotognini si potrà dire artista della continuità in un presente infinito. Il punto di incontro tra il tempo e l’eternità è forse la rigenerazione? Da qui al 2020 numerose le occasioni che lo bologia è una di queste, e l’altra il tempo, quello tra- vedranno coinvolto. ◊ scorso a cui fa riferimento, e poi quello che sicuramente sarà necessario per decriptare e completare le informazioni, arricchendo la comprensione dei rebus The viewer enigmistici in opera.

FOTO PAGINA A FIANCO: Fabrizio Cotognini, The viewer Visitandole, le stanze appariranno ciascuna come una Acheropita (2019) di origine “miracolosa” e verrà (2018; oro 24k su incisione originale del XVIII secolo; da domandarsi quale sia il confine tra le operazioni Collezione privata) di suo pugno e gli originali citati e messi in causa, e tra reale e mitologico.

La lettura dei lavori di certo è affidata inoltre a un www.fabriziocotognini.it secondo determinante livello, in cui simbolo-allego-

104 • FINESTRE SULL’ARTE

| DENTRO LA MOSTRA

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Bertoja e Mirola FONTANELLATO

La Maniera emiliana testo di Federico Giannini

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja e Girolamo Mirola sono i protagonisti della mostra La Maniera Emiliana. Bertoja, Mirola, da Parma alle corti d’Europa, al Labirinto della Masone di Fontanellato fino al 28 luglio 2019.

T

ra le non molte certezze che circondano le figure di Jacopo Zanguidi detto il Bertoja (Parma, 1544 – 1573) e Girolamo Mirola (Bologna, 1530/1535 – Parma, 1570), esponenti di spicco della maniera emiliana (per quanto poco noti al grande pubblico), è possibile annoverare la dimensione internazionale del loro linguaggio, che conobbe la propria fioritura in un’epoca straordinariamente feconda per le arti dell’Italia settentrionale, contraddistinta dagli scambi prolifici, mutevoli e numerosi tra il nord e il centro della penisola, e da quelli, altrettanto fertili e vicendevoli, che intercorsero tra Italia e Francia dopo la chiamata di Francesco Primaticcio (Bologna, 1504 – Parigi, 1570)

a Fontainebleau nel 1532. Si trattò d’un evento capitale per le sorti dell’arte del secondo Cinquecento: la presenza del bolognese nel cantiere della reggia poco fuori Parigi attirò al di là delle Alpi una schiera d’artisti felsinei che, mettendo in circolazione disegni o stampe, oppure tornando in Italia forti delle nuove esperienze, contribuì alla diffusione di quel gusto bel-

Venere scopre il corpo di Adone FOTO PAGINA A FIANCO:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja,

Venere scopre il corpo di Adone (olio su tela, 117 x 91 cm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, Aile Denon, Inv. R.F. 1995-8) FINESTRE SULL’ARTE • 107

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Il ratto delle Sabine Girolamo Mirola, Il ratto delle Sabine (olio su tela, 153,5 x 210 cm; Bologna, Musei Civici d’Arte Antica, Collezioni Comunali d’Arte, inv. 1245)

Madonna della Misericordia FOTO A SINISTRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Madonna della Misericordia con sant’Alberto (?) e sant’Angelo

(olio su tela, 167,5 x 122,5 cm; Parma, Galleria Nazionale, inv. 1109) FOTO A DESTRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Madonna della Misericordia con sant’Alberto (?) e sant’Angelo (penna

con acquerello grigio bruno, con contorni frastagliati, 147 x 105 mm; Oxford, Christ Church Picture Gallery, inv. JBS484)

lifontain la cui piena comprensione risulta ancor oggi poco agevole, stante l’esiguità di quanto è sopravvissuto in Fontainebleau. Non solo: furono quelli gli anni in cui l’itinerario inverso fu percorso da molti pittori francesi che, formatisi sugli esiti della Scuola di Fontainebleau, parimenti ne diffusero le novità in Italia lavorando soprattutto in Emilia e a Roma (si pensi, giusto a titolo d’esempio, al Palazzo Ricci-Sacchetti a Roma, dove furono impiegati, tra gli altri, Marc Duval e Ponce Jacquiot, o al Palazzo del cardinale Girolamo Capodiferro, oggi sede del Consiglio di Stato e più noto come Palazzo Spada: per le decorazioni, il prelato, soggiogato dalla magnificenza della residenza di Fontainebleau, aveva chiamato dalla Francia una équipe di stuccatori che operarono a stretto contatto con i pittori lì impegnati, Giulio Mazzoni su tutti, tanto che Federico Zeri avrebbe definito il palazzo

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come una «Fontainebleau in formato ridotto»). E non si dovrà sottovalutare neppure la direttrice che corre tra Roma e Venezia passando per la Toscana e per l’Emilia: per Bologna transitarono Salviati e Vasari diretti verso la laguna, e sempre a Bologna e in Emilia tornarono artisti come Pellegrino Tibaldi e Prospero Fontana dopo aver lavorato nei cantieri romani (e, per inciso, lo stesso vale per il Bertoja, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta fu attivo nei territorî dello Stato Pontificio). È al centro di questo vivace contesto che si colloca l’opera di Bertoja e Mirola. Recente, benché piuttosto densa, è la storia critica che riguarda questi due mirabili pittori del secondo Cinquecento parmense: gl’importanti studî di storici dell’arte come Maria Cristina Chiusa, Dominique Cordellier, Diane De Grazia (quest’ultima peraltro autrice d’una significativa mo-

nografia pubblicata nel 1991), David Ekserdjian, Augusta Ghidiglia Quintavalle (cui si deve il primo studio sistematico sul Bertoja, risalente al 1963), Vittoria Romani, Pierre Rosenberg e altri hanno contribuito a tessere nuovamente

sa) che li separano, consapevoli tuttavia del fatto che, sottolinea la curatrice, «le incerte oscillazioni attributive dall’uno all’altro, come in un giallo irrisolto, per la complessità delle tematiche culturali e stilistiche coinvolte, non hanno trovato

L’opera di Bertoja e Mirola si colloca in un’epoca molto feconda per l’arte del nord Italia, caratterizzata dagli scambi vicendevoli con la Francia e con l’Italia centrale. le trame della produzione dei due artisti emiliani, specialmente per quanto attiene all’ambiente in cui si trovarono a operare. Era però finora mancata una mostra monografica a loro dedicata: la lacuna è stata quest’anno colmata con la rassegna La Maniera emiliana. Bertoja, Mirola, da Parma alle corti d’Europa, curata da Maria Cristina Chiusa, allestita nelle sale della Collezione Franco Maria Ricci al Labirinto della Masone di Fontanellato, e capace d’individuare, fin dalla titolazione, i due pilastri portanti su cui è stata strutturata, ovvero le testimonianze dell’attività parmense dei due pittori e il loro inserimento nella cultura europea dell’epoca. Non si tratta però soltanto d’una mostra che mira a riepilogare quanto gli studiosi hanno sin qui riscontrato in merito a Bertoja e Mirola: permangono ancora molti punti da chiarire, data anche la strettissima vicinanza tra i due. Una vicinanza tale da portare la storiografia a parlare d’un «problema Mirola-Bertoja»: in tali termini s’espresse, tra gli altri, Augusta Ghidiglia Quintavalle, rimarcando la questione della natura dei rapporti tra i due nell’ambito della strettissima collaborazione che li portò a eseguire fianco a fianco diverse opere. Si tratta, in sostanza, di distinguere le loro attività, cercando di tracciare in maniera più decisa i confini («labili», precisa Chiu-

ad oggi una soluzione esaustiva». I motivi di tali incertezze risiedono nella formazione comune, nel fatto che Mirola e Bertoja si trovarono a lavorare assieme (per esempio nel Palazzo del Giardino a Parma, la sontuosa reggia voluta da

Presentazione di Cristo al Tempio FOTO SOTTO:

Girolamo

Mirola, Presentazione di Cristo al Tempio (matita rossa e nera con penna e inchiostro bruno, i contorni frastagliati, eseguito su tre fogli attaccati, 754 x 584 mm; Londra, British Museum, inv. PD SL. 5214.274)

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Bertoja e Mirola hanno rappresentato, e rappresentano tuttora, un vero problema per gli storici dell’arte, data la loro vicinanza stilistica e la conseguente difficoltà nel distinguere l’uno dall’altro: hanno avuto una comune formazione, lavorarono assieme, e maturarono un’arte molto simile.

Ottavio Farnese, secondo duca di Parma e Piacenza), nella loro estrema vicinanza stilistica.

Osservare, anche da lontano, le vicende di Bertoja e Mirola, equivale a seguire due storie del tutto analoghe: nati nello stesso torno d’anni, entrambi affascinati (com’era naturale che fosse) dall’eleganze anticlassiche e corsive del Parmigianino (Francesco Mazzola; Parma, 1503 – Casalmaggiore, 1540), attenti alle atmosfere fiabesche di Niccolò dell’Abate (Modena, 1512 – Fontainebleau, 1571), operanti, poco più che ventenni, nella Bologna che risentiva del gusto introdotto dagli émiliens à Fontainebleau (e se per Mirola il mentore fu tuttavia un’artista che mai si recò in Francia, ovvero Pellegrino Tibaldi, col quale operò in Santa Maria dei Servi, Zanguidi

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collaborò nella cappella Pepoli in San Domenico con Prospero Fontana, che al contrario, coinvolto dal Primaticcio, era stato a Fontainebleau), chiamati dal duca negli splendidi cantieri farnesiani, entrambi scomparsi giovani (addirittura a soli ventinove anni il Bertoja).

Simile è anche la loro presenza frammentaria nelle fonti (occorrerà notare come la loro fortuna critica sia un fatto recente: la riscoperta di Bertoja e Miro-

Amore e Psiche FOTO SOTTO:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Amore e

Psiche (olio su gesso trasferito su tela, 40 x 50,5 cm; Parma, Galleria Nazionale, inv. 0895)

la rimonta, sostanzialmente, alla seconda metà del Novecento): i due furono dimenticati addirittura dai loro contemporanei, dacché le citazioni nelle fonti cinquecentesche (esclusi, ovviamente, i documenti d’archivio) si contano sulle dita d’una mano.

Vasari cita il Bertoja solo nel suo Libro dei disegni, attribuendogli un paio di fogli, e non lo menziona nelle Vite, dove compare soltanto un fugace cenno a Girolamo Mirola: «in Parma è oggi, appresso il signor duca Ottavio Farnese, un pittore detto Miruolo, credo, di nazione romagnuolo, il quale, oltre ad alcune opere fatte in Roma, ha dipinto a fresco molte storie in un palazzetto che ha fatto fare il detto signor duca nel castello di Parma». Gli unici autori che, nel Cinquecento, parlano del Bertoja, sono Angelo Maria Edoardi da Herba, che dedica al giovane pittore alcune righe nel suo Compendio sulla città di Parma compilato nel 1572-1573 («e vive ancora Giac.o di Bertoia molto giovane et di tanta buona speranza di tal arte et havendolo fin qui con salario intratenuto il Duca Ottavio ha dipinto nel Castello intorno alla Fontana, e nella Casa di S. Croce molte leggiadriss.e inventioni»), e Giovanni Paolo Lomazzo, che nella sua celeberrima Idea del tempio della pittura si limita a indicare «Giacomo Bertoja parmigiano» tra gli allievi di Ercole Procaccini (artista che, come rilevato dalla critica, probabilmente Zanguidi ebbe modo di frequentare a Parma). Molti fattori hanno pesato su tale sfortuna (e in particolare su quella del Bertoja), tutti ricordati da Maria Cristina Chiusa in occasione d’un convegno sui due artisti tenutosi a Parma nel 2013: la loro scomparsa in giovane età, l’aver lavorato presso palazzi privati e non per grandi cantieri pubblici, l’esser stati attivi nel momento in cui la cultura nella quale s’erano formati conosceva un inesorabile declino, il fatto che il successore di Ottavio Farnese, Alessandro, non nutrisse lo stesso interesse per le arti così sapientemente coltivato dal padre. Pertanto, approfondire le due figure di Bertoja e Mirola con una mostra monografica significa anche domandarsi, come suggerisce Pierre Rosenberg nella sua nota in memoria di Sylvie Béguin, studiosa che ha dedicato numerosi e pregni contributi ai rapporti tra Francia ed Emilia nel Cinquecento, quale sia stata l’effettiva portata dell’arte di Bertoja e Mirola.

L’analisi non può che cominciare dai punti fermi: ad accogliere il visitatore, in avvio di percorso, è la meravigliosa tela con Venere che scopre il corpo di Adone,

Figura femminile ignuda FOTO SOPRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Figura

femminile ignuda vista da tergo (già indicato come Venere) (olio su gesso trasferito su tela, 67,8 x 32 cm; Parma, Galleria Nazionale, inv. 0893)

scoperta da Pierre Rosenberg negli anni Novanta (e nello stesso periodo acquistata dal Louvre) e da lui attribuita al Bertoja per le evidenti consonanze stilistiche con le opere note. «Gemma del catalogo di Bertoja» la definisce Chiusa: e della preziosità della tela si può ben avvedere anche chi con la maniera emiliana ha poca familiarità. Il bellissimo e delicatissimo corpo eburneo della dea dell’amore (un «inno al corpo femminile» per Rosenberg), colta mentre con incedere leggiadro s’appresta a scendere dal carro per scoprire il suo amante e riscontrare ch’è morto per le ferite procurategli da un cinghiale durante una battuta di caccia, presenta la stessa grazia sinuosa e le stesse proporzioni allungate delle figure muliebri FINESTRE SULL’ARTE • 113

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Mirola e Bertoja furono due raffinati disegnatori, soprattutto Jacopo Zanguidi, che fu molto prolifico. La quantità e la qualità dei loro disegni è in grado di orientare gli storici dell’arte nell’attribuire loro i dipinti. del Parmigianino: con sottilissima presa dell’indice e del pollice tira lievemente le briglie attorno alle due colombelle, con l’altra mano tiene a sé il velo cangiante che svolazza formando rigonfi innaturali, consonanti alle forme tondeggianti delle nubi (quest’ultime, insieme alla luce abbacinante, rappresentano reminiscenze correggesche: si rammenti la tela con Giove e Io del ciclo degli amori degli dèi, oggi custodita al Kunsthistorisches Museum di Vienna), col piede sinistro par quasi accarezzare la pedana del suo cocchio mentre si protende con le spalle in avanti, facendo così risaltare la bellezza atletica del suo seno, per rivolgersi al figlio Cupido, il quale a sua volta, sconsolato, allarga le braccia di fronte alla vista d’Adone accasciato al suolo. Il coCostruzione del tempio di Ercole lorito perlaceo della dea è memore delle soluzioni di Fontana e Procaccini, a riprova della base boloFOTO SOPRA: Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, gnese dell’arte bertojesca, mentre il tema mitoloCostruzione del tempio di Ercole (penna e inchiostro gico è del tutto in linea con gl’interessi d’un artista bruno, acquerello bruno, parzialmente quadrettato a che di lì a breve si sarebbe cimentato con fervore matita nera, 420 x 280 mm; Parigi, Musée du Louvre, nell’impresa del Palazzo del Giardino, decorato con motivi tratti dal repertorio antico (ma anche Département des Arts Graphiques, inv. 10678) dalla letturatura moderna: l’Orlando furioso e l’Orlando innamorato in particolare): tuttavia, l’attribuzione in possesso di Vasari, e che oggi si trova al Louvre (vi a Zanguidi poggia soprattutto sul raffronto coi suoi disegni noti, in particolare con uno dei fogli ch’erano si riscontra la stessa composizione, pur con molte divergenze, a cominciare dall’assenza d’Adone e dal bel paesaggio in cui la scena è ambientata). Non è invece Lancia di Ercole riferibile al dipinto il disegno con Venere e Adone, esposto in mostra (ma nella seconda sala), animato dallo FOTO PAGINA A FIANCO: Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, stesso velato erotismo che muove la tela oggi al museo Due uomini tentano di estrarre dal terreno la lancia parigino. di Ercole (penna in marrone, lavatura marrone, Uno dei metodi più sicuri per formulare attribuzioni lumeggiature in bianco sopra un disegno preparatorio a che abbiano elevati margini di certezza risiede infatti nel confronto tra dipinti e disegni, come ben ricormatita nera, quadrettato con matita nera, 515 x 263 mm; da anche David Ekserdjian nel suo saggio a cataloVienna, Albertina Museum, inv. 584)

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go: «quando si cerca di stabilire un collegamento tra uno studio preparatorio e un dipinto, si spera sempre di trovare un numero sufficiente di elementi formali comuni a entrambi, ma nello stesso tempo alcune varianti (grandi o piccole) che dimostrino che il disegno non sia semplicemente una copia su carta del dipinto». Così, uno dei primi disegni sicuri del Bertoja è lo studio per la Madonna della Misericordia, il gonfalone eseguito nel 1564 per la Confraternita di San Quirino a Parma (oggi è sempre a Parma, ma alla Galleria Nazionale), che al pari della Venere che scopre il corpo di Adone figura nella prima sala della rassegna di Fontanellato, e offre al pubblico uno straordinario confronto col suo disegno preliminare, in arrivo dalla Christ Church Picture Gallery di Oxford. La composizione è la stessa, ma appaiono quelle differenze che risultano decisive per pensare a uno studio invece

Una composizione che si squaderna concitata in uno spazio turbinoso, con andamento che richiama quasi quello d’un vortice, vede per protagonisti, in primo piano sotto un paesaggio di rovine classiche, un gruppo di cavalieri che s’arrabattano per avventarsi sulle donne sabine che provano a sfuggire portando con loro i pargoletti, mentre in secondo piano le violenze toccano il loro apice coi soldati romani che già ghermiscono, afferrano, trascinano, strattonano, trasportan via di peso le loro prede fin quasi alla spiaggia in lontananza, talvolta issandole a guisa di trofei, in uno scontro furibondo che non risparmia neppure i cavalli, presi come sono a mordersi tra loro, brutali e inquietanti. In questa lotta di tutti contro tutti permane vivo il ricordo dei tormenti michelangioleschi romani, ma questa specie di ferocia fine ed estetizzata in accenti melodiosi e innaturali trova riscontro anche

Osservare le vicende di Bertoja e Mirola, equivale a seguire due storie analoghe: nati nello stesso periodo, affascinati dal Parmigianino, operanti nella Bologna che risentiva del gusto degli emiliani che lavorarono a Fontainebleau, chiamati dal duca di Parma a lavorare nei cantieri farnesiani, entrambi scomparsi giovani. che a una copia: si può pertanto facilmente riscontrare come nella redazione finita su tela cambino gli atteggiamenti, compaiano le consorelle protette dalla Vergine (assenti nella prova su carta, benché Jacopo Zanguidi avesse naturalmente previsto lo spazio atto a ospitarle), e ovviamente figurino gli attributi dei santi che mancano invece nel disegno. La tela risente ancora d’evidenti suggestioni parmigianinesche (la figura della Madonna in particolare, come nota giustamente Ekserdjian, dipende dalle Vergini sagge e folli della Madonna della Steccata, uno dei capolavori del Parmigianino), tanto che lo stesso disegno di Oxford fu a lungo ritenuto opera di Francesco Mazzola.

Quanto a Girolamo Mirola, il viaggio può ben partire dalla parete di fondo della prima sala della mostra, dov’è stato sistemato il suo Ratto delle Sabine delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, opera in passato assegnata anche a Zanguidi: la curatrice ne riafferma la paternità a Mirola sottolineandone alcune caratteristiche che paiono più pertinenti all’arte del bolognese che a quella del giovane collega parmense.

116 • FINESTRE SULL’ARTE

nelle decorazioni della reggia di Ottavio Farnese, per un brano di pittura che a sua volta, evidenzia Chiusa, «dichiara un’esplicita conoscenza della civiltà artistica irradiata dalla corte di Francesco I a Fontainebleau» ed è in rapporto di dipendenza con alcuni disegni che parimenti palesano elementi franco-bolognesi: uno di questi, presente in mostra, raffigura Tre donne in corsa e veniva ricondotto al dipinto delle collezioni civiche felsinee anche quando l’opera si riteneva di mano del Parmigianino. Questo foglio, a lungo pubblicato come opera del Bertoja, è stato ascritto alla mano di Mirola da David Ekserdjian, che ha riscontrato alcune differenze stilistiche rispetto ai fogli noti di Jacopo Zanguidi proprio in occasione della mostra del Labirinto. Non si tratta, peraltro, dell’unico cambio d’attribuzione, e neppure dell’unica novità, a dimostrazione di come le mostre scientificamente fondate rappresentino opportunità raramente ripetibili per operare confronti puntuali, per approfondire uno studio, per ricavare conferme o smentite grazie alla possibilità d’osservare le opere de visu, e anche

per avviare ricerche che conducano all’acquisizione di nuovi elementi: è per esempio il caso del Gruppo di undici figure tracciato su di un foglio conservato al British Museum e riferito, sempre in sede di mostra, a Mirola, per la sua vicinanza all’altre sue opere note, dacché palesa caratteristiche simili a quelle dei (pochi) disegni che gli si possono assegnare con certa sicurezza e dove s’incontrano composizioni popolatissime e dense, quasi claustrofobiche (ne è esempio la Presentazione di Cristo al Tempio del British Museum, dove il Bambino è peraltro una citazione dalla Madonna del collo lungo del Parmigianino), tratti a penna contraddistinti da una «scioltezza di tocco» (così Ekserdjian) che non hanno eguali nei fogli di Jacopo Zanguidi (artista che componeva i suoi disegni a penna con linee meno fluide), tratteggi fitti, figure imponenti. Le differenze stilistiche tra i due si riverberano, com’è ovvio, nei dipinti, e la prima sala della mostra è funzionale non solo a introdurre entrambi gli artisti, ma anche a sottolinearne affinità e divergenze: una declinazione della Maniera emiliana, quella di Bertoja, «intonata a passi di danza e ad un ritmo dinamico e cantabile che modula le figure, a volte stilemi in filigrana, mobili, leggere, quasi prive di un peso corporeo», come scriveva Chiusa nei suoi Addenda al convegno del 2013, e ugualmente aggrazia-

ta quella di Mirola, benché la sua materia pittorica sia «espansa e dilatata, i corpi smisurati», e la declinazione dei volumi votata a quel «cubismo programmatico» d’ascendenza felsinea, coi corpi quasi inscritti in solidi, su cui ragionava Ferdinando Bologna già negli anni Cinquanta.

Il Bertoja, infaticabile e prolifico disegnatore, è protagonista della seconda sala, dove spiccano cinque

Sei cavalli in lotta FOTO SOPRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Sei cavalli

in lotta (penna e acquerello bruno su matita rossa e nera, i contorni frastagliati, recto, 261 x 422 mm; Windsor, Royal Collection Trust, inv. RCIN 990498)

frammenti a soggetto mitologico che si ritengono parte d’un antico ciclo decorativo d’una sala del Palazzo del Giardino di Parma. Gli affreschi della residenza di Ottavio Farnese furono una delle più considerevoli imprese di Mirola e Bertoja che qui lavorarono di concerto, e i cinque brani a olio su gesso esposti al Labirinto della Masone, pur nella loro condizione FINESTRE SULL’ARTE • 117

Gli angeli della giustizia FOTO SOPRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Gli angeli della giustizia (penna e acquerello bistro, quadrettato a

penna, 250 x 299 mm; Milano, Civiche Raccolte d’Arte, Gabinetto dei Disegni, inv. 2000 C 203)

di lacerti avulsi dal loro contesto, ne evocano gusto, linee stilistiche e cultura: snelle e soavi figure femminili che si muovono con delicatezza e quasi seguendo una coreografia, divinità che amoreggiano e coppie che corrono a dorso di cavallo sono immediate ambasciatrici delle imprese ducali, tutte tese a celebrare i loro committenti pescando a piene mani dal reperto-

tra immagini letterarie rinascimentali e storie mitologiche o tratte dai poemi antichi: collegamenti che spiegherebbero parimenti l’esaltazione della cultura letteraria di Boiardo e Ariosto attraverso l’uso, proprio della corte estense e poi trasmesso a quella parmense, d’adoperare i miti in termini encomiastici. A necessità di tipo moraleggiante rispondeva invece la

Già nel Cinquecento inoltrato ci s’era dimenticati di loro: la loro sfortuna critica è dovuta alla scomparsa in giovane età, all’aver lavorato in palazzi privati e non per grandi cantieri pubblici, all’esser stati attivi nel momento in cui la loro cultura era in declino. rio dell’antica mitologia o da quello della letteratura, nei quali personaggi spesso i potenti s’identificavano.

Si pensi, per esempio, alla Sala del Bacio nel Palazzo del Giardino, grande allegoria d’una aetas felicior che evidentemente il duca immaginava di far corrispondere all’epoca del suo governo, e scena per la quale, peraltro, Chiusa sottolinea la necessità d’una rilettura aggiornata che tenga conto d’eventuali connessioni 118 • FINESTRE SULL’ARTE

decorazione degli ambienti del Palazzo Farnese di Caprarola, cui Jacopo Zanguidi attese nei primi anni Settanta, chiamato in sostituzione di Federico Zuccari per continuare a dar forma agl’intenti programmatici del fratello di Ottavio, il cardinale Alessandro Farnese, il cui palazzo, capolavoro del Cinquecento e caso singolare per un prelato, «rispecchiava quell’esigenza tutta umanistica di un luogo dedicato agli svaghi del

Tre figure sedute FOTO A SINISTRA:

Niccolò

dell’Abate (attribuito), Tre figure sedute (penna e inchiostro bruno su carta ingiallita, 158 x 251 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. 5904)

signore, e ai suoi interessi intellettuali» e «unisce allo sfarzo e alla magnificenza dell’edificio e delle decorazioni l’impressione di potenza e autorità, che già connotava il Palazzo di famiglia a Roma» (così scrive Maria Grazia Bernardini). All’impresa di Caprarola sono riferiti alcuni fogli che s’incontrano nella terza e ultima sala della mostra di Fontanellato: spiccano, in particolare, due modelli per la Sala d’Ercole (uno che raffigura Due uomini che tentano di estrarre dal terreno la lancia di Ercole e l’altro che riporta la Costruzione del tempio di Ercole), entrambi con aggiunta di quadrettatura in vista di un trasferimento su cartone per la successiva traduzione su parete, attraverso i quali possiamo apprezzare l’evoluzione da una scena di stretta osservanza zuccaresca, quella coi Due uomini (ne sono indice soprattutto le figure massicce e l’intonazione vigorosa lontana dalla grazia parmigianinesca tipica del Bertoja: è segno che qui l’artista preferì attenersi ai modi del suo predecessore), a una composizione più libera, con le figure che tornano ad assumere quelle proporzioni allungate e quel ritmo quasi musicale che sono tratti tipici dell’arte di Jacopo Zanguidi.

Nell’ultima sezione della rassegna si dispiegano ulteriori e varie prove dell’estro grafico del Bertoja: di grande forza sono i Sei cavalli in lotta per i quali Ekserdjian riafferma la paternità bertojesca (malgrado gli stessi profili equini si ritrovino nel Ratto delle Sabine di Girolamo Mirola, ma non è da escludere l’evenienza che il bolognese avesse adoperato, per la sua compo-

Tre donne in corsa FOTO A DESTRA:

Girolamo Mirola, Tre donne in corsa

(penna con acquerello bruno sopra matita rossa, rialzato di biacca, su carta lavata rosa, i contorni frastagliati, 199 x 173 mm; Londra, British Museum, inv. PD1952,0229.8) FINESTRE SULL’ARTE • 119

La caduta degli angeli ribelli FOTO A SINISTRA:

Jacopo

Zanguidi detto il Bertoja, La caduta degli angeli ribelli (penna in marrone, lavatura marrone, lumeggiature in bianco, linee radiali tracciate a matita nera, 437 mm diametro; Vienna, Albertina Museum, inv.

14375)

sizione, fogli del più giovane collega, prassi tutt’altro che rara al tempo) e le cui fattezze dipendono ancora dall’arte del Parmigianino, mentre il tratto nervoso, con linee parallele o ripassate che talora sortiscono l’effetto di donare rilievo alle figure, è tipico dei disegni di Jacopo Zanguidi e torna anche nelle figure più leggiadre (per esempio in un foglio con Marte, Venere e Cupido in arrivo dal dipartimento d’arti grafiche del Louvre). Il movimento e la leggerezza dell’ambiente bolognese sono caratteristiche ben evidenti nel foglio con Gli angeli della Giustizia, modello preparatorio per una scena della Sala dei Giudizî di Palazzo Farnese a Caprarola (come la quadrettatura lascia intendere), che somma alla grazia sinuosa spiccatamente parmense e al dinamismo vicino ai modi dei bolognesi (gli atteggiamenti si possono confrontare con quelli delle figure tracciate su di un foglio conservato al Louvre e attribuito, non senza dubbî e incertezze, a Niccolò dell’Abate) una fisicità che richiama invece l’ambito romano. E se ancora alle stanze di Caprarola si riferisce La caduta degli angeli ribelli, modello per

Ugolino Rossi vittorioso FOTO A FIANCO:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Studio

per Ugolino Rossi vittorioso contro i ghibellini (penna e acquerello bruno, rialzata di biacca – ossidata – su carta tinta, quadrettata a matita nera, 455 x 342 mm; Windsor, Royal Collection Trust, inv. R CIN 991196) 120 • FINESTRE SULL’ARTE

l’affresco d’una cupola suddiviso in sezioni numerate che rimandano alle pareti sottostanti e che servivano all’artista per aver ben chiare le corrispondenze con le decorazioni del resto della sala, il foglio con lo Studio per Ugolino Rossi vittorioso contro i Ghibellini è un disegno preparatorio per un’altra delle realizzazioni più importanti di Jacopo Zanguidi, la Sala delle Gesta Rossiane della Rocca di San Secondo Parmense, a pochi minuti di strada da Fontanellato: a Bertoja spetta il ruolo d’ideatore degli affreschi che avrebbero raccontato le imprese dei Rossi, una delle più potenti famiglie del parmense, che governava il piccolo marchesato di San Secondo, stato dipendente dal ducato di Parma e Piacenza e che conobbe la sua stagione di massima fioritura agl’inizî del Cinquecento. Il foglio è interessante non solo per la sua natura di modello preparatorio (che tuttavia dimostra alcune differenze con ciò che s’osserva sulla parete: in particolare, nel disegno la battaglia che Ugolino de’ Rossi combatté nella piana di Campaldino nel 1289 come capitano dell’esercito fiorentino contro i ghibellini d’Arezzo, e che è passata alla storia soprattutto in quanto vi parteciparono anche Dante e Cecco Angiolieri, occupa uno spazio più esteso di quello che le viene riservato nell’affresco), ma anche per il fatto che si tratta del primo caso noto d’utilizzo della quadrettatura nella produzione del Bertoja.

La rassegna contribuisce a individuare Jacopo Zanguidi e Girolamo Mirola come due protagonisti del loro tempo, nonché come due artisti versatili, anti-

FINESTRE SULL’ARTE • 121

Marte, Venere e Cupido FOTO SOPRA:

Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Marte,

Venere e Cupido (penna e inchiostro bruno su carta azzurra, 83 x 67 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. 6663 BIS)

naturalisti, impegnati, onirici, internazionali, ultimi eredi d’una cultura che cominciava a tramontare (per effetto dei cambi di gusto, ma anche dei rivolgimenti politici: il Concilio di Trento si chiudeva nel 1563, quando i due artisti cominciavano a entrare nel pieno delle loro attività, e le corti italiane avrebbero risposto in maniera disomogenea ai subbugli post-tridentini, sancendo così la fine del mondo rinascimentale), e che di lì a pochi anni avrebbe bruscamente virato verso il classicismo di matrice carraccesca che, rispetto all’ambito in cui Mirola e Bertoja s’erano formati ed erano cresciuti, si poneva in ottica diametralmente opposta. E in un tale contesto risalta anche l’importanza riservata alla pratica del disegno, nella quale si può arrivare a individuare un mezzo che spesso portò gli artisti a creare opere dotate della stessa forza d’un quadro o d’un affresco, e allo stesso tempo uno straordinario veicolo d’idee in circolazione costante e spesso capaci di passare da un’artista all’altro, con 122 • FINESTRE SULL’ARTE

spunti dell’uno che non di rado, come s’è visto a proposito dei cavalli del Ratto delle Sabine, vengono attuati dall’altro.

Un’arte colta, quella di Mirola e Bertoja, tutt’altro che agevole, riservata a pochi, e dunque già piuttosto fragile di per sé, ma che appare vieppiù tale quando si percepisce («fino alla commozione», sottolinea Claudio Strinati nella sua premessa al catalogo della mostra) che il loro mondo si stava sgretolando, e che la loro cultura stava già per diventare storia, riuscendo nondimeno a esprimere risultati d’altissimo livello.

Ragioni che spiegano anche il silenzio che fin da subito avvolse le loro figure, rimaste per secoli ai margini della storiografia (se non del tutto dimenticate), e risollevate dall’oblio soltanto in tempi recenti. Certo, diverse delle domande suscitate dai lavori di Mirola e Bertoja rimangono irrisolte (banalmente, giusto per fare un esempio, mancano prove per stabilire con esattezza certi spostamenti di Jacopo Zanguidi tra Parma e Roma all’inizio degli anni Settanta, e rimane ancora aperto, seppur mitigato dall’esposizione del Labirinto, il problema della distinzione tra le mani dei due artisti), ma occorre rilevare come la mostra abbia segnato un importante passo in avanti (reso possibile anche, e forse soprattutto, dalla possibilità di radunare un così vasto corpus grafico in una sola occasione) verso una più compiuta definizione delle loro personalità: un risultato significativo nell’ambito d’un percorso che, si può immaginare, proseguirà nell’intento di far sempre più luce sull’arte di Bertoja e Mirola e sui loro legami coll’ambiente in cui operarono. ◊

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Canopi egizî

Con il termine “canopo” si designano i vasi funerarî che venivano impiegati dagli antichi egizî. I canopi ci dicono molto su questa antica civiltà e oggi arricchiscono le collezioni dei musei archeologici di tutto il mondo.

Canopi di Paefciau(em)auyaset NELLA PAGINA A FIANCO:

Arte egizia, Canopo di

Paefciau(em)auyaset (epoca Tarda, XXVI dinastia, 664-525 a.C.; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)

S

ono una presenza quasi costante nei musei archeologici che accolgono collezioni d’arte egizia, sono oggetti che spesso hanno un notevole pregio artistico, e raccontano molto sulla civiltà che li produsse: sono i canopi, i vasi funerarî che venivano utilizzati nell’antico Egitto e in Etruria, seppur con impieghi molto diversi e senza che ci fosse in realtà un collegamento diretto tra il costume egizio e quello etrusco (i “canopi” etruschi sono così designati solo per la somiglianza esteriore con quelli egizî). Non sappiamo quale fosse il termine con cui gli antichi si riferivano ai vasi che oggi conosciamo come canopi: nelle attestazioni che ci sono giunte, gli egizî li indicavano genericamente come qebu en wet, ovvero “vasi per imbalsamazione”, mentre allo stesso modo non conosciamo eventuali definizioni precise adoperate da parte degli etruschi. “Canopo” è infatti una parola moderna: cominciò a diffondersi nella prima metà dell’Ottocento, quando i primi archeologi presero ad associare tutti i vasi con coperchi a testa umana e animale al cosiddetto “canopo di Osiride”. Era quest’ultimo un vaso con testa umana venerato nell’antica città di Canopo, che si trovava sul delta del Nilo ed era il principale porto dell’Egitto prima della fondazione di Alessandria. A Canopo, Osiride veniva adorato nella forma di tale vaso (la rappresentazione di questa singolare divinità ci è nota grazie alla numismatica: il canopo di Osiride compare spesso sul dorso delle monete

Canopi di Uahibra NELLA PAGINA PRECEDENTE:

Arte egizia, Canopi di

Uahibra, sacerdote di Uadjet, sovrintendente ai lavori a Menfi (epoca Tarda, XXVI dinastia, 664-525 a.C.; calcite; Torino, Museo Egizio, Collezione Drovetti, inv.

C. 3208/1, C. 3208/2, C: 3208/3, C: 3208/4) 124 • FINESTRE SULL’ARTE

Nell’antico Egitto, i canopi erano contenitori che servivano per accogliere gli organi del defunto dopo la mummificazione. Il loro stile conosce diverse evoluzioni nel corso della storia. romane coniate ad Alessandria): di qui, l’uso del termine “canopo” esteso a qualsiasi vaso con coperchio a forma di testa.

Non si trattava però di oggetti che venivano adorati: in Egitto, i canopi erano utilizzati come contenitori che dovevano accogliere gli organi che venivano estratti dal corpo del defunto durante il processo di mummificazione. I canopi forse più noti sono quelli che avevano le fattezze dei figli del dio Horus, ed erano prodotti in serie da quattro. Questa suddivisione era motivata da una precisa simbologia: rappresentavano i quattro punti cardinali, venivano modellati con quattro diversi tipi di teste, erano presieduti da quattro divinità (i quattro figli di Horus, appunto) ed erano associati a quattro diversi organi del corpo umano: Imset, testa umana, rivolto a sud, e nume tutelare del fegato; Hapi, babbuino, rivolto a nord, protettore dei polmoni; Duamutef, sciacallo, rivolto a est, accoglieva lo stomaco; Qebehsenuef, falco, rivolto a ovest, proteggeva l’intestino. A loro volta, i figli di Horus erano posti sotto la protezione di altre quattro divinità: Iside proteggeva Imset, Nefti custodiva Hapi, Neit era la divinità preposta a Duamutef, e Serqet proteggeva Qebehsenuef. Un famoso “set” completo di canopi è quello conservato al Walters Art Museum di Baltimora: si tratta di vasi risalenti al Terzo Periodo Intermedio della storia dell’antico Egitto (sono databili a un lasso di tempo compreso tra il 900 e l’800 avanti Cristo). Anche in Italia ci sono serie complete di canopi che spiccano per pregio e stato di conservazione: al Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona, per esempio, si conservano i canopi

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del sacerdote Shedor, risalenti alla XXI dinastia (dal 1069 al 945 avanti Cristo), mentre il Museo Egizio di Torino accoglie i canopi di Uahibra, un alto funzionario che ricoprì cariche importanti durante la XXVI dinastia (dal 664 al 525 avanti Cristo), noto anche da altre rappresentazioni che sono conservate presso altri musei. Al Museo di Antichità “Johann Joachim Winckelmann” di Trieste troviamo un altro “set”, anch’esso della XXVI dinastia: sono i canopi della signora Cia-en-heb, realizzati in alabastro.

Malgrado il loro ottimo stato di conservazione e il fatto che ci siano giunti completi, i canopi di Baltimora, Cortona, Torino e Trieste non sono tra i più antichi che conosciamo. I primi vasi utilizzati per la conservazione degli organi rimontano infatti al terzo millennio avanti Cri-

i canopi di Tutankhamon, rinvenuti nella sepoltura del giovanissimo faraone (i canopi facevano parte dell’abituale corredo funerario degli egizî) e realizzati in pregiato alabastro dalla mano di un artista raffinato, e quelli della regina Kiya, identificata grazie alle iscrizioni apposte sui vasi (spesso infatti erano corredati di epigrafi con indicazioni sull’identità del defunto, o con invocazioni alla divinità). I canopi erano cavi (anche se non mancano esemplari di canopi pieni, detti anche pseudocanopi: nella storia dell’Egitto ci furono infatti periodi nei quali le viscere rimosse dal corpo del defunto non venivano poste nei vasi funerarî, ma erano ricollocate all’interno del corpo stesso, e in tal caso i canopi avevano la sola funzione di proteggere il defunto), e potevano essere realizzati in diversi materiali: in calcare, in alabastro, in legno, in terracotta (i materiali variavano in base alle possibilità economiche del defunto).

Questi vasi rispondevano a una precisa necessità: gli egizî ritenevano infatti che il corpo del defunto dovesse continuare a vivere nell’aldilà, e per tal ragione era necessario che si preservasse intatto (e la presenza degli organi all’interno del corpo era di ostacolo al processo di imbalsamazione: venivano tuttavia posizionati all’interno dei canopi per fare in modo che anch’essi potessero ricongiungersi col corpo, con l’unica eccezione del cervello, che solitamente non veniva sto, ed erano contenitori divisi in quattro parti, conservato). destinate ad accogliere stomaco, polmoni, fegato e intestino (il cuore non veniva mai asporCanopi di Paefciau(em)auyaset tato: secondo le credenze religiose degli egizî, NELLA PAGINA A FIANCO: Arte egizia, Canopo di quest’organo era la sede dell’anima e per tal ragione non era toccato). A partire dall’Antico Paefciau(em)auyaset (epoca Tarda, XXVI dinastia, Regno (ovvero dal 2700 avanti Cristo in poi) si 664-525 a.C.; Napoli, Museo Archeologico Nazionale) diffuse l’uso di realizzare coperchi antropomorfi, mentre fu solo a partire dalla XIX dinastia (dal 1292 avanti Cristo) che comparvero i canopi con le sembianze dei figli di Horus. Ci fu I canopi furono prodotti in grande quantità poi un periodo in cui i coperchi dei canopi ri- nell’antico Egitto: oggi, possiamo trovarne molti producevano i connotati del defunto, e in questo esemplari nelle raccolte di diversi musei in tutto caso alcuni tra gli esempî più illustri si trovano il mondo. ◊ al Museo Egizio del Cairo: sono piuttosto famosi

Il termine “canopo” è moderno: in realtà non sappiamo se in antico esistessero dei termini precisi per indicare questi tipi di vasi.

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Canopi di Cia-en-heb FOTO SOPRA:

Arte egizia, Canopo di Cia-en-heb (epoca

Tarda, XXVI dinastia, 664-525 a.C.; Trieste, Museo Archeologico “Johann Joachim Winckelmann”)

Bibliografia essenziale Cristiana Zanasi (a cura di), Storie d’Egitto. La riscoperta della raccolta egiziana del Museo Civico di Modena, catalogo della mostra (Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico, dal 16 febbraio 2019 al 7 giugno 2020), All’Insegna del Giglio, 2019 Massimiliana Pozzi Battaglia, Simona Carosi, Alfonsina Russo (a cura di), Egizi Etruschi: da Eugene Barman allo Scarabeo dorato, catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini, dal 21 dicembre 2017 al 31 ottobre 2018), Gangemi, 2017 Gabriella Barbieri, Gli etruschi delle città: fonti, ricerche e scavi, Silvana Editoriale, 2010 David P. Silverman, Ancient Egypt, Oxford University Press, 2003 John H. Taylor, Death and the afterlife in ancient Egypt, University of Chicago Press, 2001 Maria Cristina Guidotti, Le mummie del Museo Egizio di Firenze, Giunti, 2001 Luciana Aigner Foresti, Maria Bonghi Jovino, Giovanni Reale, Ezio Savino, Marta Sordi, Cristina Chiaramonte Treré, Giovanni Tarditi, Antichità classica, Jaca Book, 1993 Luisa Banti, Etruscan Cities and Their Culture, University of California Press, 1973

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Wunderkammer.

BERTOLAMI FINE ART

Sigilli del tempo La Glittica

La glittica (dal greco glýphein, “intagliare”), l’arte di incidere e intagliare le pietre dure e le gemme, ha origini molto antiche.

Si hanno attestazioni di pietre preziose incise già nell’antica Mesopotamia e in Egitto, e la glittica conobbe la sua fioritura presso greci, etruschi e romani. Poco praticata nel Medioevo, quest’arte tornò in auge nel Rinascimento. Le tecniche di lavorazione variano a seconda del tipo di pietra, ma in generale il risultato si può ottenere in due modi: in negativo (il disegno è incavato rispetto al piano), o in positivo (se il disegno sporge).

Intaglio romano in corniola. L’ibis è nell’atto di suonare la buccina, strumento metallico a fiato utilizzato dalle legioni romane per le segnalazioni ed altri segnali acustici di vario genere. I sec. a.C. 13 x 9 x 2 mm | Stima €500 - 600

Intaglio romano italico in agata. Volatile sopra strumento musicale. II-I sec. a.C. 12 x 10 x 4 mm | Stima € 400- 500

Scarabeo etrusco in corniola. L’animale è raffigurato di 3/4. Piccola parte frammentaria mancante nella parte superiore. IV-III sec. a.C. 8,5 x 6 x 4 mm | Stima € 500 – 600

Intaglio romano in corniola. Leone marino. La creatura mitologica, rivolta verso sinistra, è caratterizzata da testa leonina, corna e zampe anteriori caprine, dorso alato e coda di pesce. II sec. d.C. 13 x 10 x 2 mm | Stima € 450 – 500

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Intaglio romano in corniola gemmaria. Testa di Giove Serapide. Scheggiatura sul bordo e tracce dell’antica montatura in ferro. Lucidatura a specchio. II sec. d.C. 14 x 11 x 1 mm | Stima €300 – 400

Intaglio romano in agata. Tirso. Il sacro bastone, terminante all’apice con una pigna e ornato al centro da un nastro annodato con un fiocco, è circondato dalle lettere O-S. Simbologia dionisiaca (riferimenti a Dioniso, le Menadi e ai satiri). I-II sec. d.C. 20 x 12 x 2 mm | Stima €350 – 400

Intaglio romano gnostico in eliotropio. Iscrizioni magiche su entrambi i lati. Interessante varietà della pietra. III sec. d.C. 13 x 10 x 2 mm | Stima € 700 – 800

Pregiato intaglio romano in agata cornalina. Due maschere teatrali con attributi. Iconografia insolita che racchiude un significato allegorico forse riferibile a qualche episodio scenico tratto da opere teatrali. I sec. d.C. 18 x 14 x 5 mm | Stima € 2.000 – 2.500

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Wunderkammer.

Intaglio romano in agata cornalina. Busto di Artemide.

La pietra è caratterizzata da un foro passante per tutto lo spessore in senso orizzontale, di origine naturale (presumibilmente scelto dal tagliatore di gemme per la sua particolarità) II-III sec. d.C. 11 x 8 x 2 mm | Stima € 250 – 300

Intaglio romano in calcedonio verde. AequitasMoneta. La figura, panneggiata, sorregge con la mano destra la cornucopia, mentre tiene la bilancia insieme a due spighe con la mano sinistra. I-II sec. d.C. 12 x 8 x 3 mm | Stima € 500 – 600

La glittica è l’arte dell’incisione di gemme e pietre dure.

Intaglio romano repubblicano in ametista. Busto di guerriero. Il giovane personaggio è rivolto verso sinistra, indossa un mantello che copre la spalla in secondo piano, lasciando scoperto il possente petto nudo di tre quarti con l’altra spalla in primo piano. I sec. a.C. 18 x 14 x 7 mm | Stima € 800 – 1.000

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Intaglio romano in corniola. Fauno con trofeo.

Il giovane personaggio è seduto sopra dei massi, impugna il tirso ed è nell’atto di contemplare un trofeo militare. II sec. d.C. 13 x 11 x 3 mm | Stima € 700 – 900

Intaglio romano in calcedonio verde. Guerriero. La figura elmata è nuda ed avanza verso sinistra; con la mano destra impugna la lancia, mentre con la sinistra due scettri o torce rovesciate (?). II-III sec. d.C. 13 x 9 x 3 mm | Stima € 600- 700

Intaglio in corniola. Cane con farfalla. Il quadrupede, simile ad un levriero, è raffigurato seduto e nell’atto di volgere la testa all’indietro per contemplare una farfalla. Lavoro postclassico.

14 x 11 x 2 mm | Stima €250 – 400

Intaglio in corniola. Atena Nicefora. La divinità, stante e drappeggiata, è armata e sostiene la statuetta della Vittoria; ai suoi piedi, una cesta con un serpente. Lavoro postclassico.

14 x 11 x 4 mm | Stima € 250 – 400

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Wunderkammer.

MEETING ART | BERTOLAMI FINE ART

Moderno

BOETTI/BAJ/STELLA

MEETING ART Alighiero Boetti (Torino, 1940 - Roma, 1994), Quello che non succede in cento anni succederà in un attimo (1988; arazzo a ricamo, 29 x 31,5 cm). Opera non firmata, timbro della Collezione Casamonti (FI) al retro, registrata presso l’archivio Alighiero Boetti come da dichiarazione su foto. base d’asta: 40.000 € | stima: 72.000 - 80.000 €

MEETING ART Enrico Baj (Milano,1924 - Vergiate, 2003), Fernandez de Moratin (1965; acrilico, collage, ovatta, passamaneria, stoffa su tela, 55 x 45 cm). Firma in basso a destra, titolo, firma, anno ed etichetta della Galerie Pierre (Stockholm) al retro, certificato per garanzia di autenticità e provenienza della Sant’Agostino Casa d’Aste e Gallerie d’Arte su foto. base d’asta: 30.000 € | stima: 54.000 - 60.000 €

BERTOLAMI FINE ART Joseph Stella (Muro Lucano, 1877 - New York, 1946), Another light to Coney Island (1939; olio su tela, 39,3 x 49,6 cm). Firma e data in basso a destra: Joseph Stella, 1939 stima 20.000 - 40.000 €

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IL PONTE CASA D’ASTE

Ballerina

LUCIO FONTANA

Lucio Fontana (Rosario, 1899 - Comabbio, 1968), Ballerina (1952; ceramica policroma smaltata, 75 x 50 x 40 cm). Firmata e datata 1952 in basso. Opera donata direttamente dall’artista a Don Luigi Maria Verzè. Opera accompagnata da certificato di autenticità su fotografia rilasciato dalla Fondazione Lucio Fontana, Milano con il n.4268/1 stima 250.000-350.000€ FINESTRE SULL’ARTE • 135

Wunderkammer.

BERTOLAMI FINE ART

Keith Haring (Reading, 1958 - New York, 1990) Cinque litografie in bianco e nero senza testo, firmate K. Haring e datate successivamente ‘85 in basso a sinistra sul fronte.

Litografie dal Libro d’Artista: Keith Haring - Lucio Amelio 1983; litografia su carta, 46,9 x 33,2 cm Le 30 litografie in bianco e nero in edizione limitata vengono realizzate in occasione della prima mostra italiana di Keith Haring nel giugno 1983 alla Galleria Lucio Amelio di Napoli, poi rilegate dal gallerista con legatura editoriale in tela gialla e copertina illustrata al tratto con Radiant Baby ripetuta in prima pagina. Nelle opere di Keith Haring non è raro trovare riferimenti espliciti agli abusi sessuali che nella sua vita ha combattuto duramente. stima € 3.000 – 4.000

136 • FINESTRE SULL’ARTE

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| GRAND TOUR

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Il Trionfo della Morte PISA

testo di Antonio Paolucci

Dopo un restauro durato più di settant’anni, il Trionfo della Morte di Bonamico Buffalmacco, il grande affresco che decora una delle pareti del Camposanto Monumentale di Pisa, è stato consegnato, nel 2018, a condizioni di leggibilità soddisfacenti, che ci permettono di comprendere pienamente di trovarci davanti a una pittura fortemente espressiva, tra i vertici del Trecento.

L

’ultimo risarcimento al patrimonio artistico italiano colpito dai disastri della guerra è avvenuto nel giugno del 2018 con la ricollocazione in parete degli affreschi staccati del Camposanto Monumentale di Pisa. Bisogna rimandare indietro l’orologio della storia di settantacinque anni e fermarlo all’estate del 1944.

Il fronte di guerra in Italia è in rapido movimento. Superati gli ostacoli di Montecassino e di Anzio, liberata Roma all’inizio di giugno, le armate alleate dilagano verso nord, direzione Firenze e oltre Firenze, la Val Padana. Il feldmaresciallo Kesselring comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, da quel grande tecnico della guerra che era, capisce che, nella situazione data, l’unica cosa intelligente da fare è di ritirarsi

in ordine oltre Firenze, per attestarsi sul formidabile sistema difensivo, già approntato sull’Appennino, noto come Linea Gotica. Sono mesi di battaglie di logoramento, di bombardamenti a tappeto, di feroci rappresaglie naziste sulla popolazione civile.

In luglio le truppe alleate sono arrivate sulla linea dell’Arno fra Empoli, San Miniato e Pisa, una linea dalla quale i tedeschi si stanno gradualmente sganciando. Nel centro storico di Pisa non ci sono più truppe germaniche ma il modo di condurre la guerra da parte degli alleati, soprattutto degli americani, è noto.

Piuttosto che far rischiare la vita a un solo cittadino in armi, meglio procedere con sistematici bombardamenti preventivi del territorio da occupare. Avvenne così che uno spezzone incendiario colpì il tetto del

L’allegra cavalcata FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco,

Trionfo della Morte, dettaglio dell’allegra cavalcata

Camposanto Monumentale. Le travi crollarono e bruciarono per tre giorni e tre notti, si fusero per il calore le coperture di piombo e gli affreschi (quelli di Spinello Aretino, di Taddeo Gaddi, di Benozzo Gozzoli, del cosiddetto Maestro del Trionfo della Morte) ne uscirono combusti, “cotti”, decoesi, trasfigurati nella loro composizione chimica.

Così li vide, nel settembre del ’44, Cesare Brandi, giovane direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, arrivato a Pisa con mezzi di fortuna perché l’Aurelia e la ferrovia erano interrotte.

Portava con sé pacchi di foto in bianco e nero della magnifica campagna condotta anni prima da Alinari. Erano le foto che si riveleranno in seguito preziose quando verranno avviate le prime operazioni di restau-

ro. Dopo Brandi arrivarono, nel Camposanto sconvolto e vulnerato dal fuoco, tutti i grandi storici dell’arte e i grandi restauratori. Arrivarono Carlo Ludovico Ragghianti all’epoca comandante del CLN militare toscano, Mario Salmi, Roberto Longhi, Ugo Procacci accompagnato da Frederic Hart, tenente dell’esercito americano, uno dei Monuments Men, il corpo speciale istituito da Roosevelt nel 1943 per la difesa del patrimonio artistico europeo minacciato dalla guerra. C’è anche, insieme a Procacci, un giovanissimo Umberto Baldini ventiduenne, in divisa di sottotenente del Corpo italiano di Liberazione.

Insieme agli storici dell’arte ci sono i restauratori, i migliori specialisti di pittura murale attivi in quegli anni.

Paolo Mora, Cesare Benini, Leone Lorenzetti, Leonetto Tintori. La situazione era drammatica. Bisognava agire con estrema urgenza utilizzando i materiali e le metodiche in uso all’epoca. Si provvide a staccare gli affreschi (facendo emergere le sinopie destinate a finire nel museo a loro dedicato inaugurato nel 1979) FINESTRE SULL’ARTE • 139

Trionfo della Morte FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte

(1336 circa; affresco, 564 x 1497 cm; Pisa, Camposanto Monumentale)

e a collocare le pitture murali su supporti in eternit con collante a base di caseato di calcio. Provvedimenti di emergenza condotti con materiali improprî, rivelatisi presto inadeguati quando non anche dannosi.

Il vero problema era rappresento dalla restituzione in parete degli affreschi staccati. Sull’obiettivo c’era il consenso unanime del mondo scientifico. Del resto aveva scritto Cesare Brandi con esemplare chiarezza ed efficacia: «Il Camposanto di Pisa senza gli affreschi sembra visto di rovescio… dove era il luogo degli affreschi asportati, le grandi pareti squallide, sebbene 140 • FINESTRE SULL’ARTE

inalterate, non sono più le stesse in quanto alla loro stessa qualificazione spaziale la decorazione pittorica era essenziale».

Se unanime era dunque la condivisione dell’obiettivo, non lo era altrettanto per quanto riguardava i possibili modi della loro concreta attuazione. Si confrontavano scuole di pensiero diverse che portarono a sperimentazioni inconcludenti e a un ritardo lungo più di mezzo secolo.

Il cambio di passo si ebbe nel marzo del 2008 nell’occasione del Convegno promosso e organizzato da Pier Francesco Pacini, Presidente dell’Opera Primaziale Pisana. Tutti gli affreschi, nessuno escluso, andavano rimessi in parete, fornendoli di nuovi supporti dalla temperatura regolabile grazie a sensori computerizzati così da evitare effetti di condensa in superficie durante l’inverno, naturalmente assicurando al contenitore monumentale adeguate condizioni climatologiche.

Questo fu deciso nel Convegno del 2008.

Per condurre a risultato il progetto deciso nel 2008, venne istituita una commissione che, da me presieduta e coordinata, comprendeva, fra gli altri, Gian Luigi Colalucci (il restauratore della Cappella Sistina) e Car-

Beni Culturali, Paolo Mandrioli, Ulderico Santamaria direttore del Dipartimento Analisi Scientifiche dei Musei Vaticani, Perla Colombini ordinaria di Chimica alla Università pisana. Nel giugno del 2018, dopo dieci anni di ininterrotto lavoro, la grande impresa è

La ricollocazione del Trionfo della Morte di Bonamico Buffalmacco è l’ultimo risarcimento al patrimonio artistico italiano colpito dai disastri della seconda guerra mondiale. lo Giantomassi: entrambi responsabili insieme a Stefano Lupo capo-restauratore di una squadra di dieci operatori, della messa in opera del progetto tecnico.

La commissione comprendeva inoltre storici dell’arte come Antonino Caleca e Andrea Muzzi, Soprintendente di Pisa, gli specialisti in Scienza della Conservazione Mauro Matteini già responsabile del CNR

arrivata a conclusione.

Nessuno pensi che un ciclo pittorico fra i più importanti della civiltà artistica italiana sia stato riportato “all’antico splendore” come scrivono i cattivi giornalisti. Ci sono parti irrimediabilmente perdute, altre ridotte all’ombra dell’ombra di quello che erano prima del ’44. Penso in particolare ai murali di Benozzo FINESTRE SULL’ARTE • 141

142 • FINESTRE SULL’ARTE

Il giardino d’amore FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte, dettaglio del giardino d’amore

Gozzoli.

Per fortuna, nella generale devastazione del ’44, porzioni importanti del ciclo del Camposanto e, in particolare, le scene apocalittiche del Giudizio, del Trionfo della Morte sono state relativamente risparmiate dal fuoco e oggi il restauro è in grado di consegnarle a un livello di leggibilità soddisfacente.

Oggi, dopo settantacinque anni, il sistema iconografico che governa i murali del Camposanto è tornato leggibile. C’è il santo protettore di Pisa Ranieri, negli affreschi di Andrea da Firenze e di Antonio Veneziano, mentre le storie dei santi martiri Efisio e Potito, le cui reliquie si conservano in Duomo, sono dipinte da Spinello Aretino. La vita significa per tutti imprevisti, disavventure e prove, a tutti richiede pazienza e

I tre cadaveri A FIANCO, IN ALTO:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della

Morte, dettaglio dei tre cadaveri

La scoperta dei cadaveri A FIANCO, IN BASSO:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della

Morte, dettaglio della scoperta dei tre cadaveri

sopportazione ed ecco le storie del patriarca Giobbe, dipinte da Taddeo Gaddi. Mentre tutto, nella storia della Salvezza, allude al Tempo dell’Attesa e prefigura la venuta di Cristo Salvatore, come è testimoniato nelle storie dell’Antico Testamento, pitture murali estremamente deteriorate, di Piero di Puccio e di Benozzo Gozzoli.

Tutti però devono sapere che, il Giorno del Giudizio, in Paradiso si entrerà per la porta stretta, per la porta della preghiera e della penitenza, come insegna la vita dei santi anacoreti i quali trionfano sulla Morte che pure è la Signora di questo mondo e consuma nell’orrore e nella putrefazione la gloria della giovinezza, lo splendore dell’Amore e le potestà della terra. È qui all’opera, in queste storie giustamente celebre, il cosiddetto Maestro del Trionfo della Morte da identificare nel grande maestro fiorentino di primo Trecento Bonamico Buffalmacco, geniale interprete di una variante naturalistica e ultraespressiva della lezione giottesca.

Come ha dimostrato Luciano Bellosi in un memorabile saggio Einaudi del 1974.

Buffalmacco è documentato a Pisa nel 1336. È intorno a questo anno che avvia e conclude la decorazione pittorica del Camposanto. Il tema iconografico è quello apocalittico e ascetico di matrice domenicana FINESTRE SULL’ARTE • 143

La morte FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo

della Morte, dettaglio della Morte

144 • FINESTRE SULL’ARTE

La disputa tra demoni e angeli FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte, dettaglio dei demoni e degli

angeli che si disputano le anime FINESTRE SULL’ARTE • 145

146 • FINESTRE SULL’ARTE

Gli anacoreti FOTO SOPRA:

Bonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte,

dettaglio degli anacoreti

storo, uniti dalla falce della Morte, i demoni e gli angeli (ecco un altro contrasto) si disputano le anime.

C’è poi, chiave di lettura fondamentale, il contrasto fra la vita felice del giardino d’amore e della allegra cavalcata, e la solitudine dei santi anacoreti che, nel deserto, vincono la morte consumando la vita nella penitenza e nella preghiera.

Siamo di fronte (il restauro ultimo ci permette di capirlo come mai era stato possibile prima) a una pittura magnificamente realistica fortemente espressiva, che sembra contraddire l’ordine e la misura giotteschi dai quali pure deriva. Nei murali del Camposanto di Pisa, Bonamico Buffalmacco, il protagonista di alcune delle novelle più gustose del Decamerone, si colloca ai vertici più alti della grande pittura italiana del Trecento. ◊

(probabilmente ereditato dai testi del contemporaneo Domenico Cavalca), del Trionfo della Morte.

La Morte afferma il suo potere, attraverso una sequenza di contrasti. È un contrasto il giardino d’amore dove belle ragazze suonano e cantano felici, messo a confronto con l’incontro dei tre vivi con tre morti. È questo il dettaglio più celebre della scena. Una allegra cavalcata di bei giovani attraversa il bosco per una battuta di caccia e qui incontra tre cadaveri rappresentati a un diverso livello di putrefazione. I cavalli scartano, i cani ringhiano fiutando l’odore della Morte, le ragazze si coprono il naso con il fazzoletto, i morti I poveri, i malati, gli afflitti guardano i vivi perché sappiano quale sarà presto il loro destino.

A FIANCO, IN ALTO: Bonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte, In un’altra porzione di affresco si vede la Morte, la dettaglio dei poveri e dei malati che invocano la Morte grande falciatrice, che miete i suoi poderi di questo mondo. Trascura i poveri, i malati, gli afflitti che I potenti vinti dalla Morte pure la invocano come rimedio ai loro mali, mentre si accanisce sui potenti di questo mondo: papi, re, A FIANCO, IN BASSO: Bonamico Buffalmacco, Trionfo della vescovi, giudici, notabili di vario genere. Di tutti coMorte, dettaglio dei potenti vinti dalla Morte

FINESTRE SULL’ARTE • 147

| GRAND TOUR

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Biccherne senesi SIENA

testo di Francesca Interguglielmi

L’Archivio di Stato di Siena conserva una collezione unica al mondo: quella delle Biccherne senesi, le tavole che, dal 1257 e fino all’inizio del Settecento, furono utilizzate come copertine dei registri contabili delle magistrature senesi. Sono opere che testimoniano un particolarissimo caso di rapporto tra arte, politica e finanza nell’Italia antica.

L’

Archivio di Stato di Siena, che dal 1858 trova prestigiosa collocazione all’interno di Palazzo Piccolomini nei pressi di piazza del Campo, conserva una collezione unica nel suo genere per la tipologia di manufatti artistici che raccoglie. Questa raccolta, che consta di centocinque pezzi, è interamente esposta al pubblico ed è allestita in maniera permanente in cinque sale dell’Archivio senese, con un percorso espositivo indicato come “Museo delle Biccherne”. L’attuale allestimento è stato inaugurato nel 2004. Definite da Enzo Carli «singolarissimi frutti di un eccezionale connubio tra Arte e Finanza», le tavolette dipinte di Biccherna, indicate poi semplicemente come “biccherne”, sono composizioni pittoriche

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realizzate su tavola (salvo alcune eccezioni) che, commissionate a partire dalla metà del XIII secolo dalle più importanti magistrature del Comune senese, furono utilizzate principalmente come copertine dei registri di amministrazione contabile.

Per questo sono state allestite negli stessi spazî dove viene conservato il materiale archivistico propriamente detto. Il termine è riferito al primo ufficio che nel 1257 si occupò di questa commis-

Biccherna 20 FOTO PAGINA A FIANCO:

Autore ignoto, Il Camarlingo e lo

scrittore nel loro ufficio (1388; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 20). Divieto di ulteriore riproduzione

sione, quello di Biccherna. In seguito iniziarono questa pratica altri uffici pubblici come la Gabella, il Concistoro, i Casseri e fortezze, la Camera del Comune, ma anche enti e corporazioni presenti in città come l’ospedale di Santa Maria della Scala, l’Opera metropolitana e le compagnie laicali come quella di San Giovanni della Morte. Quello conservato presso l’Archivio di Stato di Siena è il nucleo più consistente di queste particolari realizzazioni artistiche, ma è da constatare la loro presenza anche all’interno di diversi musei e collezioni internazionali.

Questa vicenda artistica prese avvio poco dopo la metà del Duecento, nel cuore della burocrazia della Repubblica senese, considerata come uno dei più alti episodî di civiltà comunale. La fortuna di questa città può essere interpretata attraverso due elementi chiave: il primo è la sua collocazio-

Documentata fin dal 1168, la Biccherna si occupava dell’amministrazione finanziaria di Siena: tutte le spese e le entrate del Comune erano gestite e controllate da questo ufficio, che rappresentò il superamento della precedente organizzazione fiscale imperiale e vescovile, capace di rispondere in maniera più adeguata alle nuove necessità che la struttura comunale comportava.

L’etimologia del termine “biccherna” è tuttora incerta. Secondo la proposta più accreditata, il termine dovrebbe essere stato importato dall’Oriente, insieme alla funzione stessa dell’ufficio: infatti a Costantinopoli, con cui Siena era in contatto per gli scambi commerciali, Blacherne era il quartiere degli uffici pubblici, ed in particolare si indicava con questa parola il palazzo della Dogana. A questa ipotesi si contrappone la proposta secondo la quale il termine deriverebbe dal tedesco Bücher

L’Archivio di Stato di Siena ospita centocinque biccherne, in cinque sale adibite a museo permanente: l’attuale allestimento è stato inaugurato nel 2004. ne lungo una strada, la Francigena, capace di creare collegamenti con i grandi mercati nel cuore d’Europa, ma soprattutto con Roma e la sua corte pontificia. Il secondo è la possibilità di utilizzo dell’argento estratto dalle vicine colline metallifere per coniare moneta. Un ambito nel quale i senesi mostrarono in modo particolare le loro abilità fu proprio quello finanziario: diventarono potenti banchieri a livello europeo, specializzandosi soprattutto nelle operazioni di credito. Nel momento in cui la moneta d’oro prese il sopravvento rispetto a quella d’argento sul piano internazionale, i grandi capitali accumulati dalle famiglie senesi vennero in parte investiti all’interno dello stato in varie forme, tra cui prestiti al Comune stesso, proprio attraverso l’ufficio di Biccherna.

Biccherna 11 FOTO PAGINA A FIANCO:

Autore ignoto, Don Stefano

Monaco di San Galgano inginocchiato davanti al Santo (1320; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 11).

Divieto di ulteriore riproduzione 150 • FINESTRE SULL’ARTE

(“libri”).

Preposti al funzionamento di questo organo erano un camerlengo e quattro provveditori, affiancati da altre figure quali notaî, giudici, scrittori, il cui numero e funzione si modificarono nel tempo a seconda della necessità. La carica di camerlengo, ovvero colui che custodiva l’erario, fu ricoperta sia da laici che da religiosi. I provveditori invece erano sempre laici e provenivano dalle famiglie detentrici del potere in città, ed è significativo il fatto che, durante il famoso governo dei Nove, che resse la città dal 1287 al 1355, i provveditori di Biccherna facessero parte del Concistoro, la signoria collettiva della città. Entrambe le cariche avevano durata semestrale, e alla fine di ogni semestre venivano redatti due registri riassuntivi delle varie operazioni contabili effettuate dalla magistratura, uno a cura del camerlengo e l’altro a cura dei provveditori.

Attraverso la lettura delle voci di spesa contenute in questi registri, ci si può rendere conto di come un comune medievale quale quello di Siena impiegasse le proprie risorse. C’erano le spese ordinarie, come quelle per lo stipendio degli ufficiali comunali, per l’elemosina alle chiese e agli ospedali (ma

FINESTRE SULL’ARTE • 151

anche a persone singole), per l’acquisto del grano da distribuire tra i più bisognosi e da utilizzare in tempi di crisi quali epidemie e carestie. Si impiegavano risorse pubbliche per portare avanti l’espansione territoriale, che avveniva anche attraverso l’acquisto di castelli appartenenti a signori locali (una spesa ingente era sicuramente quella per il mantenimento dell’esercito e per l’ingaggio, assai esoso, di capitani di ventura). Inoltre, si investiva molto nello sviluppo edilizio della città: questo avvenne, in particolare, durante quella che viene considerata l’età d’oro della Repubblica di Siena, il già citato Governo dei Nove. Fu in quel periodo che vennero progettati e realizzati il Palazzo Pubblico e la Torre del Mangia, venne sistemata

compagnato da due poliziotti armati, i “birri”. Il rapporto tra i due uffici andò complicandosi nel tempo, in quanto la Biccherna continuò ad affermare il suo ruolo di gestore delle finanze del comune, quando di fatto le entrate erano ormai gestite dalla Gabella. È alla luce di questo contesto che fecero la loro comparsa le tavolette dipinte della Biccherna: nacquero con una precisa necessità archivistica, andando a sostituire le tradizionali forme di segnatura con un tipo più originale ed elaborato. Per un riconoscimento immediato del volume, sulle copertine in legno si eseguivano già alcuni semplici schizzi come lettere alfabetiche, croci, fiori, ma con le biccherne si fece un ulteriore passo avanti.

La vicenda delle biccherne prese avvio poco dopo la metà del Duecento e continuò fino al Settecento. la piazza antistante, quella del Campo, con soluzioni che l’avrebbero resa celebre fino ai giorni nostri, si provvide alla pavimentazione delle strade, all’ampliamento e al riassetto delle vie cittadine.

Venne realizzato un sistema di approvvigionamento dell’acqua, i bottini, fondamentale per una città con grande scarsità idrica. Si investiva non soltanto entro le mura cittadine, ma anche nei territorî dello Stato per bonificare terreni, costruire strade, ponti e per altri interventi di ingegneria civile.

Dal 1290 la situazione si modificò, in quanto dall’ufficio di Biccherna prese vita quello della Gabella: quest’ultimo iniziò ad occuparsi della riscossione delle imposte indirette, le gabelle appunto, che rappresentavano la maggiore fonte di entrata del Comune. Un camerlengo e, in questo caso, tre provveditori in carica per sei mesi si occupavano del funzionamento di questo ufficio. Nacque la figura del giudice esattore, ricoperta da un cittadino forestiero (la città da cui proveniva doveva trovarsi almeno a trenta miglia di distanza) e veniva ac-

Biccherna 16 FOTO PAGINA A FIANCO:

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria

del Comune di Siena (1344; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 16). Divieto di ulteriore riproduzione

152 • FINESTRE SULL’ARTE

Secondo le nostre conoscenze documentarie, la storia di queste tavolette ha origine nel 1257. La prima tavoletta che possediamo risale invece al secondo semestre del 1258, quando, come indicato in un registro dell’ufficio stesso, furono pagati cinque soldi al pittore Gilio di Pietro (Siena, documentato tra il 1247 e il 1261) per realizzarla. Osservandola, si può vedere l’essenzialità della composizione, che occupa soltanto la zona superiore: sulla sinistra parte l’iscrizione da cui veniamo a sapere il nome del podestà allora in carica, mentre sulla destra vi è la raffigurazione di un monaco seduto alla scrivania che regge un registro sul quale si può leggere l’indicazione dell’anno corrente. In questa figura è possibile identificare Ugo da San Galgano, monaco, in carica come camerlengo dal gennaio 1257 al gennaio 1262. La tavoletta è suddivisa orizzontalmente da una cinghia in cuoio con cui veniva chiuso il registro.

Il gruppo delle tavolette duecentesche e dei primi anni del Trecento mostra un’iconografia strettamente legata alla loro funzione originaria: vengono infatti raffigurati il camerlengo, le armi gentilizie dei provveditori, il tavolo di lavoro con il registro dei conti e il denaro. Tutto questo era accompagnato da un’iscrizione che esplicitava e arricchiva le indicazioni fornite dalle immagini, come ad esempio il nome del camerlengo, dei provveditori

FINESTRE SULL’ARTE • 153

Biccherna 32

Biccherna 34

FOTO SOPRA:

FOTO A DESTRA:

Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta,

Francesco di Giorgio Martini e Fiduciario

Incoronazione di Pio II e veduta di Siena fra due

di Francesco, La Vergine protegge Siena in tempo di

chimere (1460; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 32).

terremoti (1467; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 34).

Divieto di ulteriore riproduzione

Divieto di ulteriore riproduzione

154 • FINESTRE SULL’ARTE

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e degli esponenti del governo cittadino per avere un riferimento temporale. È del 1314 la tavoletta in cui ci accorgiamo dell’unificazione dei registri del camerlengo e dei provveditori, in quanto l’a-

vegliardo assiso in trono che indossa una veste dai colori della Balzana senese (l’emblema comunale), e con la mano destra regge, come se fosse un globo, il sigillo del Comune, già in precedenza ripro-

Le biccherne nacquero con una precisa necessità archivistica: sostituirono le tradizionali forme di segnatura, con un tipo più originale ed elaborato. raldica delle due cariche è affiancata.

Tuttavia, presto iniziarono a fare la loro comparsa nuovi temi iconografici: in un primo momento vennero introdotti temi religiosi, espressi sia attraverso la rappresentazione del santo a cui il committente era devoto, sia attraverso episodî evangelici, come la Natività.

dotto da Simone Martini (Siena, 1284 – Avignone, 1344) nella Maestà per il Palazzo Pubblico di Siena. Nella sala accanto a quella del Mappamondo, dove troneggia la Vergine martiniana con la sua corte celeste, troviamo la sala della Pace, sulle cui pareti Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa – 1348) rappresentò, su commissione novesca, l’Al-

Allegoria del Buon Governo

legoria del Buon Governo e i suoi effetti e l’Allegoria del Mal Governo e i suoi effetti. La figura centrale del Buon Governo trova fertile confronto con il vegliardo della tavoletta (la prima è modello per la seconda), e il loro significato coincide. Ai lati della testa del personaggio della biccherna infatti possiamo osservare l’iscrizione CSCV (Comune Senarum Civitas Virginis): è la personificazione del Comune di Siena, ma anche del bene comune. Non deve stupire che Ambrogio Lorenzetti abbia realizzato una tavoletta per il registro della Gabella, incarico all’ap-

FOTO SOPRA: Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon Governo

(1338; affresco; Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove)

Nel secondo semestre del 1344 venne riprodotta un’iconografia che richiama immediatamente alla mente una tra le immagini più potenti della storia della pittura senese: nella zona superiore alla fascia orizzontale in cuoio troviamo infatti raffigurato un 156 • FINESTRE SULL’ARTE

parenza minore: l’artista infatti si inserisce all’interno della tradizione tutta senese, iniziata con Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 circa – 1319) e portata avanti con Simone Martini, del pittore civico, ovvero il pittore a cui venivano affidate le principali commissioni da chi si ritrovava a gestire il Bene Comune. È da ricordare che, sempre per la Gabella, nello stesso anno Ambrogio realizzò la tavola dell’Annunciazione.

A partire dalla metà del Trecento i temi iconografici di queste tavolette si arricchiscono: alle scene di vita quotidiana dell’ufficio o ai lavori che esso presiede (come nel caso di una tavoletta dei Casseri e Fortezze in cui viene riprodotto un muratore mentre lavora alla costruzione di una fortezza)

lontanamento dalla funzione originaria di queste tavolette come copertine di registri contabili, tanto che dalla metà del XV secolo iniziarono ad essere realizzati veri quadri da appendere alle pareti dall’ufficio: da una necessità concreta si passò così alla volontà di affidare al mezzo artistico immagini propagandistiche e di memoria. Il primo esempio è riscontrabile in una tavoletta del 1460, quando la Gabella fece raffigurare l’incoronazione del papa senese Pio II Piccolomini. Costante rimane la presenza delle armi gentilizie (ne sono state contate 953 tra tutte le tavolette, ma non tutte sono state identificate) per indicare gli ufficiali in carica durante quel semestre. In molti casi, data l’importanza che avevano, la loro rappresentazione occupa

Inizialmente l’iconografia delle biccherne era legata alla loro funzione, ma presto cominciarono a essere decorate con diversi temi. rappresentate in maniera sempre più dettagliata, e ai soggetti religiosi si aggiungono dunque allegorie “civiche” con intento propagandistico ed episodî storici, sia strettamente legati alle vicende senesi, come nel caso della rappresentazione della Battaglia di Colle Val d’Elsa o della Resa di Montalcino, sia di respiro più ampio, come la Battaglia di Lepanto o la Pace di Cateau-Cambrésis. In particolare, dopo la caduta della Repubblica di Siena per mano di Firenze, vengono scelti episodî che si prestano a esaltare la famiglia medicea e la sua politica.

In diverse rappresentazioni troviamo la figura della Vergine, protettrice di Siena, a cui la città si era votata con la battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260, vinta dell’esercito ghibellino, il cui contingente senese era condotto da Provenzano Salvani, contro la guelfa Firenze. L’iconografia mariana, centrale nella produzione artistica senese, è ben presente anche sulle biccherne: una tavoletta del 1467 attribuita a Francesco di Giorgio Martini (Siena, 1439 – 1502) raffigura la Vergine che protegge Siena in tempo di terremoti, in riferimento a quello che era successo negli ultimi due anni, durante i quali il territorio senese fu colpito da violenti terremoti, unendo così memoria storica e devozione.

Questa evoluzione iconografica portò a un al-

Biccherna 1 FOTO SOPRA:

Gilio di Pietro, Don Ugo monaco di San

Galgano camarlingo (1258; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 1). Divieto di ulteriore riproduzione

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Biccherna 63 FOTO A SINISTRA:

Giorgio

di Giovanni, La pace di Cateau-Cambrésis e l’abbraccio tra Filippo II di Spagna ed Enrico II di Francia (1559; Siena, Archivio di Stato, Biccherna 63). Divieto di ulteriore riproduzione

gran parte della superficie della tavoletta. Risulta così una preziosa risorsa per gli studî di araldica, non soltanto per la possibilità di attribuire questi stemmi, ma anche per studiarne l’evoluzione stessa.

La qualità pittorica di queste tavolette non sempre è elevata. Enzo Carli affermò che «nel loro complesso, costituiscono una sorta di sommesso commento alle vicende della pittura senese», ma allo stesso tempo sottolineò che, essendo tutte datate, costituiscono un punto di riferimento certo per la cronologia della pittura senese. Tuttavia, a leggere i nomi che vengono accostati ad alcune di queste, dagli inizî fino al termine della loro produzione, abbiamo un vertiginoso elenco di artisti tra i principali nel panorama della storia della pittura senese dal XIII al XVII secolo. Per il Duecento abbiamo Dietisalvi di Speme e Guido di Graziano, per il Trecento troviamo il già citato Ambrogio Lorenzetti, Guido Cinatti, Bartolomeo Bulgarini, Luca di Tommè, Paolo di Giovanni Fei, il Quattrocento presenta nomi del calibro di Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, Francesco di Giorgio Martini, Benvenuto di Giovanni, Neroccio di Bartolomeo de’

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Landi, Guidoccio Cozzarelli, Matteo di Giovanni. Nel Cinquecento e nel Seicento le biccherne vengono commissionate ad artisti quali Domenico Beccafumi, Francesco Vanni, Arcangelo Salimbeni, Ventura Salimbeni, Francesco Rustici.

A esaltare il loro valore dalla fine del XVII secolo furono alcuni eruditi senesi come Galgano Bichi, Giovanni Antonio Pecci e Giulio Piccolomini, ma nonostante questo interessamento, propugnato anche dall’abate Luigi De Angelis, conservatore della Biblioteca Pubblica e del Gabinetto delle Belle Arti all’inizio del XIX secolo, fu difficile evitarne la dispersione. Anzi: le biccherne divennero un oggetto così appetibile sul mercato collezionistico e antiquario da favorirne la produzione di falsi. E oggi le tavolette di biccherna, realizzate grazie alla volontà di una committenza istituzionale desiderosa di valorizzare la propria quotidianità, legata all’ambito finanziario, attraverso il mezzo artistico, si rivelano un prezioso patrimonio attraverso cui leggere i valori di una civiltà, quella della Repubblica senese, che fu in grado di rendere la gestione virtuosa del bene comune il proprio orgoglio e bandiera. ◊

MUSEO DELLE BICCHERNE Le biccherne dell’Archivio di Stato possono essere ammirate nelle sale del Museo delle Biccherne. L’area espositiva è aperta tutti i giorni dal lunedì al sabato con tre ingressi programmati, alle 10, alle 11 e alle 12, e chiusura alle ore 13. Durante la visita, il pubblico è accompagnato dal personale di custodia dell’Archivio. L’ingresso è gratuito e la collezione delle biccherne è esposta per intero, con 105 tavole dal Duecento al Settecento.

Archivio di Stato di Siena FOTO SOPRA:

Interno del

Museo dell’Archivio di Stato di Siena. Divieto di ulteriore riproduzione

Bibliografia essenziale Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Max Seidel (a cura di), Ambrogio Lorenzetti, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala, dal 22 ottobre 2017 all’8 aprile 2018), Silvana Editoriale, 2017 Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte (a cura di), Duccio. Alle origini della pittura senese, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala, dal 4 ottobre 2003 all’11 gennaio 2004), Silvana Editoriale, 2003 Alessandro Tomei (a cura di), Le Biccherne. Arte e Finanza all’alba dell’economia moderna, catalogo della mostra (Roma, Palazzo del Quirinale, dal 1° marzo al 13 aprile 2002), Bolis, 2002 Luigi Borgia, Enzo Carli, Maria Assunta Ceppari, Ubaldo Morandi, Patrizia Sinibaldi, Carla Zarrilli (a cura di), Le Biccherne. Tavole dipinte delle magistrature senesi (secoli XIII- XVIII), Le Monnier, 1984

www.archiviodistato.siena.it/museo/

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| ATTUALITÀ

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Leonardo mai visto MILANO

Il restauro della Sala delle Asse testo di Ilaria Baratta

La Sala delle Asse, capolavoro che Leonardo da Vinci realizzò nel Castello Sforzesco per Ludovico il Moro, ha visto concludersi la fase dei restauri cominciata nel 2013: l’ambiente è stato riaperto al pubblico fino al 12 gennaio 2020, quando partirà un intervento specifico sulla volta.

S

ull’onda delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 – Amboise, 1519), che si tengono in tutta Italia, non poteva esimersi dal partecipare a questo importante omaggio il capoluogo lombardo, Milano. La città infatti fu luogo d’intensa attività del genio toscano, che qui trascorse diversi periodi della sua esistenza, grazie alla profonda stima che verso di lui nutriva il duca Ludovico Sforza, detto il Moro (Milano, 1452 – Loches, 1508). I soggiorni milanesi di Leonardo risalgono a varî momenti tra il 1482 e il

1512, ma è riferibile al periodo del governo di Ludovico il Moro (dal 1480 al 1499, anche se ottenne il titolo di duca solo nel 1494) la sua più prolifica e significativa produzione artistica milanese, ovvero fino al 1499, anno in cui si concluse il ducato del celebre esponente sforzesco.

Evento clou del palinsesto Milano Leonardo 500, nonché evento inaugurale del programma celebrativo nella città lombarda che ha preso il via il 15 maggio, è la riapertura al pubblico della Sala delle Asse fino al 12 gennaio 2020, dopo il suo restauro iniziato nel 2013 e temporaneamente interrotto in occasione di Expo 2015 per consentire

Sala delle Asse FOTO SOPRA:

Leonardo da Vinci, Decorazione della

Sala delle Asse (1498; pittura a tempera su intonaco; Milano, Castello Sforzesco)

al pubblico di accedervi per ammirarla.

La Sala delle Asse, che in una lettera del cancelliere ducale del Moro veniva definita “camera grande da le asse” (forse perché in antico isolata con grandi pannelli di legno) e che si trova al primo piano del torrione nord-est del Castello Sforzesco, era adibita a luogo di ricevimento di ospiti e personalità e della sua decorazione pittorica si occupò nel 1498 l’artista vinciano: Leonardo progettò un ambiente illusionistico, per cui a chiunque vi entri sembrerà di trovarsi all’aperto, sotto un grande pergolato di alberi di gelso, le cui

radici partono dalle pareti dell’angolo nord della sala e i cui rami, in un gioco d’intrecci, anche con corde dorate, giungono a ricoprire la volta. Il gelso, simbolo di prudenza e di saggezza, intendeva descrivere artisticamente le virtù del committente, il duca Ludovico il Moro (in latino, il termine morus identifica il gelso).

Il lungo e accurato intervento di restauro, progettato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Milano, della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano e dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, insieme alla correlata campagna di studî, compiuta grazie al significativo contributo di Fondazione Cariplo, hanno consentito l’analisi e la risoluzione delle cause del deterioramento delle pitture, l’indagine diagnoFINESTRE SULL’ARTE • 161

Stemma SforzaEste FOTO A SINISTRA:

Leonardo da Vinci, Stemma Sforza-Este, particolare delle decorazioni della Sala delle Asse

stica degli strati di ridipintura e degli interventi di recupero che si sono succeduti nel corso del tempo, e la possibilità di recuperare la leggibilità della decorazione pittorica rispettando la sua storia conservativa.

Eliminati i ponteggi, i visitatori hanno quindi la possibilità di tornare ad ammirare il finto ma realistico pergolato costituito da diciotto alberi di gelso, di osservare in modo più comprensibile il dettaglio della radice, detta il “Monocromo”, realizzata con la tecnica del chiaroscuro, e di scoprire le numerose porzioni di disegno preparatorio che sono state rinvenute, grazie a strumenti laser e all’eliminazione degli strati di scialbo dalle pareti della sala, nel corso dell’intervento di restauro, a partire dal 2016. Nel corso del cantiere di studio e di restauro sono affiorate infatti molte porzioni di disegno preparatorio sotto numerosi strati di scialbo ed è stato possibile individuare la tecnica con cui Leonardo ha realizzato questo capolavoro illusionistico.

«Il lavoro svolto fino ad oggi all’interno della Sala delle Asse», ci ha spiegato la dottoressa Michela Palazzo, direttore del Museo Nazionale del Cenacolo Vinciano e direttore dei lavori di restauro, «ha riguardato principalmente due ambiti: l’intervento conservativo sul monocromo che aveva subito già un primo restauro negli anni Cinquan162 • FINESTRE SULL’ARTE

ta del Novecento, ma che presentava problemi conservativi, e interventi di studio e ricerca sugli intonaci antichi delle pareti e sulla volta e le lunette che presentano la policromia. Dalle prime fasi di ricerca e di studio è emersa fin da subito la presenza di disegni preparatorî nascosti sotto molteplici strati di scialbo, ancora presenti sulle porzioni di intonaco antico sulle pareti. La rimozione dello scialbo è risultata sin dal primo momento molto difficoltosa per il livello di adesione di questo all’intonaco antico. Per questo motivo, dopo numerose sperimentazioni, sono state utilizzate apparecchiature laser (con diverse caratteristiche tecniche) che hanno permesso di rimuovere gli strati che nascondevano i disegni preparatorî, senza apportare alcun danno al materiale antico».

Le ricerche storiche e archivistiche e l’osservazione di quanto stava emergendo dalla pulitura delle pareti, ha aggiunto Michela Palazzo, «hanno permesso di comprendere in modo preciso l’idea che Leonardo da Vinci aveva avuto per la decorazione di questa sala; i grandi tronchi di alberi di gelso, con le loro possenti radici dovevano partire da un livello molto vicino a quello del pavimento, creando un ambiente che desse l’idea di essere in un giardino, all’aperto, permettendo di vedere tra i tronchi il sottobosco e delle vedute paesag-

gistiche in lontananza. Inoltre gli studî scientifici svolti hanno permesso di individuare la tecnica di esecuzione utilizzata dall’artista e di metterla in relazione con quella dell’Ultima Cena».

Tuttavia il restauro complessivo della Sala delle Asse non è ancora del tutto concluso: è già previsto infatti per il 2020 un intervento specifico per la volta, in quanto quest’ultima è stata molto compromessa dai restauri del passato. «Purtroppo», conclude il direttore, «la rimozione degli scialbi che occultavano la pittura della volta, rimozione che fu realizzata agli inizî del Novecento, portò molti danni alla fragile pellicola pittorica antica e agli intonaci parzialmente distaccati.

Per tali motivi, oggi resta molto poco della pittura policroma antica, mentre le ridipinture realizzate agli inizi del Novecento e a metà degli

Intrecci vegetali FOTO SOTTO:

Leonardo da Vinci, dettaglio degli intrecci

vegetali, particolare delle decorazioni della Sala delle Asse

anni Cinquanta permettono ancora di percepire l’idea complessiva della decorazione. Rimuovendo completamente la ridipintura si perderebbe la leggibilità dell’insieme. Per questo è stato deciso di intervenire sulla volta solo con operazioni di tipo conservativo, che aumenteranno comunque la leggibilità dell’insieme decorativo. Verranno invece rimosse alcune ridipinture sulle pareti, realizzate negli anni Cinquanta del Novecento, che non permettono di percepire in modo adeguato il passaggio dalle aree policrome delle lunette agli intonaci sui quali sono rimasti a vista i disegni preparatorî».

Un complesso lavoro con attente indagini volto a far emergere ulteriori novità sul capolavoro leonardesco di cui oggi, grazie a Leonardo mai visto, titolo scelto per questo straordinario evento di riapertura, è possibile comprendere gli sviluppi e i risultati.

Accompagnerà l’iniziativa una serie di mostre e di eventi correlati, tra cui la scenografica installazione multimediale Sotto l’ombra del Moro. La

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Sala delle Asse, curata e realizzata da Culturanuova di Massimo Chimenti con la collaborazione scientifica di Francesca Tasso e Michela Palazzo: il pubblico comprenderà come Leonardo abbia sviluppato in quest’opera il concetto d’imitazione della natura. E ancora, nel Cortile delle Armi del Castello Sforzesco, sarà riprodotto dal vivo, in scala 1:2, il pergolato di alberi di gelso protagonista della sala restaurata. ◊ 164 • FINESTRE SULL’ARTE

Monocromo FOTO IN ALTO E FOTO IN BASSO:

Leonardo da Vinci, due

dettagli del monocromo, particolare delle decorazioni della Sala delle Asse

Art Gallery.

Galleria Pack

Viale Sabotino, 22 Milano 02 36554554 info@galleriapack.com www.galleriapack.com

Galleria d’arte moderna e contemporanea fondata nel 1964 da Dino Tega. Attività dalla lunga tradizione familiare, Galleria Tega ha organizzato (e continua a organizzare) mostre di grandi artisti internazionali.

Carlo Orsi

Via Bagutta, 14 Milano 02 76002214 info@galleriaorsi.com www.galleriaorsi.com

Tra le più importanti gallerie milanesi, specializzata soprattutto in arte dell’Ottocento (in particolare delle scuole lombarde). Ospita inoltre mostre di qualità. La Galleria, fondata a Saronno nel 1967 da Luigi e Romano Maspes, ha anche un Archivio e una Biblioteca..

10 a.m. Art

Corso San Gottardo, 5 Milano 02 92889164 info@10amart.it www.10amart.it

La Galleria Altomani & Sons, con sede a Milano e Pesaro, è stata fondata da Giancarlo Ciaroni e Anna Maria Altomani. La pittura, la maiolica antica e la scultura, principalmente Italiane tra il XII e il XVII, sono al centro dell’interesse della galleria.

166 • FINESTRE SULL’ARTE

Galleria d’arte contemporanea che propone un viaggio all’interno delle opere di affermati artisti internazionali. È stata fondata nel 2001 con l’intento di offrire al pubblico una programmazione ambiziosa incentrata sulla produzione di artisti sia emergenti che maggiormente affermati.

Galleria Tega

Via Senato, 20 Milano 02 76006473 info@galleriatega.it www.galleriatega.it

La Galleria Carlo Orsi è una galleria d’arte specializzata in dipinti antichi, soprattutto italiani, in sculture ed oggetti d’arte. Ha la sua sede in un palazzo settecentesco nel cuore di Milano e vanta oltre cinquant’anni di esperienza.

Gallerie Maspes

Via A. Manzoni, 45 Milano 348 0418592 e.orsenigo@gmail.com www.galleriemaspes.com

Fondata nel 2014 da Biancha Maria Menichini e Christian Akrivos, promuove artisti la cui ricerca si basa sulla sollecitazione della potenzialità della percezione sia essa stimolata dalla forma, dal movimento, dalla luce, dal colore o dalla programmazione matematica.

Altomani & Sons

Via Borgospesso, 14 Milano 02 201033 simona@altomani.com www.altomani.com

Bottegantica

Via Manzoni, 45 Milano 02 62695489 info@bottegantica.com www.bottegantica.com

Nata a Bologna nel 1986 su iniziativa di Enzo Savoia, Bottegantica è una galleria specializzata nei dipinti italiani del XIX e XX secolo. Di recente si è aperta anche al settore dell’arte contemporanea, inaugurando una specifica sezione denominata “Lab/Contemporary”.

C+N Canepaneri

La galleria C+N Canepaneri è stata fondata nel 2015. Distribuita su due sedi, a Genova e Milano, l’attività della galleria affianca arte moderna e contemporanea. Promuove sia artisti italiani, sia artisti provenienti da altri paesi nel mondo.

Foro Buonaparte, 48 Milano 02 36768281 info@canepaneri.com www.canepaneri.com

Cortesi Gallery

Corso di Porta Nuova 46/B Milano 02 36756539 gala@cortesigallery.com www.cortesigallery.com

Le Gallerie Enrico sono state fondate ad Alassio (Savona) nel 1972 da Giliana e Franco Enrico e si occupano principalmente di Pittura Italiana dell’Ottocento. Oggi hanno sede a Milano e Genova.

Cortesi Gallery è stata fondata nel 2013 dalla famiglia Cortesi, Stefano con i due figli Andrea e Lorenzo, ed è specializzata in movimenti artistici europei dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri.

Enrico Gallerie d’arte

Podbielski Contemporary

Via Senato, 45 Milano 02 87235752 enricogallerie@iol.it www.enricogallerie.com

Via Vincenzo Monti,12 Milano 338 2381720 info@podbielskicontemporary.com www.podbielskicontemporary.com

Situata nell’emergente quartiere di Lambrate, la galleria si impegna a promuovere attraverso mostre personali e collettive, il lavoro di artisti di rilievo internazionale, con un’attenzione particolare verso le nuove ricerche artistiche dell’est Europa (Russia, Romania, Bulgaria), Grecia e del Sudamerica.

Marchio milanese che promuove mostre e artisti contemporanei facendo anche ricerca e sperimentazione, con spazi per incontri, performance, convegni e altro.

Prometeo Gallery

Via Ventura, 6 Milano 02 83538236 info@prometeogallery.com www.prometeogallery.com

FINESTRE SULL’ARTE • 167

Art Gallery.

Robilant + Voena

Via Fontana, 16 Milano 02 8056179 info@robilantvoena.com www.robilantvoena.com

Storica galleria che trae origine dalla Galleria Permanente d’Arte, fondata nel lontano 1926, poi diventata tra i maggiori punti di riferimento del mondo artistico bergamasco e lombardo del XX secolo.

Benappi Fine Art Via Andrea Doria, 10 Torino 011 8146176 info@benappi.com www.benappi.com

Galleria d’arte contemporanea nata nel 1998 a Torino ad opera di Guido Costa. Tutti gli artisti della galleria sono rappresentati in esclusiva per l’Italia.

Galleria Giamblanco

Via Giovanni Giolitti, 39 Torino 347 5642884 galleria@giamblanco.com www.giamblanco.com

Inaugurata nel marzo 1989, la Galleria del Ponte persegue da sempre l’obiettivo di documentare le vicende dell’arte moderna a Torino. La galleria ha ospitato mostre sull’arte torinese dagli anni Venti agli anni Novanta, passando in rassegna anche presenze e problematiche dimenticate.

168 • FINESTRE SULL’ARTE

Galleria internazionale diretta da Enrico di Robilant e Marco Voena, focalizzata sull’arte antica e sull’arte del Novecento, con sedi a Milano, Londra e Sankt Moritz.

Nei suoi spazî organizza anche mostre di livello.

Galleria Previtali

Via Tasso, 21 Bergamo 0352 48393 info@galleriaprevitali.com www.galleriaprevitali.com

Benappi è una storica galleria attiva da quattro generazioni e specializzata in arte (pittura e scultura) dal Medioevo all’Ottocento, ma con interessanti pezzi anche sul Novecento e sul contemporaneo.

Guido Costa Projects

Via Mazzini, 24 Torino 011 8154113 info@guidocostaprojects.com www.guidocostaprojects.com

Galleria Giamblanco è specializzata in dipinti dell’Ottocento, pittura neoclassica e scultura dell’Ottocento. È stata fondata nel 2002 da Salvatore Giamblanco e Deborah Lentini e ha sede nel centro di Torino.

Galleria Del Ponte

Corso Moncalieri, 3 Torino 011 8193233 info@galleriadelponte.it www.galleriadelponte.it

Galleria Luigi Caretto Via M. Vittoria, 10 Torino 011 537274 info@galleriacaretto.com www.galleriacaretto.com

Aperta nel 1989, la galleria promuove artisti italiani e stranieri contemporanei, sia emergenti che affermati. È particolarmente attenta alle nuove tendenze che trovano personali soluzioni narrative nell’impiego dei diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, dai video alle installazioni.

Alberto Peola

Via della Rocca, 29 Torino 011 8124460 info@albertopeola.com www.albertopeola.com

Caretto & Occhinegro

Via Andrea Massena, 87 Torino 338 8712326 info@carettoeocchinegro.com www.carettoeocchinegro.com

La Galleria d’arte Mazzoleni è stata fondata nel 1986 da Giovanni ed Anna Pia Mazzoleni, e nel 2014 ha inaugurato la sua seconda sede espositiva a Londra, nel distretto di Mayfair. Per oltre 30 anni Mazzoleni ha esposto oltre 150 artisti italiani ed internazionali del XX secolo.

Galleria dello Scudo

Via Scudo di Francia, 2 Verona 045 590144 info@galleriadelloscudo.com www.galleriadelloscudo.com

Galleria specializzata in arte antica con focus sulle opere d’arte applicata comprese tra il XIV ed il XVII secolo e sulla pittura fiamminga ad olio su rame e su tavola concepita tra il 1550 ed il 1650.

La Galleria Luigi Caretto è specializzata nella vendita di dipinti fiamminghi ed olandesi dei secoli XV, XVI e XVII. Leader del settore in Italia, occupa una posizione di primissimo piano anche a livello internazionale.

Caretto & Occhinegro dedica le sue attenzioni a tre settori: la pittura fiamminga, olandese e tedesca dal XV al XVII secolo, una stretta selezione di pittura figurativa contemporanea, e i cosiddetti Arcana Mundi.

Mazzoleni

Piazza Solferino, 2 Torino 011 534473 torino@mazzoleniart.com www.mazzoleniart.com

Dal 1968, anno della fondazione, la Galleria dello Scudo si occupa di arte moderna e contemporanea italiana. In collaborazione con enti pubblici ha organizzato importanti rassegne di carattere strettamente scientifico.

Il Mercante delle Venezie

Corso SS. Felice e Fortunato, 197 Vicenza 366 9916089 galleriabedin@gmail.com www.ilmercantedellevenezie.com

FINESTRE SULL’ARTE • 169

Art Gallery.

Torbandena

La galleria d’arte Torbandena di Trieste, fondata nel 1964, si occupa del Novecento Italiano e di arte contemporanea europea. La sezione delle avanguardie si concentra sul nuovo espressionismo. mitteleuropeo.

Via di Tor Bandena, 1 Trieste 040 630201 info@torbandena.com www.torbandena.com

Galleria d’Arte del Caminetto, fondata nel 1966 da Romana e Paolo Zauli, è da oltre cinquant’anni un punto di riferimento per l’arte in Italia. Ospita anche mostre ed eventi.

Galleria d’Arte del Caminetto

Galleria Falcone Borsellino, 4/D Bologna 333 3331910 giovannibanzi@gmail.com www.galleriadelcaminetto.it

De’ Foscherari

Via Castiglione, 2/B Bologna 051 221308 galleria@defoscherari.com www.defoscherari.com

Bonioni Arte a Reggio Emilia è uno spazio destinato a collezionisti e artisti che vogliono conoscere da vicino l’arte contemporanea: non solo galleria ma anche luogo d’incontro, di pensiero e di dialogo.

De’ Bonis

Viale dei Mille, 44/B Reggio Emilia 338 3731881 info@galleriadebonis.com www.galleriadebonis.com

Pinksummer Contemporary Art è una galleria situata all’interno di Palazzo Ducale, Cortile Maggiore, Genova. Attiva nel capoluogo ligure, la galleria propone anche importanti mostre di artisti contemporanei.

170 • FINESTRE SULL’ARTE

La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni Sessanta, con un programma culturale al quale è rimasta fedele, svolto in due direzioni strettamente connesse: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata, e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione.

Bonioni Arte

Corso Garibaldi, 43 Reggio Emilia 0522 435765 info@bonioniarte.it www.bonioniarte.it

Fondata da Stanislao de’ Bonis, la galleria di Reggio Emilia propone dipinti e grafiche dei più grandi artisti del Novecento: Guttuso, Carrà, De Pisis, Balla, Fontana, Maccari, De Chirico e altri importanti maestri. Proprio l’interesse per il Novecento costituisce il tratto distintivo della galleria.

Pinksummer

Piazza Matteotti, 28R Genova 010 2543762 info@pinksummer.com www.pinksummer.com

Guidi&Schoen

Galleria focalizzata sull’arte contemporanea, attiva a Genova da più di quindici anni. Fondata nel febbraio 2002, Guidi&Schoen punta soprattutto su pittura, fotografia, arte digitale e video. Organizza anche importanti mostre.

Piazza dei Garibaldi, 18R Genova 010 2530557 info@guidieschoen.com www.guidieschoen.com

La galleria Cardelli & Fontana, fondata nel 1980 a Sarzana da Cesare Cardelli e Francesca Fontana, si occupa di arte contemporanea e astrattismo geometrico storico.

Vôtre

Cardelli & Fontana

Via Torrione Stella Nord, 5 Sarzana (SP) 0187 626374 galleria@cardelliefontana.com www.cardelliefontana.com

Piazza Alberica,5-I°piano Carrara (Ms) 338 4417145 associazionevotre@gmail.com

La galleria ha debuttato nel 2000 con una mostra collettiva dedicata ai pittori livornesi, introducendo quello che poi è stato, ed è tutt’oggi, il tema costante della sua attività: l’attenzione per la scuola toscana, i macchiaioli, i postmacchiaioli.

Poleschi Arte

Via Idelfonso Nieri, 51 Lucca 0583 955707 info@poleschiarte.com www.poleschiarte.com

Storica galleria d’arte contemporanea con sedi a Firenze e a Pietrasanta e, da alcuni mesi, anche a Milano, nella nuova sede aperta nel 2018, per allargare la significativa offerta espositiva che punta soprattutto su artisti italiani.

Un nuovo spazio a Carrara, nelle storiche e raffinate sale settecentesche di Palazzo del Medico, nel cuore della città dei marmi, per mostre e attività culturali dedicate all’arte contemporanea, con nomi di spicco.

Galleria d’arte Goldoni

Via E. Mayer n.45 Livorno 339 7951064 info@galleriadartegoldoni.it www.galleriadartegoldoni.it

Attiva dal 1979, anno in cui fu fondata da Vittorio Poleschi, la galleria propone opere dei maestri del Novecento e dell’avanguardia internazionale. Con sedi a Lucca, Pietrasanta e Milano (quest’ultima aperta nel 2000).

Galleria Poggiali

Via Della Scala, 35/A Firenze 055 287748 info@galleriapoggiali.com www.galleriapoggiali.com

FINESTRE SULL’ARTE • 171

Art Gallery.

Frittelli arte contemporanea

Dopo l’esperienza del Centro d’arte Spaziotempo, sede di innumerevoli mostre nella centrale Piazza Peruzzi, Carlo e Simone Frittelli hanno voluto dare nell’aprile del 2006, con la nuova Galleria Frittelli, un segno di continuità e allo stesso tempo di rinnovamento, creando un nuovo spazio per l’arte contemporanea.

Via Val di Marina, 15 Firenze | 055 410153 info@frittelliarte.it www.frittelliarte.it

La galleria, attiva dal 1893, è specializzata in dipinti italiani dal XIV al XVII secolo con una particolare predilezione per le opere della scuola toscana.

Un lavoro portato avanti da quattro generazioni di antiquari che l’hanno resa una delle gallerie più importanti d’Italia.

Bacarelli Antichità

Via dei Fossi, 45r Firenze 055 215 457 bacarelli@bacarelli.com www.bacarelli.com

Storica galleria aperta nel 1990 a San Gimignano da Mario Cristiani, Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo: oltre alla sede toscana oggi è presente in tutto il mondo, a Pechino, Les Moulins e L’Avana.

Via Maggio, 5 Firenze 055 294087 info@frascionearte.com www.frascionearte.com

Bacarelli si occupa di arte antica principalmente italiana dal Rinascimento al Neoclassicismo, con una particolare attenzione per la scultura e la pittura.

Galleria Continua

Via del Castello, 11 San Gimignano (SI) 0577 943134 sangimignano@galleriacontinua.com www.galleriacontinua.com

Francesca Antonacci Via Margutta, 54 Roma 06 45433036 info@al-fineart.com www.al-fineart.com

La Galleria del Cembalo, aperta per iniziativa di Paola Stacchini Cavazza e Mario Peliti, nasce dal desiderio di restituire al mondo dell’arte alcune delle splendide sale al pianterreno di Palazzo Borghese destinate a ospitare la prestigiosa collezione del Cardinale Scipione, poi trasferita a Villa Borghese.

172 • FINESTRE SULL’ARTE

Frascione Arte

La galleria fondata da Francesca Antonacci, discendente di una famiglia di antiquarî attivi a Roma dagli inizi del Novecento, è un punto di riferimento soprattutto per quanto riguarda dipinti, disegni e sculture.

Galleria del Cembalo

Largo della Fontanella di Borghese, 19 | Roma 06 83796619 info@galleriadelcembalo.it www.galleriadelcembalo.it

Studio d’Arte Campaiola Via Margutta, 96 Roma 06 85304622 info@campaiola.it www.campaiola.it

Gagosian è una storica galleria d’arte americana con sedi a New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Roma, Atene, Ginevra e Hong Kong. Nella sua sede romana, Gagosian ospita importanti mostre di grandi artisti internazionali.

Alessandra Di Castro

Piazza di Spagna 3-4 Roma 06 69923127 info@alessandradicastro.com www.alessandradicastro.com

Marchio che opera sul mercato antiquario italiano e internazionale dal 1988, specializzato in arte italiana e straniera dal Rinascimento all’Ottocento.

Propone dipinti, disegni, sculture, arredi, oggetti preziosi.

Bertolami Fine Art

Piazza Lovatelli, 1 Roma 06 32609795 info@bertolamifineart.com www.bertolamifineart.com

Fondata nel 1964 con il nome de Il Segno, la galleria ha avviato un importante percorso di collaborazione con alcuni dei maggiori artisti internazionali (tra cui Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Alberto Burri, Lucio Fontana, Alberto Giacometti e Fausto Melotti) che l’ha portata a essere protagonista del panorama italiano dei decenni successivi.

Galleria romana che dal 1964 promuove l’arte contemporanea e non solo: nella sua offerta figurano anche alcuni tra i più grandi nomi dell’arte internazionale del Novecento.

Gagosian

Via Francesco Crispi, 16 Roma 06 42086498 rome@gagosian.com www.gagosian.com

Esponente di una famiglia di antiquari romani dal 1878, Alessandra Di Castro è specializzata in arte antica, pittura e scultura. Ha sede raccolti di uno storico palazzo secentesco dove sono esposti dipinti antichi, sculture, marmi, pietre dure.

Arcuti Fine Art

Via Sant’Eligio, 3/A Roma 335 8119010 info@arcutifineart.com www.arcutifineart.com

Bertolami Fine Arts è una struttura complessa: casa d’aste, galleria d’arte, studio di progettazione di mostre e eventi culturali, con specializzazione nel settore degli old masters.

Francesca Antonini Arte Contemporanea

Via di Capo Le Case, 4 Roma 06 6791387 info@francescaantonini.it www.francescaantonini.it

FINESTRE 173 • FINESTRE SULL’ARTE SULL’ARTE • 173

Art Gallery.

Galleria Carlo Virgilio & C. Via della Lupa, 10 Roma 06 6871093 info@carlovirgilio.it www.carlovirgilio.it

Lampronti è una galleria che vanta l’esperienza di tre generazioni di mercanti d’arte. Fondata nel 1914, è specializzata nell’arte antica italiana, soprattutto del Sei e del Settecento, con particolare focus sui paesaggi e sulle nature morte.

Paolo Antonacci

Via Alibert, 16/A Roma 335 5631401 info@paoloantonacci.com www.paoloantonacci.com

Galleria Berardi è una galleria d’arte antica specializzata in pittura e scultura soprattutto dell’Ottocento e del primo Novecento. Nel suo lavoro, la galleria segue una rigorosa prassi della connoisseurship, ovvero la pratica di riconoscere la qualità, l’epoca e dunque l’autore di una determinata opera.

F&F Antichità

Corso Vannucci, 107 Perugia 0755 722893 fefantichita@gmail.com www.fefantichita.com

Lia Rumma da anni tratta i grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale. Fondata a Napoli nel 1971, da allora, nelle sue sedi, ha ospitato e promosso grandi nomi del panorama internazionale dell’arte.

174 • FINESTRE SULL’ARTE

Galleria romana attiva nell’antico, nel moderno e nel contemporaneo. È stata fondata nel 1979 e il suo focus principale sono i disegni dal XVII al XX secolo.

Galleria Lampronti

Via di San Giacomo, 22 Roma 335 333325 info@cesarelampronti.com www.cesarelampronti.com

Gli interessi della galleria sono stati da sempre la ricerca, la valorizzazione e lo studio degli artisti e dei dipinti che ritraggono, dalla seconda metà del XVIII secolo fino agli inizi del XX secolo, Roma, la sua Campagna, il Vedutismo italiano in genere e i vari aspetti del cosiddetto “Grand Tour”.

Galleria Berardi

Corso del Rinascimento, 9 Roma 328 3151953 galleria.berardi@gamil.com www.maestrionline.it

La Galleria Antiquaria F & F Antichità é presente nel mercato dell’Antiquariato da oltre 30 anni, interessandosi agli arredi e alle sculture antichi, con particolare predilezione alle provenienze umbro-toscane.

Lia Rumma

Via Vannella Gaetani, 12 Napoli 02 29000101 info@liarumma.it www.liarumma.it

Alfonso Artiaco

Fondata a Pozzuoli nel 1986, la galleria si è poi spostata nel 2003 a Napoli e lavora con grandi artisti contemporanei. Dal 2012 ha sede in piazzetta Nilo, nel centro storico del capoluogo campano, dove prosegue la propria attività organizzando anche importanti mostre.

Piazzetta Nilo, 7 Napoli 081 4976072 info@alfonsoartiaco.com www.alfonsoartiaco.com

Studio Trisorio

Inaugurato nel 1974 con una mostra di Dan Flavin, il programma espositivo della galleria intreccia fin da subito pittura e scultura con i nuovi linguaggi dell’arte: la fotografia, il video e l’installazione. Con la galleria hanno lavorato nomi importanti dell’arte mondiale.

Riviera di Chiaia, 215 Napoli 081 414306 info@studiotrisorio.com www.studiotrisorio.com

Umberto Di Marino

Via Alabardieri, 1 Napoli 081 0609318 info@galleriaumbertodimarino.com www.galleriaumbertodimarino.com

La Galleria Paola Verrengia dal 1990 indaga le varie tendenze dell’Arte Contemporanea dei grandi maestri del dopoguerra e di artisti emergenti nel campo dell’Arte Astratta ed Informale, dell’ Arte Concettuale e della Fotografia.

Galleria Paola Verrengia Via Fiera Vecchia, 34 Salerno 089 241925 info@galleriaverrengia.it www.galleriaverrengia.it

Francesco Pantaleone arte contemporanea Via Vittorio Emanuele, 303 Palermo 091 332482 info@fpac.it www.fpac.it

La Galleria Beatrice tratta opere significative dei più importanti artisti del XIX e del XX secolo. Ha sede a Palazzo Sambuca, dimora nel cuore del centro storico di Palermo.

Galleria napoletana, fondata a Giugliano in Campania e poi spostatasi nel 2005 nel capoluogo, attiva da oltre vent’anni e specializzata nell’arte contemporanea.

FPAC - Francesco Pantaleone Arte Contemporanea è stata fondata a Palermo nel 2003 con lo scopo di valorizzare artisti siciliani e fornire una piattaforma a Palermo per artisti già radicati al livello internazionale. Con sede anche a Milano.

Galleria Beatrice

Via Alloro, 36 Palermo 347 6686388 info@galleriabeatrice.it www.galleriabeatrice.it

FINESTRE SULL’ARTE • 175

Narine Arakelian a cura di / curated by Pier Paolo Scelsi

10.05 - 25.08.2019 cultura@fondazioneveneziaservizi.it +39 041 3096605 www.gioiellinascostidivenezia.it

Palazzo Contarini del Bovolo San Marco 4303 - Venezia