Finestre sull'arte N°4

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N.4 ANNO I

Fondation Beyeler | Kunstmuseum Basel | Museum Tinguely | Zentrum Paul Klee | MAMCO, Musée d’art moderne et contemporain | Musée d’art et d’histoire | Musée de l’Elysée | MASI, Museo d’arte della Svizzera italiana | Fotozentrum Winterthur | Kunsthaus Zürich | Museum für Gestaltung Zürich

anno I N.4 | dicembre gennaio febbraio 2019/20

Trova ispirazione su MySwitzerland.com/amos

Paul Alexandre e Modigliani | Botticelli | Carsten Höller | Kiki Smith | Dario Ghibaudo Il trittico degli Eremiti di Bosch a Venezia | La deposizione di Antelami a Parma | L’immagine del mare tra Otto e Novecento

Scopri i musei d’arte della Svizzera in inverno.

Fondation Beyeler, Basilea, © DMark Niedermann

DICEMBRE GENNAIO FEBBRAIO 2 0 1 9 / 2 0 2 0

ATTUALITÀ

GRAND TOUR

CONTEMPORARY LOUNGE

Il restauro del Giudizio universale e della Pala di San Marco del Beato Angelico

Le stigmate di san Francesco nel Trecento

Carsten Höller

La Deposizione di Benedetto Antelami a Parma

Dario Ghibaudo

◊ OPERE E ARTISTI

Botticelli nella bottega del Verrocchio San Francesco nell’arte del Trecento

◊ DENTRO LA MOSTRA

Bernardo Strozzi. La conquista del colore

Kiki Smith ◊ RENDEZ-VOUS

Paul Alexandre e Modigliani


© www.lukasweb.be - Art in Flanders vzw, Rubenshuis, Antwerpen © Lowie De Peuter & Michel Wuyts, Royal Museums of Fine Arts Belgium, Brussels photo J. Geleyns - Ro scan

ViAGGiA NELLE FiANDRE, LA tERRA DEi MAESTRI FIAMMINGHI rubEns – bruEgEl – Van Eyck

Viaggia nelle Fiandre nel 2020, anno di Van Eyck

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Simone Pellegrini, Proposizione secondaria (particolare)




DIRETTORE RESPONSABILE

DIRETTORE EDITORIALE

ART DIRECTOR

HANNO COLLABORATO

Federico Giannini

Natascia Bascherini REDAZIONE

Ilaria Baratta (responsabile), Gabriele Giannini, Marina Umelesi IMPAGINAZIONE

Nicola Grossi

COORDINAMENTO EDITORIALE

Manuela Graziani

Daniele Rocca

Anna de Fazio Siciliano, Gigetta Dalli Regoli, Francesca Della Ventura, Clario Di Fabio, Adam Ferrari, Chiara Guidi, Cristina Principale RINGRAZIAMENTI

Regina Alivisatos, Mireia Azuara, fra’ Carlo Bottero, Antonella Carlo, Elena Cecchini, Francesca Conte, Corinne Cortinovis, Paola Iacona, Salvatore La Spina, Benedetta Marchesi, Matilde Meucci, Miriam Perez, Nicolò Scialanga, Maddalena Spagnolo, Luigi Vignoli

CONCESSIONARIA PUBBLICITARIA

Danae Project Srl finestre@danaeproject.com 0585 624705 EDITORE

Danae Project STAMPA

Industrie Grafiche Pacini Via A. Gherardesca, 56121 Ospedaletto (PI) REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE DI MASSA

aut. n. 5 del 12/06/2017

DIGITAL UNIT

Simone Lazzaroni, Tommaso Vietina FOTOGRAFIA

Alessandro Pasquali

PHOTO CREDITS Cover Carsten Höller, Upside Down Mushroom Room (2018; tecnica mista; Milano, Fondazione Prada). Foto di Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti. Courtesy Fondazione Prada

Carsten Höller. Un mondo “upside down” Brigitte Lacombe. Courtesy l’artista e Gagosian p. 66 - Ritratto di Carsten Höller

Le stigmate di san Francesco. L’iconografia del Trecento da Giotto in poi © Musée du Louvre p. 105, Giotto, Stimmate di san Francesco

Paul Alexandre e Amedeo Modigliani Tutte le foto tranne il Ritratto di Paul Alexandre, L’Ebrea e il Ritratto di Maud Abrantès: courtesy Collezione Jonas Netter.

Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti. Courtesy Fondazione Prada p. 69 - Upside down mushroom room

Il museo del futuro Paolo Soriani p. 36 - Ritratto di Paolo Giulierini

Martino Margheri. Courtesy Palazzo Strozzi p. 70 - The Florence Experiment

© Archivio fotografico del Sacro Convento di San Francesco in Assisi - Frati Minori Conventuali p. 106 - Giotto, Stimmate di san Francesco p. 107 - Maestro di San Francesco, Stimmate di san Francesco p. 108 - Pietro Lorenzetti, Stimmate di san Francesco

Markus Garscha p. 41 - Ritratto di François Mairesse Botticelli nella bottega del Verrocchio. Una presenza “oscurata” © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Museo Nazionale del Bargello p. 51 - Verrocchio, Madonna col Bambino benedicente © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Gallerie Nazionali di Arte Antica, Roma p. 52 - Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Gallerie degli Uffizi p. 53 - Filippo Lippi, Sacra conversazione p. 54 - Filippo Lippi, Madonna col Bambino e due angeli p. 55 - Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi p. 61 - Sandro Botticelli, La Fortezza p. 61 - Francesco Botticini, I tre arcangeli Courtesy The Metropolitan Museum of Art, New York p. 59 - Sandro Botticelli?, Madonna delle ciliegie © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli p. 60 - Sandro Botticelli, Madonna col Bambino e angeli

4 • FINESTRE SULL’ARTE

Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada p. 71 - Lightwall Bernhard Rüffert. © documenta Archiv p. 71 - Ein Haus für Schweine und Menschen Kiki Smith Courtesy l’artista e Galleria Cortese p. 78 - Surge Eftychia Vlachou. Courtesy l’artista e DESTE Foundation pp. 81, 82, 83 e 84 - immagini dalla mostra Memory Dario Ghibaudo Maurizio Sapia p. 90 - s.n Caprus Arboreus cum Cauda Piscis et Pedes Palmatus Angelo Marinelli p. 92 - Ibis Recti Rostri Tutte le foto su gentile concessione dell’artista. Tre santi eremiti per Jheronimus Bosch Tutte le foto: © Ministero per i Beni e le Attività Culturali Gallerie dell’Accademia di Venezia

© Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Galleria dell’Accademia di Firenze p. 109 - Taddeo Gaddi, Stimmate di san Francesco © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Gallerie dell’Accademia di Venezia p. 111 - Paolo Veneziano, Stimmate di san Francesco La Deposizione. Il capolavoro di Benedetto Antelami Foto di Alessandro Pasquali – Danae Project © Fabbriceria della Basilica Cattedrale di Parma I reliquiarî di Limoges del tesoro della Cattedrale di Pisa Foto di Nicola Gronchi. © Opera della Primaziale Pisana Nuova luce per il Beato Angelico Foto di Alessandro Pasquali – Danae Project © Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Polo Museale della Toscana Bernardo Strozzi. La conquista del colore Tutte le foto su gentile concessione di Palazzo Nicolosio Lomellino e Studio Gardella.


meravìglia [sostantivo femminile] Sentimento vivo e improvviso di sorpresa, perlopiù piacevole, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa nuova, straordinaria, o comunque inattesa. Robert Delaunay, Finestre aperte simultaneamente 1° parte, 3° motivo (Fenêtres ouvertes simultanément 1ère partie, 3e motif), 1912. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.

Immergiti nell’atmosfera della Collezione Peggy Guggenheim. Scopri l’energia e la bellezza delle avanguardie con Pablo Picasso, Salvador Dalí, René Magritte, Giorgio de Chirico, Alberto Giacometti, Jackson Pollock e molti altri che hanno fatto la storia dell’arte del ’900.

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EDITORIALE. Cara Lettrice, caro Lettore, nel suo Itinerario estetico, pubblicato nel 1987, Gillo Dorfles scriveva che un artista è un individuo dotato d’una facoltà percettiva altamente specializzata, dalle qualità differenziali fuori dal comune. Non solo: il grande critico metteva in guardia il lettore dalle banalizzazioni circa la natura della visione, che non dipende soltanto dall’immagine retinica: quest’ultima «non è che uno degli stadî del processo visivo; giacché “vedere” non significa soltanto prender nota delle proprie sensazioni visive, ma l’atto di “comprendere” quello che si è visto». L’atto della visione dipende dunque da un insieme d’immagini che si sovrappongono e che si correggono e s’integrano a vicenda, e ogni percetto, affermava ancora Dorfles, «consiste nella somma di molti e disparati elementi spazio-temporali». Per tracciare il numero di Finestre sull’Arte on paper che t’appresti a sfogliare, siamo partiti da queste considerazioni per tentare d’entrare nelle “visioni” d’alcuni artisti capaci d’offrire al riguardante immagini che vadano ben al di là del mero dato retinico, al fine d’elaborare un fil rouge che abbia nella “visionarietà” l’elemento comune. Si parte da san Francesco e dall’episodio più “visionario” della sua agiografia, quello della stigmatizzazione, per esaminare, ovviamente senz’alcuna pretesa di completezza, come i pittori, da Giotto in avanti per tutto il Trecento e lungo tutta la penisola italiana, lo abbiano elaborato attraverso le immagini. L’attualità ci garantisce invece il pretesto per entrare nell’immaginifico mondo del Beato Angelico, un pittore in grado d’andare costantemente oltre il visibile: al Museo Nazionale di San Marco a Firenze s’è appena concluso il restauro di due capolavori del maestro del primo Rinascimento, la Pala di San Marco e il Giudizio universale, di cui ripercorriamo in questo numero le vicende. Con un salto all’indietro nel tempo di quasi trecento anni e con un cambio di medium (passando cioè dalla pittura alla scultura) ci soffermeremo sulla Deposizione di Benedetto Antelami, capolavoro che oggi s’ammira su di una parete nel coro del Duomo di Parma, opera d’un artista colto, raffinato, tecnicamente abilissimo, che scolpì una scena che, come ricorda il professor Clario Di Fabio, autore dell’articolo, a un erudito del XVI secolo pareva composta «in forma di Theatro». Passando invece a sondare la visionarietà nella sua accezione più comune, ci è parso quasi scontato dedicare un focus a un artista il cui immaginario è un concentrato d’eccentricità e bizzarre fantasie, ovvero Jheronimus Bosch: in questo numero entreremo in una delle sue tre opere “veneziane”, il Trittico degli eremiti. Il 6 • FINESTRE SULL’ARTE

viaggio nella storia dell’arte prosegue poi con le “visioni” di Amedeo Modigliani, cui abbiamo riservato uno spazio in questo numero anche perché nel 2020 si celebra il centenario della sua scomparsa: tuttavia, più che sulla figura dell’artista livornese, ci siamo soffermati su quella del medico Paul Alexandre, che di Modigliani fu collezionista, mecenate e singolarissimo fornitore di sostanze stupefacenti, e abbiamo approfondito il fortunato e duraturo rapporto che s’instaurò tra i due. All’arte contemporanea è dedicata la cover story di questo numero: un itinerario nello stravagante mondo upside down del tedesco Carsten Höller, uno dei più grandi artisti del panorama internazionale odierno, tra funghi a testa in giù, enormi scivoli che scendono dai piani alti dei musei, esperienze sensoriali che provocano stranianti reazioni psichiche e fisiche. Se le immagini di Kiki Smith, con la sua indagine sulla sessualità e sulla donna, si traducono in una spiritualità panteistica e ancestrale, con le inusuali creature che popolano lo straordinario mondo di Dario Ghibaudo si compone un “museo di storia innaturale”che l’artista piemontese immagina come luogo di riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Il numero è completato da alcuni contributi che, pur distaccandosi dal filone principale, manterranno comunque alta la tua attenzione. Siamo dunque lieti di presentare un importante articolo di Gigetta Dalli Regoli nel quale s’avanzano inedite proposte per la presenza del giovane Sandro Botticelli nella bottega del Verrocchio: un breve saggio che s’inserisce nell’ambito d’un vivace dibattito critico su di un nodo cruciale per l’arte del Quattrocento. Ancora, il lettore troverà la recensione della mostra Bernardo Strozzi. La conquista del colore (a Genova, Palazzo Nicolosio Lomellino), una presentazione dei due meravigliosi reliquiarî di Limoges conservati presso il Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, e la consueta sezione riservata al dibattito che, per questo numero, è incentrato sul tema del museo del futuro, sulla scorta delle discussioni nate attorno alla definizione di “museo” che hanno ravvivato questo 2019 ormai al tramonto (e al dibattito su Finestre sull’Arte partecipano molti dei protagonisti di queste discussioni). Nell’auspicio che anche questo numero possa incontrare il tuo prezioso apprezzamento, mi premuro d’augurarti una buona lettura tra le pagine di Finestre sull’Arte.◊ Federico Giannini Direttore responsabile


26. 1. – 17. 5. 2020 RIEHEN / BASILEA

Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950 (Detail), Oil on canvas, 86,7 × 102,3 cm, Smithsonian American Art Museum, Gift of the Sara Roby Foundation, © Heirs of Josephine Hopper / 2019, ProLitteris, Zurich, Photo: Smithsonian American Art Museum, Gene Young

FONDATION BEYELER


S o m m a r i o.

48 24

24

RENDEZ-VOUS

Paul Alexandre e Amedeo Modigliani testo di Anna de Fazio Siciliano

34

ATTUALITÀ

48

Il museo del futuro

AGENDA.

OPERE E ARTISTI

12

Botticelli nella bottega del Verrocchio una presenza “oscurata” testo di Gigetta Dalli Regoli

66

96

114

Wunderkammer.

8 • FINESTRE SULL’ARTE

Kiki Smith Ragazza per sempre CONTEMPORARY LOUNGE

Dario Ghibaudo Il Museo di Storia Innaturale testo di Cristina Principale

CONTEMPORARY LOUNGE

testo di Chiara Guidi

86

Carsten Höller Un mondo “upside down” testo di Francesca Della Ventura

76

CONTEMPORARY LOUNGE

GRAND TOUR

Tre santi eremiti per Jheronimus Bosch testo di Adam Ferrari


A R T I D E CO R AT I V E

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febbraio 2020

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ARTE MODERNA

CONTEMPORANEA

ASTA in SALA


130

136

104

Art Gallery.

167

GRAND TOUR

La Deposizione Il capolavoro di Benedetto Antelami testo di Clario Di Fabio

130

Le stigmate di san Francesco l’iconografia nel Trecento da Giotto in poi testo di Ilaria Baratta

122

OPERE E ARTISTI

WUNDERKAMMER

I reliquiarî di Limoges del Tesoro della Cattedrale di Pisa

136

ATTUALITÀ

testo di Ilaria Baratta

152

66 10 • FINESTRE SULL’ARTE

Nuova luce per il Beato Angelico DENTRO LA MOSTRA

Bernardo Strozzi La conquista del colore testo di Federico Giannini



AGENDA. Svizzera

KOEN VANMECHELEN

THE WORTH OF LIFE - 1982/2019 4 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 MENDRISIO WWW.USI.CH/ TEATRO DELL’ARCHITETTURA

MARCELLO DUDOVICH (1878-1962) FOTOGRAFIA TRA ARTE E PASSIONE 29 SETTEMBRE 2019 | 16 FEBBRAIO 2020 CHIASSO WWW.CENTROCULTURALECHIASSO. CH/M-A-X-MUSEO M.A.X. MUSEO DI CHIASSO

to tra fotografia e cartellonistica nell’arte

La mostra presenterà opere realizza-

di Marcello Dudovich, che nel corso del

te tra il 1982 e il 2019 per ripercorrere

Novecento si è dedicato alla grafica pub-

il percorso artistico di Vanmechelen,

blicitaria. Esposte oltre trecento opere, tra

mettendo in risalto il suo carattere

fotografie inedite vintage, manifesti originali,

neo-barocco. Artista belga di fama in-

schizzi e bozzetti, oltre a riviste dell’epoca,

ternazionale, scultore, pittore, perfor-

lettere, cartoline e documenti, provenienti

mer, videoartista, studioso, oltre che

da importanti collezioni pubbliche e private.

attivista dei diritti umani, Koen Vanmechelen ha imperniato il proprio lavoro sulla relazione tra natura e cultura.

La rassegna intende analizzare il rappor-

GIAPPONE. L’ARTE NEL QUOTIDIANO

MANUFATTI MINGEI DALLA COLLEZIONE JEFFREY MONTGOMERY 13 OTTOBRE 2019 | 8 MARZO 2020 LIGORNETTO WWW.MUSEO-VELA.CH MUSEO VINCENZO VELA

12 • FINESTRE SULL’ARTE

Duecento opere in ceramica, legno, tessuto e lacca giapponesi provenienti dalla Collezione Jeffrey Montgomery, con sede in Ticino, una delle più importanti raccolte di manufatti di artigianato nipponico al di fuori del Giappone.


Piemonte

ANDREA MANTEGNA RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO

12 DICEMBRE 2019 | 4 MAGGIO 2020 TORINO WWW.PALAZZOMADAMATORINO.IT PALAZZO MADAMA Un’esposizione dedicata a uno dei più

tori avranno perciò l’occasione di scoprire

significativi artisti del Rinascimento italia-

ampiamente la figura dell’artista che definì

no, Andrea Mantegna. Le sei sezioni della

il suo linguaggio formativo sulla base della

rassegna ripercorreranno l’attività artistica

profonda e diretta conoscenza delle opere

del celebre pittore, dagli esordî al ruolo

padovane di Donatello, dei dipinti di Jaco-

di artista di corte dei Gonzaga, eviden-

po Bellini e dei suoi figli, delle novità fio-

ziando alcuni temi come il suo rapporto

rentine e fiamminghe e dello studio della

con l’architettura e con i letterati. I visita-

scultura antica.

DIVISIONISMO

LA RIVOLUZIONE DELLA LUCE

BERLINDE DE BRUYCKERE

23 NOVEMBRE 2019 | 5 APRILE 2020 NOVARA WWW.ILCASTELLODINOVARA.IT

1 NOVEMBRE 2019 | 15 MARZO 2020 TORINO FSRR.ORG

CASTELLO VISCONTEO

FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO

Curata da Annie-Paule Quinsac, che si dedica allo studio dell’arte divisionista

Una grande monografica dedicata a

dagli anni Sessanta (in particolare è

Berlinde De Bruyckere. In questa oc-

esperta di artisti come Giovanni Segan-

casione, l’artista ha ideato un corpus di

tini, Carlo Fornara e Vittore Grubicy de

opere visibile nell’intero spazio esposi-

Dragon), la mostra intende ripercorrere

tivo come una narrazione organica: una

la storia del divisionismo e in particola-

serie di sculture monumentali e una

re di quello lombardo-piemontese.

grande installazione ambientale.

FINESTRE SULL’ARTE • 13


AGENDA. Piemonte

Una mostra nata dalla collaborazione tra la Fondazione CRC e il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e curata dal direttore del Castello di Rivoli, Carolyn Christov-Bakargiev, con Giulia Colletti. Il pubblico potrà ammi-

GIUSEPPE PENONE

rare alcune opere dell’artista originario

INCIDENZE DEL VUOTO

di Garessio, tra gli sculturi contempo-

12 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 CUNEO WWW.FONDAZIONECRC.IT

ranei più importanti al mondo. Intento

COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN FRANCESCO

parti costitutive della sua produzione in

della mostra è condurre a una riflessione sulla dualità tra vuoto e pieno come un gioco di rimandi.

MONET

E GLI IMPRESSIONISTI IN NORMANDIA 13 SETTEMBRE 2019 | 16 FEBBRAIO 2020 ASTI WWW.ASTIMONET.IT PALAZZO MAZZETTI Settantacinque opere per raccontare il legame tra il movimento impressionista e la Normandia. In questa regione del nord della Francia, diversi artisti colsero l’immediatezza e la vitalità del paesaggio imprimendo sulla tela gli umori del cielo, i colori del mare e delle valli della Normandia. Curata da Alain Tapié, la mostra traccia le tappe di questo rapporto, partendo da Eugène Delacroix passando

HOKUSAI HIROSHIGE HASUI

VIAGGIO NEL GIAPPONE CHE CAMBIA 19 OTTOBRE 2019 | 16 FEBBRAIO 2020 TORINO WWW.PINACOTECA-AGNELLI.IT PINACOTECA GIOVANNI E MARELLA AGNELLI

per Gustave Courbet e arrivando alle opere di Monet, Renoir e colleghi.

Il Giappone è protagonista della mostra che presenta le opere di due grandi ma-

14 • FINESTRE SULL’ARTE

estri del “Mondo Fluttuante”: Katsushika

i temi e le tecniche delle xilografie poli-

Hokusai e Utagawa Hiroshige. Queste

crome anche nelle epoche Meiji (1868-

saranno

stam-

1912), Taisho (1912-1926) e parte della

pe moderne di Kawase Hasui, pittore

Showa, fino a metà degli anni Cinquanta

esponente del movimento shin hanga

del Novecento, quando venne nominato

(ovvero nuove stampe), che portò avanti

Tesoro nazionale vivente nel 1956.

accompagnate

dalle


Lombardia/Liguria

GIULIO ROMANO ARTE E DESIDERIO

6 OTTOBRE 2019 | 6 GENNAIO 2020 MANTOVA WWW.PALAZZOTE.IT PALAZZO TE Curata da Barbara Furlotti, Guido Rebecchini e Linda Wolk-Simon, la mostra intende indagare le correlazioni tra l’immaginario erotico del mondo classico e le invenzioni che Giulio Romano e colleghi produssero in Italia nella prima metà del Cinquecento. Spazio dunque all’arte del grande allievo di Raffaello, ma il percorso espositivo va anche oltre, evidenziando la capillare diffusione di un importante

ANNI VENTI IN ITALIA L’ETÀ DELL’INCERTEZZA

5 OTTOBRE 2019 | 1 MARZO 2020 GENOVA WWW.PALAZZODUCALE.GENOVA.IT PALAZZO DUCALE Gli anni Venti in Italia furono anni complessi, un periodo cruciale di passaggio tra la Grande Guerra, con la fine dell’ottimismo

trasformazioni sociali e culturali. La mostra

e delle certezze che avevano caratterizzato

intende offrire uno sguardo originale sul

la Belle Époque, e la crisi mondiale del de-

decennio, mettendone in luce non tanto

cennio successivo. Una crisi che produsse

gli aspetti esteriori del glamour, nei quali

un clima generale di incertezza, determi-

si incarnarono il desiderio di evasione e di

nato dagli effetti del conflitto, dalla diffici-

appagamento sensoriale, quanto piuttosto

le transizione economica e dalle rilevanti

i lati più oscuri, inquieti e irrazionali.

repertorio di immagini erotiche nella cultura artistica cinquecentesca e svelando i continui rimandi tra cultura alta e cultura bassa nell’ambito della produzione di queste immagini.

OVERSIZE

GRANDI CAPOLAVORI DALLE COLLEZIONI DEL CAMEC 12 OTTOBRE 2019 | 20 SETTEMBRE 2020 LA SPEZIA CAMEC.MUSEILASPEZIA.IT CAMEC

zione che ha riunito circa duecento piccole opere del museo spezzino, questa volta saranno una quarantina le opere di grande formato presentate ai visitatori, alcune delle quali mai esposte. Ben rappresentato il nucleo storico, la raccolta di dipinti acquisiti nell’ambito del Premio Nazionale di Pittura intitolato al Golfo della Spezia,

Dopo Small Size. Piccoli capolavori

che dal 1949 al 1965 ha attirato artisti

dalle collezioni del CAMeC, esposi-

di fama internazionale.

FINESTRE SULL’ARTE • 15


AGENDA. Lombardia

CANOVA THORVALDSEN

LA NASCITA DELLA SCULTURA MODERNA 25 OTTOBRE 2019 | 15 MARZO 2020 MILANO WWW.GALLERIEDITALIA.COM GALLERIE D’ITALIA DI PIAZZA SCALA Obiettivo della mostra è quello di met-

tecnica. La città di Roma fu il terreno su

tere in atto un confronto mai tentato pri-

cui si affrontarono i due illustri maestri:

ma in un’occasione espositiva, quello

qui, entrambi svolsero una buona parte

tra i due grandi protagonisti della scul-

della loro carriera, e sempre a Roma,

tura del tempo, ovvero l’italiano Antonio

i due artisti ingaggiarono una delle più

Canova e il danese Bertel Thorvaldsen,

note e produttive sfide su identici temi

i due “classici moderni” che trasforma-

e soggetti che regaleranno all’arte molti

rono l’idea stessa della scultura e la sua

capolavori.

GEORGES DE LA TOUR

con i grandi maestri a lui contempo-

L’EUROPA DELLA LUCE

ranei. Curata da Francesca Cappelletti,

7 FEBBRAIO | 7 GIUGNO 2020 MILANO WWW.PALAZZOREALEMILANO.IT

Georges de La Tour con capolavori di

la mostra pone a confronto i dipinti di altri artisti, quali Gerrit van Honthorst, Paulus Bor, Trophime Bigot, Hendrick

PALAZZO REALE

ter Brugghen, per riflettere sulla pittura dal naturale e sulle sperimentazio-

Una grande esposizione dedicata al più

ni luministiche, nonché per affrontare

celebre pittore francese del Seicento,

diversi interrogativi che permangono

Georges de La Tour, e ai suoi rapporto

sulla produzione dell’artista.

DE PISIS 4 OTTOBRE 2019 | 1 MARZO 2020 MILANO WWW.MUSEODELNOVECENTO.ORG MUSEO DEL NOVECENTO

della pittura tra le due guerre. Esposti oltre novanta dipinti, tra i più lirici della sua produzione, spaziando da vedute urbane, nature morte e fantasie marine. Si parte dagli esordi nel 1916 e dall’incontro con la pittura metafisi-

16 • FINESTRE SULL’ARTE

La mostra intende ripercorrere l’atti-

ca di de Chirico per giungere agli inizî

vità artistica del ferrarese Filippo de

degli anni Cinquanta, quando il pittore

Pisis, sottolineando come l’artista sia

venne ricoverato nella clinica psichia-

stato tra i più significativi protagonisti

trica di Villa Fiorita.


Trentino Alto Adige/Friuli Venezia Giulia/Veneto

DANZARE LA RIVOLUZIONE

ISADORA DUNCAN E LE ARTI FIGURATIVE IN ITALIA TRA OTTOCENTO E AVANGUARDIA 19 OTTOBRE 2019 | 1 MARZO 2020 ROVERETO MART.TN.IT MART

IL RINASCIMENTO DI PORDENONE 25 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 PORDENONE WWW.MOSTRAPORDENONE.IT GALLERIA D’ARTE MODERNA, MUSEO CIVICO D’ARTE E DUOMO

Una rassegna dedicata a Isadora Duncan, danzatrice americana e icona culturale. Personalità ribelle e carismatica, rivoluzionò le teorie accademiche della danza in favore di un’autonomia di stili e tecniche: per lei quest’ultima era una liberazione del corpo della donna, un modo per permettere al corpo femminile di volteggiare nello spazio.

costruisce le vicende del Pordenone, intrecciandole con quelle dei contesti in cui si formò e in cui operò: spazio dunque a opere di grandi artisti del tempo come Giorgione, Sebastiano del Piombo, Tiziano, Lorenzo Lotto, Parmigianino, Romanino. Inoltre la mostra riserva anche approfondimen-

Una mostra dedicata ad Giovanni Antonio de’ Sacchis meglio noto come il Pordenone, uno dei più importanti artisti del primo Cinquecento. Con più di cinquanta opere, la rassegna ri-

ti agli allievi del Pordenone, come Pomponio Amalteo, Giulio Licinio, Jacopo Bassano, Antonio Sacchiense, Giovanni De Mio. E ancora, una sezione dedicata ai disegni.

DA TIZIANO A RUBENS CAPOLAVORI DA ANVERSA E DA ALTRE COLLEZIONI FIAMMINGHE 5 SETT. 2019 | 1 MAR. 2020 VENEZIA PALAZZODUCALE.VISITMUVE.IT PALAZZO DUCALE

Attraverso quest’esposizione s’intende restituire il fermento culturale ed economico dell’Europa tra XVI e XVII secolo. Sono quindi esposte oltre centoquaranta opere, tra cui alcune assenti da secoli dalla laguna e alcune mai esposte al pubblico, provenienti dalle più prestigiose collezioni pubbliche e private di Anversa e delle Fiandre e da altri musei e collezioni italiane e internazionali, al fine di narrare la ricchezza, la complessità e relazioni di un territorio a cavallo di due secoli.

FINESTRE SULL’ARTE • 17


AGENDA. Emilia Romagna

ETRUSCHI

VIAGGIO NELLE TERRE DEI RASNA 7 DICEMBRE 2019 | 24 MAGGIO 2020 BOLOGNA WWW.MUSEIBOLOGNA.IT/ARCHEOLOGICO MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO Gli etruschi sono protagonisti di una grande mostra al Museo Civico Archeologico di Bologna, un progetto

CORREGGIO. RITRATTO DI GIOVANE DONNA UN CAPOLAVORO DAL MUSEO ERMITAGE DI SAN PIETROBURGO

di riunire circa mille oggetti da ses-

24 OTTOBRE 2019 | 8 MARZO 2020 REGGIO EMILIA WWW.PALAZZOMAGNANI.IT

santa musei ed enti italiani e interna-

CHIOSTRI DI SAN PIETRO

espositivo sulla civiltà etrusca capace

zionali. La rassegna vuole essere un

A distanza di cinque secoli dalla sua realizzazione, dal 1520 circa, il Ritratto di Giovane donna del Correggio giunge in una delle terre dell’artista grazie a un accordo tra la città di Reggio Emilia, la Fondazione Palazzo Magnani e la sede museale russa. La mostra è inoltre occasione per riprendere alcuni studî relativi ad aspetti rimasti incerti, come il nome della persona ritratta, l’interpretazione dei segni e dei simboli che la ornano, le

viaggio nelle terre degli Etruschi tra

finalità per cui fu dipinta.

archeologia e paesaggi sorprendenti e metterà in risalto le novità di scavo e di ricerca sulla storia di uno dei più importanti popoli dell’Italia antica.

DE NITTIS

E LA RIVOLUZIONE DELLO SGUARDO 1 DICEMBRE 2019 | 13 APRILE 2020 FERRARA WWW.PALAZZODIAMANTI.IT PALAZZO DEI DIAMANTI

Palazzo dei Diamanti dedica una mostra a Giuseppe De Nittis, tra i protagonisti insieme a Boldini della scena parigina di fine Ottocento. L’esposizione intende rileggere l’attività artistica di De Nittis analizzando per la prima volta la sua produzione dal punto di vista formale e tecnico per evidenziare la sua personale risposta alle poetiche della modernità.

18 • FINESTRE SULL’ARTE


Emilia Romagna

EMOZIONE BAROCCA

ULISSE

9 NOVEMBRE 2019 | 15 FEBBRAIO 2020 CENTO WWW.COMUNE.CENTO.FE.IT

15 FEBBRAIO | 21 GIUGNO 2020 FORLÌ WWW.FONDAZIONECARIFORLI.IT

PINACOTECA SAN LORENZO E ROCCA DI CENTO

MUSEI SAN DOMENICO

IL GUERCINO A CENTO

Una grande mostra restituisce a Cento il suo più illustre artista, Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, a sette anni di distanza dal sisma del 2012 che aveva fatto chiudere molti musei e chiese a Cento e dintorni, inclusi i luoghi dove si conservano le opere del

L’ARTE E IL MITO

La mostra è interamente dedicata al mito di Ulisse e alle sue varie declinazioni e visuali. Un mito che resiste e affascina

Immortali di Borges, dal Tasso della Ge-

da tremila anni: dal Dante del XXVI canto

rusalemme liberata alla Ulissiade di Le-

dell’Inferno allo Stanley Kubrick di 2001 –

opold Bloom fino ad arrivare al Kafavis di

Odissea nello spazio, dal capitano Acab

Ritorno ad Itaca: il grande eroe omerico

di Moby Dick di Melville alla città degli

è parte della cultura occidentale.

grande pittore. La rassegna presenta settantanove opere, settantadue delle quali del Guercino, quasi tutte appartenenti al patrimonio culturale della città e in grado di tracciare un percorso dalla formazione alla maturità del pittore marcandone le mutazioni stilistiche.

GIOVANNI ANTONIO CYBEI

UN GRANDE SCULTORE PER MODENA 25 OTTOBRE | 15 MARZO 2020 MODENA WWW.GALLERIE-ESTENSI. BENICULTURALI.IT GALLERIE ESTENSI

La mostra riunisce per la prima volta il nucleo di opere modenesi del grande Giovanni Antonio Cybei, uno dei più importanti scultori del Settecento, a lungo attivo nelle corti italiane ed europee, fautore di un linguaggio versatile, in grado di moderare l’enfasi drammatica barocca con formule più sintetiche e aggraziate, che gli garantirono fortuna presso l’alta committenza italiana e le corti di Europa e Russia.

FINESTRE SULL’ARTE • 19


AGENDA. Toscana

PIETRO ARETINO

E L’ARTE DEL RINASCIMENTO 28 NOV. 2019 | 1 MAR. 2020 FIRENZE WWW.UFFIZI.IT GALLERIA DEGLI UFFIZI

mondo di un grande intellettuale del Cinquecento, Pietro Aretino. Il grande letterato visse, e alimentò con i suoi scritti, un momento fondamentale per la storia e per l’arte italiana: quello che vide l’affermazione di Michelangelo e Raffaello a Roma e la diffusione in tutta Europa della cultura

Un centinaio tra dipinti, sculture, og-

maturata nei primi tre decenni del

getti di arte applicata, arazzi, miniatu-

Cinquecento nello sfarzo della corte

re e libri a stampa, ricostruiscono il

di Giulio II, Leone X e Clemente VII.

MODIGLIANI E L’AVVENTURA DI MONTPARNASSE

CAPOLAVORI DALLE COLLEZIONI NETTER E ALEXANDRE

DOPO CARAVAGGIO

7 NOVEMBRE 2019 | 16 FEBBRAIO 2020 LIVORNO WWW.COMUNE.LIVORNO.IT

IL SEICENTO NAPOLETANO NELLE COLLEZIONI DI PALAZZO PRETORIO E DELLA FONDAZIONE DE VITO

MUSEO DELLA CITTÀ

14 DICEMBRE 2019 | 13 APRILE 2020 PRATO WWW.PALAZZOPRETORIO.PRATO.IT

spazia ben oltre, raccontando il modo

MUSEO CIVICO DI PALAZZO PRETORIO

cio) e Alexandre (medico), che con i

La mostra offre un affondo sui rapporti tra Modigliani, Netter e Alexandre, ma in cui si formarono le cospicue raccolte di Netter (rappresentante di commerloro guadagni sovvenzionarono molti artisti, tra i quali lo stesso Modigliani.

La mostra nasce per valorizzare due importanti collezioni di arte napoletana del XVII secolo: quella di Palazzo Pretorio a Prato (la seconda più importante in Toscana dopo quella degli Uffizi) e quella della Fondazione De Vito, iniziata da Giuseppe De Vito (Portici, 1924 - Firenze, 2015) conoscitore, studioso, collezionista di Seicento napoletano e fondatore del periodico Ricerche sul ‘600 napoletano (la collezione De Vito rappresenta, per qualità e interesse storico, una delle più significative collezioni private di pittura napoletana del Seicento).

20 • FINESTRE SULL’ARTE

A completare il tutto, dipinti di grandi protagonisti dell’epoca, come Suzanne Valadon, Maurice Utrillo, André Derain, Maurice de Vlaminck, Moïse Kisling, Chaïm Soutine: tutti artisti che Modigliani conobbe e con cui condivise ampi tratti del suo cammino.


Marche

RAFFAELLO

RAPHAEL WARE

E GLI AMICI DI URBINO

I COLORI DEL RINASCIMENTO

3 OTTOBRE 2019 | 19 GENNAIO 2020 URBINO WWW.GALLERIANAZIONALEMARCHE.IT

31 OTTOBRE 2019 | 13 APRILE 2020 URBINO WWW.GALLERIANAZIONALEMARCHE.IT

GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE

GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE

La mostra indaga e racconta per la pri-

La Galleria Nazionale delle Marche a Ur-

ma volta in modo compiuto il mondo

bino presenta al pubblico centoquaran-

delle relazioni di Raffaello con un grup-

tasette esemplari di maiolica rinascimen-

po di artisti operosi a Urbino che ac-

tale italiana provenienti dalla più grande

compagnarono, sebbene in dialogo ma

collezione privata di questo genere al

da posizioni diverse, la sua transizione

mondo. Una raccolta di altissima quali-

verso la maniera moderna e i suoi svi-

tà, visibile nel celebre museo urbinate in

luppi stilistici durante la stagione roma-

concomitanza con la grande mostra su

na. Fondamentale fu il ruolo di Perugino

Raffaello e gli amici di Urbino. Attaverso

e di Luca Signorelli, nonché di suo padre

le maioliche, la mostra intende evidenzia-

Giovanni Santi, nella formazione e nei

re come l’epoca rinascimentale italiana

primi anni della produzione dell’artista

abbia influenzato ogni forma artistica.

urbinate; l’arte dei più maturi Girolamo Genga e Timoteo Viti si relazionò invece con quella di Raffaello nel suo periodo fiorentino e nei suoi primi anni romani.

RINASCIMENTO MARCHIGIANO

OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA 22 NOVEMBRE 2019 | 3 NOVEMBRE 2020 ASCOLI PICENO WWW.ASCOLIMUSEI.IT FORTE MALATESTA

Sono passati tre anni dal terremoto del 2016 e cinquantuno opere restaurate faranno ritorno nel cratere del sisma in occasione di una mostra itinerante in tre tappe che prende il via il 22 novembre 2019 ad Ascoli Piceno presso il Forte Malatesta e si sposterà poi a Roma e a Senigallia. Le cinquantuno opere marchigiane in mostra sono di proprietà di diciassette differenti Enti pubblici ed ecclesiastici delle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata. FINESTRE SULL’ARTE • 21


AGENDA. Lazio

CANOVA

ETERNA BELLEZZA 9 OTTOBRE 2019 | 15 MARZO 2020 ROMA WWW.MUSEODIROMA.IT MUSEO DI ROMA

pe Pavanello (uno dei massimi esperti dell’artista veneto) e organizzata in collaborazione con l’Accademia Nazionale di San Luca e con la Gipsoteca e Museo “Antonio Canova” di Possagno, presenta al pubblico oltre centosettanta opere di Canova e artisti a lui contem-

Una rassegna interamente dedicata ad

poranei con l’intenro di raccontare, in

Antonio Canova e al suo legame con la

tredici sezioni, l’arte del maestro del

città di Roma, che l’evento intende far

neoclassicismo e il contesto che lo

emergere in tutti i suoi più importanti

scultore trovò al suo arrivo a Roma nel

aspetti. La mostra, curata da Giusep-

1779, all’età di ventidue anni.

GIO PONTI

AMARE L’ARCHITETTURA 27 NOVEMBRE 2019 | 13 APRILE 2020 ROMA WWW.MAXXI.ART MAXXI A quarant’anni dalla sua scomparsa, il MAXXI di Roma dedica a Gio Ponti una grande retrospettiva che ne studia e comunica la poliedrica attività, a partire proprio dal racconto della sua architettura. Dal disegno di oggetti d’uso quotidiano all’invenzione di soluzioni spaziali per la casa moderna, alla realizzazione

VALADIER

SPLENDORE NELLA ROMA DEL SETTECENTO 30 OTTOBRE 2019 | 2 FEBBRAIO 2020 ROMA GALLERIABORGHESE.BENICULTURALI.IT GALLERIA BORGHESE

di progetti complessi calati nel contesto urbano, come il grattacielo Pirelli a Mi-

La grande mostra monografica autun-

lano o la cattedrale di Taranto, la proget-

nale della Galleria Borghese è dedicata

tualità di Ponti si caratterizza proprio per

a Luigi Valadier, uno dei più significativi

il passaggio disinvolto di scala in scala.

ebanisti e orafi di Roma della metà del Settecento. La sua bottega in via del Babuino era alla sua epoca uno dei luoghi più visitati da reali, diplomatici, collezionisti e antiquarî e la sua produzione diventò modello internazionale per la grande versatilità dell’artista e la sua abilità tecnica. La mostra intende presentare al pubblico le opere di Valadier all’interno di un contesto decorativo come quello di Villa Borghese, dove pittori e scultori hanno condiviso molte imprese artistiche romane.

22 • FINESTRE SULL’ARTE


Campania/Puglia/Basilicata

ANDY WARHOL 26 SETTEMBRE 2019 | 23 FEBBRAIO 2020 NAPOLI WWW.POLOPIETRASANTA.COM BASILICA DELLA PIETRASANTA

mito di Andy Warhol, che intende offrire al pubblico una visione completa della

In mostra oltre duecento opere di Andy

produzione artistica del genio america-

Warhol con un’intera sezione dedicata

no che ha rivoluzionato il concetto di

all’Italia e un focus sulla città di Napoli.

opera d’arte a partire dal secondo do-

Un’esposizione interamente dedicata al

poguerra.

SHIRIN NESHAT MATERA 2019

BOLDINI. L’INCANTESIMO DELLA PITTURA CAPOLAVORI DAL MUSEO BOLDINI DI FERRARA

7 DICEMBRE 2019 | 3 MAGGIO 2020 BARLETTA WWW.BARLETTAMUSEI.IT PINACOTECA DE NITTIS Dedicata a Giovanni Boldini, l’esposizione presenta opere in arrivo dal Museo Boldini di Ferrara per ripercorrere la vicenda dell’artista, tra i più celebri ritrattisti della Belle Époque, famoso

11 SETTEMBRE 2019 | 12 GENNAIO 2020 MATERA WWW.MAXXI.ART MUSEO DI PALAZZO LANFRANCHI In occasione di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, l’artista iraniana Shirin Neshat presenta al Museo di Palazzo Lanfranchi due lavori tratti dal suo ultimo lungometraggio Looking for Oum Kulthum (2017) che vede come protagonista Mitra, una regista di origini iraniane che ha il sogno di realizzare un film dedicato alla leggendaria cantante egiziana Oum Kulthum, amata in tutto il mondo arabo. Mostra realizzata in collaborazione col MAXXI di Roma.

per aver immortalato i protagonisti del tempo, da Robert de Montesquiou alla marchesa Luisa Casati, facendo di loro l’immagine stessa di quel momento storico e culturale.

FINESTRE SULL’ARTE • 23



| RENDEZ-VOUS

|

Paul Alexandre e Amedeo Modigliani testo di Anna de Fazio Siciliano

Giovane medico, appassionato d’arte e anche singolare pusher, Paul Alexandre è stato uno dei più eccezionali collezionisti della Parigi d’inizio Novecento: aveva pochi soldi ma sapeva riconoscere benissimo un talento e s’inventò un metodo innovativo per sostenere gli artisti che voleva coltivare. Ed è grazie anche al suo contributo se oggi Amedeo Modigliani è passato alla storia dell’arte.

N

el 1907-08, quando era alle prese con le Demoiselles d’Avignon, Picasso non era ancora Picasso. La sua fortuna sarebbe cominciata dopo, grazie a due mecenati, i fratelli Gertrude e Leon Stein, e a un mercante, Daniel-Henry Kahnweiler. E invece per Modigliani,

Ritratto di Paul Alexandre FOTO PAGINA A FIANCO:

Amedeo Modigliani, Ritratto di

Paul Alexandre (1911-1912; olio su tela, 92 x 60 cm; Collezione privata) FINESTRE SULL’ARTE • 25


l’artista italiano che visse nella Parigi “maledetta” post Baudelaire, si può dire lo stesso? Nell’arco della sua brevissima esistenza (Livorno, 1884 – Parigi, 1920), a sostenerlo saranno in molti, il mercante d’arte Paul Guillaume prima, e Leopold Zborowski dopo, ma il primo e decisivo incontro è stato quello con Paul Alexandre (Parigi, 1881 – 1968). L’annus mirabilis, il 1907, circa 365 giorni dal suo arrivo nella Ville Lumière. Medico, collezionista,

che diventerà un chirurgo di chiara fama, era ancora internista all’ospedale Lariboisière, e suo fratello Jean stava completando gli studî per diventare farmacista. Nonostante non provenissero da una famiglia particolarmente abbiente (il padre Jean-Baptiste possedeva una farmacia), su iniziativa di Paul, i due giovani, entrambi appassionati d’arte, ottengono l’autorizzazione a recuperare un immobile abbandonato al 7 di rue du Delta, un edificio semi diroccato destinato alla

Solo da poco è stato rivalutata l’importanza del ruolo che Paul Alexandre ha avuto nel sostenere e promuovere l’arte di Amedeo Modigliani. mecenate, oltre che insolito pusher, il suo ruolo e l’importanza del legame che Paul Alexandre ha avuto con Modigliani, sono stati rivalutati soltanto da pochi decennî. È con la pubblicazione nel 1993 del taccuino del nipote, Noël Alexandre, e dopo la grande mostra di Parigi, che la sua figura riemerge dall’oblio. Quando Modigliani arriva a Parigi, nel 1907, Paul,

L’Ebrea FOTO SOTTO:

Amedeo Modigliani, L’Ebrea (1908; olio su

tela, 55 x 46 cm; Collezione privata)

demolizione, che i fratelli Alexandre riescono ad avere in affitto per trasformarlo in una sorte di comune, in modo da offrire agli artisti un posto economico, e talvolta gratuito, dove vivere e lavorare. Due artisti più esperti, lo scultore Raphaël Drouart e il pittore Henri Doucet, avevano il compito di vagliare chi potesse accedere a questo spazio, e sono proprio loro a organizzare il primo incontro tra Modigliani, che si presenta accompagnato dalla modella Maud Abrantès, e Paul. «Colpito dalle sue doti di prodigioso artista, lo supplicai di non distruggere nessuno dei suoi taccuini, nessuno dei suoi studî, e misi a disposizione le scarse risorse di cui disponevo». Il giovane medico prontamente gli propone di trasferirsi: tuttavia Modigliani, benché sfrattato dal suo studio a place Jean-Baptiste Clément perché da qualche tempo non pagava più l’affitto, decide di non cambiare residenza ma soltanto di portare in quello spazio i suoi libri e i quadri. Qui, Modigliani conosce diversi artisti, tra cui lo scultore romeno Constantin Brâncuși, con il quale continuerà anche alla Cité Falguière l’attività scultorea iniziata nel 1902 a Pietrasanta, di cui abbiamo come unica testimonianza una lettera inviata a Gino Romiti. Con il suo arrivo a rue Delta, Paul inizia ad acquistare le opere di Modigliani, a cominciare dal ritratto intitolato L’Ebrea, per

Ritratto di Maud Abrantès FOTO PAGINA A FIANCO:

Amedeo Modigliani, Ritratto di

Maud Abrantès (1907; olio su tela, 81 x 54 cm; Haifa, Reuben and Edith Hecht Museum)

26 • FINESTRE SULL’ARTE




Fillette en bleu FOTO PAGINA A FIANCO:

Amedeo Modigliani, Fillette en bleu

(1918; olio su tela, 116 x 73 cm; Collezione Jonas Netter)

alcune centinaia di franchi (una cifra eccezionale a quei tempi per una tela decisamente anticonformista, in cui è ritratta una sconosciuta di un’allucinante intensità). Nonostante il Delta fosse frequentato da artisti già affermati, sui muri delle sale principali (le foto degli Archives Legales Modigliani di Parigi ne costituiscono una prova schiacciante) spiccavano i suoi dipinti, a dimostrazione che gli Alexandre avevano compreso la grandezza di quest’artista. Presumibilmente è stata questa stima e questo ricono-

città: il Guimet, il Louvre e il Trocadéro sono stati fondamentali per consentire ad Amedeo nuovi approdi artistici, soprattutto nella scultura, alla quale, nonostante i costi e le negative ripercussioni sulla sua salute, non aveva rinunciato mai del tutto. Nel realizzare le sue teste, Modigliani sentiva urgente la necessità di raggiungere la purificazione delle forme, attraverso una ricerca dell’essenza delle volumetrie, dei movimenti e delle espressioni. Sarà proprio Paul Alexandre, molti anni dopo la morte dell’amico, a confermare che lui «si sentiva più disegnatore che pittore». Conscio dell’importanza del ruolo delle istituzioni ufficiali nel promuovere un artista alla conoscenza del pubblico, dei mercanti e collezionisti, alla fine del 1907, il medico convince l’amico pittore a iscriversi al Salon

Paul, assieme a suo fratello Jean, riesce ad avere un immobile in affitto in rue Delta per trasformarlo in una sorte di comune, in modo da offrire agli artisti un posto economico, e talvolta gratuito, dove vivere e lavorare. scimento riposti nell’amico a portare Paul a salvare diverse opere dall’abitudine del livornese di disfarsi dei lavori che non riteneva soddisfacenti, venendo a raccogliere cosi un’intera collezione fatta di decine di tele e circa quattrocento disegni. Come medico Paul però ancora non guadagnava: cercava tuttavia, anche con l’aiuto del padre Jean-Baptiste, di comprare regolarmente i quadri ad Amedeo. Consentendogli così di sopravvivere, pagando ogni volta le opere, in base alle proprie disponibilità, da venti centesimi a venti franchi. In tal modo, tra il 1907 e il 1914, prima del suo arruolamento sul fronte, il giovane medico mette insieme una notevole raccolta in cui era possibile ravvisare chiaramente la parte che ha avuto la pittura di Toulouse-Lautrec, Gauguin e Cézanne nella formazione iniziale di Modigliani. Paul era molto incuriosito dal livornese, con il quale intratteneva accese discussioni sulle mostre di Cézanne e Matisse e sulla pittura del tempo. Sul nodo cruciale “Modigliani - art nègre”, negli ultimi anni, sono emersi nuovi dati e documenti, che tendono a screditare l’idea (finora ritenuta valida) che fosse Paul a far avvicinare, in quei primi anni parigini, Modigliani alle arti primitive africane, americane, della Mesopotamia e dell’Oceania. Frequenti le loro visite nei musei della

des Independents. L’esposizione ebbe luogo a marzo del 1908 e Modigliani presenta sei opere: L’Ebrea, due nudi, uno studio, L’Idolo e un disegno. Paul Alexandre, patron, mecenate, collezionista, gli aveva così aperto un mondo, e il battesimo del fuoco era avvenuto. Ma Paul, oltre al grande fiuto nell’intercettare, in anticipo su tutti, il talento di Modigliani, è stato soprattutto un grande amico, confidente e, come medico personale, gli fornisce anche diverse quantità di stupefacenti. Amedeo Modigliani, com’è noto, era ammalato fin da bambino di tubercolosi, e per alleviarne i sintomi, prendeva a dosi alterne cocaina e hascisc: la leggenda del “maledettismo” ha una base autentica. Certo è che Paul non è stato l’unico: anche il barone Pigeard sembra dispensasse, a Modigliani come ad altri artisti e poeti, hascisc e cocaina. Inoltre, pare che l’oppio Amedeo se lo procurasse anche in modo indipendente nei locali di place Clichy e di Pigalle. Sappiamo, infatti, che in quel periodo (Freud aveva pubblicato Über Coca proprio nell’anno di nascita di Modigliani, il 1884) l’uso di droghe e sostanze stupefacenti era del tutto lecito. Su questo punto, negli ultimi anni è stata avanzata un’ipotesi molto suggestiva, pubblicata in forma romanzata nel libro Modigliani. L’uomo e il mito. Meryle Secrets, l’autrice, propone una nuova chiave di lettura, FINESTRE SULL’ARTE • 29


Cariatide (bleue) FOTO PAGINA A FIANCO:

Amedeo

Modigliani, Cariatide (bleue) (1913 circa; matita blu su carta, 56,5  x  45 cm; Collezione Jonas Netter)

Jeune fille rousse (Jeanne Hébuterne) FOTO SOPRA:

Amedeo Modigliani, Jeune fille rousse

(Jeanne Hébuterne) (1918; olio su tela, 46 x 29 cm; Collezione Jonas Netter)

facendo leva sul terrore scatenato in quel secolo dalla tisi e sullo stigma che ne derivava, che finiva per fare del malato un reietto. Modigliani, secondo la Secrets, ha provato a combattere sino alla fine per nascondere il suo male, bloccando sul nascere ogni accesso di quella tosse sanguinosa che lo avrebbe comunque presto 30 • FINESTRE SULL’ARTE

smascherato. Per farlo (qui sta il nocciolo della questione) si sarebbe servito, grazie alle dosi fornite da Paul, degli unici farmaci allora davvero efficaci per lenire il dolore, la morfina e l’eroina, due sostanze entrambe lecite allora e molto diffuse, oltre all’etere e l’assenzio. Come «anestetico necessario, indispensabile per nascondere il suo grande (doloroso) segreto», assume quindi queste sostanze. «Amedeo nasconde il suo dramma sotto la sua esuberanza. Cerca di soffocarlo con l’alcool e la droga»: lo sostiene anche Dan Franck in Montmartre e Montparnasse. L’ipotesi sarebbe confermata anche dal caro amico e pittore Chaïm Soutine (Chaim Solomonovič Sutin; Smiloviči, 1893 – Parigi, 1943), uomo fragile, con un’infanzia da dimenticare: suo padre lo picchiava violentemente per averlo visto disegnare. «Conosce il dolore profondo che Amedeo tenta di vincere. Sa che cosa cerca di dimenticare […]. Lo sa perché una volta, nel 1910, hanno abitato insieme alla Cité Falguière. A quel tempo Modigliani combatteva contro se stesso, contro gli attacchi della malattia, per realizzare il suo solo, vero, grande sogno. Non la pittura. La scultura. Solamente la scultura». L’alcool e la droga possono sì liberare dalla tensione, ma (è importante ribadirlo) non esistono argomentazioni mediche per affermare che possano suggerire a Modì quei caratteri formali che rendono riconoscibili tutti i suoi dipinti. Né è scientificamente attendibile la tesi che attribuisce ai difetti della vista le sue deformazioni: i peculiari allungamenti delle figure sono molti e varî nella storia dell’arte. Conoscendo la sua vita tur-


FINESTRE SULL’ARTE • 31


È anche grazie a Paul Alexandre che ai primi del secolo nasce una nuova categoria di mecenati, molto distanti dal mecenatismo praticato fino a quel momento. la seconda è la colonia artistica di rue Delta 7, nel IX arrondissement, ideata da Paul e Jean Alexandre. È grazie a questi personaggi che ai primi del secolo nasce una nuova categoria di mecenati, una claque molto lontana dal mecenatismo praticato fino a quel momento. Boucher e Paul Alexandre non appartenevano alle grandi famiglie patrizie, aristocratiche o alto borghesi (come i Camondo o i Rothschild), che a coronamento di un sogno di gloria stanziavano ingenti finanziamenti per costruire nuovi musei o arricchire le collezioni del Louvre. Non erano neppure miliardari miracolati dalla rivoluzione industriale come Morozov o Ščukin. Boucher era un semplice scultore e Paul e il fratello Jean costituiscono un caso ancora più singolare. All’inizio dell’avventura di rue Delta, i due Chaïm Soutine seguivano ancora carriere che nulla avevano a che vedere con gli ambienti artistici, essendo Paul un giovane FOTO SOPRA: Amedeo Modigliani, Chaïm Soutine (1916; dermatologo e Jean, come il padre, dedito agli studî olio su tela, 100 x 65 cm; Collezione Jonas Netter) farmaceutici. L’avventura della comune, l’esperienza di rue Delta segna comunque per loro l’avvio di un debinosa, semmai sorprende di più che abbia potuto cre- stino diverso da quello tracciato fino a quel momento. are «disegni, dipinti e sculture cosi lucidamente me- Un destino che hanno fortemente voluto pennellare a ditati, saldi nel segno e nel colore, compositivamente tinte forti nel segno di Modì. ◊ rigorosi». Ci attenderemmo piuttosto densi impasti di tonalità caleidoscopiche e forme irregolari, come nelle opere del suo copain Soutine. La poetica di Modigliani è pertanto del tutto straordinaria, come eccezionale è stata la scoperta e l’opera di promozione avviata da La mostra subito da Paul Alexandre. Per far conoscere la sua pittura e scultura è stato necessario sfruttare i meccaNel 2020 Amedeo Modigliani torna nella sua città nismi di promozione artistica dell’epoca. I mercanti di natale e lo fa con una mostra che, nel centenario della scomparsa dell’artista, espone capolavori da due quadri ricoprivano ormai un ruolo chiave e rappreimportanti collezioni: una è quella di Jonas Netter, sentavano un passaggio obbligato per entrare in conl’altra è proprio quella di Paul Alexandre. Intitolata tatto con collezionisti, mecenati e musei. All’alba del Modigliani e l’avventura di Montparnasse, la mostra, curata XX secolo, in pieno sviluppo capitalistico, due sono le da Marc Restellini, è allestita al Museo della Città di esperienze fuori del comune in quest’ambito. La priLivorno, fino al 16 febbraio 2020. ma è quella dello scultore Alfred Boucher a La Ruche, 32 • FINESTRE SULL’ARTE


www.palazzoducale.genova.it


| ATTUALITÀ

|

Il museo del futuro

I

l principale motivo per il quale i museologi (e, in generale, quanti s’interessano alla vita e all’evoluzione dei musei) ricorderanno questo 2019 è dato dalle discussioni nate attorno alla definizione della parola “museo”. Lo scorso 7 settembre, infatti, era fissata a Kyoto, in Giappone, l’Assemblea Generale dell’ICOM (International Council of Museums, il principale ente internazionale che rappresenta i musei, fondato nel 1946) nel corso della quale sarebbe stata messa ai voti la proposta per la nuova definizione, che avrebbe sostituito quella attuale, approvata nell’Assemblea Generale dell’ICOM tenutasi a Vienna il 24 agosto 2007 (e in Italia recepita con decreto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali datato 23 dicembre 2014). Definire cosa voglia dire il termine “museo” è tutt’altro che ozioso. La definizione di “museo” traccia la sua identità, è valida per tutti i paesi del mondo, offre una base su cui lavorare e su cui modellare l’attività e la missione di un museo, costituisce anche un elemento da cui attingono le varie normative nazionali. Secondo la definizione del 2007 (ancora in vigore, dal momento che la proposta elaborata per l’Assemblea di Kyoto, alla fine, non è passata), «il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone

34 • FINESTRE SULL’ARTE

per scopi di studio, educazione e diletto». Nel 2017, la curatrice danese Jette Sandahl, presidente del Comitato ICOM per la definizione, le prospettive e il potenziale del museo, proponeva di rivedere la definizione del 2007 per renderla più rispondente ai cambiamenti che il mondo aveva conosciuto nel frattempo. Questo il testo proposto all’Assemblea giapponese: «i musei sono spazi democratizzati, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sui passati e sui futuri. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano diverse testimonianze per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non hanno scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per le diverse comunità per raccogliere, conservare, ricercare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo, puntando a contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario». A Kyoto, il 70% di quanti hanno votato s’è espresso a favore di un rinvio della decisione: troppi i disaccordi e le differenze tra le varie anime dell’ICOM, a cominciare da quella italiana che, in una nota ufficiale, riteneva inadeguata la nuova definizione. ICOM Italia dichiarava infatti che la nuova proposta non era «rispondente nella forma ai criterî minimi di una definizione che, nell’individuare il complesso degli elementi volti a caratterizzare e circoscrivere un’entità sul piano


concettuale, deve essere chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati». Molte altre le critiche, tanto che ancora adesso si sta discutendo su cosa deve essere un museo. Gli orientamenti sono soprattutto due: da una parte chi si focalizza sul museo come custode del patrimonio, della memoria, delle testimonianze materiali e immateriali, dall’altra chi invece sottolinea maggiormente il carattere di spazio d’incontro e luogo inclusivo, aperto al dibattito e allo sviluppo sociale, che un museo dovrebbe avere. Quale sarà dunque il museo del futuro? In che modo

PETER AUFREITER DIRETTORE, TECHNISCHES MUSEUM, VIENNA; GIÀ DIRETTORE DELLA GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE DI URBINO

Per quanto riguarda i musei con collezioni d’arte antica, come la Galleria Nazionale delle Marche che è sostanzialmente un museo d’arte rinascimentale, è difficile pensare di connetterli con i dibattiti attuali. A Urbino, per esempio, abbiamo provato sempre a collegare l’arte contemporanea con l’arte classica: non dimentichiamo che ogni arte è stata arte contemporanea. Raffaello è stato l’artista più contemporaneo della sua epoca: quando papa Giulio II gli diede l’incarico di affrescare le sue Stanze, aveva voluto per sé il pittore più moderno che poteva trovare. E noi cerchiamo sempre di spiegare ai nostri visitatori come il Rinascimento fosse, per quell’epoca, la modernità, la novità assoluta. C’è però da

rendere i musei sensibili ai cambiamenti della società? Come i musei riusciranno a guardare avanti e alle sfide che il mondo attuale ci impone, in epoca di globalizzazione, crisi economiche, cambiamenti climatici, importanti fenomeni migratorî? Quali gli scopi del museo, oltre allo «studio, educazione e diletto» identificati dalla definizione ICOM del 2007? Su questo tema riflettono, in questo numero di Finestre sull’Arte on paper, museologi, ricercatori, direttori di musei, tra i quali diversi protagonisti del dibattito di quest’anno.

dire che i musei d’arte antica stanno registrando dei cambiamenti. Intanto, ritengo che a breve finirà l’epoca delle grandi mostre. Credo che tra vent’anni non si faranno più grandi mostre monografiche (su artisti come Monet, Raffaello, Leonardo e altri importanti autori): già adesso è difficilissimo avere in prestito opere di grandi artisti (si pensi solo ai disegni: alcuni musei non li prestano più, perché sono molto delicati), ed è più che mai maturata la consapevolezza che in caso di problemi (un trasporto non andato bene, una luce troppo forte e così via) il rischio è di procurare alle opere danni irreparabili. Di contro, le persone hanno oggi possibilità di viaggiare che un tempo non avevano. E ancora, continuare a organizzare grandi mostre rischia di essere ripetitivo e poco in linea con le aspettative del pubblico. Ricordo che, circa trent’anni fa, al Belvedere di Vienna venne organizzata una grande mostra su Monet, che ebbe un enorme successo attirando circa centocinquantamila visitatori. L’operazione venne replicata vent’anni dopo, ma la mostra ottenne solo un terzo dei visitatori, perché ormai il pubblico non aveva (e non ha) più bisogno di visitare una grande mostra su Monet per conoscere l’artista: tutti hanno già visto mostre di Monet in giro per il mondo, un weekend a Parigi è ormai alla portata di tutti e non è necessario attendere una grande mostra per vedere opere di un artista. E il pubblico che viene da fuori non arriva a Vienna per vedere una mostra su Monet: arriva per vedere i mu-

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sei della città. Ancora, i grandi musei stanno arrivando ai loro limiti fisici: gli Uffizi, i Musei Vaticani e altri grandi musei non possono avere più visitatori di quelli che attualmente ricevono. Allora è necessario trovare altri modi per gestire il pubblico: per esempio, se io vado a Venezia e voglio capire Venezia, devo rimanere in città più giorni per immergermi nell’atmosfera della città, in tranquillità. I musei devono andare in questa direzione: lavorare con le città per creare delle atmosfere (l’atmosfera di Monet a Parigi, di Klimt a Vienna, di Raffaello a Urbino). Questo penso sia il futuro dei musei classici. Per quanto riguarda gli altri musei, far emergere i collegamenti tra collezione e attualità è invece molto più facile: per esempio, nel nostro caso (il mio prossimo incarico sarà di direttore del Technisches Museum di Vienna), possiamo concentrarci sullo sviluppo della tecnica, che è nella quotidianità di tutte le persone. E di conseguenza risulta molto più facile parlare del nostro futuro e dei problemi che riguardano la nostra società in un museo di tecnica piuttosto che in un museo d’arte, dove tutto ciò è molto più complesso. Ma musei come il Technisches Museum di Vienna hanno il compito di parlare di temi attuali. Faccio un esempio: se si discute del problema degli incendî in Amazzonia, il museo dovrebbe essere così flessibile da essere in grado di affrontare questo tema non più tardi di un mese dopo. Non è più ora di organizzare, come si fa nei musei d’arte antica, mostre che richiedono due anni di preparazione (si pensi solo alla trafila dei prestiti), perché si rischia poi di non essere più attuali. I musei che vogliono parlare dei problemi attuali devono lavorare in una maniera tale da trattare certi problemi immediatamente, e con le nuove tecnologie (per esempio i proiettori 3D, l’immersività) è possibile anche affrontare l’attualità in una maniera decisamente coinvolgente ed efficace per il pubblico. Anche questa comunque è una sfida ovviamente molto difficile, perché anche i mezzi tecnologici cambiano e vanno aggiornati: uno dei problemi del nuovo Museo M9 di Mestre, un museo dove non ci sono oggetti e tutto è digitale, consiste nel fatto che è stato ideato dieci anni fa, con le tecnologie e la mentalità di allora, ma nel frattempo il mondo è ulteriormente cam36 • FINESTRE SULL’ARTE

biato, con il risultato che l’M9 è già un museo vecchio. Lì l’errore è stato l’aver pensato a un allestimento molto complesso, che difficilmente si può cambiare: il museo del futuro dovrà invece immaginare un allestimento flessibile. Per il Technisches Musem di Vienna, per esempio, stiamo immaginando una parte di allestimento che sarà classica, con l’esposizione delle macchine della collezione, e una parte che sarà una experience home, ovvero stanze nelle quali si creano ambienti e situazioni che spiegano diversi capitoli al pubblico, con tecnologie che non richiedono grossi impegni quando si tratta di cambiarle. La tecnologia potrebbe essere una chiave per aggiornare anche i musei d’arte antica (per esempio, per raccontare al pubblico com’era la vita nel Rinascimento), ma credo che sia comunque giusto che i musei classici continuino a fare i musei classici senza rincorrere altri modelli poco adatti a loro. I musei di scienze, tecnologia o che hanno più possibilità di trattare temi attuali, hanno invece il compito di essere flessibili. Non è più l’epoca delle grandi mostre che richiedono lunghi tempi di preparazione. Essere attuali e flessibili (anche dal punto di vista della comunicazione: pensiamo ai social, se un museo ha follower e influencer che raccontano quello che si fa nel museo, abbiamo già vinto) e spiegare cosa accade nel mondo garantirà ai musei di avere anche maggiore capacità d’attrazione sul pubblico.

PAOLO GIULIERINI DIRETTORE, MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI (MANN)


Che musei ci attendono nel futuro? Si tratta di una questione complessa, che passa, però, da una parola d’ordine: “connessione” con i proprî contesti e con la realtà politico-culturale internazionale. Tale processo di osmosi porta, evidentemente, ad un ruolo di attore consapevole nella società da parte dell’Istituto, capace di adattarsi a nuove situazioni e di essere punto di analisi e di dibattito di tanti temi irrisolti, non solo legati all’arte. Quella che era prima una torre di avorio spalanca le finestre e diventa il luogo della riflessione. Se dobbiamo pensare che i musei oggi possano essere le nuove agorai (piazze) della riflessione e del confronto, innanzitutto sono essi stessi che devono imparare a conoscersi. Non stiamo parlando solo degli scontati (ma poi non lo sono mai) standard qualitativi. Stiamo parlando di scelte di fondo della mission. Su questo scenario generale pesano, ovviamente, anche i gravi momenti di distruzione delle identità più o meno frutto di una lucida strategia di guerre convenzionali o di azioni terroristiche, che però ci ricordano quanto oggi, al di là dei valori storici che incarnano, i musei siano organismi dal forte potenziale politico e mediatico. Pensiamo all’attacco terroristico al Museo del Bardo a Tunisi, alla distruzione dei Buddha giganti e di Palmira da parte dell’Isis, al saccheggio dei musei di Baghdad (saccheggio locale o occidentale?) durante la guerra del Golfo o di quello del Cairo nel corso della primavera araba. Il ragionamento di fondo è che i musei possono essere, a livello internazionale, prescindendo dal governo o dalla cultura in corso, il luogo in cui “fare i conti con il proprio passato” da parte di ciascun popolo. Se questa è una pallida sintesi della magmatica situazione internazionale, che intende solo far riflettere per un attimo su quanto i musei siano legati alla politica ed alla società contemporanea, è evidente che occorra con forza attrezzarsi per stare al passo con questi scenarî futuri. Non staremo certo a soffermarci sull’esigenza immediata di un cambio di rotta nella comunicazione e nella didattica museale, a partire da elementi basici per i musei europei come cartine mondiali (e non del solo Mediterraneo), realizzando macro eventi sincronizzati; il punto è che nel proporre modelli culturali prevalenti (a seconda di dove ci troviamo)

occorre aver cura di sottolineare che essi sono solo una delle possibili chiavi di lettura e non l’unica. Riflettiamo sul celebre mosaico della battaglia di Isso con la scena di Alessandro che mette in fuga Dario III Codomanno. Esso non rappresenta più, alla luce di quanto detto, solo l’epica marcia verso oriente del condottiero macedone; quantomeno l’opera va letta come il fatto scatenante dell’inizio di quella cultura globalizzata che fu l’ellenismo. Eppure l’immagine non sottende solo questo: parla anche di morte, di stupri, di matrimonî forzati per favorire l’integrazione, di un monarca assoluto che si sostituisce ad un altro. Forse con occhi meno infatuati dei nostri osservarono tali accadimenti le popolazioni locali prima sottoposte ai Persiani e poi, come se fosse stato un processo ineluttabile e quasi necessario, al figlio di Zeus Ammone. Se pensiamo che ognuno degli immortali di Dario e ognuno degli etairoi di Alessandro avrà avuto figli e famiglie lontane, forse ci togliamo di dosso il peso della propaganda e diamo spazio alle voci dei vinti. Perché tutti, dopo quelle vicende drammatiche, risultarono vinti, anche i conquistatori. Considerato che i musei attuali, specie quelli archeologici, devono raccontare la storia, e lo devono fare rivolgendosi a tutti, giungiamo a dover sconfessare, in virtù di questa problematicità, la nota frase «la bellezza salverà il mondo»; ciò potrà accadere se si concederanno all’intero mondo gli strumenti partecipativi per adire a questa dimensione estetica. Questo non avviene quasi mai, sovente neanche nei paesi industriali. Ecco perché il museo del futuro deve esercitare un forte impatto nel sociale, favorendo ogni possibile azione extra moenia dell’Istituto per sostenere la cultura nei quartieri in difficoltà (vedi ad esempio Forcella e la Sanità a Napoli). Se portiamo tutte queste persone, oltre beninteso al mondo dell’istruzione, a ritenere il Museo casa loro, allora è probabile che anche il piccolo germe della bellezza attecchisca. In questi processi in primis si devono concedere concretamente servizi (riscaldamento, wi-fi, aree verdi, ristorazione, punti di lettura, laboratorî, appuntamenti culturali) ma soprattutto calore umano e accoglienza. Anche i linguaggi contemporanei possono aiutare a stabilire un ponte con le nuove generazioni (tecnologia, videogame, fotografia, fumetto), costituendo tante

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facce della stessa medaglia di una comunicazione che deve divenire sempre più accattivante. Il museo del Futuro è e dovrà essere un museo che si pone in ascolto nei confronti della società, offrendo modelli di lettura senza imporli ed approfittando dei grandi temi dell’antico per connettersi alla contemporaneità anche con mostre mirate (pensiamo ai temi mare-migranti, paesaggio-ambiente che il Mann ha affrontato o affronterà a breve). Per poter offrire una nuova cultura nei musei non basterà più proporla come un feticcio, ma occorrerà spiegarla. E questa, consentitemi, sarà la ricerca prioritaria nei musei, che hanno il compito di essere al servizio dei cittadini del mondo.

ANTONIO LAMPIS DIRETTORE, DIREZIONE GENERALE MUSEI DEL MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO

Quale sarà il futuro dei musei è una domanda che ha già alcune risposte nei rapidi mutamenti che i musei hanno vissuto in Italia negli ultimi tre anni. Se solo all’inizio degli anni 2000 per alcuni qualificati osservatori i musei italiani potevano essere definiti “musei invisibili”, ora sono musei presi d’assalto, con un trend di crescita unico in Europa e un ruolo determinante per l’occupazione e il PIL della nazione, ma soprattutto sono ora istituzioni culturali molto più presenti nel percorso quotidiano della vita delle famiglie, certamente tra i maggiori protagonisti di quello “sviluppo della cultura”, essenza dell’articolo 9 della Costituzione italiana. L’Italia è oggi forse l’unico paese in Europa dove 38 • FINESTRE SULL’ARTE

una parte sorprendente dell’opinione pubblica e degli operatori nei media conosce il nome dei direttori dei musei. La figura del direttore di museo in poco tempo ha assunto un ruolo importante tra le figure di leadership nella cultura italiana. La rete dei musei costituirà invece uno dei più saldi collanti tra lo Stato centrale, le Regioni e le altre autonomie territoriali. Possiamo dire che il tratto proiettato nel futuro dei musei di oggi è quello dei musei messi in rete, è quello che vede i musei guadagnarsi un ruolo sociale che prima non avevano, un ruolo sociale che si rafforza soprattutto lontano dalle metropoli, nelle periferie territoriali ed urbane. Il museo del futuro è sempre di più un nuovo campanile, un centro di sviluppo culturale, punto riferimento per lo sviluppo spirituale delle popolazioni, con particolare riguardo alla popolazione scolastica, per tematiche che molto spesso vanno oltre il collegamento con le collezioni che i musei stessi custodiscono. I musei futuri già oggi agiscono in misura assai rilevante fuori dai musei, ad esempio usando in modo sorprendente i social media e altri ambienti digitali. Nella prospettiva futura e nella relazione con la futura definizione ICOM sarà importante porre molta attenzione al concetto di “senza scopo di lucro”, che in Italia spesso si è allontanato da quanto nel resto del mondo si è inteso per “not for profit”. Sarà importantissimo vigilare affinché non si confondano i profitti con la possibilità di remunerare dignitosamente il lavoro dei giovani che hanno scelto di dedicare gran parte della loro vita allo studio della storia dell’arte, dell’archeologia e delle altre materie umanistiche a fondamentale supporto della vita dei musei. A tale ultimo scopo è giusto che servano i recenti riusciti sforzi per modernizzare la gestione economica e incrementare gli incassi. Anche le nuove forme di partenariato pubblico/ privato dovranno essere pensate per supportare l’occupazione e le attività di ricerca nei musei, ricerca in primo luogo indispensabile per giungere a esperienze di conoscenza realmente qualificate effettive e crescenti per i visitatori e certamente anche per individuare nuove modalità di trasmettere la conoscenza del patrimonio culturale sia per le giovanissime generazioni , sia per chi crede di cercare “il diletto”, forse non conoscendo appieno quanto sia oggigiorno estesa la domanda inespres-


sa e talvolta inconsapevole di conoscenza.

MICHELE LANZINGER DIRETTORE, MUSEO DELLE SCIENZE, TRENTO

Il Museo, nella sua rappresentazione più iconica, quella che troviamo sulla cartellonistica di indirizzo stradale, è rappresentato da un classicissimo tempio, da avvicinare salendo per gradini e varcando un pronao ben difeso da possenti colonne. Non certo un inno all’accessibilità. Eppure la nozione di museo oggi è in rapida trasformazione. Se i musei sono ancora e molto spesso considerati un “mondo-a-parte”, più indietro o più lontano dalla vita reale, ora, nel tentativo di ridefinire i propri ruoli e agganciare la società contemporanea, stanno mettendo in campo nuove politiche per promuovere innanzitutto nuove relazioni con i loro pubblici e accettando che è la stessa funzione del museo che deve essere messa in discussione. C’è da osservare innanzitutto che i musei stanno espandendo i loro servizî per il pubblico piuttosto che espandendo le loro collezioni e sono sempre più incentrati sull’esperienza dei visitatori, come dire che si stanno trasformando da essere prioritariamente su qualcosa a essere per qualcuno. Non solo, i musei stanno riflettendo su di un cambio di paradigma, per andare a intercettare una nuova funzione che potremmo chiamare, quella del “museo attivista”, per la quale il museo può divenire il luogo dove si affrontano (e forse si contribuisce a risolvere) i grandi problemi del mondo contemporaneo. È come se emergesse una chiara richiesta di abbandonare una sorta di sublime indifferenza che, a fronte delle sfide di un mondo in perenne trasformazione e crisi, rischia di assumere, anche

per i musei, il carattere di una sorta di immoralità dell’inazione. Un nuovo impegno che si traduce innanzitutto nel ricercare e promuovere l’incontro con i frequentatori andando oltre la conta dei visitatori e ricercare una dimensione sempre più partecipativa del proprio offrirsi ai suoi utilizzatori. Un nuovo ruolo dunque che trasforma il museo, da distaccato osservatore, a luogo di partecipazione e di partner di sviluppo e di miglioramento sociale. Non più solo acuti osservatori e sapienti commentatori, ma soggetti attivi all’interno delle proprie comunità, per lavorare con loro, comprendere i problemi e cercare soluzioni efficaci. Con questo obiettivo i musei stanno impegnandosi a: adottare un’attitudine civica e promuovere delle strategie che i professionisti dei musei possano adottare per promuovere la partecipazione, il coinvolgimento e l’impegno civico verso i beni comuni, intesi come beni materiali, immateriali e naturali e la loro declinazione nella dimensione spaziale dei paesaggi culturali e quella del digitale; sviluppare empatia accogliendo le verità multiple, le storie e le diverse modalità di accesso alla conoscenza; sviluppare un impegno con le proprie comunità di riferimento interpretando e sviluppando i loro interessi e bisogni nel settore culturale e civile; divenire un ambiente amichevole e aperto dove sviluppare curiosità, pensiero critico, senso di responsabilità e di consapevolezza da tradurre in comportamenti e azioni sostenuti con responsabilità e partecipazione. recuperare un concetto forse vetusto, quello della filantropia, se si crede che l’accesso alla cultura appartenga a pieno titolo alla categoria del benessere dei cittadini. Si tratta a tutti gli effetti di nuovi compiti per una cittadinanza globale per la quale la conoscenza e le esperienze culturali favoriscono la comprensione e l’attenzione delle persone per un mondo più sostenibile, equo e inclusivo. Una prospettiva che si inserisce e trova riferimenti fondamentali proprio nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile adottata dagli stati membri delle Nazioni Unite nel 2015. Essa definisce diciassette Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile che sono un richiamo all’azione per tutte le nazioni, sviluppate e in via di sviluppo per una partnership globale. Essi riconoscono che mettere fine alla povertà e altre deprivazioni devono andare mano nella mano con strategie che migliorano la salute, l’educazioFINESTRE SULL’ARTE • 39


ne, la riduzione delle ineguaglianze e promuovere la crescita economica tenendo presente e combattendo il cambio climatico e l’impegno per conservare oceani e foreste. Ma non si tratta solo di “questioni globali” e cose da musei scientifici. In una recente Guida per governi locali e musei realizzata da ICOM e OCSE è emerso che i musei: generano posti di lavoro e ricavi; aumentano l’attrattiva dei luoghi per talenti e imprese; sono al centro di strategie di rigenerazione urbana che insieme ai governi locali imprimono nuova vita ai luoghi e creano nuove identità territoriali; sono una fonte di innovazione e creatività; mirano ad aumentare il livello di conoscenza della popolazione; sostengono l’inclusione e anche fornire piattaforme per dialoghi interculturali e promuovere l’integrazione delle popolazioni migranti; si adoperano per aumentare benessere e salute. Tutto questo insieme si traduce in un interessante nuovo scenario di riferimento per i musei. Per tutti i musei vale l’act locally, perché tutti hanno operato nell’ambito di una specificità locale, così come vale il think globally, perché tutti i musei hanno una comune responsabilità per l’umanità nella sua interezza.

annuale del CIMAM, organizzazione affiliata all’ICOM. I rapidi cambiamenti nella tecnologia e nelle modalità di comunicazione, la crisi ambientale e le sfide delle migrazioni di massa che caratterizzano il XXI secolo, assieme alla richiesta, da parte dei musei, di non essere solo reattivi e impegnati nei confronti della società, ma di essere anche effettivi agenti culturali ed economici nei loro contesti, offrono il quadro per una riconsiderazione del ruolo del museo. L’attuale definizione dell’ICOM che parla del museo come un istituto senza scopo di lucro “che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”, rimanda ai giorni in cui i musei erano prima di tutto e soprattutto collezioni di oggetti culturali, mostrati per l’educazione (e l’edificazione) del pubblico. I musei oggi sono irriconoscibili rispetto alle loro controparti del XIX secolo e una nuova definizione ICOM è necessaria. Il dibattito su che cosa (o piuttosto su “chi”) devono essere i musei ha conosciuto un’accelerazione negli anni Novanta in risposta agli attacchi sull’elitismo dell’arte. Le questioni di genere, la diversità culturale e la globalizzazione sono diventati argomenti di preoccupazione per i musei, e hanno sfidato i loro ristretti punti di vista. L’opportunità di offrire una maggiore inclusione ha portato a un ripensamento delle relazioni dei musei col pubblico. L’altra sfida affrontata dai musei in tutto il mondo è la diminuzione dei fondi pubblici e la necessità di aumentare le entrate attraverso attività commerciali, filantropia e sponsorizzazioni. È difficile, oggi, capire le proteste sollevate dal poster del Victoria & Albert Museum del 1988, che descriveva l’istituto come “uno straordinario caffè, con un bel museo attaccato”. Oggi nessun museo è completo senza uno spazio per la ristorazione. La ELIZABETH ANN MACGREGOR crescita della filantropia (niente di nuovo negli Stati Uniti, dove i musei sono sempre stati dipendenti DIRETTRICE, MUSEUM OF CONTEMPORARY ART dal settore privato, ma terra da esplorare in gran AUSTRALIA, SYDNEY; GIÀ PRESIDENTE DEL CIMAM parte del continente europeo) e le sponsorizzazioni - INTERNATIONAL COMMITTEE FOR MUSEUMS hanno sollevato preoccupazioni di natura etica. La AND COLLECTIONS OF MODERN ART novità per tutti i musei sta nel ruolo dei social media I musei contano? Tra il 15 e il 17 novembre 2019, e nell’abilità, da parte degli attivisti, d’indirizzare più di duecento professionisti museali da tutto il efficaci campagne contro fonti di finanziamento mondo si sono riuniti a Sydney per l’assemblea ritenute sgradevoli e in grado di portare a situa40 • FINESTRE SULL’ARTE


zioni potenzialmente complicate nel momento in cui i musei si arrabattano per assicurare che non soltanto i loro sponsor, ma anche i membri dei loro consigli d’amministrazione, non possano essere associati a denaro cosiddetto “sporco”. Ancora, i social media stanno giocando un ruolo importante nell’ambito delle crescenti richieste di censurare certi tipi di opere. I musei devono attirare nuovi pubblici, soprattutto tra i più giovani, con differenti aspettative. Oggi i visitatori sono molto più partecipanti attivi che consumatori passivi. Tutti i musei devono affrontare la sfida di rimanere rilevanti. La proposta per una nuova definizione ICOM descrive i musei come “spazi democratizzati, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sui passati e sui futuri”, e aggiunge che “riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano diversi ricordi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone”. Per alcuni, tutto ciò si allontana troppo dallo scopo originario dei musei e non riflette in maniera adeguata il loro ruolo unico, favoreggiando una nuova epoca di attivismo che allontanerà tante persone quante ne attirerà. Ma come può un museo riflettere i problemi del presente? Per i musei d’arte, la risposta è facile, dal momento che i lavori degli artisti inevitabilmente includono opere che affrontano le più pressanti questioni dei nostri tempi, a cominciare dai cambiamenti climatici. Ma la diversità e l’equilibrio nell’acquisire ed esporre opere d’arte sono essenziali. Per i musei che invece espongono oggetti storici, la sfida è come gestire oggetti acquisiti in epoche diverse ma che sono comunque di grande importanza culturale. La nuova definizione ICOM potrebbe forse essere troppo lontana, ma la sensazione che i musei siano luoghi di dibattito e discussione attorno a temi complessi è sicuramente più appropriata di una definizione che identifica i musei come luoghi in cui vengono venerati degli oggetti. Il dibattito che si è tenuto all’assemblea CIMAM di Sydney ha offerto un contributo al dibattito nato in seno all’ICOM fornendo il punto di vista dei musei d’arte mo-

derna e contemporanea. Una cosa è certa: i musei devono coinvolgere le loro comunità in tutti i modi possibili, ispirando e allo stesso tempo provocando. In questo mondo fratturato dove spesso l’ottimismo è difficile da trovare, i musei sicuramente hanno un ruolo sempre più importante nell’unire le persone, incoraggiare i diversi punti di vista, creare spazî nei quali i visitatori possano imparare, dare al pubblico l’opportunità di immaginare un futuro migliore per tutti. I musei contano.

FRANÇOIS MAIRESSE ORDINARIO DI MUSEOLOGIA, UNIVERSITÀ DI PARIGI-SORBONNE NOUVELLE; PRESIDENTE, COMITATO INTERNAZIONALE PER LA MUSEOLOGIA DELL’ICOM

L’evoluzione dei musei negli ultimi cinquant’anni non è stata lineare. L’epoca nella quale ci troviamo ricorda l’inizio degli anni Settanta, momento di crisi per i musei. Questi ultimi furono criticati da molti, tanto in Europa quanto in America del Nord, per il carattere ipertrofico della loro autorità, per il loro elitismo e per la loro aura un po’ mortifera, dovuta al loro legame con la conservazione delle collezioni. Lo sviluppo di politiche favorevoli al pubblico, cominciato all’inizio del XX secolo, era ancora relativamente limitato, e molti giovani professionisti volevano che gli istituti mostrassero un maggior impegno, soprattutto sul piano politico. In un articolo pubblicato nel 1971 e intitolato Il museo: un tempio o un foro, il museologo FINESTRE SULL’ARTE • 41


canadese Duncan Cameron riassumeva perfettamente le difficoltà, da parte dei musei, nel far coesistere due funzioni in parte largamente incompatibili: da una parte la sacralizzazione del patrimonio e dall’altra la contestazione o il dibattito. Cameron, riconoscendo l’interesse di queste due tendenze, sottolineava la necessità di distinguerle bene in seno all’istituto onde evitare malfunzionamenti generali. All’epoca, numerosi professionisti cercarono di trasformare tutti i musei in luoghi di dibattito. È in questo contesto che si svilupparono delle nuove forme alternative al museo: centri d’esposizione e d’interpretazione, centri scientifici, musei di comunità o ecomusei. Questi nuovi istituti, che la maggior parte delle volte si presentavano come la sola alternativa alla crisi del museo, hanno conosciuto nei decennî successivi un certo declino, anche per il fatto che i musei più classici, accusati di essere obsoleti, conobbero all’inizio degli anni Ottanta una rinnovata popolarità: i cambiamenti delle politiche economiche operati in quegli anni, a beneficio di una più vasta messa sul mercato dei musei (e quindi di un avvicinamento verso il pubblico, considerato però come un insieme di consumatori), favorirono fortemente i grandi musei d’arte. Due generazioni più tardi, molti siti utilizzano in maniera più o meno affermata la forma museale (soprattutto in una prospettiva critica legata agli studi post-coloniali e agli studi queer o di genere), cercano nuovamente di trasformare il museo in maniera radicale, chiedono all’istituto di diventare un luogo polifonico, democratico, inclusivo: in poche parole, uno spazio realmente dedicato a tutti, in maniera equa e durevole. La storia del museo in questi ultimi decennî permette di sottolineare due aspetti: da una parte la questione del ruolo sociale del museo, della sua funzione in seno alla società nel suo insieme e del suo ruolo a fianco delle comunità appare come una dimensione intrinsecamente costitutiva dell’istituzione, raggiunta ormai da tempo e che ha beneficiato di interpretazioni diverse nel corso della storia. Dall’altra parte, occorre dire che questa evoluzione non è stata lineare: le tensioni tra le funzioni sociali del museo e quelle della conservazione non sempre 42 • FINESTRE SULL’ARTE

si sono risolte a beneficio delle funzioni sociali. Gli ecomusei e altri musei alternativi, presentati come la sola alternativa alla crisi dei musei, non hanno rimpiazzato tutti gli altri istituti, e sono ben lontani dal farlo. Se si tiene conto di queste tendenze generali, si può considerare il museo del futuro, nel quadro della nostra economia di mercato, come sempre più prossimo a un pubblico costituito da consumatori, come a un istituto che si occupa di gruppi specifici, piuttosto che della società nel suo insieme («there is no such a thing as society», ribadiva Margaret Thatcher), e che cerca di rispondere alle necessità e alle esigenze di questi ultimi. Al di là dell’attivismo di una generazione in favore di questa o quella causa, che conoscerà inevitabilmente una fase di declino tra qualche anno, il museo, nella sua forma più classica, cercherà di rispondere ai bisogni di questi gruppi specifici fino al momento in cui il loro mercato sarà sufficientemente lucrativo (sia che venga finanziato dai consumatori stessi, sia che venga sostenuto da fondazioni che agiscono in suo nome). La trasformazione delle collezioni e delle mostre negli anni a venire rifletterà dunque, progressivamente, il potere delle lotte che si combattono in seno alla società, attualmente condizionato dalle questioni di genere e da quelle che riguardano le popolazioni un tempo vittime del dominio coloniale, ma che probabilmente un domani sarà influenzato anche dalle questioni riguardanti gli animali o anche i corpi organici inanimati (soprattutto nei musei di storia naturale). Al fine di rispondere meglio alla molteplicità di queste sollecitazioni, l’idea di un museo generalista e plurifunzionale potrà apparire sempre più obsoleta. La conseguenza di questo processo potrà favorire la specializzazione dei musei a partire dalle loro differenti funzioni (conservazione di una collezione, ricerca, comunicazione, ovvero educazione, mediazione, inclusione... ) e condurre l’istituto a pensare a se stesso come a un luogo frammentato, con componenti dotate ciascuna della propria autonomia. Si pensi ai centri espositivi o d’interpretazione già esistenti, ma anche ai depositi, talvolta costituiti a beneficio di più musei. Se alcuni grandi istituti come il Louvre


o gli Uffizi continueranno a svolgere un triplice ruolo di tutela, ricerca e comunicazione, è probabile che numerosi istituti di ricerca museale potranno trasformarsi ulteriormente, specializzandosi nell’uno o nell’altro ruolo: alcuni si consacreranno soltanto a un ruolo di mediazione o dibattito, altri alla conservazione del patrimonio, altri ancora alla ricerca. Una sorta di subappalto generalizzato delle funzioni, in grado di condizionare l’interdipendenza della rete, come lo si può osservare in numerosi altri settori della nostra economia di libero mercato. Un tale scenario non tiene però conto delle prospettive di rallentamento, di crisi nonché di collasso delle nostre società. In un mondo scosso dall’esaurimento delle risorse e dallo sviluppo di catastrofi importanti (climatiche, migratorie), il crollo di istituti sostenuti tanto dal mercato quanto dai poteri pubblici appare altamente probabile per la prossima generazione, e infinitamente più probabile per quella che la seguirà. Proprio come si può osservare in certi paesi che hanno visto crollare, in certe epoche, le loro strutture economiche e sociali, sembra piuttosto logico che il mondo dei musei conosca un’accelerazione del destino riservato alle nostre società nel loro insieme: il mantenimento dell’élite dei musei (ovvero il rafforzamento delle sue capacità), la sparizione della “classe media” dei musei e l’impoverimento generale degli istituti più piccoli (gestiti da pochi professionisti o da amatori), con un gran numero di questi ultimi che prima o poi spariranno. La loro sopravvivenza allora dipenderà soltanto dal ruolo che potranno giocare in seno alle nostre fragili società: un ruolo che potrà strutturarsi attorno alla conservazione di un patrimonio considerato come legato alla sopravvivenza di un certo modo di vivere, o della trasmissione di saperi, piuttosto che come uno spazio di dibattito o di contestazione della società. La forma moderna del museo è relativamente recente nella storia dell’umanità, poiché si è sviluppata essenzialmente alla fine del XVIII secolo, nello stesso periodo (e negli stessi luoghi) della rivoluzione industriale. È possibile che questa forma scomparirà negli stessi tempi in cui si chiuderà questo periodo della nostra storia.

Sono piuttosto ottimista sulle possibilità dello sviluppo di altre forme capaci di concretizzare questa relazione speciale che l’uomo ha con il suo ambiente, e che presuppone la selezione, la tesaurizzazione e la presentazione di un certo numero di elementi materiali e immateriali ai fini di comprendere il mondo e la trasmissione di questi saperi alle generazioni future... fin tanto che ce ne saranno.

LUCIA PINI CONSERVATORE, MUSEO BAGATTI VALSECCHI, MILANO

Credo che il futuro ci riservi musei dove l’accento continuerà a spostarsi sempre più dalla collezione al complesso sistema di relazioni al centro delle quali si collocano le testimonianze conservate. Relazioni degli oggetti tra loro, con il paesaggio e la comunità, con culture ed epoche differenti, con il pubblico… ma è pur sempre la “collezione”, intesa ovviamente nella sua accezione più estesa, la pietra focaia che fa da innesco a questa rete di nessi. Se si perde questo aggancio il Museo smarrisce la propria specificità e fatalmente perde di pregnanza. Può diventare un luogo di ritrovo (ma lo sono anche i centri commerciali), un posto divertente, ma rimane comunque un’occasione mancata. In un mondo dove il numero dei musei è in continua crescita, una delle sfide più impegnative mi pare essere quella della sostenibilità: e non penso soltanto alla sostenibilità ambientale (tema peraltro ineludibile per luoghi come i musei, che devono essere presidî di civiltà), FINESTRE SULL’ARTE • 43


ma anche a quella economica. Dovremo tutti sforzarci di mettere a punto strategie sempre più virtuose, ma occorrerà anche che venga compreso una volta per tutte quanto ogni investimento continuativo in cultura rappresenti un fattore di sviluppo particolarmente efficace anche in termini di benessere e politiche sociali. E di questo vi è sempre più bisogno nel mondo stimolante e complesso in cui ci troviamo a vivere: gli oggetti e le testimonianze conservate nei musei sono straordinarî accumulatori di conoscenza, storie e memorie potenzialmente in grado di entrare in relazione diretta con ciascuno di noi, indipendentemente dalle diversità. Rimangono sempre se stessi e al tempo stesso sono incessantemente rinnovati dall’occhio di chi li guarda. La direzione in cui lavorare è proprio lo sviluppo di queste potenzialità, occorre cioè saper predisporre lo scenario affinché ciascun individuo che varchi la soglia di un museo si scopra parte mai inadeguata di una relazione fatta di conoscenza e di cuore. Infine, è presumibile e anche auspicabile che il prossimo futuro veda continuare a crescere su scala globale il numero di persone che avrà accesso alla cultura. Un’altra grande sfida è quindi rappresenta dalla capacità di elaborare modelli alternativi a una fruizione massiva e consumistica dei musei, tenendosi ovviamente alla larga da derive elitarie non solo sbagliate, ma anche inattuabili e anacronistiche. Proprio come in un ecosistema bene equilibrato diventa cruciale la salvaguardia e la valorizzazione di una fertile “biodiversità culturale”. Non solo i grandi musei, in cui troppo spesso folle di visitatori sembrano trascinarsi in un faticoso e incomprensibile rito di massa, ma tante realtà differenti, ciascuna con la propria personalità. Dovremo sempre più trasmettere il messaggio che nei musei si possa scegliere di non “vedere tutto” senza sentirsi in colpa, si possa ritornare più e più volte senza che l’esperienza di visita si esaurisca. E, lo dico anche a rischio di essere fraintesa, si possa pure scegliere, dopo averci provato, di non tornarci o di farlo soltanto di rado perché nella galassia delle esperienze culturali possibili se ne sono scoperte altre più in sintonia con se stessi. 44 • FINESTRE SULL’ARTE

JETTE SANDAHL PRESIDENTE DEL COMITATO ICOM PER LA DEFINIZIONE, LE PROSPETTIVE E IL POTENZIALE DEL MUSEO

Mi vengono spesso rivolte domande sul futuro dei musei. Non penso ci sia un solo futuro per i musei, e penso anche che in questo contesto sia necessario riconoscere le differenze e le diversità dei musei e usare una scomoda forma al plurale, “i futuri”. Non credo che questi futuri siano già qua. Non sono prevedibili, e in larga parte i futuri saranno quelli che saremo in grado di programmare. I musei, ovviamente, funzionano (in moltissimi modi) come autoritratti della società, e tuttavia non sono specchi passivi delle loro società. Riflettono le contrazioni dinamiche e i conflitti delle società, e sono agenti attivi nella formazione delle società. La posizione di chi richiede ai musei neutralità nei confronti dei conflitti sociali e dei cambiamenti diventa sempre più insostenibile. I musei devono essere costantemente vigili e autocritici nell’analizzare quali interessi vogliono sostenere, quali cambiamenti vogliono, implicitamente o esplicitamente, supportare, o verso quali cambiamenti vogliono resistere. Il museo, come settore e come professione, deve continuamente fare delle scelte per servire al meglio le società. A questo punto, nel XXI secolo, ci sono alcune importanti questioni globali che, a mio parere, il settore dei musei non può ignorare se non vuole correre serî rischi per la sua rilevanza nel futuro. Innanzitutto, l’allarmante crisi della distruzione della natura e l’insostenibile relazione tra l’essere umano e il resto della na-


tura. In secondo luogo, le disuguaglianze storiche e attuali (in termini di opportunità, potere e ricchezza) che contraddistinguono le relazioni geopolitiche tra i continenti così come i contesti nazionali, regionali e locali. E in terzo luogo, il significato di diverse visioni del mondo e la necessità di pratiche e regole alternative che possano incontrare le crescenti richieste di uguali diritti, di democrazia culturale e di partecipazione culturale, tanto nei musei quanto nella società in generale. Ad ogni modo, dal momento che sta aumentando la consapevolezza dell’urgenza di questi problemi, la prontezza e l’impegno nell’affrontarli sembra crescere in maniera parallela. Se nei decennî passati si registravano spesso divisioni o contraddizioni tra le funzioni di base del museo e le sue responsabilità sociali, attualmente queste sembrano essere sempre più interconnesse. La tendenza è che i musei non pongono più ostacoli tra il loro ruolo come istituzione e il loro ruolo come piattaforma per la comunità, tra le loro responsabilità in quanto detentori e custodi del patrimonio e le loro responsabilità di agenti culturali e sociali nelle società contemporanee. Oggigiorno i musei si battono per raggiungere i loro obiettivo e i loro obblighi sociali proprio attraverso le loro funzioni uniche e specifiche che consistono nel collezionare, tutelare, documentare, ricercare, mostrare e comunicare le collezioni e altre testimonianze del patrimonio culturale. Attraverso questo approccio attivo nei confronti delle responsabilità sociali, i musei allo stesso tempo dànno voce alla loro necessità di avere funzioni contestualizzate e ancorate sulla base di valori e principî etici. Il settore dei musei, per tradizione, è sempre stato vicino all’Unesco e, per associazione, è stato incluso in un insieme di valori che vanno dalla protezione alla tutela del patrimonio fino ad arrivare a scopi più genericamente sociali e umanitarî. Tuttavia, così come l’introduzione dell’espressione “al servizio della società” nella definizione ICOM dei musei negli anni Settanta fu accusata di “politicizzare” il settore, allo stesso modo l’introduzione nella nuova definizione di valori come i diritti umani, la giustizia sociale e la capacità di essere sostenibili, è stata

continuamente contestata nel dibattito attuale. Questi valori sono stati infatti accusati di essere politicamente schierati, ideologici, vacui o anche semplicemente alla moda. Secondo me, una base etica condivisa e trasparente è una piattaforma nonché una roadmap minima con la quale i musei, tutti assieme, possono navigare, e attraverso cui possono dare il loro contributo significativo e consapevole alle complesse e contraddittorie società del XXI secolo, ed esplorare il loro potenziale e i loro obblighi, con riferimento alle loro collezioni, alle loro conoscenze, al loro contesto e alle loro comunità. Ci sono ottimi esempî di musei d’arte che, abbandonando una prospettiva elitista, decidono di abbracciare tutta la comunità demografica della loro regione e implementano una serie di nuove strategie d’accesso (in termini di contenuto, metodi e pratiche sperimentate giorno dopo giorno) per raggiungere questo scopo. Ci sono nuovi megamusei costruiti per raccontare storie di popolazioni che prima erano escluse. Ci sono esempî di istituzioni d’arte urbana che modellano le loro mostre sulla base della sostenibilità. Ci sono esempî di musei che potrebbero tranquillamente vivere semplicemente attirando turismo di massa e che invece scelgono la via più complessa del raggiungimento delle loro comunità oppure s’interrogano sui contestati processi di decolonializzazione. Un fondamento condiviso non esclude le differenze e non crea omologazione. Garantisce però uno strumento per riflettere su se stessi e offre una direzione, un supporto e una guida nel formare la specifica rilevanza di ogni singolo museo così come il futuro collettivo dei nostri musei.

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JACQUELINE STRAUSS DIRETTRICE, MUSEO DELLA COMUNICAZIONE, BERNA

Una definizione alternativa di museo come “spazio per il dialogo critico” potrebbe andare bene. Al Museo della Comunicazione di Berna è stato riconosciuto il Council of Europe Museum Prize del 2019 con la seguente motivazione: «il museo si è notevolmente distinto per il modo in cui si rivolge ai visitatori per riflettere in maniera critica sul nostro mondo contemporaneo con diverse implicazioni, il tutto attraverso l’uso delle nuove tecnologie e delle nuove forme di comunicazione». Dopo una completa ristrutturazione, il nostro museo è stato riaperto nell’agosto del 2017. Prima era un museo sugli oggetti. Adesso è un museo sulle persone. Abbiamo inventato una nuova professione: quella dei “comunicatori”. Lavori come quello (noioso) del custode museale o quello della guida sono cose del passato, dal momento che la riapertura del museo ha coinciso con l’assunzione esclusiva di comunicatori, adeguatamente formati, per le mostre e per l’area recepetion. In quanto figure destinate all’accoglienza, i nostri comunicatori offrono un caldo benvenuto a tutti i visitatori. Inoltre, dànno vita a giochi e attività con il pubblico. Sono il cuore pulsante di un museo il cui focus principale sono i visitatori. Sono lieta che l’ICOM abbia avviato un dibattito e che i musei vogliano ridefinire se stessi. L’attuale definizione di “museo” è una strada a senso unico. I musei inviano il loro messaggio e il pubblico dovrebbe far loro il favore di visitarli. Manca, in questa definizione, l’idea che anche il pubblico invia dei messaggi e ha problemi e idee che vorrebbe che il museo riflettesse. Eppure una definizione è anche una normativa, e dovrebbe includere tutti i musei, ragion per 46 • FINESTRE SULL’ARTE

cui andrebbe considerata con molta attenzione. Un museo del futuro dovrebbe fare entrambe le cose: da un lato, rendere le sue collezioni accessibili sul lungo termine, dall’altro essere una piattaforma creativa. In più, c’è un altro aspetto importante. Le trasformazioni digitali stanno cambiando la società. Internet come tecnologia ha modificato i modi in cui le persone s’informano e comunicano. La possibilità di scambiare informazioni a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo e di condividerle al di là dei confini esistenti ha fatto nascere una crescente domanda di partecipazione. In più, le nuove tecnologie stanno aprendo possibilità di ridisegnare i processi lavorativi. In Europa, pochi musei sembrano avere una strategia digitale onnicomprensiva. Noi ne abbiamo appena elaborata una: l’obiettivo della nostra strategia digitale è la cooperazione tra i varî dipartimenti, e questo ci consente di agire in maniera focalizzata in un ambiente dinamico, e di fare largo uso di risorse già esistenti. La nostra visione è quella di un museo che non conosce orari di chiusura. È importante che i musei del futuro abbiano un analogo profilo digitale.




| OPERE E ARTISTI

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Botticelli nella bottega del Verrocchio FIRENZE

una presenza “oscurata” testo di Gigetta Dalli Regoli

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L’impegnativa mostra sul Verrocchio tenutasi a Firenze, a Palazzo Strozzi, dal 9 marzo a1 14 luglio 2019, e curata da Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, ci fornisce, anche a distanza di alcuni mesi dalla chiusura, l’occasione per una ricognizione sull’apporto che il giovane Sandro Botticelli garantì alla bottega del suo maestro.

A

lla inaugurazione della importante mostra dedicata al Verrocchio, il maestro di Leonardo, l’impostazione editoriale adottata per il catalogo risultava rivelatrice1: nella prima di copertina figura infatti il dettaglio di un dipinto, mentre solo nella quarta compare il dettaglio di una scultura, ovvero le celebri mani che la Dama delle primule accosta al petto sfiorandolo con il mazzolino. Poiché nella folta bibliografia pertinente alla personalità

delle Vite, peraltro a fronte di altrettante forme di convalida e di valorizzazione che la stessa critica ha recato ad altri passi dell’opera di Giorgio Vasari; nondimeno, nel caso del Verrocchio, il profilo vasariano che descrive un artista/intellettuale portato a variare il registro del suo stile, lento nell’operare e talora esplicitamente ritardatario, si rivela per alcuni aspetti ancora giustificato; mentre a mio parere presenta qualche incrinatura l’identikit fornito da Caglioti e De Marchi: quello di un maestro iperatti-

In quest’epoca l’iconografia della Madonna col Bambino conosce un complesso processo di trasformazione, sotto la spinta di esigenze di vario ordine. di Andrea del Verrocchio questi è oggetto di studio soprattutto come autore di opere di scultura, la scelta rivelava l’intenzione di puntare l’attenzione non solo sulla plastica, bensì anche, e con determinazione, su quella produzione pittorica della bottega verrocchiesca che, pure fra divergenze di opinione, parte della critica riferiva ad alcuni collaboratori del maestro. Si contraddiceva pertanto, legittimamente e apertamente, il testo delle Vite vasariane2, che descrive Andrea come artista che difettava di “facilità” ma era portato piuttosto allo “studio”, e come rinunciatario rispetto alla tecnica della pittura in favore di un allievo, specificamente Leonardo. Non è il caso di ricordare in questa sede quante e quali ragioni abbiano indotto la critica a ritoccare, correggere e confutare numerosissimi passaggi 1 - Verrocchio, il maestro di Leonardo, catalogo della mostra (Firenze 2019), a cura di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, Firenze-Venezia 2019. 2 - Giorgio Vasari, Le Vite, ed. a cura di Paola Barocchi e Rosanna Bettarini, Firenze 1966-1987: III (testo), pp.533-545; IV (testo), pp.15-38. 50 • FINESTRE SULL’ARTE

vo, che oltre ad avere il pieno possesso di molteplici competenze, operava concretamente praticando modalità di lavoro e tecniche diverse. Ho espresso in più di una occasione le ragioni parziali del mio dissenso nei confronti di una mostra che pure ha avuto grandi meriti, ponendo a confronto opere di altissimo livello disperse in tutto il

Madonna n. 104A FOTO PAGINA PRECEDENTE:

Sandro Botticelli? (attribuita

al Verrocchio), Madonna col Bambino (1468-1470; tempera e olio su tavola, 75,8 x 54,6 cm; Berlino, Gemäldegalerie, n.104 A)

Madonna col Bambino benedicente FOTO PAGINA A FIANCO:

Andrea del Verrocchio, Madonna

col Bambino benedicente (1470 circa; terracotta, 87 x 67 cm;. Firenze, Museo Nazionale del Bargello)


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Madonna di Tarquinia FOTO A SINISTRA:

Filippo Lippi, Madonna col

Bambino (Madonna di Tarquinia), dettaglio (datata 1437; tempera su tavola, 151 x 66 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini)

mondo3; e non è mia intenzione sminuire quello che è stato un buon lavoro d’insieme attaccando separatamente alcuni aspetti parziali, quasi che ciascuno di questi fosse il centro dell’impresa. Nondimeno mi sembra che sia opportuno proporre singoli approfondimenti, proprio per dare ulteriore vita a ciò

ho citato sopra, ovvero dalla tavola con la Madonna col Bambino conservata nella Gemäldegalerie degli Staatliche Museen di Berlino4, nota come Madonna 104 A. Si tratta di un dipinto che a mio avviso potrebbe rappresentare a pieno titolo l’apporto di Sandro Botticelli all’interno della bottega, al pari di altri nuclei (tutti comunque circoscritti) riferibili al Perugino, a Domenico Ghirlandaio, a Piermatteo d’Amelia; ai tre pittori, e a pochi altri, la mostra concede qualche frammento del complesso riferito all’atelier verrocchiesco, ma non a Sandro, la cui tangenza con la bottega sembra respinta. Nel dipinto di Berlino l’abbigliamento dei personaggi appartiene al repertorio proprio della bottega di Andrea, e nondimeno l’immagine si distingue dalle altre opere analoghe esposte nella mostra: l’ornamentazione è più contenuta, la materia cromatica più asciutta, ma ciò che soprattutto caratterizza la composizione rispetto alle altre è l’accentuazione del rapporto affettivo fra madre e figlio5. È già stato più volte rilevato che la rappresentazione di uno dei soggetti più diffusi nell’arte dei secoli XIV-XV, la Madonna col Bambino (guardando prevalentemente alle immagini di dimensioni ridotte destinate alla devozione privata e a una visione ravvicinata) è al centro di un lento processo di

Presenta qualche incrinatura l’identikit del Verrocchio come maestro iperattivo, che oltre ad avere il pieno possesso di molteplici competenze, operava concretamente praticando modalità di lavoro e tecniche diverse. che è stato elaborato e offerto al dibattito. Vorrei dunque dare un seguito positivo alle mie riflessioni partendo proprio da quella prima di copertina che 3 - Gigetta Dalli Regoli in Finestre sull’Arte on line 2019; Eadem, Verrocchio, il maestro di Leonardo. Postilla, in Critica d’arte, n.s. (2019), 1, in corso di stampa. 52 • FINESTRE SULL’ARTE

4 - Catalogo 2019 cit., pp.49 sgg., e pp.120-122. 5 - Nell’impossibilità di introdurre qui la bibliografia pertinente agli sviluppi del culto mariano, per una considerazione corretta del problema cito Hans Belting, Il culto delle immagini [1990], Roma 2001. Ho affrontato il tema più di una volta, ma non ritengo opportuno appesantire questo testo con riferimenti che non siano strettamente necessarî.


Sacra conversazione FOTO A DESTRA:

Filippo Lippi, Sacra conversazione

(Pala della Cappella del Noviziato di Santa Croce), dettaglio (1440-1445; tempera su tavola, 196 x 196 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

cambiamento che si articola fra tardo Medioevo e primo Rinascimento: sotto la spinta di esigenze di vario ordine, appartenenti alle aree della teologia e del culto, degli orientamenti di committenze diverse per livello sociale e per cultura, e senza dimenticare l’apporto creativo degli artisti di spiccata personalità, la figura della Vergine si pone al centro di un complesso processo di trasformazione. La fanciulla remissiva, che nel momento dell’incarnazione si mostra passiva, oppure sorpresa e perfino turbata dall’annuncio, assume spessore, soprattutto attraverso l’accentuazione della dimensione materna. Se nelle immagini di grande formato l’evoluzione è sostenuta soprattutto dalla collocazione “in trono”, e dunque esaltando l’autorità e talora la saggezza della Madonna, l’immagine che tende a instaurare con l’osservatore un rapporto personale punta soprattutto sui sentimenti che legano fra loro Maria e il Bambino, sollecitando la partecipazione dei riguardanti con richiami espliciti alla vita quotidiana. Nell’ambito pertinente al tema qui affrontato, gli studî hanno dunque identificato una linea che da alcune acquisizioni trecentesche (valga il nome di Ambrogio Lorenzetti) si articola nel primo Quattrocento per i contributi determinanti di Donatello e di Filippo Lippi, in relazione ai quali è opportuno distinguere fra l’impostazione composta e austera del primo, tendenzialmente classicizzante (Madonna Pazzi, per esemplificare), e la propensione del secondo a caricare la descrizione con elementi accessori (l’arredo, le vesti, la presenza di alcuni “compagni” dei due protagonisti). Nei saggi dei curatori del catalogo varî approfondimenti sono dedicati al ruolo di questi due maestri che operarono ottenendo un largo successo, e che non a caso furono chiamati a lavorare anche fuori di Firenze; pur tuttavia non si traggono da ciò conseguenze esaurienti: i dipinti che tra Ottocento e primo Novecento alcuni studiosi avevano confermato o assegnato al Verrocchio tornano

a essere etichettati sotto questo nome, divergendo rispetto a quella parte della critica, relativamente recente, che riconosceva un ruolo significativo ad alcuni collaboratori del maestro. Ovviamente non si può dubitare di una omogeneità di base, che vede minute corrispondenze nelle morfologie, nelle pose e nelle vesti che caratterizzano i personaggi all’interno di una serie di dipinti elaborati in un ristretto giro di anni adottando disinvolte pratiche di bottega: valga l’esempio del repertorio gestuale, e specificamente il caso delle mani, articolate secondo un limitato numero di moduli e adattate a diverse funzioni; si tratta di formule esemplate su modellini in materiale povero (di cui è ben documentato l’uso), e devono leggersi come espedienti messi a disposizione dei collaboratori per abbreviare i tempi di esecuzione; improprio cogliervi uno spessore stilistico, come talora si verifica FINESTRE SULL’ARTE • 53


Madonna col Bambino e due angeli FOTO SOPRA:

Filippo Lippi, Madonna col Bambino e

due angeli, dettaglio (1460-1465; tempera su tavola, 95x63 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

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nei saggi e nelle schede del catalogo citato6. Ciò non esclude che fra le componenti del gruppo si riscontrino anche sottili varianti e in questa 6 - Nel Catalogo si avverte a tratti una certa ridondanza verbale, che accumula suggestioni di taglio letterario attorno a elementi che suggerirebbero una composta aderenza a dati tecnico-artigianali. Un solo esempio: a proposito delle mani articolate secondo formule esemplate su modellini di terra o di stucco, impiegate per diritto e per rovescio in dipinti diversi, stupisce leggere nella scheda dedicata alla Madonna di Berlino... “il congegno delle mani a scatto sui polsi frementi” (Catalogo 2019, cit., p.120).


Adorazione dei Magi FOTO SOPRA:

Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi,

dettaglio (1475; tempera su tavola, 111 x 134 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

occasione vorrei provare a segnalare almeno una delle più significative. Le Madonne di area “verrocchiesca” raffigurate nelle tavole distribuite fra Berlino, Londra, New York, Parigi, Francoforte, Washington (per citare solo le più importanti), prevedono una composizione d’impianto statico: eretta o seduta, in visione frontale o di tre quarti, la Vergine accoglie il figlio in grembo o lo espone in piedi su un davanzale. In questa seconda opzione, che è la più diffusa, il Bambino non è un lattante, ma una piccola divinità cosciente del proprio ruolo, e avanza in primo piano con volto benevolo, levando una mano benedicente. Si tratta di uno schema aderente al modello fornito dal capobottega, cioè la Madonna fittile del Bargello; opera di qualità altissima, nella quale, malgrado le perdite di superficie, la materia risulta lavorata con insistenza e in profondità, attraverso l’azione di un gesto che si rivela rude e sicuro insieme. Così lontana, a mio vedere, dalla stesura lenta, minuziosa e

paziente che s’intravede dietro ai distillati impasti cromatici adottati nei dipinti: i veli arricciati delle acconciature, le gemme e le perle di borchie e bordure, le laminature dei broccati, le capigliature bionde e fulve che incorniciano i volti: testimonianze di stile elevatissimo e di tecniche sapienti all’interno di un programma condiviso. Fra gli indizî non adeguatamente valutati, segnalo nella tavola 104 A il bimbo che, con gesto emotivamente caricato, si volge alla madre protendendo le braccia; il gruppo divino, dilatato nelle dimensioni a danno di un paesaggio alquanto approssimativo, risulta tutto imperniato sull’incrocio fra lo sguardo di Maria abbassato sul figlio e l’abbraccio al quale sembra prepararsi il Cristo bambino. Eppure la Madonna di Botticelli del Museo di Capodimonte (che pur inserita nella mostra restava sostanzialmente defilata rispetto all’insieme), offriva l’opportunità di cogliere l’articolazione del rapporto fra la soluzione di Berlino e i più celebrati modelli di Filippo Lippi imperniati sul contatto fisico tra madre e figlio: il pingue putto della Madonna di Tarquinia, che interpreta forse con un filo d’ironia un modello illustre donatelliano, il Bambino della Madonna di Palazzo Medici, che preme la guancia su quella della madre, l’aggressivo arrampicarsi del figlio sul corpo materno nella pala della Cappella del Noviziato in Santa Croce, cui si aggiunge il puntuale riscontro del Bambino a braccia tese nella Madonna di Monaco. Il Catalogo chiama più volte in causa Fra’ Filippo, prestando peculiare attenzione all’acconciatura della Vergine nella quale si attorcigliano sciarpe di velo, cercini e ciocche di capelli; ma i frequenti riferimenti agli exempla del carmelitano non sono stati sufficienti a valutare positivamente la diretta presenza nella bottega di un esponente “forte” della cultura lippesca. La tavola di Sandro conservata a Capodimonte è invece rivelatrice, poiché non si tratta di un caso isolato, bensì fa parte di una serie botticelliana in cui, attorno alla Madonna e al Cristo bambino, agisce un piccolo gruppo di angeli-ragazzini7; opere che dovettero procurare al pittore un facile e immediato successo negli anni 1465-75, e che si legano al magistero di Fra’ Filippo. Ricordo, fra le soluzioni del Lippi, la Madonna Trivulzio, enigmatico convegno di popolani-bambini che attorniano la Madonna 7 - Gigetta Dalli Regoli, I garzoni di Sandro in Critica d’arte, 37-38 (2009), pp.41-48. FINESTRE SULL’ARTE • 55


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Madonna col Bambino e un angelo FOTO PAGINA PRECEDENTE, A SINISTRA:

Sandro Botticelli,

Madonna col Bambino e un angelo (1465-1470; tempera su tavola, 110 x 70 cm; Ajaccio, Museo Fesch)

Madonna col Bambino e un angelo FOTO PAGINA PRECEDENTE, A DESTRA:

Sandro Botticelli,

Madonna col Bambino e un angelo (1470 circa; tempera su tavola, 70 x 48 cm; Londra, National Gallery)

Madonna delle ciliegie FOTO PAGINA A FIANCO:

Sandro Botticelli? (attribuita al

Verrocchio), Madonna col Bambino (Madonna delle ciliegie) (1465-1470; tempera su tela, trasferita dalla tavola originale, 66 x 48,2 cm; New York, Metropolitan Museum)

Madonna col Bambino Benedicente FOTO A SINISTRA: Perugino? (attribuita al Verrocchio), Madonna

col Bambino benedicente, dettaglio (1470-75; tempera su tavola, 75,8x47,9 cm; Berlino, Gemäldegalerie, n. 108)

seduta a terra, ma soprattutto il più coltivato esito di una lunga serie, ovvero la Madonna oggi agli Uffizi, dove una madre abbigliata con eleganza, composta e silente, è accompagnata da due angeli, uno che a stento trova spazio e si affaccia dai piani retrostanti, l’altro decisamente protagonista, e raffigurato in posizione avanzata mentre solleva il corpo pesante del putto fino a portarlo verso la madre, “a portata di bacio”. Una scelta felice del Lippi, poiché il volto malizioso che si gira di scatto e fissa con intenzione l’osservatore è la testimonianza pungente di una consuetudine illustre del linguaggio visivo. Difficile, e forse vano rintracciarne l’origine, ma resta il fatto che nel primo Quattrocento gli ingegni più vivaci danno spessore alle loro composizioni ricorrendo a un tramite fra il centro dell’immagine e il mondo esterno, ovvero fra i personaggi raffigurati e una committenza e un pubblico qualificati culturalmente; una formulazione che acutamente Leon Battista Alberti sintetizza nel secondo Libro Della Pittura con singolare a efficacia: «E piacemi sia

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Botticelli doveva agire all’interno della bottega del Verrocchio, e offrire prove esplicite di un orientamento e di un’azione che si manifestavano attraverso il contatto diretto.

Madonna delle ciliegie (dettaglio) FOTO PAGINA A FIANCO, IN ALTO A SINISTRA:

Sandro Botticelli?

(attribuita al Verrocchio), Madonna col Bambino (Madonna delle ciliegie) (1465-1470; tempera su tela, trasferita dalla tavola originale, 66 x 48,2 cm; New York, Metropolitan Museum)

nella storia qualcuno che ammonisca o insegni a Madonna col Bambino e angeli noi quello che ivi si facci…»8. ll suggerimento alFOTO PAGINA A FIANCO, IN ALTO A DESTRA: Sandro bertiano conferisce spessore alla formula figurale Botticelli, Madonna col Bambino e angeli, dettaglio costituita da un personaggio che collega l’interno dell’immagine con l’esterno: una sorta di “voce (1468 circa; tempera su tavola, 100 x 71 cm; Napoli, fuori campo” alla quale ricorrono i maestri più Museo Nazionale di Capodimonte) dotati, e che era noto nell’ambito del Verrocchio, come si può esemplificare citando il san BeneFortezza detto situato in primo piano nell’Assunzione della 9 Vergine di Bartolomeo della Gatta . Lo introdurFOTO PAGINA A FIANCO, IN BASSO A SINISTRA: Sandro ranno Botticelli nell’Adorazione dei Magi 10, e anche Botticelli, Fortezza, dettaglio (1470; tempera su tavola, Leonardo nella prima versione della Vergine delle 167 x 87 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) rocce (Louvre), opera ancora imbevuta di cultura fiorentina che qualifica l’artista al momento della sua comparsa a Milano: qui l’attenzione dei riI tre arcangeli guardanti è attratta in prima istanza dall’ambienFOTO PAGINA A FIANCO, IN BASSO A DESTRA: Francesco tazione inedita, che doveva valere a suscitare curiosità e meraviglia, ma l’osservatore più attento Botticini, I tre Arcangeli, dettaglio (1470-1475; tempera capta il richiamo dell’Angelo, il suo sguardo che su tavola, 135 x 154 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi) ci trascina dentro al quadro, fra le erbe e le rocce, e che ci invita perentoriamente a proseguire nella visione con la mano dall’indice puntato11. soluzione del Museo Fesch di Ajaccio, avendo un Torno a Sandro Botticelli e alla sequenza di imseguito nei dipinti di Strasburgo, Angers, Lonmagini affini che si dipana dalla raffinatissima dra12, dai quali dipendono innumerevoli repliche di bottega; Sandro si impadronisce della formu8 - Segnalo il testo recente di Stefania Macioce, Quando la pittura la elaborata dal suo maestro, e fin dagli esordi parla. Retoriche gestuali e sonore nell’arte, Roma 2018. Ho proposto alne accentua il carattere “leggero”, quasi giocoso, cune precisazioni connesse con il testo albertiano in un breve intervento (Gigetta Dalli Regoli, Gli obiettivi del De Pictura, fra cultura data la giovane età di coloro che sono riuniti a delle corti, ideologia borghese-mercantile e precettistica in Schifanoia, 30-31 convegno per leggere o far musica: così avverrà (2006), pp.47-61). nei successivi vertici della tipologia, i due celebri Tondi del Magnificat e della melagrana. Una scel9 - San Benedetto all’origine, poi trasformato in san Filippo Benizzi: vedi la puntuale scheda di Cecilia Martelli, Catalogo 2019, ta alternativa rispetto a quella di segno opposto cit., p.158. che si diffonde in parallelo, e che vede adagiato 10 - Si tratta del personaggio all’estrema destra ammantato di in grembo alla Vergine il Bambino dormente nel giallo, identificato come un autoritratto del pittore.

11 - Sulle vicende dell’opera rinvio a Pietro C. Marani, Leonardo, una carriera di pittore, Milano 2003, pp. 137-139. Per il tema del rapporto interno/esterno nell’immagine segnalo i testi fondamentali di Ernst H. Gombrich, L’immagine e l’occhio [1982], Torino 1985, e David Freedberg, Il potere delle immagini [1989], Torino 1993.

12 - Andrea De Marchi, Catalogo 2019, cit., p.76: “misterioso dipinto di cui vanno sottolineate le maggiori affinità col gruppo giovanile del giovane Botticelli”. Non credo chi si tratti di un mistero, ma piuttosto di un’attribuzione incongrua, che dovrebbe spostarsi dal Verrocchio al Botticelli. Appunto. FINESTRE SULL’ARTE • 61


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Madonna col Bambino e angeli

Madonna del latte

Madonna n. 104A

FOTO AL CENTRO:

FOTO A DESTRA:

FOTO A SINISTRA:

(attribuita al Verrocchio), Madonna col

(attribuito al Verrocchio),

Madonna col Bambino e angeli

Bambino e angeli (Madonna del latte)

Madonna col Bambino, dettaglio

(1468 circa; tempera su tavola, 100 x

(1470 circa; tempera su tavola, 96,5 x

(1468-1470; tempera e olio su

71 cm; Napoli, Museo Nazionale di

70,5 cm; Londra, National Gallery)

tavola, 75,8 x 54,6 cm; Berlino,

Capodimonte)

Sandro Botticelli,

Sandro Botticelli?

Sandro Botticelli?

Gemäldegalerie, n.104 A)

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quale affiora in trasparenza il corpo esanime del Cristo deposto. Peraltro nelle opere giovanili di Botticelli non c’è traccia di malinconia, bensì una sorta di approccio familiare con donne serene e bambini che sorridono: personificazioni rassicuranti della divinità. È la ragione per la quale credo che si possa accostare al nome di Sandro anche un altro dipinto appartenente all’area verrocchiesca che non era presente nella rassegna di Palazzo Strozzi: la Madonna delle ciliegie del Metropolitan Museum di New York. Abbigliata in forme simili a quelle che compaiono nella tavola 104 A, la Vergine risponde qui alla tipologia proposta dal Verrocchio nella scultura; eretta dietro a un davanzale dove appare il Bambino, essa lo sfiora appena con le dita “velate”, ed entrambi occupano anche in questo caso ampia parte dello spazio disponibile. Il putto ha però un’aria timida rispetto al complesso della serie; e rafforzano il tono intimo dell’immagine gli oggetti posati quasi per caso sulla balaustra: non un lembo del mantello, un cuscino prezioso o un libro d’ore come negli altri dipinti affini, ma piuttosto oggetti fragili sottratti all’abituale funzione simbolica o alla esigenza di misurare la dimensione e lo scorcio della lastra di marmo: una rosa appena appassita e tre ciliegie spiccate dal ramo, oggetti di per sé lievi nella materia e nel significato, così come tenere sono le carni del Bambino che si affaccia con atteggiamento esitante verso di noi. Del tutto assenti le impercettibili punte di sofisticata leziosaggine che affiorano nelle tavole ipoteticamente connesse agli interventi del Perugino e di Domenico Ghirlandaio. Traendo le fila di quanto detto fin qui, torno alle questioni di fondo, ovvero alle ipotesi di un’attività del Verrocchio come pittore (non da capobottega fornitore di schemi e disegni, ma quale esecutore in proprio di tavole e affreschi), e di un apporto concreto di Botticelli all’attività dell’atelier di Andrea alla fine degli anni Sessanta, presentata nel catalogo come improbabile o esplicitamente respinta13. Riassumo argomenti già espressi dalla critica e che ho recentemente suggerito di sottoporre a nuove verifiche. Non si può mettere in dubbio un fatto 13 - Andrea De Marchi, Catalogo 20019, cit., p.57. 64 • FINESTRE SULL’ARTE

determinante, ovvero la testimonianza esplicita degli scritti giovanili di Leonardo, il quale dibatte in forma amichevole con Botticelli e non con altri compagni di lavoro: Sandro doveva agire all’interno della bottega di Andrea, e offrire prove esplicite di un orientamento e di un’azione che si manifestavano attraverso il contatto diretto. La questione della Fortezza oggi conservata agli Uffizi: pur se fu Tommaso Soderini a dirottare su Botticelli una delle Virtù già commesse ai Pollaiolo dalla Mercatanzia, sembra arduo ignorare alcuni fatti determinanti: l’interpretazione della soluzione botticelliana in chiave verrocchiesca (riconosciuta unanimemente dalla letteratura pertinente), la documentata rivendicazione di un ruolo nella vicenda da parte di Andrea, e la presenza di disegni dello stesso inopinatamente sottovalutati14. Infine un caso emblematico, quello della pala oggi a Budapest (Szépmüvészeti Museum): un’opera di pittura di considerevole rilievo destinata alle monache della chiesa fiorentina di San Domenico del Maglio, che Andrea (ripetutamente segnalato come autore dalle fonti) affida alla esecuzione di un artista di medio livello quale Biagio d’Antonio. Il caso di Biagio, attento osservatore di ciò che si produceva in ambito verrocchiesco15, sembra trovare riscontro anche nell’attività di un altro artista a cui la mostra ha prestato scarsa attenzione, Francesco Botticini, autore di una serie di tavole impegnative in cui vengono impiegati stilemi e tipologie di schietta marca verrocchiesco-botticelliana; difficile pensare che Andrea non abbia avuto un ruolo anche da questo punto di vista16, e che l’incontro Botticini-Botticelli, così come la consuetudine Botticelli-Leonardo, siano avvenuti in un luogo diverso dalla bottega 14 - Ne ho trattato nel I garzoni di Sandro, 2009, cit, pp.46-47, e in Finestre sull’Arte on line, 2019, cit. 15 - Dario A. Covi, Andrea del Verrocchio. Life and Work, Firenze 2005, pp. 192-197; sul rapporto di Biagio con l’ambito del Verrocchio, vedi Roberta Bartoli, Biagio d’Antonio, Milano 1999, pp. 31 sgg. 16 - Per una considerazione della connessione con la cerchia del Verrocchio, rinvio all’analisi della compianta Lisa Venturini (Francesco Botticini, Firenze 1994, pp. 108-109): opere come I tre arcangeli (Uffizi) e come la Santa Monica e le agostiniane (Firenze, Chiesa di Santo Spirito), avrebbero introdotto qualche turbamento nel quadro “panverrocchiesco” presentato in mostra.


di Andrea e in anni diversi rispetto a quelli che appartengono al decennio 1460-147017. In considerazione di ciò che ho cercato di evidenziare, ritengo sia opportuno riconoscere al Verrocchio una personalità complessa, nella quale convivevano lo scultore/disegnatore geniale, incline alla sperimentazione, e l’imprenditore accorto, abile nell’assicurarsi la collaborazione dei giovani più brillanti, ma anche nell’utilizzare professionisti coscienziosi, in grado di fornire immagini di taglio tradizionale e nondimeno ineccepibili dal punto di vista della qualità dei materiali e della lavorazione. Alcuni dipinti attendono ancora di essere adeguatamente qualificati come parte importante di quell’area, e soprattutto alcuni disegni.

A ciò si deve, in fondo, il diverso andamento delle due vicende critiche: relativamente regolare quella relativa ai figli del pollivendolo Benci, dove il principale motivo di contrasto fra i diversi esponenti della critica è derivato dalla difficoltà di distinguere le dirette pertinenze di Antonio da quelle di Piero, e dall’esigenza di circoscrivere i rari casi di collaborazione tra i due; mentre in quella relativa ad Andrea di Cione le molteplici divergenze di opinione sono nate dalla varietà dei collaboratori e dalla diversa durata della loro permanenza nella bottega; una situazione che tradisce una impostazione imprenditoriale di taglio “moderno”, e che sfugge a una ricostruzione capillare. E ancora da ciò, il perdurare degli interrogativi. Cito quello che è forse il nodo più

È opportuno riconoscere al Verrocchio una personalità complessa, nella quale convivevano lo scultore/disegnatore geniale, incline alla sperimentazione, e l’imprenditore accorto. Nella Firenze dei primi Medici, e negli anni di Piero e del giovane Lorenzo, allorché la crisi economica e politica era ancora latente, alcuni dati ricavati dalla ricerca storico-documentaria e le testimonianze legate all’esercizio dell’attività artistica offrono un profilo sufficientemente chiaro della situazione, almeno per ciò che riguarda la cultura figurativa: due sono i centri di produzione più importanti, e fra i due c’è una esplicita differenza d’impostazione. Negli ambiti diretti da Antonio e Piero Pollaiolo, ai quali si devono opere capostipite e programmi complessivamente omogenei, l’autorità del maestro sovrasta l’intervento dei collaboratori; nel laboratorio del Verrocchio, la struttura più fluida dell’ organico comprendeva apprendisti di vario calibro ma anche personalità in crescita prossime ad avviare un’attività autonoma: la vita deve essere stata assai più movimentata, le sovrapposizioni, le collaborazioni e gli scambi molto frequenti fra coloro che lavoravano a stretto contatto. Difficile, talora impossibile, decifrare in termini definitivi le singole competenze.

inquietante, e ancora fortemente problematico, al quale la mostra fiorentina non ha dato spazio: la breve serie di disegni degli Uffizi legati all’area di quella cultura burlesca che è documentata soprattutto in ambito letterario, ma che doveva avere riscontri nel linguaggio figurativo della grafica e in forme di spettacolo imperniate sul tema della deformazione grottesca18. Nelle rare tracce che di tutto ciò si conserva, la critica ha evocato le incisioni di area nordica e (non a caso) i nomi di Verrocchio e di Pollaiolo, di Botticelli e di Leonardo, pur senza sciogliere i molteplici dubbî. ◊ 18 - Gianvittorio Dillon in Anna Maria Petrioli Tofani (a cura di), Il Disegno fiorentino del tempo di Lorenzo il Magnifico, catalogo della mostra (Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, dall’8 aprile al 5 luglio 1992), Milano 1992, pp.120-125; Michael Kwakkelstein, Botticelli, Leonardo and a Morris Dance in Print Quarterly, 15, 1 (1998), pp.3-14; Gigetta Dalli Regoli, La Fuggitiva, una giovane donna in fuga in Critica d’arte, 29-31 (2007), pp.7-59 (pp.49-51). Una riconsiderazione del complesso di disegni e stampe pertinenti, è in Bert W. Meijer (a cura di), Firenze e gli antichi Paesi Bassi, 1430-1530, dialoghi tra artisti, catalogo della mostra (Firenze, Galleria Palatina, dal 20 giugno al 26 ottobre 2008), Firenze 2008, pp.132-137 (schede di Paula Nuttal).

17 - Un riesame del rapporto fra Botticelli e Botticini non sembra comparire nel recentissimo volume Botticelli. Past and Present, a cura di Ana Debenedetti e Caroline Elam, Londra 2019. FINESTRE SULL’ARTE • 65



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Carsten Höller

Un mondo“upside down” testo di Francesca Della Ventura

Evadere dalla realtà incontrando il mondo dell’arte: questo è l’approccio del mondo “upside down” del tedesco di nascita belga Carsten Höller (Bruxelles, 1961), artista e scienziato che indaga sull’interazione tra pubblico e opera.

«N

on vi è alcun metodo più sicuro per evadere dal mondo che seguendo l’arte, e nessun metodo più sicuro di unirsi al mondo che tramite l’arte». Ipse dixit, o meglio: Johann Wolfgang Goethe dixit, già tre secoli fa, anticipando ciò che avrebbe affermato Schopenhauer nel suo testo

Il mondo come volontà e rappresentazione, ovvero che l’arte è l’unica forma di liberazione dal dominio della volontà. Lo sapeva bene il poeta francese Verlaine che a metà Ottocento aveva coniato l’espressione

Carsten Höller FOTO PAGINA A FIANCO:

Ritratto di Carsten Höller FINESTRE SULL’ARTE • 67


Test Site FOTO A SINISTRA:

Carsten Höller, Test Site (2006).

Installation view, Londra, Tate Modern.

“poeta maledetto” per designare qualsiasi artista dotato di genio che, vivendo con uno stile di vita provocatorio, rigettava i valori della società borghese a lui contemporanea. Dunque, come affermava Goethe, l’arte come mezzo per evadere dal mondo, restando perfettamente in sincronia con il mondo stesso. È un’affermazione paradossale, ma quanto mai veritiera se si pensa a come, da visitatori, si decide di approcciare l’universo dell’arte (e per arte si intende chiaramente 68 • FINESTRE SULL’ARTE

qualsiasi sua espressione, compresi il cinema e il teatro). La visita di un museo rappresenta una congiuntura importante per chi si avvicina all’arte e di essa fa esperienza: se da un lato, infatti, il visitatore resta estasiato da ciò che incontra varcandone le porte, dall’altro vive un’occasione di evasione dalla realtà e, molto spesso, dalla confusione cittadina che il più delle volte s’incontra fuori dal contesto museale. Tra il visitatore e le opere d’arte si costruiscono dei “sistemi sincronici”, laddove per sincronizzazione si vuole intendere il meccanismo di osservazione-interpretazione-interazione che si sviluppa fra chi fruisce l’opera e l’opera stessa. Nel 2000, proprio la tematica dei sistemi sincronici fra visitatore e installazioni presenti in un museo è stata il fulcro di una mostra intitolata Synchro System e dedicata alle opere di uno dei maggiori talenti contemporanei, Carsten Höller. Il progetto espositivo del 2000 per la Fondazione Prada, designato dallo stesso Höller, voleva essere una presentazione di “mondi possibili” che volevano stimolare visivamente, intellettualmente e psicologicamente il fruitore, mediante una serie di labirinti e percorsi sensoriali. Una delle installazioni più famose di Synchro System resta sicuramente Upside Down Mushroom Room (2000), parte integrante del progetto Atlas dal 2018, ospitato presso la Torre, il nuovo ampliamento espositivo della Fondazione Prada a Milano, progettato dallo studio d’architettura OMA di Rem Koolhaas e inaugurato due anni fa. In uno spazio espositivo completamente neutro, l’installazione vede una serie di funghi (di diversa dimensione e forma) i cui cappelli e lamine sono posti all’ingiù, mentre il gambo è la parte ancorata al soffitto. L’interesse per i funghi da parte di questo artista è quasi contemporaneo all’inizio della sua attività artistica. Le prime sculture-fungo risalgono, infatti, al 1994. La scelta di Carsten Höller sulla tipologia di fungo non è causale: si tratta della temibile amanita muscaria, il fungo più famoso dell’intera flora


micologica, ma anche il più pericoloso in quanto è il più velenoso e quello che ha più ripercussioni sulla psiche umana. Sicuramente, la scelta di Höller è voluta: l’amanita muscaria è parte del nostro bagaglio immaginario, presente anche nelle fiabe della Disney e pertanto conosciuto sin dalla tenera età. La scelta dell’artista è, dunque, ben mirata sin da subito: egli vuole immeditamente attivare quel meccanismo sincronico di cui si parlava in precedenza, ovvero quello che prevede l’osservazione dell’opera, la sua interpretazione e l’interazione con essa. «Quando vedi il mondo all’ingiù, stai osservando il mondo reale», afferma l’artista. Si pone in dub-

Carsten Höller è un artistascienziato: si è infatti laureato in entomologia agricola all’Università di Kiel, dove ha anche ottenuto un dottorato.

bio, dunque, quale sia la corretta visione del mondo. Come in Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) di Lewis Carroll, come nel film Inception (2010), firmato Christian Nolan, o come nella più recente serie tv Netflix Stranger Things (2016), la natura della percezione umana e l’auto-conoscimento occupano nelle installazioni dell’artista un ruolo fondamentale. La sorpresa, i meccanismi sensoriali e gli stimoli psicofisici servono a Höller per investigare le nuove frontiere della percezione e dell’esistenza umana, producendo nel visitatore sorprendenti e inusuali reazioni, specie psico-emotive. Höller realizza il tutto mediante un criterio e un rigore scientifico che gli derivano proprio dalla sua formazione professionale. Infatti, nato a Bruxelles nel 1961, Höller ha studia-

Upside Down FOTO SOTTO:

Carsten Höller, Upside Down Mushroom

Room (2018; tecnica mista; Milano, Fondazione Prada)

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The Florence Experiment FOTO PAGINA A FIANCO: Carsten Höller, The Florence

Experiment (2018). Installation view, Firenze, Palazzo Strozzi.

to entomologia agricola presso l’Università di Kiel dove si è persino dottorato nel 1988 con una ricerca sulla comunicazione fra gli insetti. Paradossalmente, proprio una volta terminato il suo dottorato, de-

utilizzati da adulti, se non in altri contetsi, quali possono essere un parco divertimenti o un aquafan. Decontestualizzate dal loro ambiente ludico, queste turbine-scivolo diventano oggetti che sono al servizio dei visitatori del museo, i quali possono sperimentarli liberamente. Da questa esperienza sensoriale scaturiscono sorprendenti reazioni psichiche e fisiche abbastanza intense, che sono proprio l’oggetto di studio del nostro scienziato-artista. Höller crede che l’oggetto d’arte in

L’interazione fra visitatore e opera d’arte è il centro focale della sua ricerca artistica: le installazioni prendono vita e sono complete solo nel momento in cui il visitatore interagisce con esse. cide di abbandonare le scienze come professione e sé non abbia una sua intrinseca natura se non è reladi utilizzare ciò che ha studiato nel corso degli anni zionato al suo contesto spaziale e, soprattutto, umano. per realizzare le sue sculture-installazioni concettuali Il mondo dell’arte è, pertanto, costituito da un sistema che, ad oggi, sono diventate famose ed esposte in tutto il mondo. L’interazione fra visitatore e opera d’arte è Lightwall il centro focale della sua ricerca artistica: le installazioni prendono vita e sono complete solo nel momento FOTO SOTTO: Carsten Höller, Lightwall (2000). Installation in cui il visitatore interagisce con esse. Essendo uno view, Milano, Fondazione Prada. scienziato prima ancora che un artista, le indagini da lui svolte mediante le sue sculture-installazioni mirano alla conoscenza della logica umana e all’insinuazione del dubbio sul passato, sul presente e sul futuro dei suoi interlocutori. Le opere di Höller interessano varî settori dell’attività professionale umana: si varcano, infatti, i limiti del botanico, dello zoologo, dello psicologo, del farmacista, dell’ottico, dell’architetto. Un lavoro a trecentosessanta gradi che porta anche ad una nuova discussione sui confini di ciò che può essere considerato arte contemporanea, soprattutto in relazione allo spazio che accoglie le opere, ovvero il museo d’arte contemporanea. Famose in tutto il mondo sono le sculture-scivoli di Carsten Höller. Sicuramente uno dei più celebri è il Test Site della Tate Modern di Londra, installato nel 2006 e riproposto in altri paesi come Germania (Bundeskunsthalle di Bonn), Italia (Palazzo Strozzi), Finlandia e Stati Uniti. Anche per Test Site, l’interazione fra il visitatore, l’opera e lo spazio che la ospita resta il punto centrale della ricerca artistica dell’artista. L’installazione constava di cinque turbine-scivolo che collegavano i piani alti della Tate al piano terra. Gli scivoli sono considerati oggetti ludici per i bambini, raramente FINESTRE SULL’ARTE • 71


SOMA Carsten Höller, SOMA (2010). Installation view, Berlino, Hamburger Bahnhof Museum für Gegenwart 72 • FINESTRE SULL’ARTE


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Ein Haus für Schweine und Menschen (A house for pigs and people) FOTO SOPRA:

Carsten Höller, Ein Haus für Schweine

und Menschen (A house for pigs and people) (1997). Installation view, Kassel, documenta X

di interrelazioni o, se si vuole tornare all’inizio di questo articolo, ad un serie di sistemi sincronici fra fruitore e opera d’arte. L’importante bagaglio scientifico di Höller non emerge soltanto dal suo interesse per le questioni legate alla logica e alla percezione umana. Il mondo animale, oltre a quello micologico di cui si è parlato in precedenza, svolge un ruolo decisivo all’interno dei suoi processi investigativi. Per i documenta X di Kassel, nel 1997, Höller presenta, insieme alla famosa artista tedesca (e sua compagna) Rosemarie Trockel, la celebre installazione A house for pigs and people, un 74 • FINESTRE SULL’ARTE

progetto che voleva portare il soggetto animale sulla scena di una delle più importanti manifestazioni artistiche mondiali. La ricerca dei due artisti, come essi stessi spiegano, nasceva dal desiderio di comprendere se l’uso, possibile o meno, di determinati cibi (piante o animali) aventi un valore simbolico (in questo caso basti pensare proprio al consumo della carne di maiale per alcune religioni) potesse influire semanticamente anche sull’essere umano, ovvero se questo simbolismo si proietta per osmosi anche sul consumatore. L’interesse era chiaramente incentrato anche sulla questione religiosa e politica in riferimento al decidere o meno, al soggiogare o meno alcune classi sociali, al proibire o meno il consumo di un determinato cibo per questioni religiose, magiche, etiche o di altra natura (se ci si pensa, risulta essere un tema abbastanza attuale anche nell’Italia di oggi). In una struttura rettangolare di cemento, una lastra di vetro separava in due le sezioni della casa: da una parte i maiali, dall’altra le persone. La visione era volutamente unidi-


rezionale: solo le persone erano in grado di osservare i maiali, ma non viceversa. Il maiale era stato scelto in quanto da sempre specie addomesticata dall’uomo, e considerato come carne da macello. La divisione (e l’interazione) fra il mondo animale e quello umano è stato anche il protagonista di SOMA, la folle installazione del 2010 presentata presso la Hamburger Bahnhof, il museo d’arte contemporanea di Berlino in Germania. In uno dei contesti mondiali più importanti dell’arte contemporanea, Höller ha offerto ai visitatori la possibilità di dormire su un letto sospeso in compagnia di dodici renne (vive!), canarini, topi, mosche e alcuni funghi giganti, trasformando l’installazione artistica in una vera e propria visione psichedelica con lo scopo, non solo di sorprendere il visitatore ma, ancora una volta, di poterne studiarne gli effetti sulla percezione umana. Il titolo SOMA fa riferimento al termine sanscrito che indica il succo ricavato da una pianta utilizzata per le offerte sacrificali nella religione

il tema portante della serie di installazioni Lightwall, realizzate fra il 2000 e il 2007. In questa serie di installazioni, Höller ha pensato una parete costituita da nove pannelli, in cui ciascun pannello presenta una griglia di lampadine che si accendono e si spengono ad intermittenza, ad una frequenza compresa fra i sette e i dodici hertz, combinata con un segnale stereo che scatta fra due altoparlanti audio. L’effetto che ne deriva è di disorientamento per il visitatore, che fa esperienza di campi di luce e di suoni che inducono ad un’alterazione della percezione di se stessi e di ciò che lo circonda, compresi gli aspetti sonori. Per il suo varcare il confine fra scienza e arte, Carsten Höller ha suscitato l’interesse delle più grandi istituzioni d’arte contemporanea internazionali: i suoi esperimenti-installazioni sono stati e sono esposti in importanti contesti, quali il Moderna Museet di Stoccolma, la Fondazione Prada di Milano, il Massachusetts Museum of Contemporary Art, il New Museum in New

Per il suo varcare il confine fra scienza e arte, Carsten Höller ha suscitato l’interesse delle più grandi istituzioni d’arte contemporanea internazionali. vedica. La bevanda allucinogena porta ad uno stato mentale per chi la beve molto particolare: sembra, infatti, che si acceda ad un’illuminazione, al contatto con il sé più profondo. Non solo: sembra che il succo sacro abbia anche proprietà terapeutiche de eccezionali virtù magiche (guarire le malattie, dare fecondità e felicità, migliorando le qualità percettive). SOMA, però, è anche il termine conosciuto nei paesi nordici per indicare la bevanda ricavata dal fungo amanita muscaria (lo stesso dell’installazione Prada). L’amanita pare fosse ricercatissima dai coriachi, popolazione indigena dell’estremo oriente della Russia, e che questi fossero disposti a pagare molto alto il suo prezzo: un fungo soltanto valeva una intera renna. Le renne, inoltre, si cibano del fungo e la loro urina, che aveva conservato il principio allucinogeno, veniva conservata e utilizzata per gli stessi scopi del fungo. A fronte di quanto spiegato, appare evidente la sperimentazione dell’artista, ovvero indurre il visitatore della Hamburger Bahnhof a rivivere per una notte gli stessi effetti allucinogeni della Soma. Lo studio delle allucinazioni ottiche e acustiche è stato

York, solo per citarne alcuni. Il suo mondo Upside Down incanta e stupisce i visitatori dei musei per le domande che ininterrottamente continua a porre e che sono legate proprio al mondo della percezione di se stessi e della realtà in cui viviamo. Come sappiamo, infatti, che il mondo in cui viviamo sia quello corretto? Come possiamo conoscere con certezza dove sia il bene, dove sia il male, cosa sia giusto e cosa sia ingiusto? Lo stupore e la bellezza delle installazioni di Höller consistono proprio nell’insinuare il dubbio della realtà nel momento in cui il visitatore entra a far parte di quel sistema sincronico con l’opera d’arte di cui si parlava in apertura. Si tratta di varcare i confini del possibile, dell’universo umano e della conoscenza di quest’ultimo per instaturare il beneficio sacrosanto del dubbio, fondamentale in una società democratica in quanto porta a ragionare sulla realtà che ci viene raccontatta dai mass media. In fondo, come diceva Socrate, il filosofo (nel mondo greco, la persona che aveva in mano la conoscenza) era colui che sapeva di non sapere.◊

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Kiki Smith

Ragazza per sempre testo di Chiara Guidi

Kiki Smith (Norimberga, 1954), artista femminista, “ragazza” da sempre e per sempre, fin dagli inizî della sua carriera indaga, con lucida visionarietà, i temi relativi al genere, alla sessualità, al rapporto tra l’essere umano e la natura.

«Q

uesta è Kiki Smith a Vienna. Ha ricevuto uno speciale riconoscimento per il suo lavoro nell’arte». Inizia cosi il breve testo della didascalia alla foto, scattata allo Schönbrunn di Vienna, che Patti Smith ha pubblicato sul suo profilo Instagram, a fine ottobre di quest’anno. Un post di una foto (sempre) in bianco e nero che ritrae lei sorridente a sguardo abbassato, arreso, ma sempre energico, lei gloriosamente scapigliata1 come la figura che abbraccia: Kiki Smith. L’artista invece guarda in camera: tutte e due complici di sorridenti smorfie che ci svelano istantaneamente, prima ancora della didascalia, che non sono solo due Smith, ma sono soprattutto due “girls Smith” che, con le loro chiome bianche e indomite, ci rivelano, rassicurandoci, di essere ragazze per sempre. Kiki Smith è infatti una “ragazza” che sempre poeticamente, e in modo visionario, con una spiritualità densa, panteistica, da femminista ancestrale prima ancora che politica, prosegue quella sua indagine sulla sessualità esplicita, emancipata, che si converte solo al profumo della leggerezza dei luoghi, per sprigionare ope-

1 - Un aggettivo per un’indicazione formale, ma di esplicito riferimento, all’omonimo movimento milanese.

Il lavoro di Kiki Smith conferma ancora, e in modo indissolubile, quello stretto legame così presente nella natura fra l’uomo e l’animale.

Mary Magdalene FOTO PAGINA A FIANCO:

Kiki Smith, Mary Magdalene

(1994; bronzo al silicio e acciaio, altezza 152 cm) FINESTRE SULL’ARTE • 77


Kiki Smith prosegue la sua indagine sulla sessualità sempre poeticamente, e in modo visionario, con una spiritualità densa, panteistica, da femminista ancestrale. re che, come una brezza, muovono nuove e irrequiete mitologie contemporanee. Infatti, il suo lavoro conferma ancora, e in modo indissolubile, quello stretto legame, così presente nella natura, fra l’uomo e l’animale. Incontri fra anime: nella donna, nelle specie animali, ci sono energie che, come velieri, ci sospingono in zone di alchimie e di magiche connessioni: come in baie di antiche conoscenze, ora perdute. Le opere di Kiki Smith sono generate da inconsci che si sono fatti corpo, pagine di aggiornati corporali, interiorità corporee (fluidi) che non solo emergono, ma si espandono come effluvî, connotando misticamente il lavoro, facendosi prima materia, poi facendosi progressivamente opera. Straordinarie benedizioni di mondi smithiani per noi fruitori e ricercatori di estetiche che vogliono pizzicare i fili delle arpe per riuscire a ricondurci verso eden smarriti e faticosamente terreni. Mary Magdalene (1994) è una sua nota scultura di un nudo femminile in bronzo al silicio e acciaio, dove la figura incede con una grande catena stretta alla caviglia, la pelle è presente solo su determinate porzioni del corpo vissuto anche nel suo più stretto dettaglio. Mary Magdalene è ritratta di profilo e incarna il dolore della penitente, della dannata e della ribelle: un’iconografia storica, classica, religiosa, ma ora straordinariamente rinnovata per una nuova appartenenza di genere. Questa scultura2 è divenuta una figura di riferimento, un’opera iconica nella sua produzione, ma anche per tutta la storia della statuaria contemporanea. Mary Magdalene si presenta infatti ancora femminile, ancora drammatica, ancora indomita, ancora sofferente, con lo stesso pathos di un Masaccio, e tale da poterla associare ai primi versi della canzone di Sandra: (I’II never be) Maria Magdalena3. Ma sfogliando il catalogo delle sue opere, vediamo che in ogni suo lavoro sembra apparire lei, l’artista. Lei, allusivamente, è come una piccola sirena adagiata su uno scoglio, con le calze a rete disegnate: dal mare seduce in costumi libertini, costumi proprî di una Parigi da Belle Époque: epoca evocata ed entrata nell’immaginario come per essere stata la prima seduzione collettiva dell’età moderna. Proprio in questo modo Kiki Smith, all’inizio degli anni Duemila, ha 2 - Esposta in importanti mostre, ha trovato un opportuno allestimento, in Italia, nella chiesa albese dedicata proprio al culto di Maria Maddalena, nel 2015, grazie all’azienda vinicola dei Ceretto, assieme a una selezione di altre sculture pertinenti, come She-Wolf (2001) e Annunciation (2008). 3 - “You take my love, you want my soul / I would be crazy to share your life / Why can’t you see what I am? / Sharpen the senses and turn the knife / Hurt me and you’ll understand”, 1985 78 • FINESTRE SULL’ARTE

realizzato, con queste precise sembianze di donna pesce, un piccolo esemplare femminile in porcellana, incantatore silenzioso, che riesce a richiamare i flutti della coscienza, le onde riflessive dell’individuo in questa epoca che è stata segnata da liberazioni sessuali fino a conoscere sessualità diffuse, aperte, orgasmiche, e che precedentemente ha anche conosciuto nuovi flagelli come l’AIDS, temi a cui lei si è rivolta fin dagli anni Ottanta, dedicandovi profonda attenzione, prima come militanza, poi con uno sguardo più ampio, introspettivo, intimo e compassionevole.


A Palazzo Pitti, a Firenze, in questa primavera4, abbiamo potuto vedere lo sviluppo complesso e ampiamente armonioso della sua avvolgente ricerca: quaranta opere fra arazzi, incisioni, pitture, sculture, tutte sospinte da onde energetiche, spesso guidate da angeliche figure fluttuanti: lei ha reso infatti espliciti omaggi alla figurazione delle pit-

Surge FOTO SOPRA:

Kiki Smith, Surge (2016; bronzo annerito,

37,5 x 76,2 x 30,5 cm)

4 - Dal 16 Febbraio al 2 Giugno 2019, le Gallerie degli Uffizi a Firenze hanno ospitato la personale di Kiki Smith What I saw on the road. FINESTRE SULL’ARTE • 79


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Memory FOTO A SINISTRA:

Kiki Smith, immagine del progetto

Memory (DESTE Foundation Project Space, Slaughterhouse, Hydra, 2019)

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tura primitiva toscana, con un DNA che ha percorso secoli, da Giotto fino a Gustav Klimt. Ali misteriose, ali anche invisibili, di una natura onnipresente, una natura ibrida, una natura quasi araldica, tessuta su telai divenuti sciamanici, una natura ascoltata, giudiziosa rivelata nelle sue fragilità, nel suo essere vulnerabile ma di profondo sostegno alle nostre debolezze e alle nostre colpe. Un racconto cosmografico che attraversa tutta la storia dell’arte, un racconto continuo fra diverse tecniche e materiali come nella recente Memory5, dove Kiki Smith ha restituito ogni arcaicità simbolica per attuali bestiarî mitologici e salvifici. Animali ancora attici6 che hanno plasmato ogni memoria a cui la grecità non aveva più dato ascolto e fisionomia. Kiki Smith è un’artista molto attenta, è molto laboriosa: ascolta la natura, tende a modellare ogni sua intuizione, ogni possibile relazione fra esseri senzienti che ama descrivere, ma ci appare che possa, come un rito, ripetere alcuni versi, per fare esercizio e meditazioni quotidiane: «è un chiodo la mattina / trafitta la mente / affiora un’immagine 5 - Memory è stata ospitata nell’estate 2019, dal 18 giugno al 30 settembre, ad Atene alla DESTE Foundation. 6 - Un gufo della minacciante Atena, una sirena dalla coda avvolta in un nodo, una mascotte come capra.

Sfogliando il catalogo delle sue opere, vediamo che in ogni suo lavoro sembra apparire lei, l’artista. / come da un frutto marcio / torna in piccoli segni / la vita senza forma brulicando».Questi versi inediti di Franca Mancinelli sembrano appartenere a Kiki Smith: infatti lei trasforma la vita brulicante, ma sempre in forme continue e connotanti (biomorfe, antropomorfe, zoomorfe), per identificare e raccontare metaforicamente il nostro tempo con nuovi simboli che ora hanno le sue originali fisionomie. ◊

Memory FOTO PAGINE PRECEDENTI E IN QUESTE PAGINE:

Kiki Smith,

immagini del progetto Memory (DESTE Foundation Project Space, Slaughterhouse, Hydra, 2019)

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Memory Kiki Smith, immagine del progetto Memory (DESTE Foundation Project Space, Slaughterhouse, Hydra, 2019)

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storie di strada

Catania, 1984, “donna che fuma� (particolare)

Milano palazzo reale 5.12 2019 19.1 2020 palazzorealemilano.it mostraletiziabattaglia.it

a cura di Francesca alfano Miglietti una mostra

con la collaborazione di

con il sostegno di

media partner



| CONTEMPORARY LOUNGE

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Dario Ghibaudo

Il Museo di Storia Innaturale testo di Cristina Principale

«La scultura nasce dell’errore, a partire da un progetto si modifica in corso d’opera, in continuazione» (Dario Ghibaudo)

N

egli anni in cui la catalogazione di opere e raccolte per la conoscenza delle scienze e le arti lasciava il passo alla tecnologia, e i musei andavano rivoluzionandosi assumendo una responsabilità esperienziale, il cuneese Dario Ghibaudo (Cuneo, 1951), di casa a Milano, concepiva quello che sarebbe stato, e certamente è ancora in fieri, il suo progetto artistico rappresentativo: un ideale ma concreto Museo

Cuspis Triastutus Bipedes Vulgari Grognu FOTO PAGINA A FIANCO:

Dario Ghibaudo, Cuspis Triastutus

Bipedes Vulgari Grognu (Museo di Storia Innaturale, Sala V: Esemplari Rari) (1998; resina sintetica, pelliccia sintentica, colori acrilici, teca in legno e vetro, 161 x 155 x 55 cm; Rovereto, MART, Collezione VAF-Stiftung)

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di Storia Innaturale a cui tutt’oggi lavora. Era il 1988 quando l’artista realizzava la sua prima personale in Italia e dal 1990-1991 prendeva a dare forma all’intuizione di costruire un incubatore per la sua ricerca. Un unicum per l’idea e la qualità del lavoro, ambizioso, elegante, esemplare, un Museo 88 • FINESTRE SULL’ARTE

concepito come macro contenitore di mostre, occasione per riflessioni multiple e multiformi sul rapporto spezzato tra natura e società contemporanea. Dunque proprio in quei primi anni Novanta che hanno cambiato per sempre le modalità di riproduzione di documenti, reperti, immagini, musica e


Limite Ignoto; Limite Inconnue; Unknown Limit FOTO A SINISTRA:

Dario Ghibaudo, Limite Ignoto; Limite

Inconnue; Unknown Limit (Museo di Storia Innaturale, Sala XVII: I Busti) (2012-2013; argilla bianca finitura in cera a caldo, 37 x 25 x 37 cm)

video, smaterializzati su supporti digitali, nasce un nuovo museo senza sede e biglietteria, strutturato in sale tematiche ricche di tangibili e sempre nuove opere d’arte firmate Ghibaudo; scultore di vocazione, artista visivo che frequenta assiduamente il disegno e periodicamente il mezzo video e la scrittura,

coltivando l’immaginazione con interessi letterarî e curiosità scientifiche. «Scintilla celeste et impulso sovrumano», per dirla alla Leopardi di cui lo stesso scultore ci fa menzione, lo hanno colto in quella fase di decollo dell’attività artistica che lo vedeva contribuire anche alla nascita del movimento Concettualismo Ironico Italiano, al fianco del gallerista Angelo Falzone attivo a Mannheim in Germania. Iniziava così, “inaugurando” la sala dedicata all’Antropologia, un percorso che si snoda lungo oltre venti sale (e ognuna corrisponde a un mono progetto di mostra proposta o realizzata in questi trent’anni in gallerie e istituzioni italiane ed estere), stanze delle meraviglie con manufatti da collezione, pezzi unici trattati come rarità altrimenti introvabili, oggetti di una improbabile quanto reale indagine ironico-scientifica. La bandiera dell’arte di Ghibaudo infatti sventola in onore dell’ironia, «meraviglioso veicolo per sviluppare con leggerezza concetti che altrimenti richiederebbero un intero saggio, e come possibilità per lanciare un sasso nell’acqua, permettendo ad altri di contare i cerchi», scrive l’artista. Dunque non un intero saggio, ma numerosi racconti, i suoi, legati gli uni agli altri in senso diacronico da quella che potremmo definire una inesauribile estetica del possibile. Per addentrarsi nella visita al Museo occorrono due considerazioni, una preliminare che attiene alla definizione di “innaturale”; la seconda riguarda gli “ambienti” di questa esposizione diffusa. La storia innaturale introdotta da Ghibaudo si riferisce su suggerimento di Jean Jacques Rousseau a «tutto ciò che viene educato dall’uomo», e non può, quindi, che essere racchiusa e custodita idealmente in un museo, inteso proprio come strumento «al servizio della società e del suo sviluppo per ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente». FINESTRE SULL’ARTE • 89


s.n. Caprus Arboreus cum Cauda Piscis et Pedes Palmatus. Masculo Dario Ghibaudo, s.n. Caprus Arboreus cum Cauda Piscis et Pedes Palmatus. Masculo (Museo di Storia Innaturale, Sala XIX: Gli Inchiostri) (2018; inchiostro su carta Hahnemühle preparata, 53 x 38 cm; foto Maurizio Sapia)

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L’approccio tassonomico dell’artista alla sua stessa immaginazione fantastica appare in un certo qual modo rivoluzionario. Tanto quanto fu l’approccio illuministico al mondo conosciuto in quel Settecento che fece sorgere i primi e più importanti musei d’arte, dal Louvre al British Museum, dalla Galleria degli Uffizi ai Musei Capitolini, e i primi e più importanti musei della scienza e della tecnica e quelli,

Ibis Recti Rostri FOTO SOTTO:

Dario Ghibaudo, Ibis Recti Rostri (Museo di

Storia Innaturale, Sala XVIII: Creature Meravigliose) (2018; cemento, polvere di marmo, resina, ferro, 160 x 75 x 210).

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appunto, di storia naturale europei. Catalogare la realtà, educata e “maleducata” dall’uomo, senza rinunciare al gusto della scoperta, della sorpresa, del guizzo. Ghibaudo assorbe lo spirito di un altro tempo e con un gioco erudito ci restituisce un alter mundus, con fittizî naturalia e originali artificialia, in questa nostra epoca che con il proliferare di fake news e contenuti contraffatti si è abituata a non distinguere più tra il reale e il vero. E lo fa anche ricorrendo ad un latino artificiale per classificare e nominare gli esemplari collezionati, facendo il verso ai musei naturalistici con nomi d’invenzione di specie botaniche e di bizzarre creature animali, che per assonanza linguistica appaiono come riferimenti scientifici e che sono poi i titoli delle opere. La


riflessione sul concetto di innaturale si basa inoltre sull’approfondito studio dei materiali utilizzati per ciascuna. Laddove la pietra o la porcellana sono considerati materiali naturali e plastiche e resine invece sintetici, nella maggior parte dei lavori dei primi quindici anni di esistenza del Museo vi è un uso preponderante di questi ultimi, posto però che Ghibaudo li conosce, scolpisce e modella tutti trasversalmente con pregevole maestria. Ciò emerge in maniera evidente dalle ultime sale/mostre proposte di recente. E così arriviamo alla seconda considerazione sull’effettiva dimensione del progetto museale, scortati dal Ghibaudo autore, che ne è altresì il curatore: a oltre vent’anni dalla presentazione della prima sala, nel 2013 Allemandi pubblica una vera e propria Guida al Museo di Storia Innaturale corredandola di una immaginaria Mappa topografica e delle descrizioni di tutti i mono progetti, a quelle date ventuno e con seicentocinquanta opere contenute. Si consideri che, come riferisce nella Guida Paola Boccaletti, «ciascun

le sono stati inclusi anche una Sala video (con in “esposizione” i documentari e docufilm diretti da Ghibaudo tra il 1994 e il 2012), un Bookshop, nonché il libro dei visitatori! Ghibaudo si reinventa antropologo, botanico, via via entomologo, etologo, su tutti teratologo, e dei suoi stessi studî collezionista. C’è da notare che lo sguardo che accomuna tutte le sperimentazioni appare antropometrico, di approfondimento e analisi fantastica sul corpo umano, in termini più estesi sull’umanità. Ghibaudo dapprima inquadra e interpreta la condizione ed evoluzione umana, poi quella delle specie animali in un contesto di insolita alterità. Lavora con la “serie”, non nel senso di una omologante produzione in serie dei pezzi ma declinando il concetto prescelto per quella tale mostra, in più contributi coordinati tra loro e con tutti gli altri nel corso della storia innaturale. La chiave di lettura risulta la contaminazione. Le creature che popolano il Museo possiedono tutte attributi credibili, che abbiano o meno sembianze

Ghibaudo assorbe lo spirito di un altro tempo e con un gioco erudito ci restituisce un alter mundus, con fittizî naturalia e originali artificialia lavoro possiede la perfezione di un’opera conclusa, pensata in ogni dettaglio, dal piedistallo al contenitore per il trasporto, una precisione quasi maniacale nel modo di presentarla, come se ogni piccolo aspetto facesse parte di un pensiero più grande, una visione unica d’insieme. Qual è il segreto per tenere insieme stravaganza e metodicità?». Imbracceremo questa speciale bussola virtuale per muoverci nella carriera di Ghibaudo e apprezzarne il coerente e rigoroso sviluppo; a partire cronologicamente, come si diceva, dall’Antropologia, sono state presentate sale/mostre su nuclei tematici e soggetti di volta in volta diversamente articolati: Natura morta, Botanica, Entomologia, Esemplari rari, Homo Pronto, I trofei, Botanica organica, Le pelli, Etnografia, I diorami, Etnologia, Pesci e anfibi, Etologia, Antropologia culturale, Anamorfosi, I busti, Creature meravigliose, Inchiostri su carta, Nasi d’artista, Sculture in pietra… Inoltre nella concezione del prodotto editoria-

umane, ma subiscono un processo di mutazione futuribile che le rende al contempo irriconoscibili. Sono concepite sulla carta, inchiostrata a pennino senza disegni preparatori, e poi si tramutano e vivono in sculture e installazioni tridimensionali per lo più di grandi dimensioni. «La scultura è gusto del fare nell’esigenza di fare», afferma Ghibaudo, perciò la materia va condotta dall’artista per pensare e ri-pensare le forme e i volumi. È curioso infatti che l’artista si serva, oltre che di diversi altri materiali, di una particolare pasta di cui lui stesso ha trovato la formulazione, che in un certo qual modo asseconda il tempo della fantasia, lungo il tempo di asciugatura. È una miscela di polveri di marmo e cemento bianco unite a resina acrilica che solidifica in otto ore, lasciandogli modo di abbozzare e continuare a modellare, inserire o togliere masse. Il suo bestiario fantastico si costituisce di anomalie e descrive possibili sviluppi ucronici, possibili evoluFINESTRE SULL’ARTE • 93


Cinquecentocinquanta Pesci fuor d’acqua FOTO SOPRA:

Dario Ghibaudo, Cinquecentocinquanta

Pesci fuor d’acqua (Museo di Storia Innaturale, Sala XIII: Pesci e anfibi) (2008; resina poliuretanica, foglia d’argento, pigmenti, plastica, foglie e semi; sostegni in ferro, misure estensibili circa 3/4 m x 100 cm; Collezione Privata Roma; installazione al Castello di Oiron, Francia) 94 • FINESTRE SULL’ARTE

zioni delle figure, anche fitomorfe, dalle caratteristiche eccezionali. L’intenzione è che l’anomalo venga piuttosto percepito prima che visto, come lui stesso riferisce. Si tratta di strani insetti coloratissimi come di bianchi esseri alati o mammiferi che abitano la terra e tanto più le acque, contestualizzati nei loro probabili ambienti, si vedano i Diorami. «Entusiasmanti diletti dell’ibrido», per


dove gli animali sono incroci finanche antropomorfi e i Cinquecentocinquanta Pesci Fuor D’acqua, per esempio, hanno ali di farfalla, foglie, semi, zampe di grillo o di rana. E lì in una natura contaminata, in paesaggi e proporzioni irreali, Ghibaudo compie una battuta di caccia immaginaria portandoci anche trofei e pelli da esposizione. Ebbene, dove poter rintracciare queste mirabilia? Nel suo studio di Milano, presso le gallerie che lo rappresentano e nelle collezioni italiane ed estere che hanno acquisito alcune sue opere, tra cui quella della Fondazione IGAV di Torino, del Mart di Rovereto, della Fondazione VAF di Francoforte e del Kunstmuseum di Stoccarda in Germania, del Castello di Oiron Centro per L’Arte Contemporanea in Francia e del Center for Contemporary Experimental Art di Yerevan in Armenia. Il Museo è esteso e in continuo arricchimento. Gianluca Marziani lo definisce «una gigantesca scultura abitabile tra realtà, eccesso e predizione». Al percorso guidato del 2013 si sono aggiunte altre sale e implementazioni di quelle già proposte, come per la XVIII denominata “Creature Meravigliose”, con nuovi lavori site specific, tra gli altri Magno Subsidio che ha preso spazio a Roma presso Visionarea Art Space nell’Auditorium Conciliazione a fine 2018. Ma vi sono altresì lavori pubblici collocati in maniera permanente, sempre tra gli altri a Cuneo è possibile trovare il suo monumento dedicato al matematico Giuseppe Peano realizzato in peperino, che fa parte della sala XXI delle “Sculture in pietra”. Quello con Ghibaudo è dunque uno stimolante appuntamento periodico, in questo 2019 dalla Biennale dell’Havana a Cuba, passando per Santiago del Cile fino a Berlino dove dal 22 novembre nella Galleria di Luisa Catucci è presente uno nuovo pezzo inedito del suo strabiliante Museo. ◊ dirla con le parole di Isabelle Mallez e Raffaele Milani dal loro saggio Elogio delle aberrazioni. L’uomo è al centro in scala 1:1, la sua biologia è sconosciuta, e insieme al pubblico vive nel limbo di un perturbante dubbio. Di questo mundus nel quale anche la specie umana è mutante, l’artista descrive un erbario e un conservatorio botanico inorganico, un zoo e un acquario

www.museodistoriainnaturale.com

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| GRAND TOUR

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Tre santi eremiti VENEZIA

per Jheronimus Bosch testo di Adam Ferrari

Tra le opere più celebri di Jheronimus Bosch, nonché una delle tre conservate alla Galleria dell’Accademia di Venezia, il Trittico degli Eremiti è un dipinto affascinante e visionario che cattura tutti coloro che lo osservano.

I

l cosiddetto Trittico degli Eremiti, insieme di tre pannelli di cui quello centrale firmato da Jheronimus Bosch (‘s-Hertogenbosch, 1450 circa – 1516), è una delle tre opere del celebre pittore olandese conservate ora presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, nella sala VII (primo piano), a lui dedicata, ove trovano posto anche il Trittico di santa Liberata (licenziato dall’artista

San Girolamo FOTO PAGINA A FIANCO:

Jheronimus Bosch, Trittico

degli Eremiti, pannello centrale con san Gerolamo (1493 circa; tavola, 86,5 x 60 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, cat. 2044) FINESTRE SULL’ARTE • 97


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Trittico degli Eremiti FOTO PAGINA PRECEDENTE:

Jheronimus Bosch, Trittico

degli Eremiti (1493 circa; tavole, 86,5 x 60 cm lo scomparto centrale, 86,5 x 30 cm i laterali; Venezia, Gallerie dell’Accademia, cat. 2044)

Dettaglio FOTO SOPRA:

Jheronimus Bosch, Trittico degli Eremiti,

dettaglio dal pannello di sant’Antonio

a cavallo tra fine Quattro e inizio Cinquecento) e le quattro Visioni dell’Aldilà, ossia le prime tavole a essere stabilmente esposte presso gli ambienti del complesso di Santa Maria della Carità (dal 2010). I due trittici invece sono stati qui trasferiti dopo essere stati ricollocati in Palazzo Ducale in seguito al rientro da Vienna (1919), ove erano stati spediti nel 1838 per diventare parte delle raccolte imperiali presso il palazzo del Belvedere, poi allestite presso il Kunsthisto-

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risches Museum, inaugurato da Francesco Giuseppe nel 1891. Le tavole (oggetto di un accurato restauro iniziato nel 2013 e conclusosi nei primi mesi del 2016, a cura dei Laboratori della Misericordia di Venezia) illustrano momenti della vita di tre santi eremiti, Antonio, Gerolamo e il francese Egidio: datate dalla critica attorno al 1493 (fatta eccezione per Vittorio Sgarbi, che le colloca attorno al 1510), provengono, secondo la storiografia, dalla celebre collezione del cardinale di San Marco, Domenico Grimani (Venezia, 1461 – Roma, 1523), figlio del doge Antonio, che decise di destinare parte della propria raccolta di dipinti e di sculture antiche alla Serenissima, come ringraziamento alla Repubblica e a gloria del buon nome della famiglia. Sono le note manoscritte stese dal nobile letterato Marcantonio Michiel (Venezia, 1484 – 1552), durante le sue ricognizioni territoriali (poi pubblicate nell’anno 1800 con il titolo Notizia d’opere di disegno nella prima metà del secolo XVI), le prime a contenere la menzione di opere di “Ieronimo Bosch” in casa del coltissimo porporato, unico col-


lezionista italiano a possedere un piccolo nucleo di opere dell’olandese e di altri artisti del nord Europa. Il Trittico, assieme ad altri pezzi, venne imballato e depositato in un ambiente del palazzo dogale per poi essere esposto nella Camera del Magistrato alle Leggi (assieme al Trittico di santa Liberata), ove lo vide e lo citò per la prima volta Anton Maria Zanetti (Venezia, 1706 – 1778), bibliotecario della Marciana e

vissero in Egitto, tradotte in olandese in due diverse edizioni, pubblicate nel 1480 e nel 1490. La tavola di sinistra, dedicata ad Antonio abate o eremita, presenta un paesaggio notturno, buio, rischiarato solo da delle luci che rendono visibile la sagoma di diversi edifici in fiamme e di esseri umani intenti nelle operazioni di spegnimento di un incendio. In primo piano il santo, abbigliato con un saio, sta attin-

Il Trittico degli Eremiti, assieme al Trittico di santa Liberata e alle quattro Visioni dell’Aldilà, è una delle tre opere di Jheronimus Bosch conservate alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. appassionato critico d’arte, che lo descrisse nel suo Della pittura veneziana e delle Opere Pubbliche de’ veneziani maestri, stampato in Laguna per i tipi di Giambattista Albrizzi nel 1771. Non è certo che i tre pannelli siano stati ideati e realizzati per essere inseriti in un’unica carpenteria (di cui facevano parte altre due opere, montate ai lati e ora perdute), a causa della diversa concezione e resa dello sfondo abitato dalle figure degli anacoreti, soli, ma attorniati da creature e simboli che alludono all’esistenza e alle qualità degli stessi, ideati ed eseguiti grazie all’inesauribile vena creativa e ironica del pittore, capace di costellare le proprie creazioni di un numero infinito di dettagli, non tutti decifrabili, a volte inquietanti e allucinatorî, apprezzabili maggiormente grazie all’opera di recupero, finanziata dal BRCP – Bosch Research and Conservation Project e dalla Getty Foundation (Los Angeles). Per l’ideazione delle tavole il pittore si è probabilmente ispirato alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (stampata in Olanda, con una discreta fortuna, a partire dal 1478,) che illustra ai capitoli 21, 130 e 146 le vite dei tre santi. Oppure, secondo le parole di Caterina Virdis Limentani, Bosch potrebbe aver avuto sottomano una copia dalle Vitae Patrum, raccolta di biografie stese in lingua latina utilizzando materiale più antico relativo alle vite di eremiti che

Dettaglio FOTO SOPRA:

Jheronimus Bosch, Trittico degli Eremiti,

dettaglio dal pannello di san Gerolamo

gendo dell’acqua da uno stagno in cui è immerso un albero privo di foglie, da cui fa capolino una figura femminile nuda, esibita sotto gli occhi dell’anacoreta (mentre una seconda, vestita, rimane nascosta) grazie ad una piccola figura demoniaca che scosta la cortina rosa, forse un richiamo alle tentazioni a cui venne sottoposto, episodio dalla notevole fortuna iconografica. Nella parte inferiore del pannello invece fanno mostra di sé piccole creature, animali fantastici e piccoli demoni. La rappresentazione di un incendio fa riferimento ai poteri attributi, secondo l’agiografia e la tradizione popolare, alla figura del santo, che FINESTRE SULL’ARTE • 101


Dettaglio FOTO A SINISTRA:

Jheronimus Bosch, Trittico

degli Eremiti, dettaglio dal pannello di san Gerolamo

avrebbe lottato con il demonio all’inferno strappandogli così anime perdute ma, ancor di più, al fuoco di sant’Antonio, nome con cui era conosciuto l’herpes zoster, malattia virale che colpì in maniera violenta la Francia meridionale nell’XI secolo, proprio quando le sue reliquie vennero traslate da Costantinopoli nel villaggio ora chiamato Saint-Antoine-l’Abbaye. La popolazione associò la cessazione dell’epidemia alle preghiere e ai digiuni offerti all’anacoreta, che divenne così identificato come taumaturgo e, nell’anno 1095, gli venne dedicato anche un ordine, quello degli Ospedalieri Antoniani. Il tema dell’incendio e della figura nuda accanto ad un albero spoglio saranno poi ripresi da Bosch all’interno del grande

deserto della Calcide, dove si ritirò tra il 375-376. A dispetto della tradizionale iconografia che lo vuole anziano e barbuto, il maestro olandese lo presenta come un uomo calvo e imberbe, avvolto da un mantello consunto realizzato con della preziosa seta. Il santo è in ginocchio, intento a contemplare un piccolo crocifisso appoggiato ad una pianta cresciuta all’interno di quelle che sono identificabili come rovine di un ambone o di un pulpito, probabilmente resti (compresa la pavimentazione) di un antico tempio pagano o di un primitivo luogo di culto cristiano. L’anacoreta è presentato in una posa diversa da quella ideata per uno straordinario dipinto di poco antecedente o contemporaneo, il San Gerolamo in preghiera, olio su tavola conservato presso il Museum voor Schone Kunsten di Gent dove il santo, spogliatosi della porpora, è sdraiato sulle rocce per essere quasi fisicamente in comunione con Cristo, grazie al crocifisso tenuto tra gli avambracci, a pochissima distanza dal volto e dal naso. Il lato esterno della struttura marmorea semicircolare contenuta

Le tavole del trittico, sottoposte a un restauro tra il 2013 e il 2016, illustrano momenti della vita di tre santi eremiti: Antonio, Girolamo ed Egidio. Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio, una delle opere più celebri e copiate del catalogo del pittore, da lui firmato e datato dalla critica attorno al 1501, donato da Manuele II del Portogallo al Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona. Il pannello centrale, pesantemente ridipinto a causa dei danni dovuti probabilmente a un incendio, è stato concepito con maggior attenzione allo spazio e all’allestimento dei diversi piani che lo compongono. Il protagonista è san Gerolamo, uno dei quattro padri della Chiesa occidentale e autore della Vulgata, collocato da Bosch in un ambiente associabile al

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nel pannello veneziano è decorato con un bassorilievo, contenente la vicenda biblica dell’avvenente vedova Giuditta, che uccise con due colpi di scimitarra Oloferne, generale di Nabucodonosor (Giuditta 13, 4-8), inebriato dal vino e bramoso di possederla: si tratta di un riferimento alla vita ascetica e di rinuncia scelta da Gerolamo, simboleggiata anche dal galero cardinalizio, gettato a terra a fianco della struttura, a indicare il periodo trascorso a Roma come segretario e possibile successore di papa Damaso (382-384). Accanto al crocifisso, vi è una rappresentazione di una figura intenta a catturare un unicorno, simbolo


di purezza, castità e pudicizia, a rimarcare l’integrità morale del santo. Il terzo pannello, che nel paesaggio mostra una sorta di continuità con quello centrale, riporta la figura di sant’Egidio abate, la cui effettiva esistenza non è comprovata da fonti certe ma solo dalla lapide a custodia del suo sepolcro, inglobato poi nella struttura della basilica di Saint Gilles du Gard, la cui iscrizione è datata al X secolo. Ateniese, decise di vivere come eremita in Occitania, dove fondò un monastero che porta tutt’ora il suo nome. Bosch realizza la sua figura secondo la tradizionale iconografia che lo vuole vestito con l’abito benedettino e la tonsura, accompagnato dalla cerva che viveva con lui e che gli forniva il latte con cui nutrirsi. La freccia conficcata nel costato indica l’episodio più famoso della sua leggenda, ossia la battuta di caccia del re dei visigoti, indicato come Flavio o Wanda che si concluse, durante l’inseguimento dell’animale caro all’eremita, proprio con il suo ferimento ad opera del sovrano o di uno dei suoi accompagnatori, forse la figura che si intravede fare capolino nella piccola apertura della caverna in cui l’anacoreta trovava rifugio. La tavola sembra rappresentare, nella posa del santo in ginocchio, oltre che quest’evento (difatti, dopo il feDettaglio rimento, si mise a pregare per affrontare il dolore) FOTO SOPRA: Jheronimus Bosch, Trittico degli Eremiti, anche l’altro accadimento che lo rese popolare nel X dettaglio dal pannello di sant’Antonio secolo: sulla tavola o altare è posato un cartiglio srotolato. Conterebbe, secondo l’agiografia, una colpa di cui si sarebbe macchiato Carlo Martello, il quale sullo sfondo, un piccolo riccio proprio sopra l’apernon ebbe mai il coraggio di confessarsi con l’ana- tura della caverna, un uccello, un cinghiale in basso coreta, invitato a corte proprio con quel proposito. a sinistra e un cranio di bovino. ◊ Apparve così, durante la celebrazione dell’eucarestia in uno dei giorni successivi all’incontro, un angelo che consegnò il documento a Egidio, che poté così assolvere il re. A differenza degli altri due pannelli, qui non sono stati inseriti dal pittore olandese strane www.gallerieaccademia.it creature o oggetti la cui funzione pare essere indecifrabile, ma solo animali: una mucca che pascola FINESTRE SULL’ARTE • 103


| OPERE E ARTISTI

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Le stigmate di san Francesco

l’iconografia nel Trecento da Giotto in poi testo di Ilaria Baratta

Con le sue varie raffigurazioni del tema delle stigmate di san Francesco, Giotto ha rivoluzionato un’iconografia che era ormai entrata nella tradizione, sancendo nuove forme per la rappresentazione di uno degli episodî più importanti dell’agiografia del santo di Assisi.

A

dominare le raffigurazioni pittoriche nell’arte del Trecento erano, oltre alle rappresentazioni della Madonna col Bambino, gli episodî delle vite dei santi riconducibili alle diffuse agiografie. Illustrando in pittura le loro vite, nella maggior parte dei casi nei luoghi più fre-

Giotto, Louvre FOTO PAGINA A FIANCO:

Giotto, Stimmate di san

Francesco (1295-1300 circa; tavola, 313 x 163 cm; Parigi, Louvre, inv. 309)



Giotto, Assisi FOTO SOPRA:

Giotto, Stimmate di san Francesco, dalle Storie

di san Francesco (1290-1292 circa; affresco; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco) 106 • FINESTRE SULL’ARTE

quentati dai fedeli, ovvero nelle chiese e nelle loro più raccolte cappelle, s’intendeva far sì che questi ultimi seguissero strettamente le regole della Chiesa, ammirando l’agire dei


santi e aspirando ad azioni simili, seppur spesso non concretizzandole. Tra questi, una delle figure più amate dai devoti era quella di san Francesco, il poverello di Assisi che, per la particolarità del suo vissuto, poteva parlare a tutti i fedeli, dal più umile al più benestante.

gnificato della sua esperienza. Le scene seguono un andamento perlopiù cronologico, e le situazioni di vita quotidiana, ripresi da tradizioni scritte e orali, s’intrecciano al racconto di eventi miracolosi, evidenziando soprattutto gli aspetti visionarî e mistici, primo su tutti il miracolo delle stigmate. L’episodio

Una delle figure più amate dai devoti era quella di san Francesco, che per la particolarità del suo vissuto poteva parlare a tutti i fedeli, dal più umile al più benestante. Giotto (Firenze?, 1267 circa – Firenze, 1337) rappresentò più volte scene di vita di san Francesco: la narrazione più famosa e dibattuta è quella degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi (del 12901292 circa), considerata anche la più ampia tra i cicli pittorici dedicati alla vita del santo. Per le ventotto scene che compongono il ciclo, Giotto seguì la Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, come si può notare dalle descrizioni sottostanti a ogni scena affrescata (sono infatti citazioni del testo bonaventuriano): tuttavia, il maestro compì, nel suo ciclo, alcune modifiche attraverso le quali intendeva rendere ancora più incisivi alcuni elementi della narrazione a favore di un più chiaro messaggio religioso. A Bonaventura venne commissionato di scrivere, durante il capitolo di Narbona del 1260, una nuova biografia di Francesco, che a breve sarebbe divenuta l’unica: il capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò infatti la distruzione di tutte le precedenti biografie, al fine di eliminare le versioni differenti ricche di dissonanze. Giotto effettuò quindi una vera selezione dalla Legenda Maior, con tagli e modifiche sequenziali, non solo per motivi legati allo spazio e all’architettura della basilica, ma anche per rendere il santo protagonista di un nuovo modo di raccontare la sua esistenza, amplificando il si-

delle stigmate differenzia san Francesco da tutti gli altri santi a lui precedenti e accosta la sua santità a quella di Cristo: nella diciannovesima scena raffigurata, sulla parete sinistra della navata, si assiste

Maestro di San Francesco FOTO A DESTRA:

Maestro di San Francesco, Stimmate

di san Francesco (1260 circa; affresco; Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco)

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dunque alla stigmatizzazione del santo. Il Cristo crocifisso, nelle vesti di serafino, appare a Francesco e dalle ferite del primo si diramano raggi che, in modo simmetrico, colpiscono il corpo di quest’ultimo. Giotto aggiunge inoltre elementi non citati nella Legenda Maior: nella parte destra dell’affresco, davanti a una piccola chiesa, è infatti seduto un frate, presumibilmente Leone, che non osserva direttamente la scena, ma leggendo un libro si pone in relazione con le Sacre Scritture; nella parte sinistra invece si trova un edificio con portale, al di sopra del quale è collocata una lunetta con una croce: si tratta di un’altra chiesa perché al suo interno s’intravedono un altare e un inginocchiatoio; inoltre a differenza di quanto scritto da Bonaventura, la scena non è ambientata nel silenzio eremitico della Verna, bensì in un luogo montagnoso, ma popolato anche dalla presenza degli edifici sacri. Del miracolo si rendono partecipi perciò 108 • FINESTRE SULL’ARTE

l’intera istituzione della Chiesa e l’ordine francescano, non più unicamente Cristo. Rispetto ai suoi predecessori, Giotto fu in grado di rivoluzionare la tradizionale iconografia delle stigmate: i pittori attivi prima di lui raffiguravano l’apparizione celeste sotto forma di un’entità angelica, con corpo coperto da grandi ali, e alla croce alludeva solo la posizione estesa delle braccia e dei piedi di Cristo. Esistono perciò due diversi tipi di iconografia: il serafino privo di croce, e quello con la presenza della croce. Presumibilmente, il Cristo crocifisso simile a

Pietro Lorenzetti FOTO SOPRA:

Pietro Lorenzetti, Stimmate di san

Francesco (entro il 1319; affresco; Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco)


un serafino rimanda al passo dell’agonia di Gesù nel giardino dei Getsemani, quando per confortarlo gli apparve un angelo dal cielo, e mentre Cristo pregava sempre più intensamente, il suo sudore diventava come grosse gocce di sangue che cadevano a terra. Giotto si confrontò, all’interno della stessa Basilica di Assisi, con un più antico e più breve ciclo di affreschi realizzato nel 1260 circa dal cosiddetto Maestro di San Francesco nella chiesa inferiore: qui, le cinque scene dedicate alla vita di Francesco erano poste di fronte alle scene della Passione di Cristo in una sorta di parallelismo. Successivamente al ciclo francescano assisiate Giotto realizzò, per la chiesa di san Francesco a Pisa, la pala della Stigmatizzazione, oggi conservata al Lou-

Taddeo Gaddi FOTO SOTTO:

Taddeo Gaddi, Stimmate di san

Francesco (1335-1340 circa; tempera su tavola, 41 x 31 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia, inv. 1890 n. 8602)

vre (del 1295-1300 circa). La scena riprende molto similarmente quella raffigurata nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi: il Cristo crocifisso in forma di serafino si libra nell’aria apparendo a Francesco, e anche in questo caso dalle ferite di Gesù partono visibilmente raggi che colpiscono le mani e i piedi del santo in modo simmetrico. Sono ancora presenti

FINESTRE SULL’ARTE • 109


sulla destra la piccola chiesa e sulla sinistra, davanti a un paesaggio roccioso alberato, la chiesa di colore rosa con all’interno l’inginocchiatoio, ma il cielo è divenuto dorato e soprattutto non è presente il frate in lettura. Oltre alla grande tavola dipinta, il maestro eseguì la predella con tre scene della vita di san Francesco: il Sogno di Innocenzo III, l’Approvazione della Regola e la Predica agli uccelli. Probabilmente la pala della Stigmatizzazione venne finanziata dalla famiglia Cinquilina, banchieri pisani, i cui stemmi sono ancora visibili sulle pareti di due cappelle del transetto della chiesa di San Francesco a Pisa. Inoltre la pala è firmata dallo stesso Giotto “Opus Iocti Florentini”. Più tarda, databile circa agli anni Venti del Trecento, è invece la Stigmatizzazione 110 • FINESTRE SULL’ARTE

nella Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze: qui Francesco è raffigurato con le braccia aperte e il corpo rivolto interamente verso lo spettatore e Cristo crocifisso presenta ampie ali rosate; il paesaggio è divenuto più roccioso e arido, è stata totalmente eliminata la chiesa nella parte sinistra ed è invece rimasta quella nella parte destra, ma anche in questo caso non è presente la figura del frate.

Pietro da Rimini FOTO SOPRA:

Pietro da Rimini, Stimmate di san

Francesco (1338-1340; tavola, 15 x 20 cm; Indianapolis, Indianapolis Museum of Art)


Rimanendo nella Basilica Inferiore di Assisi, è possibile notare un altro ciclo di affreschi realizzato da uno dei più significativi artisti del Trecento senese: Pietro Lorenzetti (Siena, 1280/85 – 1348). Quest’ultimo rappresentò nel transetto sinistro le Storie della Passione di Cristo, creando, al pari del Maestro di San Francesco nella navata della chiesa inferiore assisiate, un legame tra le storie di Gesù e la vita di Francesco con l’introduzione del Miracolo delle stigmate. Anche in questo caso, Lorenzetti tradusse in pittura la Legenda Maior di Bonaventura, ponendo in primo piano Francesco che nel paesaggio roccioso della Verna riceve le stigmate dal Cristo crocifisso con ali da serafino; il santo inarca la schiena all’indietro in segno di stupore, mentre dalla parte opposta separata da un burrone è fra’ Leone in lettura. È Cristo stesso che attraverso i segni della Passione eleva fino a se stesso Francesco, trasformandolo in un secondo Cristo. Frate Leone era stato tra i primi a narrare dell’apparizione del serafino, confermando il foglio di Francesco che contiene le Laudes Dei Altissimi, senza tuttavia alludere né alla croce né alle stigmate. Questo ciclo di affreschi venne attribuito per lungo tempo da Vasari a Puccio Capanna, a Pietro Cavallini e a Giotto, fino a quando Giovan Battista Cavalcaselle (Legnago, 1819 – Roma, 1897) riconobbe il carattere senese degli affreschi («la composizione nulla ha di giottesco pei tipi, pel disegno, pel panneggiare, come pel colorito, o per la ornamentazione. Basta vederla per ravvisare subito in essa il carattere e la maniera della scuola senese, che ognuno sa quanto varii dalla fiorentina di Giotto e de’ suoi seguaci») e il loro autore in Pietro Lorenzetti, data la vicinanza artistica al polittico Tarlati della Pieve di Arezzo, opera dello stesso artista eseguita nel 1320. Anche uno dei più noti allievi di Giotto, Taddeo Gaddi (Firenze, 1290 – 1366), si mise alla prova con le Storie della vita di Cristo e di san Francesco nelle formelle databili tra il 1335 e il 1340

che decoravano un grande armadio nella sacrestia della Basilica di Santa Croce: una di queste, oggi conservata alle Gallerie dell’Accademia di Firenze, raffigura le Stimmate di san Francesco. Su fondo oro, la formella lobata rappresenta l’evento miracoloso in una maniera molto simile all’affresco giottesco della Cappella Bardi, specialmente nella postura di Francesco, il quale rivolge il corpo completamente verso lo spettatore, apre le braccia in segno di meraviglia mentre volge lo sguardo rapito verso Cristo. Osservando la diffusione del modello giottesco in altre zone d’Italia che furono toccate dalla sua lezione, si può guardare alla Romagna: dello stes-

Paolo Veneziano FOTO SOTTO:

Paolo Veneziano, Stimmate di san

Francesco, dettaglio del Polittico dell’Incoronazione della Vergine (entro il 1349; tempera e oro su tavola; Venezia, Gallerie dell’Accademia)

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so periodo delle Storie di Taddeo Gaddi è l’opera con lo stesso soggetto eseguita da Pietro da Rimini (documentato dal 1324 al 1338), pittore che fu presumibilmente uno dei primi seguaci di Giotto a Rimini. Decisamente giottesco è infatti il suo San Francesco che riceve le stimmate oggi custodito a Indianapolis: la posa del santo inginocchiato con le braccia aperte richiama quello raffigurato nella Cappella Bardi, mentre la posizione di fra’ Leone,

mentre in contrasto appare la tavola centrale, maggiormente bizantineggiante. La scena della stigmatizzazione, ambientata in una grotta come da tipica iconografia veneziana, aggiunge tuttavia un’innovazione, quella del cielo scuro, inserito probabilmente per aumentare l’effetto drammatico della scena. Si tratta inoltre dell’unico episodio veneziano che si trovi nel contesto della narrazione della vita di san Francesco senza che ci siano riferimen-

Il tema della stigmatizzazione di san Francesco ricorre spesso nell’arte trecentesca, in particolare in quegli artisti anche di diversa provenienza che hanno seguito l’influsso rivoluzionario di Giotto. che appoggia il libro sul ginocchio piegato e con l’altra gamba mette in mostra il sandalo, è molto simile a quella nella Basilica Superiore di Assisi. A differenza di entrambe le opere, quella di Pietro da Rimini ha però fondo oro e le aureole di san Francesco e di Cristo sono riccamente decorate. Fa invece parte di un grande polittico la raffigurazione di San Francesco che riceve le stimmate di Paolo Veneziano (Venezia, 1300 circa – 1365 circa), celebre artista attivo a Venezia dal 1333 al 1358. La monumentale opera a tempera e oro su tavola a più ordini, oggi conservata alle Gallerie dell’Accademia, è conosciuta come Polittico di Santa Chiara o Polittico dell’Incoronazione della Vergine, a seconda della sua provenienza o del suo soggetto: il capolavoro di Veneziano proviene infatti dal complesso monastico delle clarisse di Santa Chiara di Venezia e nella tavola centrale è raffigurata proprio l’Incoronazione della Vergine. Attorno a quest’ultima si sviluppano le scene narrative: negli scomparti laterali sono visibili episodî della vita di Cristo, mentre nella parte superiore del polittico si susseguono quattro momenti della vita di san Francesco, tra cui appunto l’episodio delle stimmate, oltre alla Discesa al limbo e alla Pentecoste. Rispetto alle raffigurazioni francescane già citate, la scena risulta a specchio, con Francesco sulla destra e il Cristo in alto sulla sinistra, e più essenziale, in quanto soli protagonisti sono questi ultimi. Inoltre il santo appare inginocchiato, completamente rivolto verso Cristo, davanti al monte della Verna. Nei varî episodî si percepiscono influssi giotteschi, soprattutto in quelli relativi al poverello di Assisi, 112 • FINESTRE SULL’ARTE

ti alla fondazione dell’Ordine o alla sua missione, come accadeva nell’Italia centrale: viceversa, Paolo Veneziano si focalizza sul percorso personale di san Francesco. Il tema della stigmatizzazione di san Francesco ricorre tuttavia spesso nell’arte trecentesca, in particolare in quegli artisti anche di diversa provenienza che hanno seguito l’influsso rivoluzionario di Giotto, portando una grande ondata di novità nella storia dell’arte. ◊

Bibliografia essenziale Serena Romano, Engelbert Grau, Raoul Manselli (a cura di), Francesco e la rivoluzione di Giotto, Jaca Book, 2018 Chiara Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Einaudi, 2010 Claudia Viggiani, L’Italia di Giotto. Itinerari Giotteschi, Gangemi Editore, 2009 Roberto Bartalini, Scultura gotica in Toscana. Maestri, monumenti, cantieri del Due e Trecento, Silvana Editoriale, 2005 Chiara Frugoni, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, Scala, 2003 William R. Cook, La rappresentazione delle stimmate di san Francesco nella pittura veneziana del Trecento in Saggi e Memorie di Storia dell’Arte, 20 (1996), pp. 7, 9-34


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114 • FINESTRE SULL’ARTE


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116 • FINESTRE SULL’ARTE


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Cambi Casa d’Aste Acquasantiera con cornice in legno intagliato e dorato di gusto barocco e rilievi sbalzati (Italia settentrioanle, XVIII secolo; 53 x 40 cm) Stima € 400 / 500 Prezzo realizzato € 1.000

Cambi Casa d’Aste Acquasantiera in legno intagliato e dorato (XVIII secolo; 62 x 43 cm) Stima € 1.000 / 1.200

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Cambi Casa d’Aste Turibolo in argento fuso, sbalzato, cesellato e traforato (Napoli, anni Trenta del Settecento, bollo di garanzia della città; altezza 25 cm) Stima € 1.000 / 1.200 Prezzo realizzato € 3.000

Oggetti di fede: Argenti Cambi Casa d’Aste Turibolo in argento sbalzato e cesellato (Genova, bollo della Torretta per l’anno 1778; altezza 25,5 cm) Stima € 400 / 600 Prezzo realizzato € 1.700

Cambi Casa d’Aste Croce da meditazione in legno ebanizzato e finimenti in argento (XVIII-XIX secolo; 56 x 38 cm) Stima € 1.500 / 2.000 – Prezzo realizzato € 1.400

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Wunderkammer.

Bertolami Fine Arts Crocifisso in corallo scolpito (Trapani, fine XVII secolo; 41 x 26,2 cm) Prezzo di partenza £ 22.000

Bertolami Fine Arts Seguace di Claude Beissonat, Crocifisso barocco in avorio scolpito (ultimo quarto del XVII secolo; 97 x 51 cm) Prezzo di partenza £ 17.000

Cambi Casa d’Aste Corpus Christi in avorio (probabilmente Germania, XVIII secolo; 60 x 38 cm) Stima € 600 / 700 – Prezzo realizzato € 500

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Sculture di fede: Il Cristo

Bertolami Fine Arts Pierre Simon Jaillot, Crocifisso barocco in avorio scolpito (1664; 62 x 42,5 cm) Prezzo di partenza £ 15.000

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| GRAND TOUR

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La Deposizione PARMA

Il capolavoro di Benedetto Antelami testo di Clario Di Fabio


La cosiddetta Deposizione di Benedetto Antelami, importante scultore proveniente dalla valle d’Intelvi e attivo nell’Italia settentrionale tra il XII e il XIII secolo, è uno dei capolavori dell’arte medievale europea. In antico parte dell’arredo architettonico di un pulpito, oggi appesa a una parete nel coro del Duomo di Parma.

N

el coro della Cattedrale di Parma si trova una delle sculture più straordinarie del medioevo italiano ed europeo, la cosiddetta Deposizione, opera di Benedetto Antelami. Il visitatore la vede stagliarsi isolata sulla parete bianca e la percepisce quasi come un “quadro di pietra”. Ma non è un quadro e in origine non stava a muro: era parte integrante di un arredo architettonico che fu poi smantellato e in parte disperso. Si tratta del parapetto di un pulpito (l’arredo dal quale si leggevano i Vangeli e le Epistole), che a un erudito locale del XVI secolo sembrava composto «in forma di Theatro». Presentava infatti almeno altre due lastre figurate maggiori, solo una delle quali (quella con la Maiestas Domini) è ancora conservata, ma assai rovinata, nella Galleria Nazionale insieme a tre stupendi capitelli, figurati con storie della Genesi. I quattro leoni che sorreggevano le colonne sottostanti la cassa del pulpito si trovano invece nel locale Museo Diocesano. Colpisce lo spettatore e gli lascia una forte impressione visiva e intellettuale tanto per la sua solenne logica strutturale e compositiva quanto per la finezza dei dettagli e la ricchezza degli accenti espressivi e per la complessità e la maestria tecnica che denota. Ne sono protagoniste le figure, ovviamente, ma un

Cristo FOTO PAGINA A FIANCO:

Benedetto Antelami,

Deposizione, dettaglio del Cristo deposto

ruolo pervasivo vi ha la scrittura: iscrizioni che non servono solo a riconoscere i singoli personaggi raffigurati, ma anche a dichiarare la gloria e il nome del loro autore. La più lunga e la meglio leggibile, anzi, serve proprio a questo scopo, visto che è collocata nel luogo più evidente, parallela al braccio orizzontale della croce da cui Gesù morto viene schiodato ma al quale per una mano ancora resta fissato. Chi rivolge gli occhi a quel volto e a quella mano non può fare a meno di notarla. Al centro della scena, la presenza della croce (non un’asse levigata, ma un tronco i cui rami sono stati appena recisi), del corpo di Cristo (reso cruciforme anch’esso) e di altre quattro figure, evidentemente scaglionate su piani diversi, fa intendere come lo scultore voglia suscitare uno spazio tridimensionale in cui ambientare le sue figure. Solo questa constatazione basta a chiarire il significato “epocale” di quest’opera: il suo autore è dotato di una ricca dimensione intellettuale, tecnicamente espertissimo (perché egualmente versato nel rilievo e nell’intarsio) e ricerca effetti che si possono dire “d’avanguardia”. A sinistra di chi guarda, sta il gruppo composto dalle Marie e dall’apostolo Giovanni; al centro, il Cristo schiodato da Nicodemo, sorretto da Giuseppe d’Arimatea e tenuto per mano dall’arcangelo Gabriele. Tra queste figure se ne inseriscono altre due, femminili e allegoriche: una è la Chiesa, coronata, recante il calice col sangue di Cristo e un vessillo trionfale, l’altra è la Sinagoga, contrita e col vessillo schiantato, che l’arcangelo Raffaele priva della corona. A destra, il Centurione guarda il Crocifisso e riconosce in lui (afferma la scritta) il Figlio di Dio, mentre lì accanto, un gruppetto di uomini guarda i due che si giocano ai dadi le sue vesti. I due clipei sono gli emblemi del Sole e della Luna. Riscontrandoli coi testi evangelici, si constata che non tutti questi soggetti concernono l’episodio della Deposizione, ma alcuni si riferiscono a quello della Crocifissione: etichettarla, come si fa usualmente, con uno solo di questi due termini non basta perciò a render conto di quel che rappresenta. La scritta che si snoda lungo tutto il margine superiore della parte a rilievo della lastra e rimarca il confine tra il braccio della croce e la fastosa bordura a intrecci vegetali che prosegue poi anche in verticale, dice che il suo autore ne andava fiero. QueFINESTRE SULL’ARTE • 123


124 • FINESTRE SULL’ARTE


Deposizione FOTO SOPRA:

Benedetto Antelami Deposizione

(1178; marmo, 110 x 230 cm; Parma, Cattedrale)

FINESTRE SULL’ARTE • 125


Soldati FOTO SOPRA:

Benedetto Antelami,

Deposizione, dettaglio del gruppo dei soldati che si giocano la veste di Cristo

sto il testo: ANNO MILLENO CENTENO SEPTUAGENO OCTAVO SCULTOR PAT[RA]VIT M[EN]SE SECU[N]DO ANTELAMI DICTUS SCULTOR FUIT HIC BENEDICTUS; che significa: «Nell’anno mille

cento settanta otto lo scultore terminò [questo lavoro] nel secondo mese», cioè quello di aprile visto che a Parma (come a Pisa, a Firenze, a Padova e

Lo scultore si chiamava dunque Benedetto e portava, non un vero e proprio cognome (per nulla diffuso, a quell’epoca), ma un appellativo, “Antelami”, che in realtà è un complemento di specificazione geografica e che lo dichiara membro della corporazione di muratori e costruttori detti magistri Antelami, ovvero “maestri di Intelvi”, dal nome di un’area boscosa tra il lago di Lugano e quello di Como. Da fine XI secolo, costoro si erano stanziati a Genova, città in rapido e tumultuoso sviluppo urbano ed edilizio, e soltanto qui vennero così denominati. Erano solo “maestri di muro e di legname”, che non trattavano il marmo e soprattutto non lo scolpivano. Quando dovevano utilizzarlo, se lo facevano fornire

La cosiddetta Deposizione di Benedetto Antelami è una delle sculture più straordinarie del medioevo italiano ed europeo. altrove) l’anno cominciava il giorno dell’Incarnazione (l’Annunciazione), il 25 marzo. E poi conclude: «Questo scultore fu Benedetto detto Antelami». Quindici parole in tutto (nell’originale latino), sei delle quali usate per precisare la data e solo una ripetuta due volte: SCULTOR. 126 • FINESTRE SULL’ARTE

dal committente. Quando costui voleva inserti scultorei a carattere decorativo o figurativo in una chiesa o in una loggia, convocavano “a gettone” uno o più scultori, scegliendoli fra quelli già presenti sulla piazza: genovesi, italiani e anche qualche straniero, venuto dall’Oltremonti. Si limitavano a metterli in opera. Nessuno diventava magister Antelami in quan-


to scultore, anche se qualche magister Antelami (com’è ovvio) poteva essere versato anche in questo campo. Come Benedetto, che ne andava fiero. Anzi, fierissimo, visto che nell’epigrafe appena letta lo afferma e

ria. Facoltosa, ben insediata nelle aree privilegiate della città, strategicamente posizionata nella riviera di Levante in modo da controllare larghe porzioni di territorio in aree afferenti alla rete di strade

Questa scultura lascia una forte impressione visiva e intellettuale tanto per la sua solenne logica strutturale e compositiva quanto per la finezza dei dettagli e la ricchezza degli accenti espressivi e per la complessità e la maestria tecnica che denota. lo ribadisce. Senza millantare nulla, come s’è visto. Perché non restò a lavorare a Genova? Perché andò a proprio Parma? Sono curiosità che è legittimo nutrire. A domande del genere, solo di rado si può rispondere, se il contesto epocale è quello del Medioevo. Ma questo è un caso fortunato, perché, se non si hanno certezze ineccepibili, si possono almeno suggerire ipotesi probabili, fondate su dati, vicende, nessi storici e circostanze fattuali. Benedetto si trasferì a Parma insieme a Opizzo Fieschi, membro di una delle consorterie feudali (i conti di Lavagna) più grandi e potenti dell’intera Ligu-

che, scavalcato l’Appennino, portano alla pianura attraversata dalla via Emilia. Se già controllavano il Capitolo della Cattedrale di Genova, nel Duecento i Fieschi diventarono strapotenti anche nella Curia romana e diedero alla Chiesa ben due pontefici. Il loro legame con Parma è stretto: ne controllavano il Capitolo e si imparentarono con famiglie locali

Sinagoga FOTO SOTTO:

Benedetto Antelami, Deposizione,

dettaglio della Sinagoga

FINESTRE SULL’ARTE • 127


eminenti. Per i loro cadetti, Parma fu un trampolino di lancio verso incarichi ecclesiastici prestigiosi: anche per Opizzo, che nel 1178 vi si recò per assumere quello di arcidiacono. Ne diverrà vescovo nel 1194, insediandosi sulla cattedra scolpita qualche anno prima da Benedetto stesso, che nel 1196 di nuovo scelse, anche come architetto e capocantiere, per un incarico prestigiosissimo: erigere sulla piazza della Cattedrale un grandioso e “moderno” battistero, ricco di statue e di rilievi. Il Fieschi fu, insomma, il talent scout di Benedetto: ne scoprì le doti e lo presentò al vescovo di Parma, Bernardo II, che solo nel 1175 aveva concluso il restauro del suo palazzo, in un frangente storico davvero aspro: nel 1174 Federico Barbarossa cala in Italia per la quinta volta e assedia Alessandria; nel 1176, sconfitto a Legnano, deve trattare col Papa; due anni dopo si firma la pace di Venezia; nel 1179 si apre a Roma il III Concilio Lateranense. Autorevoli studiosi leggono riferimenti ai conflitti, alle

tensioni e alle speranze di quel momento storico nella maggior parte dei soggetti della lastra, scelti e composti non secondo gli usuali nessi narrativi, ma in una logica allusiva e simbolica. Se così fosse, la Crocifissione/Deposizione di Benedetto Antelami sarebbe stata, davvero, in tutti i sensi, un’opera di “arte contemporanea”. ◊

www.piazzaduomoparma.com

Marie FOTO SOTTO:

Benedetto Antelami, Deposizione,

dettaglio del gruppo delle Marie

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128 • FINESTRE SULL’ARTE


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I reliquiarî di Limoges PISA

del Tesoro della Cattedrale di Pisa

Oggetti raffinatissimi prodotti da orafi di Limoges del XIII secolo, i reliquiarî in rame dorato e inserti in smalto del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa si mostrano in una sala rinnovata che esalta la loro preziosità.

R

ame, fini dorature, inserti in smalto blu, azzurro e verde. Sono i materiali con cui abili orafi di Limoges realizzarono, agli inizi del XIII secolo, due splendidi reliquiarî a cofanetto che oggi si conservano presso le rinnovate sale del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa: i due cofanetti limosini, in particolare, sono ora esposti nella sala 13,

Reliquiario della pilurica di san Ranieri FOTO PAGINA A FIANCO:

Manifattura di Limoges,

Reliquiario delle pilurica di san Ranieri (inizî XIII secolo; rame dorato con inserti in smalto, 26,5 x 25 x 9,5 cm; Pisa, Museo dell’Opera del Duomo)


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Sala 13 La nuova Sala 13 del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, dove sono custoditi i due reliquiarî.

132 • FINESTRE SULL’ARTE


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in dialogo con l’impressionante Cristo proveniente da un gruppo scultoreo di una Deposizione e straordinaria opera in legno di uno scultore borgognone del XII secolo. Quasi la stessa età dei due reliquarî di Limoges, che si presentano alla vista con una particolare forma architettonica (tanto che molti studiosi li identificano come “reliquiarî a basilica”), che ricorda una chiesa, con i santi inquadrati da archi sostenuti da esili colonne: erano un oggetto tipico della manifattura religiosa limosina tra il XII e il XIII secolo.

ne. Completano la “facciata” del reliquiario gli scomparti laterali in cui trovano posto otto figure di santi. Altri santi decorano i lati del cofanetto, mentre nella parte posteriore al centro troviamo Cristo in una mandorla tra i simboli degli evangelisti, attorniato da due angeli e otto santi. L’altro reliquiario, grande circa la metà di quello elaborato per le pietre della Terra Santa, non è certo meno fine: la struttura è simile a quella del maggiore e, nella parte anteriore, presenta ancora una Crocifissione con la Madonna e san Giovan-

Oggetti simili erano il vertice di una fiorente produzione che da Limoges si diffuse in tutta Europa, dal momento che agli artigiani limosini provenivano richieste da ogni parte del continente. Già in antico, questi due eleganti oggetti facevano parte del Tesoro della Cattedrale di Pisa, attorno al quale s’è costituito il Museo dell’Opera del Duomo: siamo certi del fatto che vi entrarono già all’epoca in cui furono prodotti. Anche perché erano destinati ad accogliere due preziose reliquie che si conservano a Pisa: quello di maggiori dimensioni doveva racchiudere le pietre della Terra Santa, mentre il più piccolo era stato concepito per custodire un frammento in lana ruvida della pilurica di san Ranieri. Ranieri Scacceri, vissuto tra il 1118 e il 1162 e secondo la tradizione canonizzato da papa Alessandro III, sarebbe divenuto patrono di Pisa solo nel 1632, ma già in tempi antichi il suo culto era diffuso in città: stando alle agiografie, Ranieri, dopo aver deciso di vivere nella più assoluta povertà, da eremita, si spogliò dei suoi beni e indossò la pilurica, un povero abito tipico dei penitenti, e trascorse un lungo periodo di eremitaggio in Terra Santa. L’altra reliquia, le pietre del Golgota, arrivò a Pisa all’epoca delle Crociate: stando alla tradizione, alcune provengono dal monte Calvario, altre dal sepolcro di Cristo. Il più grande dei due reliquiarî presenta, al centro, nello scomparto cuspidato, la scena della Crocifissione (con Cristo affiancato dalla Madonna e da san Giovanni), che doveva rimandare al contenuto del reliquiario: ai piedi della croce assistiamo invece alla resurrezione dei morti, mentre sui lati della cuspide l’orafo ha raffigurato l’Annunciazio134 • FINESTRE SULL’ARTE

ni ai lati di Cristo in croce, mentre gli scomparti laterali sono occupati dalle figure di quattro santi, anch’essi sotto archi. Nel registro superiore, al centro Dio, in una mandorla, è colto nell’atto di benedire, ed è affiancato da due santi. Sotto al crocifisso, un’iscrizione c’informa della destinazione originaria dell’oggetto: «DE PILURICA S. RAJNERII CONF. PIS.». La parte posteriore è invece decorata con croci racchiuse entro tondi. In entrambi i reliquiarî, negli spazî tra una figura e l’altra, trovano posto fantasiose decorazioni: motivi vegetali, fiori di varî colori, girali d’acanto, onde, fasce colorate. Oggetti simili erano il vertice di una fiorente produzione che da Limoges si diffuse in tutta Europa, dal momento che agli artigiani limosini provenivano richieste da ogni parte del continente: così, oggi ritroviamo oggetti come i due reliquiarî di Pisa in molti musei, dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra all’Italia, per non parlare di quelli che, prese le vie del collezionismo, oggi figurano in raccolte di musei americani o australiani. Al successo di questa produzione contribuirono sia la bellezza degli oggetti prodotti dagli artigiani di Limoges, sia la poca concorrenza che la manifattura aveva sul mercato, sia la relativa economicità dei reliquiarî, favorita dalla nuova tecnica dello smalto a champlevé, che rappresentava un’evoluzione di tecniche più antiche: gli artigiani, dapprima, incidevano la superficie della lamina di metallo con


Reliquiario delle pietre FOTO SOPRA:

Manifattura di Limoges, Reliquiario delle

pietre della Terra Santa (inizî XIII secolo; rame dorato con inserti in smalto, 38 x 53,5 x 17 cm; Pisa, Museo dell’Opera del Duomo)

una puntasecca o con un bulino per ricavare il disegno. Se ne ricavavano delle cavità (“alveoli”) che poi sarebbero state riempite con paste vitree ancora umide: l’ultimo passaggio, quello della cottura, dava allo smalto il suo aspetto finale (previa levigatura da parte dell’artigiano). Il successo dello champlevé era dovuto al fatto che era meno costoso e meno laborioso del cloisonné: se la tecnica dello champlevé procedeva, in certo modo, per sottrazione (dal momento che la lamina veniva incisa), quella del cloisonné prevedeva invece un’addizione,

poiché gli alveoli da riempire con la pasta vitrea erano ricavati tra gli spazî ricavati tra i sottili listelli di metallo che venivano applicati sulla superficie dell’oggetto. Piccole opere d’arte d’oreficeria, cui probabilmente guardavano anche i... colleghi: secondo lo studioso Cristiano Giometti, la scena di Crocifissione del reliquiario delle pietre probabilmente era nota all’orafo che, nel XIII secolo, realizzò la Croce dei Pisani, un altro pregiato pezzo d’oreficeria, una croce in rame dorato e argento parzialmente dorato, anch’essa tra i principali oggetti del Tesoro della Cattedrale, e che oggi è esposta nella sala 19 del nuovo Museo. Per continuare il racconto di una produzione d’oreficeria sacra che nel museo pisano conosce vette di grande finezza. ◊

www.opapisa.it

FINESTRE SULL’ARTE • 135


| ATTUALITĂ€

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Nuova luce FIRENZE

per il Beato Angelico testo di Ilaria Baratta

Si sono da poco conclusi i restauri di due importanti capolavori del Beato Angelico: il Giudizio universale e la Pala di San Marco. GiĂ ricollocati nella sala che ospita le opere del grande fratepittore nel Museo Nazionale di San Marco a Firenze.


I

n occasione del centocinquantesimo anniversario del Museo di San Marco, splendido complesso museale fiorentino, due tra i più bei capolavori del Beato Angelico (Fra’ Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro; Vicchio, 1395 circa – Roma, 1455), il Giudizio universale e la Pala di San Marco, hanno fatto ritorno, dopo due accurati restauri, nella Sala dell’Ospizio, circondati da altrettante opere di straordinaria qualità. Entrare nella Sala dell’Ospizio, denominata così perché destinata a ospitare i pellegrini più umili, significa immergersi totalmente nell’arte del monaco pittore, poiché qui sono custodite le sue maggiori opere fiorentine: tra queste, la Pala di Annalena, il Tabernacolo dei Linaioli, l’Annunciazione, la Deposizione, il Trittico di San Pietro martire; dunque una sorta di museo monografico dell’artista quattrocentesco che, a sua volta, fa parte di

e decorazioni raffinate dorate per le aureole e le vesti dei personaggi. Preziosità, raffinatezza, vivacità, cura nei dettagli e particolarità creativa sono gli elementi che provocano meraviglia in chiunque si soffermi a osservare l’opera in ogni sua minima parte. Inoltre, sia dal punto di vista della struttura che dal punto di vista dell’iconografia stessa del Giudizio universale, il dipinto è insolito e differente rispetto a opere dello stesso tema. «Già nell’aspetto, l’opera si presenta diversa dal solito perché possiede questa forma trilobata per la quale, tuttora, non abbiamo trovato una spiegazione convincente», ci spiega la direttrice del Museo di San Marco, Marilena Tamassia. E aggiunge: «in passato si è provato a dare spiegazioni plausibili: lo stesso Vasari affermò che siccome il Giudizio si trovava vicino al sedile dove si diceva messa, poteva essere identificato come uno schienale di sedile. Ipotesi improbabile, dato che

Il Giudizio universale e la Pala di San Marco del Beato Angelico sono stati restaurati in occasione del centocinquantesimo anniversario della fondazione del Museo di San Marco. un meraviglioso complesso architettonico, il convento domenicano di San Marco, che custodisce la più grande collezione al mondo di opere dell’Angelico. Oltre ai capolavori già citati, l’edificio conserva uno straordinario ciclo di affreschi a tema sacro nelle celle del secondo piano, che l’artista realizzò negli anni in cui lavorò nel convento, tra il 1438 e il 1445. Si comprende dunque l’importanza storico-artistica di questo capolavoro architettonico voluto da Cosimo de’ Medici ed edificato tra il 1437 e il 1443 da Michelozzo. Quanto alle due opere appena restaurate, si può cominciare dal Giudizio universale, la prima a veder terminato l’intervento: il dipinto, che si mostra di nuovo ai visitatori nella sua monumentale presenza, potrebbe essere definito una sorta di pagina miniata di grandi dimensioni, in cui il pittore diede il meglio di sé nel rappresentare uno dei temi più ricorrenti della storia dell’arte. Fra’ Angelico, frate domenicano con un grande talento nel dipingere soggetti sacri caratterizzati da una raffinata luminosità che invadeva l’intera superficie pittorica e i minimi dettagli, come vesti e aureole, e da un colorismo vivace, utilizzò per questo dipinto i tradizionali materiali delle botteghe fiorentine di primo Quattrocento: tempera a base d’uovo mescolata a pigmenti brillanti e preziosi, quali il blu di lapislazzuli,

la struttura complessiva risulta in realtà troppo larga e troppo stretta. E ancora, non può essere un sedile anche per un altro motivo: per il punto di vista che richiede una veduta ravvicinata, per cui riguardo alla collocazione, anche se l’opera era custodita nella cappella maggiore, doveva comunque essere inserita in un contesto che ancora oggi resta indefinibile. Un’altra particolarità del capolavoro sta nell’iconografia, poiché si nota la compresenza di profeti, ovvero di personaggi del Vecchio Testamento e del Nuovo Testamento, mentre di solito sono presenti solamente i santi e le figure che sono venute dopo la nascita di Cristo. Probabilmente questa mescolanza si deve anche all’influsso di Ambrogio Traversari, personaggio erudito in Santa Maria degli Angeli che aveva un’idea molto colta dei santi e del tema della morte e della resurrezione». In alto, in posizione centrale, è Cristo giudice che domina la scena sottostante racchiuso in un cerchio di angeli; ai suoi lati, siedono la Madonna e san Giovanni

Cristo FOTO PAGINA A FIANCO:

Beato Angelico, Giudizio

Universale, dettaglio del Cristo

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Giudizio universale FOTO SOTTO:

Beato Angelico, Giudizio Universale (1425-

1428; tempera su tavola, 105 x 210 cm; Firenze, Museo Nazionale di San Marco)

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Battista, seguiti da dodici santi e profeti per ogni parte. Qui, personaggi del Vecchio Testamento, quali Adamo, Abramo, Mosè, Abele, David, si accompagnano ad apostoli e ai santi fondatori degli Ordini. Due angeli dell’apocalisse suonano le trombe per risvegliare i morti. Il Giudizio si concentra nei gesti delle mani di Cristo:

la folla dei beati e la folla dei dannati. I primi si apprestano a varcare la porta della Gerusalemme Celeste, luogo di luce divina, ma prima s’intrattengono in un’armonica danza insieme ad angeli che li prendono per mano in un rigoglioso giardino. I secondi sono invece minacciati e picchiati da strane creature dalle

Il restauro sia conservativo che estetico del Giudizio universale ha avuto una durata complessiva di nove mesi, da dicembre 2018 a settembre 2019, e si era reso necessario per la presenza di materiali estranei: un insieme di patine alterate e sporco di deposito che si era accumulato sulla superficie pittorica. con la sua mano destra con il palmo verso l’alto invita i beati a entrare nel Paradiso, mentre con la sua mano sinistra, girando il palmo verso il basso, dà i dannati in pasto alle figure mostruose che popolano l’Inferno. La scena sottostante è divisa in modo definito da due file di tombe scoperchiate che fanno da spartiacque tra

Le tombe FOTO SOPRA:

Beato Angelico, Giudizio Universale,

dettaglio delle tombe 140 • FINESTRE SULL’ARTE

reminiscenze dantesche e costretti ad addentrarsi in un macabro Inferno a più piani. C’è chi viene stretto da serpenti, chi morde se stesso e chi si morde reciprocamente, chi è costretto a non mangiare anche se seduto attorno a un tavolo imbandito; e ancora, chi è costretto a ingerire oro fuso, chi è cucinato a puntino dentro un pentolone e infine chi è divorato sadicamente dal Lucifero a tre teste. Le fiamme invadono tutto quanto. Le varie scene appaiono tutt’oggi incisive, sottolineando la valenza pedagogica di una vita vissuta secondo i dettami della chiesa, grazie ai colori brillanti e alla lu-


minosità che pervade il capolavoro dell’Angelico. «Il restauro», afferma ancora la direttrice, «ha liberato il dipinto da tutti gli ingiallimenti, da tutte le vecchie vernici e ridipinture che l’avevano reso come sordo; c’era anche una patina giallastra che lo ricopriva. Oggi è quindi possibile rivedere di nuovo i colori vividi e squillanti, tersi e argentini del Beato Angelico e ammirare questo cielo che si apre al centro del Giudizio con la prospettiva delle tombe scoperchiate, per poter godere appieno della centralità del tema del Giudizio universale». Il restauro sia conservativo che estetico ha avuto una durata complessiva di nove mesi, da dicembre 2018 a settembre 2019, e si era reso necessario per la presenza di materiali estranei: un insieme di patine alterate e sporco di deposito che si era accumulato sulla super-

Diavolo FOTO SOTTO:

Beato Angelico, Giudizio Universale,

dettaglio di un diavolo che insegue un dannato

I dannati FOTO PAGINE SEGUENTI:

Beato Angelico, Giudizio

Universale, dettagli dei dannati all’Inferno

ficie pittorica, provocando un notevole affievolimento della luce tipica dell’arte di Beato Angelico, e un effetto di appiattimento della composizione prospettica del dipinto. Il precedente restauro dell’opera, ad eccezione di manutenzioni periodiche, era stato compiuto nel 1955, in occasione delle mostre che si tennero in Vaticano e a Firenze per il cinquecentenario della morte dell’artista. Nel corso degli anni Cinquanta, Gaetano Lo Vullo, noto restauratore diretto dal soprintendente Ugo Procacci, aveva infatti rimosso le vernici ingiallite e i ritocchi alterati, ma aveva deciso di non asportare la patina sottostante in quanto troppo rischioso per la salute del quadro, dati gli strumenti a disposizione in quell’epoca. Nel corso degli ultimi interventi eseguiti dalla restauratrice Lucia Biondi sotto la direzione di Marilena Tamassia, oltre alla superficie pittorica, è stata analizzata mediante radiografie la struttura lignea del capolavoro composta da quattro assi in legno di pioppo disposte orizzontalmente, riscontrando fenditure da ritiro del legno che percorrevano l’opera in tutta la sua larghezza, non visibili prima di smontare il dipinto dalla teca di vetro di protezione. Grazie al restauro, finanziato dal Rotary Club Firenze Certosa e da altri club rotariani, è stata quindi recuperata nel migliore dei modi un’opera fortemente esem-

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La danza dei beati FOTO SOPRA:

Beato Angelico, Giudizio Universale,

dettaglio della danza dei beati

plificativa dell’arte e della tecnica dell’Angelico, nonché notevolmente particolare nella sua struttura lignea. Benché frutto di osservazioni e annotazioni relative a tutti questi aspetti, le indagini non hanno condotto tuttavia a una risoluzione delle questioni sulla sua origina144 • FINESTRE SULL’ARTE

le collocazione e sulla sua reale funzione. Come già affermato dalla direttrice del Museo, Vasari l’attesta vicino all’altare maggiore, dove il sacerdote stava seduto durante la messa, all’interno del convento di Santa Maria degli Angeli; nonostante ciò, tenendo conto della sua prospettiva che necessita di una visione da vicino, ad altezza di sguardo, l’opera fu cambiata di posizione. Quel che risulta con ogni probabilità certo è che il capolavoro che l’Angelico realizzò tra il 1425 e il 1428 fosse destinato alla cappella maggiore dell’edificio religioso, sul cui altare maggiore era già presente l’Inco-


ronazione della Vergine di Lorenzo Monaco. Inoltre la maggior parte della critica accosta la novità iconografica messa in campo da Beato Angelico nel porre insieme figure del Vecchio e del Nuovo Testamento al frate e successivamente priore di Santa Maria degli Angeli, Ambrogio Traversari; uomo dalla cultura raffinata, esperto di patristica, che conosceva il mondo classico, soprattutto quello filosofico-letterario, e che propugnava l’unione tra chiesa cattolica latina e bizantina. Un’idea di pace e fratellanza che lui stesso presumibilmente affidò all’abilità pittorica dell’artista.

La stessa ambientazione delle scene, sia nel caso della natura lussureggiante dove danzano i beati e gli angeli che nel caso della terra arida e deserta della parte centrale dove sono raffigurate le due file di loculi e della terra rocciosa delle grotte dove si consumano i dannati, sarebbe una citazione colta: il Paradiso viene spesso rappresentato come un giardino e l’aridità viene frequentemente associata all’Inferno. Il numero delle tombe scoperchiate invece rimanderebbe a simbologie che Traversari conosceva, ovvero il dieci che è il numero pitagorico perfetto e il nove che rappresenta la nona sfera celeste dantesca. Un capolavoro di cui è possibile apprezzare i singoli particolari in tutta la loro vivacità e stranezza, dopo un restauro che ha permesso di dare nuovo respiro all’abilità pittorica di Beato Angelico e a uno dei più significativi capitoli della storia dell’arte italiana quattrocentesca. Ma accanto al restaurato Giudizio universale di Beato Angelico, nella Sala dell’Ospizio domina ancora più monumentalmente un altro capolavoro del frate domenicano: si tratta della celeberrima Pala di San Marco che l’Angelico realizzò tra il 1438 e il 1443. Come ha affermato il direttore del Polo Museale della Toscana, Stefano Casciu, «con il ritorno della Pala di San Marco nella Sala dell’Ospizio si ricostituisce al completo nel Museo di San Marco quell’insieme unico al mondo di opere su tavola del Beato Angelico». Ritorno reso possibile dallo splendido, complesso e lungo restauro compiuto dall’Opificio delle Pietre Dure, proprio in occasione dei 150 anni dalla nascita del Museo, istituito il 15 ottobre 1869. Questo capolavoro è considerato un «testo fondante della pittura del Rinascimento fiorentino»: eseguito per l’altare maggiore della chiesa di San Marco, dopo che Cosimo e Lorenzo de’ Medici riuscirono a ottenere il patronato della cappella maggiore affidandone il rinnovamento a Michelozzo, possiede una straordinaria struttura compositiva. Il Beato Angelico aveva infatti realizzato e unito almeno ventisei dipinti, tra la pala centrale, i santi dei pilastrini e gli scomparti della predella, e inoltre si deve immaginare questa monumentale opera a circa tre metri e mezzo d’altezza sull’altare. Di tutti i dipinti che compongono la Pala di San Marco però se ne sono conservati solo diciotto, custoditi in nove musei diversi. Se nel caso del Giudizio universale dello stesso artista rimane tuttora indefinita la sua originaria collocazione FINESTRE SULL’ARTE • 145


Pala di San Marco FOTO A SINISTRA:

Beato

Angelico, Pala di San Marco (1438-1443; tempera su tavola, pannello centrale 220 x 227 cm; Firenze, Museo Nazionale di San Marco)

e la sua reale funzione, in questo caso ci troviamo di fronte a un’opera della quale resta incerta la sua composizione complessiva, a causa del suo smembramento e della perdita della carpenteria che l’articolava e la racchiudeva. La tavola centrale di forma quadrata era racchiusa tra pilastrini decorati con figure di santi. Oggi se ne cono-

Medici, san Lorenzo, che saluta con la mano alzata l’osservatore, san Giovanni Evangelista, protettore di Giovanni di Bicci, il padre di Cosimo e di Lorenzo de’ Medici (detto “il Vecchio” per distinguerlo dal Magnifico), e san Marco che mostra il suo Vangelo a Giovanni. Il Vangelo è aperto all’episodio in cui Gesù insegna nella sinagoga lasciando meravigliati i dottori e

La Pala di San Marco, testo fondante del Rinascimento fiorentino, era composta da almeno ventisei dipinti diversi, tra la pala centrale, e i diversi scomparti. scono solo otto, sparsi in musei di tutto il mondo: san Tommaso d’Aquino, san Bernardo, san Girolamo, san Rocco, san Romualdo, san Pietro martire, sant’Antonio abate, san Vincenzo Ferrer. Al centro della tavola principale è raffigurata una Sacra Conversazione, dove otto angeli e otto santi dialogano in maniera naturale attorno alla Madonna in trono col Bambino. Il trono è un’edicola coperta in larga parte da un drappo in broccato dorato. Gli angeli e i santi sono suddivisi in due gruppi, alla sinistra e alla destra del trono: si riconoscono il protettore di Lorenzo de’ 146 • FINESTRE SULL’ARTE

successivamente invita gli apostoli a mettersi in viaggio portando solo un bastone; episodio che allude alla missione dell’Ordine domenicano di predicare. E ancora, san Domenico, fondatore dell’Ordine, che guarda san Francesco e che insieme a san Pietro martire si rivolge alla Madonna col Bambino. I due santi inginocchiati in primo piano sono invece Cosma e Damiano, che rappresentano in realtà gli stessi committenti: il primo guarda l’osservatore invitandolo ad ammirare la scena con un gesto della mano, il secondo è rivolto di spalle all’osservatore per rivolgersi direttamente alla Madon-


na in segno di misericordia. I gesti di entrambi, santi protettori dei Medici, richiamano un tragico evento che colpì la famiglia: Lorenzo de’ Medici morì il 23 settembre 1440, e non riuscì a vedere completata la meravigliosa pala d’altare che aveva commissionato insieme al fratello Cosimo; il capolavoro venne terminato prima dell’Epifania del 1443, in occasione della quale la chiesa e l’altare maggiore su cui dominava la pala vennero consacrati alla presenza di papa Eugenio IV e di tutti i cardinali. La Pala di San Marco intendeva segnare il momento culminante della committenza medicea per mostrare l’impegno della famiglia verso la chiesa e il convento, ma sfortunatamente solo Cosimo ebbe l’opportunità di vedere concretizzato il loro progetto. Da notare il tappeto anatolico con motivi geometrici e zoomorfi che impreziosisce la scena in cui avviene la Sacra Conversazione e il piccolo quadro in basso con la Crocifissione. Nella predella era invece raccontata la vita dei santi protettori medicei, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, con al centro la Pietà, ma il museo custodisce solo due scomparti degli otto che costituivano l’intera predella, ovvero la Sepoltura dei santi Cosma e Damiano e la Guarigione del diacono Giustiniano. Non solo per l’impostazione, ma anche per il colorismo e le meravigliose dorature, lo stesso Vasari aveva defini-

to l’opera «bella a meraviglia»: colori puri, quali il viola tenue, il verde, o mescolati con il bianco per ottenere i rosa e gli azzurri; la foglia d’oro per le dorature. Colori che sono stati compromessi tra il XVIII e il XIX secolo da un pesante restauro compiuto con la soda o altri materiali abrasivi che hanno provocato la scomparsa delle velature e dei passaggi di toni e la perdita di brillantezza. Alcune aree sono state corrose: è il caso del Bambino, dei volti e delle aureole di san Francesco e di san Pietro martire e soprattutto del verde del giardino; le campiture di blu lapislazzuli sono state fortemente alterate, facendo diventare l’azzurro cristallino un blu cupo. La foglia d’oro ha per la maggior parte resistito all’aggressione caustica; le dorature che decoravano i tessuti o impreziosivano le pieghe delle vesti sono state eliminate superficialmente. In seguito a questo disastroso restauro si è cercato con successivi interventi di risolvere la situazione, ma il risultato è stato quello di appesantire l’aspetto complessivo e di affievolire ancora maggiormente la luminosità, carattere fondamentale della pittura di Beato Angelico.

Sacra Conversazione FOTO SOTTO:

Beato Angelico, Pala di San Marco,

dettaglio della Sacra Conversazione

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Cosma e Damiano Beato Angelico, Pala di San Marco, dettaglio dei santi Cosma e Damiano

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L’alta qualità dei materiali scelti e la grande sapienza esecutiva e pittorica dell’artista, testimoniate dal disegno pulito e definito sottostante gli strati di pittura, hanno fatto sì che, nonostante la consapevolezza di alcuni punti perduti per sempre, la pala d’altare potesse trovare una nuova armonia e lucentezza. Nel corso del restauro compiuto dall’Opificio delle Pietre Dure e realizzato da Caterina Toso è stato rimosso tutto ciò che appariva estraneo alla pittura di fra’ Angelico: sono state quindi eliminate vernici ingiallite, patine pigmentate, velature estese, alleggerendo cere e resine impregnanti dove possibile, dopo aver eseguito una campagna diagnostica e dopo aver rintracciato immagini d’archivio per rendersi conto ulteriormente dello stato originale dell’opera. Si è provveduto inoltre al restauro del supporto ligneo portato a termine da Ciro Castelli, Luciano Ricciardi e Andrea Santacesaria: questo è costituito di sette assi in pioppo e rinforzato sul retro da tre traverse in abete. La pala presenta un sistema di costruzione innovativo, poiché si basa su un legame solido tra tavolato e traversa, ma in grado di lasciare una possibilità di movimento trasversale al tavolato. Era un sistema innovativo sia per il periodo che per l’artista stesso, che fino a quel momento aveva dipinto su supporti tipicamente medievali. Come innovativa era anche la forma quadrata dell’opera e l’idea di costruire, all’interno di un’architettura classica, elementi indipendenti tra loro: la tavola poggiava su una predella, era affiancata da pilastrini ed era sormontata da un architrave, ma complessivamente era una struttura autoportante. A causa dello stato fortemente compromesso della tavola per lo smontaggio della intera pala e la distruzione del contesto architettonico originale, si è reso necessario, oltre al risanamento strutturale, anche la creazione di un sistema di controllo elastico delle deformazioni. Considerata la massima espressione della produzione artistica di Beato Angelico, la Pala di San Marco, nella Sala dell’Ospizio, si unisce agli altri capolavori dell’artista, creando un ambiente di straordinario splendore. ◊

Madonna col Bambino FOTO A SINISTRA:

Beato Angelico, Pala di San Marco,

dettaglio della Madonna col Bambino FINESTRE SULL’ARTE • 151



| DENTRO LA MOSTRA

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Bernardo Strozzi GENOVA

La conquista del colore testo di Federico Giannini

Un’approfondita lettura delle più recenti scoperte d’archivio e un focus sull’attività giovanile di Bernardo Strozzi sono i due temi principali della mostra Bernardo Strozzi 1582-1644. La conquista del colore (a Genova, Palazzo Nicolosio Lomellino, fino al 12 gennaio 2020), interamente dedicata al grande pittore genovese.

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gni scoperta scientifica, scriveva Popper nella sua Logic of Scientific Discovery riprendendo Bergson, contiene un qualche elemento irrazionale o un’intuizione creativa. Vale per la scienza, ma siamo certi valga anche per l’arte, soprattutto nel momento in cui consideriamo una scienza la storia dell’arte. E la storia della “riscoperta” degli affreschi di Bernardo Strozzi (Genova o Campo Ligure, 1582 – Venezia, 1644) in Palazzo Nicolosio Lomellino ci offre un luminoso esempio di come, talvolta, una nuova conquista sia frutto non soltanto di studio e raziocinio (Popper, del

resto, era anche convinto del fatto che non esistano metodi logici per elaborare nuove idee), ma anche d’intuizione e circostanze fortuite. La stessa storica dell’arte che riportò alla luce gli affreschi, Mary Newcome Schleier, era convinta che il rinvenimento fosse dovuto «a una

Martirio di santa Lucia FOTO PAGINA A FIANCO:

Bernardo Strozzi, Martirio di

santa Lucia (1608-1611 circa; olio su tela, 237 x 161 cm; Campo Ligure, chiesa della Natività di Maria Vergine)

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Gesù e la samaritana FOTO SOPRA:

Bernardo Strozzi, Gesù e la samaritana

(1613-1615 circa; olio su tela, 95 x 112 cm; Collezione privata)

serie di casualità»: così scriveva nel saggio pubblicato appena dopo che si poté tornare ad ammirare il lavoro di Strozzi nell’edificio di Strada Nuova. La studiosa si trovava infatti a Genova quando, ricordava, le fu proposto di soggiornare in affitto in alcune camere del piano nobile del Palazzo, e memore d’alcune recenti intuizioni sull’attività dell’artista nell’edificio, propose ai proprietarî d’indagare cosa si celasse dietro l’intonacatura delle stan154 • FINESTRE SULL’ARTE

ze. Pochi anni prima, due sacerdoti archivisti avevano condotto delle ricerche decisive: nel 1981, Luigi Alfonso aveva pubblicato un documento fino ad allora mai preso in considerazione dagli studiosi di Bernardo Strozzi, e dal quale s’apprendeva che, per ordine del committente degli affreschi, il marchese Luigi Centurione, antico proprietario del palazzo, il muratore Battista Fontana aveva imbiancato «le volte di due stanze sopra il portico del palazzo […] di strada nuova» affinché Bernardo Strozzi le ridipingesse. Evidentemente, le pitture che l’artista aveva iniziato non avevano incontrato il gradimento del facoltoso cliente. In un paio di sale gli affreschi furono pertanto scialbati (sono quelle con l’Allegoria della Navigazione e l’Allegoria dell’Astrologia: probabilmente, incompiuti


o portati avanti da altri artisti, furono nuovamente celati alla vista dal momento che vennero ritrovati sotto alcuni strati d’intonaco), mentre in una terza (quella con l’Allegoria della Fede che sbarca nel Nuovo Mondo) l’opera venne gradita e non subì rifacimenti: tuttavia, nel Settecento, quando l’edificio passò a Giovanni Luca Pallavicini, prese avvio un’impegnativa ristrutturazione, e anche l’affre-

frescò alcune sale nella casa di Luigi Centurione posta in via Garibaldi; sappiamo pure che il Centurione tali affreschi fece dealbare e “sopradipingere” da altro pittore. Sappiamo anche che l’intonaco, pur ridipinto, conserva i precedenti affreschi [...] Possibile che a nessuno sia venuto in mente di “saggiare” quelle volte e parete per rintracciare i dipinti dello Strozzi?».

Per la prima volta, le sale che Bernardo Strozzi affrescò tra il 1623 e il 1625 per il marchese Luigi Centurione ospitano una mostra dedicata all’artista. sco integro, quello della camera centrale del piano nobile, venne nascosto da una controsoffittatura. Il secondo dei sacerdoti archivisti menzionati poc’anzi, Venanzio Belloni, nel 1990 ipotizzò che sotto le intonacature più recenti dovevano celarsi delle opere di Strozzi: «Sappiamo con certezza», scriveva in un suo articolo dedicato a Giuseppe Catto, cognato di Bernardo Strozzi, nonché pittore attivo nel cantiere del palazzo, «che lo Strozzi af-

La domanda di Belloni avrebbe ottenuto risposta solo dieci anni dopo, e quel qualcuno cui sarebbe venuto in mente di “saggiare” le volte fu Mary Newcome Schleier, che propose d’intraprendere alcuni lavori per verificare se davvero, sotto la calce che copriva le volte, fossero rimasti gli affreschi del “Prete genovese”. La sua sensazione si rivelò felice, e gli affreschi poterono riemegere: «il ritrovamento più emozionante», ricordava la studiosa

Vocazione di Pietro e Andrea FOTO A DESTRA:

Bernardo

Strozzi, Vocazione di Pietro e Andrea (1608-1615 circa; olio su tela, 124,3 x 158 cm; Collezione privata)

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nel 2004, «fu quando, dopo aver forato il controsoffitto della camera centrale, apparvero il volto e la mano di una figura femminile, più tardi identificata come la Fede»: è il personaggio centrale dell’Allegoria della Fede che sbarca nel Nuovo Mondo, il primo a esser ritrovato. Le sale che Bernardo Strozzi decorò, tra il 1623 e il 1625, ospitano adesso, per la prima volta, una mostra a lui dedicata: si tratta di Bernardo Strozzi 1582 – 1644. La conquista del colore, rassegna a cura di Anna Orlando e Daniele Sanguineti (fino al 12 gennaio 2020 presso le sale del piano nobile di Palazzo Nicolosio Lomellino a Genova), che si pone l’obiettivo di rileggere l’attività del pittore (attraverso una cinquantina di dipinti esemplificativi) alla luce delle ultime scoperte documentarie, di cui si dà puntualmente conto nel catalogo. Si comincia coi

Antonio da Genova (era il 1599: non sono sopravvissute note che la riportino con esattezza, ma la s’evince da altri dati), i termini del fondamentale soggiorno a Milano, sulla scorta del rinvenimento, da parte di Maria Cristina Terzaghi nel 2010, d’una testimonianza che lo riguarda direttamente, la presenza dell’artista in città (la collazione delle varie fonti ha permesso di stabilire dove l’artista dimorasse e avesse bottega per buona parte del suo lungo periodo di permanenza a Genova: com’è noto, Strozzi lasciò definitivamente la patria nel 1633 per trasferirsi a Venezia, e il testamento della sorella Ginetta, datato 22 settembre 1632, è l’ultimo documento che menziona l’artista in Liguria). Non è stata invece accertata l’origine del cognome “Strozzi”, che sappiamo usato anche da altri membri dalla famiglia (ovvero dalla sorella, e dalla

I recenti ritrovamenti archivistici hanno permesso di fare il punto sul vero nome dell’artista, sul suo contesto familiare, su molti dei suoi spostamenti. ritrovamenti archivistici di Andrea Lercari, risalenti al 2017, che hanno permesso di ricostruire con più precisa dovizia certi passaggi della biografia di Bernardo Strozzi e di chiarire alcuni punti oscuri: a cominciare dal cognome, “Strozzi”, inusuale per un genovese. Dalle ricerche condotte da Anna Orlando, Agnese Marengo e Flavia Gattiglia sul materiale d’archivio (in parte già noto, ma in quest’occasione riletto secondo una visione d’insieme) s’è appreso che in realtà il vero cognome di Strozzi era Pizzorno (questo sì di chiara origine ligure): è stata dunque confermata l’ipotesi che già nei primi anni 2000 andava sostenendo lo storico locale Massimo Calissano. Sempre Calissano, peraltro, aveva proposto d’individuare nella località di Campo Ligure il luogo di nascita dell’artista: al momento però le indagini sui documenti non hanno dato definitiva evidenza circa questo punto. Ancora, le ricerche eseguite in occasione della mostra hanno potuto confermare il contesto familiare nel quale Bernardo crebbe (i genitori, come attestano gli antichi biografi, erano di umili origini, ma forse erano legati in qualche modo a certe famiglie nobili, come parrebbe da alcuni documenti: non sappiamo però in che termini, e a ciò s’aggiunga che ancora non s’è appurato quale fosse la professione del padre Pietro), la data d’ingresso di Bernardo Strozzi nel convento dei locali cappuccini (con tutta probabilità quello di San Barnaba) come fra’ 156 • FINESTRE SULL’ARTE

madre Ventura): probabile che a “prestargli” il cognome fosse stato un amico, il poeta Giulio Strozzi (Venezia, 1583 – 1660), con cui il pittore era familiare a Venezia ma che forse conobbe già prima (anche perché il cognome Strozzi è attestato a partire dal 1609). Si tratta, tuttavia, solo d’un’ipotesi, così come rimane una congettura l’idea che l’artista sia stato costretto a cambiar nome per ragioni giudiziarie o legate alla sua condizione di frate: questi passaggi rimangono ancora da chiarire. Conosciamo invece in maniera piuttosto approfondita l’ambiente artistico nel quale Bernardo Strozzi si formò: lo storiografo Raffaello Soprani, nelle sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi, indica come maestro del futuro cappuccino il toscano Pietro Sorri (San Gusmè, 1556 circa – 1622), salvo poi evidenziare, nella biografia di Cesare Corte (Genova, 1550 – 1613), che quest’ultimo fu anche maestro di Strozzi. Certo è più interessante porre l’accento sull’alunnato presso Sorri, dacché la notizia ci dà modo di meglio valutare le connessioni di Strozzi con il milieu toscano di stanza a Genova verso fine Cinquecento. Connessioni icasticamente riassunte da Luisa Mortari, autrice, negli anni Sessanta, della prima monografia dedicata all’artista: citandolo come allievo di Sorri (che è documentato a Genova tra il 1596 e il 1598 e che fu allievo del manierista senese Arcangelo Salimbeni), Soprani «veniva ad affermare implicitamente l’esistenza


Cirsto davanti a Caifa FOTO SOPRA:

Bernardo Strozzi, Cristo davanti a Caifa

(1612-1615 circa; olio su tela, 110,3 x 148,3 cm; Milano, Collezione Superti Furga)

di una stretta relazione tra lo Strozzi adolescente e il nutrito gruppo dei toscani operante a Genova sullo scorcio del secolo: relazione che avrà notevoli e durature ripercussioni su tutto intero l’itinerario artistico del pittore», come ricordava Mortari in un pionieristico scritto pubblicato nel 1955 sul Bollettino d’Arte. Si parla d’artisti come Aurelio Lomi, il Cigoli, Cristoforo Roncalli, le cui opere genovesi certamente il giovane Strozzi conosceva. E ancora, s’è concordi nel ritenere fondamentale per la sua formazione anche un testo eccezionale come la Crocifissione che Federico Barocci (Urbino, 1535 – 1612) licenziò nel 1596 per la cappella Senarega nella Cattedrale

di San Lorenzo. Un ulteriore avanzamento cronologico, agli anni del soggiorno milanese (tra il 1609 e il 1611), consente d’includere tra le fonti figurative di Bernardo Strozzi anche i pittori attivi sulla scena lombarda al tempo, su tutti Giulio Cesare Procaccini (Bologna, 1574 – Milano, 1625) e il Cerano (Giovanni Battista Crespi; Romagnano Sesia, 1573 – Milano, 1632). Tutti spunti così sintetizzati da Roberto Longhi: «esce lo Strozzi da’ più arguti tra manieristi quali furono i settari del Baroccio del grido d’un Vanni, d’un Salimbeni; e da’ milanesi benaffetti del Mazzola, siccome i Cerani e i Procaccini: da loro asserva per gran tratto di sua vita que’ toni franchi, agri talvolta, quasi tratti da succhi d’erbe, comunissimi a’ genovesi». A dar parzialmente conto del crogiolo culturale nel quale si formò Strozzi è il primo dipinto che i visitatori incontrano in mostra: un Cristo e la samaritana, che rappresenta una delle più recenti aggiunte al catalogo strozziano, ch’è stato pubblicato da Sanguineti nel 2001 FINESTRE SULL’ARTE • 157


San Giovannino FOTO SOPRA:

Bernardo Strozzi, San Giovannino (1605-1609

circa; olio su tavola, diametro 16,5 cm; Collezione privata)

e che viene per la prima volta esposto in occasione della rassegna di Palazzo Nicolosio Lomellino. Il pubblico viene qui introdotto a una delle più evidenti caratteristiche della maniera di Bernardo Strozzi: i volti vivaci e pieni, morbidi, quasi sempre rubicondi, con nasi lunghi e occhi grandi ed espressivi. La delicatezza, gli atteggiamenti sentimentali, gli arrossamenti dei volti rendono manifeste le ascendenze senesi e richiamano, ancor più che le figure di Pietro Sorri, quelle d’un collaboratore di quest’ultimo, Alessandro Casolani (Mensano di Casole d’Elsa, 1552/1553 – Siena, 1607), come giustamente nota nel suo saggio a catalogo lo storico dell’arte Andrea Spiriti, secondo il quale il giovane Strozzi poté compiere una visita alla Certosa di Pavia, dove i due conterra158 • FINESTRE SULL’ARTE

nei toscani lavorarono assieme agli albori del secolo XVII. Ancora, nell’individuare ulteriori interessi che il pittore genovese poté maturare a Milano, Spiriti segnala il Morazzone (Pier Francesco Mazzucchelli; Morazzone, 1573 – Piacenza, 1626), che per il Cristo e la samaritana potrebbe aver fornito il tipo iconografico, poiché l’opera del cappuccino presenta i due personaggi affrontati esattamente come appaiono nell’opera omologa della Pinacoteca di Brera data a Mazzucchelli (anche se non tutti sono concordi sull’attribuzione, così come manca l’accordo sulla data di realizzazione della tela braidense). Lombardo è poi anche il modo di trattare i panneggi, che in molti dipinti di Strozzi sono rigidi, squadrati, «quasi cartacei» come li definì Luisa Mortari (s’osservino, per esempio, le vesti con cui il Cerano abbiglia i personaggi che popolano i suoi dipinti). Se per il Cristo e la samaritana i curatori propongono una datazione al 1613 circa, più precoce è un’opera che s’ammira immediatamente dopo, il Martirio di santa Lucia


dipinto con tutta probabilità tra il 1608 e il 1611 (queste almeno sono le date che si possono ricavare confrontando i documenti), e a lungo ritenuto la prima pala di Bernardo Strozzi che ci sia pervenuta. Uno dei punti più sottolineati da Orlando e Sanguineti è la precedenza cronologica del Martirio di san Sebastiano della chiesa di No-

ciate. Se i colori accesi e i forti chiaroscuri rimandano alla formazione tosco-genovese, sempre da leggere in chiave lombarda è, scrive il curatore, «l’irruenza della comunicazione del martirio» che, «attraverso poche ma ingombranti figure, giunge a un più pacato livello di centralità spaziale con la santa, emergente da quel-

Bernardo Strozzi si formò nell’alveo della pittura tosco-genovese, guardando anche ai grandi pittori attivi a Milano al tempo: Procaccini, il Cerano, il Morazzone. stra Signora Assunta a Rossiglione Inferiore, che effettivamente appare opera decisamente più acerba rispetto al Martirio di santa Lucia, conservato presso la chiesa della Natività di Maria Vergine a Campo Ligure, borgo di cui era originaria la famiglia Pizzorno. Se l’opera di Rossiglione (non presente in mostra) è di palmare derivazione tardomanierista, a diverse istanze risponde invece l’opera di Campo Ligure, date le sue numerose affinità con la pittura milanese. L’impostazione rimanda al Martirio di sant’Agnese di Procaccini oggi custodito in collezione Borromeo a Isola Bella (ma fino al 1755 nel Duomo di Milano, dove il genovese l’avrà di sicuro veduto): come il pittore d’origini bolognesi, Strozzi raffigura la sua santa al centro, in atteggiamento estatico, lo sguardo rivolto al cielo, le braccia aperte ad accogliere la divinità, i caduti ai suoi piedi, mentre il carnefice le s’avventa contro col pugnale, anch’egli in piedi, sopraggiungendo alla destra della santa, mentre la folla di curiosi e soldati s’assiepa tutt’attorno. La composizione di Strozzi differisce per il minor affollamento e per la volontà di semplificare lo schema: secondo Sanguineti si nota, in quest’intenzione, il riflesso dell’apprendistato presso Cesare Corte, pittore noto per le sue composizioni molto semplici e ben bilan-

la pastosa e materica luminescenza di fondo che, con sprezzatura tizianesca, suggerisce le fiamme crepitanti ordinate dall’arconte Pascasio per dare avvio al supplizio». Deriverebbero poi dal Cerano certe figure (come

Compianto sul Cristo morto FOTO SOTTO:

Bernardo Strozzi, Compianto sul Cristo

morto (1613-1616 circa; olio su tela, 99 x 122,5 cm; Genova, Accademia Ligustica di Belle Arti)

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Miracolo di san Diego FOTO A DESTRA:

Bernardo Strozzi,

Miracolo di san Diego (1624 circa; olio su tela, 287 x 185,5 cm; Levanto, chiesa dell’Annunziata)

quella del carnefice, simile a un personaggio dell’Incoronazione di spine già a Milano in Santa Prassede e oggi in collezione Borromeo: val la pena comunque ribadire che, per tutti i dipinti, i confronti vanno condotti in absentia dal momento che in mostra non figurano opere d’artisti del contesto), e secondo un’ipotesi sollevata da Anna Orlando sarebbe da scorgere l’autoritratto d’un Bernardo Strozzi all’incirca ventisettenne o poco più nel personaggio che compare alle spalle dell’aguzzino che trafigge col pugnale la santa. Un’interessante Vocazione di Pietro e Andrea di collezione privata introduce l’affascinante tema dei rapporti tra Bernardo Strozzi e Caravaggio, con cui la critica s’è a lungo misurata. In questo caso siamo in presenza della copia d’un dipinto del Merisi, che però Strozzi reinterpreta secondo la propria sensibilità (si noti l’aragosta nelle mani di Pietro, assente nell’originale). Non è dato sapere dove il pittore avesse visto l’opera di Caravaggio, né siamo certi del fatto che si sia davvero esercitato sull’originale: dal momento che, com’è noto, Cesare Corte fu un assiduo copista di Caravaggio, ogn’ipotesi è aperta. Tanto più che Strozzi non sembra esser stato particolarmente recettivo al fascino delle opere di Caravaggio, benché non manchino esempî in tal senso, per quanto tutti circoscrivibili a un limitato torno d’anni: in mostra si possono ammirare, ad esempio, il Cristo davanti a Caifa,

il cui verismo potrebbe essere indice d’una qualche meditazione di Strozzi sull’opera del pittore lombardo, o il San Giovannino pubblicato (ed esposto per la prima volta) nel 2018 in occasione della mostra Caravaggio e i genovesi (a Genova, Palazzo della Meridiana), dove il corpo del santo bambino è modellato dalla luce come avveniva nelle opere caravaggesche. Il contatto più ravvicinato che Strozzi poté avere con Caravaggio (al di là d’un giovanile viaggio a Roma) fu sicuramenMadonna col Bambino e i santi Erasmo, te nella casa del facoltoso collezionista GioChiara e Nicolò vanni Carlo Doria e in quella del fratello di quest’ultimo, Marcantonio, entrambi appasFOTO PAGINA A FIANCO: Bernardo Strozzi, Madonna col Bambino e sionati di pittura caravaggesca: Marcantonio i santi Erasmo, Chiara e Nicolò (1620-1621; olio su tela, 250 x 166 aveva anche portato a Genova l’ultima opera cm; Voltri, chiesa di Sant’Ambrogio) dipinta da Caravaggio, il Martirio di sant’Orsola

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(attualmente presso le Gallerie d’Italia di Napoli), con cui Strozzi necessariamente si misurò nel produrre il suo Martirio di sant’Orsola oggi in collezione privata. Sull’interesse di Strozzi per Caravaggio s’accendono opinioni diverse: in questa sede, Anna Orlando ribadisce la sua idea d’uno Strozzi che «esplora precocemente il mondo del Caravaggio in tutti i modi e sotto ogni aspetto formale e sostanziale», assimilando e rielaborando «con geniale autonomia e meraviglioso estro» le conquiste caravaggesche. Di diverso avviso Alessandro Morandotti, che nella fondamentale mostra L’ultimo Caravaggio del 2017 s’era espresso in termini opposti: scriveva lo studioso che «se i confronti sono spesso solamente compositivi (il Martirio di sant’Orsola […] ne è un esempio) e raramente sostanziali (così nella Vocazione dei santi Pietro e Andrea […]), non è certo il quadro della Ligustica a farci ricredere circa il sostanziale disinteresse di Strozzi per la cultura caravaggesca». Il “quadro della Ligustica” cui faceva riferimento Morandotti è il Compianto sul Cristo morto presente anche alla mostra di Palazzo Nicolosio Lomellino: per lo storico dell’arte romano, il Compianto strozziano è da porre in relazione con Barocci e Procaccini, e in particolare con il Procaccini del Cristo morto pianto dalla Maddalena già nella collezione di Giovanni Carlo Doria e oggi nella chiesa di Nostra Signora della Neve a Bolzaneto. In questa sede, il giovane studioso Gabriele Langosco ricorda, intanto, come la tela offra «lo spunto per definire i punti di riferimento della cultura figurativa del maestro, generatasi nell’internazionalità del tardo manierismo: Milano,

con Procaccini e Cerano (molto ceranesca è la Vergine); Siena, con Vanni e Salimbeni; le stampe di artisti come Jacques Bellange e Abraham Blomaert, per il “ritmo sofisticato e prezioso” della modulazione dei panneggi». Dopodiché, Langosco rimarca gli eventuali punti di contatto con l’ambiente caravaggesco (già ribaditi da Anna Orlando alla mostra di Palazzo della Meridiana: il taglio orizzontale à la Manfredi, le figure a tre quarti, il ruolo della luce). Sulla questione, in sostanza, c’è ancora forte disaccordo. A proposito della prima (nonché più ampia e forse più interessante) delle quattro sale di cui si compone la rassegna genovese, può risultare interessante aprire una parentesi sulla primissima attività dell’artista: Soprani, nelle sue Vite, scriveva che Strozzi, da frate cappuccino del convento di San Barnaba, «solea ad ogni modo spender qualche hora del giorno nella gradita professione dipingendo qualche devota tavolina e rappresentando in essa qualche mezza figura di san Francesco, d’una santa Chiara o altro santo del Paradiso». Alcune di queste “devote tavoline” figurano anche in mostra: talune sono di recente attribuzione, talaltre invece hanno una storia critica più lunga, come nel caso d’un singolarissimo San Giovannino pubblicato già da Luisa Mortari nel 1966. Si tratta d’un tondino, dipinto probabilmente su quello ch’era in precedenza il coperchio di una scatoletta, che offre al pubblico un tangibile esempio degli esordî del Prete genovese: pitture realizzate su materiale di recupero, raffiguranti mezzi busti di santi, di carattere devozio-

Parabola del convitato a nozze FOTO PAGINA A FIANCO IN ALTO:

Bernardo Strozzi,

Parabola del convitato a nozze (1635; olio su tela, 127 x 190 cm; Firenze, Galeria degli Uffizi)

Parabola del convitato a nozze FOTO PAGINA A FIANCO IN BASSO:

Bernardo Strozzi,

Parabola del convitato a nozze (1635; olio su tela, 136 x 191 cm; Genova, Accademia Ligustica di Belle Arti)

Sacra Famiglia con san Giovannino FOTO A DESTRA:

Bernardo Strozzi, Sacra Famiglia

con san Giovannino (1642-1643 circa; olio su tela, 82 x 105 cm; New York, Adam Williams Fine Art)

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nale, rivolte verso gli esiti più aggraziati del manierismo toscano. Con un salto d’una ventina d’anni ci si volge alla parete dirimpetto sulla quale troneggia il Miracolo di san Diego, inserito, si suppone, per completare il quadro dei riferimenti di Bernardo Strozzi con un capolavoro maturo: fu realizzato nel 1624 per la chiesa dell’Annunziata di Levanto, dove tuttora si trova, e committente era un levantese, Pietro Antonio Guano, la cui famiglia deteneva il giuspatronato d’una cappella intitolata a san Diego d’Alcalá. Illuminata con vigore dall’aureola del santo spagnolo («un cerchio di energia sprigionato dalla sua mente», la definisce Sanguineti), l’opera, forte d’un ardito taglio diagonale, d’accesi contrasti cromatici, d’una composizione sulla quale giganteggia il religioso in posa solenne e a far da fulcro di tutto il dipinto mentre unge i fedeli pronti a ricevere il miracolo dal suo olio taumaturgico, denota una certa conoscenza della maniera di Rubens, che soggiornò a più riprese a Genova nella prima decade del Seicento. Una conoscenza dimostrata dal colorito caldo e pastoso, e da alcune riprese formali: i due poveri che sopraggiungono da sinistra sono quasi un calco di quelli che, invece, arrivano da destra nei Miracoli di sant’Ignazio del maestro fiammingo conservati nella chiesa del Gesù, nel capoluogo ligure. Dopo la seconda sezione, che si concentra sul Bernardo Strozzi “privato” (in particolar modo sulle nature morte, che rappresentano uno dei più recenti fronti di ricerca attorno al pittore ligure, anche in virtù delle ultime attribuzioni, alcune delle quali esposte a Palazzo Nicolosio Lomellino, e sulla ritrattistica: c’è un piccolo focus sui ritratti eseguiti per la famiglia Raggi, ma il tema è di vasta portata, meritevole d’una mostra a sé, e certo travalica gli esempî che punteggiano la sala), si passa alla terza, nella quale, proprio sotto l’Allegoria della Fede che sbarca nel Nuovo Mondo (un sistema di specchi installato per l’occasione consente ai visitatori d’indugiare su ogni singolo dettaglio), si dispongono alcune interessanti opere dello Strozzi “pubblico”, dell’artista in grado di raggiungere quel successo che però gli avrebbe procurato anche numerosi grattacapi, a cominciare dal processo istruito contro di lui alla fine del 1625 (secondo l’accusa, avrebbe esercitato abusivamente la professione d’artista, data la sua condizione di sacerdote: gli veniva contestata la conduzione d’un’attività «ad mercedem et pro negotio», oltre all’uso di creare composizioni con soggetti profani, cosa non permessa neppure a un dilettante, qualora avesse vestito l’abito talare), e financo dalla lite che lo 164 • FINESTRE SULL’ARTE

Allegoria della pittura FOTO SOPRA:

Bernardo Strozzi, Allegoria della pittura

(1636 circa; olio su tela, 130 x 94 cm; Genova, Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola)

vide opposto in tribunale a quello stesso Luigi Centurione che gli aveva commissionato gli affreschi sotto i quali oggi si dipana l’esposizione. Quello meglio conservato è anche l’affresco dal più spiccato carattere celebrativo, nonché vertice iconografico dell’intero ciclo: la donna che impersona la Fede (nella quale s’è voluta riconoscere Ginetta Strozzi) è in piedi sulla prua d’un naviglio che sta per toccare terra, accompagnata da due angeli e sorretta dai quattro evangelisti, mentre un uomo già sbarcato, che altri non è che Cristoforo Colombo (capace dunque d’esprimere il suo doppio ruolo di scopritore dell’America e d’evangelizzatore), con indosso vesti recanti i colori dello stemma Centurione (a completare un’identificazione araldica che passa attraverso la figura stessa della fede: motto della famiglia è “Sola fides sufficit”) la prende delicatamente per un braccio onde aiutarla a metter piede nel Nuovo Continente. Attorno, si dispiegano scene di vita delle popolazioni native, che furono forse causa di litigio tra il pittore e il marchese: probabilmente,


spiega Sanguineti, Centurione «si sarebbe aspettato che gli indios possedessero quegli atteggiamenti eroici […] conferiti da Tavarone nel ciclo di palazzo De Ferrari Chiavari. Invece Strozzi aveva illustrato […] una teoria molto feriale del popolo del Nuovo Mondo: posizionati nei pennacchi a gruppi di tre, gli indios sono intenti a impieghi ricorrenti nella loro quotidianità, come la caccia,

dell’aggiornamento in chiave veronesiana della pittura di Strozzi: le cromie tenui e luminose che ricorrono ai colori complementari, i fondali in cui compaiono architetture rinascimentali, il nitore dell’atmosfera. Dei due bozzetti per la composizione, quello conservato all’Accademia Ligustica dovrebbe essere il più recente: con uno scorcio più accentuato, con le architetture ar-

Verso il finale, l’esposizione presenta alcune interessanti testimonianze del Bernardo Strozzi “pubblico”. la pesca, la difesa, la vita domestica, gli affetti familiari e perfino, secondo la mentalità europea, il cannibalismo». Sono tuttavia scene che palesano una grande «vivacità esecutiva»: la stessa che riscontriamo nella Madonna con Gesù Bambino e i santi Erasmo, Chiara e Nicolò (variamente datata dalla critica: in mostra si propende per il 16201621 circa), dove la scena viene suggestivamente illuminata dalla fiaccola che sant’Erasmo tiene in mano e che attira anche il Bambino che, quasi sfuggendo al controllo della madre, la impugna guardando negli occhi il santo sotto di lui. La straordinaria inventiva di Bernardo Strozzi, che raggiunge esiti altissimi nella pala di Voltri, non sarebbe venuta meno neppure durante l’ultima fase della sua carriera, quella che s’aprì nel 1633, dopo la sua fuga dal convento e il conseguente trasferimento a Venezia, città dove l’artista si recò per scampare ai suoi guai giudiziarî. Le opere della fase matura dell’artista sono quelle che concludono l’itinerario espositivo: si parte dalla penultima sala con le opere relative all’impresa della Parabola del convitato a nozze, ovvero due progetti, eseguiti a olio su tela, e un bozzetto a grandezza naturale, preparati in vista del telero che Strozzi avrebbe dovuto eseguire per la chiesa dell’Ospedale degli Incurabili nella città lagunare. L’opera colpisce anzitutto per il suo forte sottinsù (e del resto non poteva essere altrimenti, data la destinazione del dipinto finito) e per gli elementi che dànno conto

Allegoria della Fede che sbarca nel Nuovo Mondo FOTO PAGINA A FIANCO: Bernardo Strozzi, Allegoria della

Fede che sbarca nel Nuovo Mondo (1623-1625; affresco; Genova, Palazzo Nicolosio Lomellino)

retrate e con figure più isolate, forse il pittore intendeva suscitare effetti di maggior coinvolgimento. Se la Sacra Famiglia con san Giovannino ammanta d’opulenza veneziana un impianto sostanzialmente vandyckiano (segnatamente per via del taglio diagonale e del campo ravvicinato), l’Allegoria della pittura, con la quale si può chiudere la mostra (benché cronologicamente non sia una delle opere più estreme tra quelle esposte a Palazzo Nicolosio Lomellino), è tra i massimi e più celebri simboli del soggiorno in laguna del pittore (anche in virtù della sua storia recente, dacché è stata acquistata nel 2017 dallo Stato per la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola): l’arte in cui Strozzi eccelse s’incarna in una donna florida e sensuale, che si fa anche simbolo della mondanità e della libertà di Venezia. Fuori dalla mostra (che si distingue soprattutto per due aspetti, ovvero l’organicità con cui è stato vagliato il materiale d’archivio, che ha dunque permesso d’aggiornare la biografia dell’artista, e l’affondo sulla sua attività giovanile, con il plus di poter osservare le opere sotto i suoi affreschi), chi voglia darsi a un’ipotetica “giornata strozziana” troverà agio di recarsi di fronte a Palazzo Nicolosio Lomellino, ovvero a Palazzo Rosso, dov’è custodito il più importante nucleo di opere di Bernardo Strozzi in un museo pubblico, per il quale, in occasione della mostra, è stato approntato un percorso ad hoc. Un finale d’anno, dunque, di grande fermento per un pittore a proposito del quale tanto ancora rimane da cercare e da scrivere (in questo senso la rassegna va forse vista come una buona tappa intermedia, stante anche il carattere ipotetico di molte delle tesi che avanza), e sul quale non mancheranno ulteriori opportunità d’indagine in futuro. ◊ https://www.palazzolomellino.org

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Galleria Pack

Viale Sabotino, 22 Milano 02 36554554 info@galleriapack.com www.galleriapack.com

Galleria d’arte moderna e contemporanea fondata nel 1964 da Dino Tega. Attività dalla lunga tradizione familiare, Galleria Tega ha organizzato (e continua a organizzare) mostre di grandi artisti internazionali.

Carlo Orsi

Via Bagutta, 14 Milano 02 76002214 info@galleriaorsi.com www.galleriaorsi.com

Tra le più importanti gallerie milanesi, specializzata soprattutto in arte dell’Ottocento (in particolare delle scuole lombarde). Ospita inoltre mostre di qualità. La Galleria, fondata a Saronno nel 1967 da Luigi e Romano Maspes, ha anche un Archivio e una Biblioteca..

10 a.m. Art

Corso San Gottardo, 5 Milano 02 92889164 info@10amart.it www.10amart.it

La Galleria Altomani & Sons, con sede a Milano e Pesaro, è stata fondata da Giancarlo Ciaroni e Anna Maria Altomani. La pittura, la maiolica antica e la scultura, principalmente Italiane tra il XII e il XVII, sono al centro dell’interesse della galleria.

Galleria d’arte contemporanea che propone un viaggio all’interno delle opere di affermati artisti internazionali. È stata fondata nel 2001 con l’intento di offrire al pubblico una programmazione ambiziosa incentrata sulla produzione di artisti sia emergenti che maggiormente affermati.

Galleria Tega

Via Senato, 20 Milano 02 76006473 info@galleriatega.it www.galleriatega.it

La Galleria Carlo Orsi è una galleria d’arte specializzata in dipinti antichi, soprattutto italiani, in sculture ed oggetti d’arte. Ha la sua sede in un palazzo settecentesco nel cuore di Milano e vanta oltre cinquant’anni di esperienza.

Gallerie Maspes

Via A. Manzoni, 45 Milano 348 0418592 e.orsenigo@gmail.com www.galleriemaspes.com

Fondata nel 2014 da Biancha Maria Menichini e Christian Akrivos, promuove artisti la cui ricerca si basa sulla sollecitazione della potenzialità della percezione sia essa stimolata dalla forma, dal movimento, dalla luce, dal colore o dalla programmazione matematica.

Altomani & Sons

Via Borgospesso, 14 Milano 02 201033 simona@altomani.com www.altomani.com

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Art Gallery.

Bottegantica

Via Manzoni, 45 Milano 02 62695489 info@bottegantica.com www.bottegantica.com

Nata a Bologna nel 1986 su iniziativa di Enzo Savoia, Bottegantica è una galleria specializzata nei dipinti italiani del XIX e XX secolo. Di recente si è aperta anche al settore dell’arte contemporanea, inaugurando una specifica sezione denominata “Lab/Contemporary”.

C+N Canepaneri

La galleria C+N Canepaneri è stata fondata nel 2015. Distribuita su due sedi, a Genova e Milano, l’attività della galleria affianca arte moderna e contemporanea. Promuove sia artisti italiani, sia artisti provenienti da altri paesi nel mondo.

Foro Buonaparte, 48 Milano 02 36768281 info@canepaneri.com www.canepaneri.com

Cortesi Gallery

Corso di Porta Nuova 46/B Milano 02 36756539 gala@cortesigallery.com www.cortesigallery.com

Le Gallerie Enrico sono state fondate ad Alassio (Savona) nel 1972 da Giliana e Franco Enrico e si occupano principalmente di Pittura Italiana dell’Ottocento. Oggi hanno sede a Milano e Genova.

Cortesi Gallery è stata fondata nel 2013 dalla famiglia Cortesi, Stefano con i due figli Andrea e Lorenzo, ed è specializzata in movimenti artistici europei dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri.

Enrico Gallerie d’arte

Podbielski Contemporary

Via Senato, 45 Milano 02 87235752 enricogallerie@iol.it www.enricogallerie.com

Via Vincenzo Monti,12 Milano 338 2381720 info@podbielskicontemporary.com www.podbielskicontemporary.com

Fondata nel 1975 da Marco Conte, la galleria si è sempre occupata di arte moderna e contemporanea, svolgendo nella sua sede di Milano, in via Borgonuovo 2, attività espositiva di promozione e vendita di opere degli artisti nazionali e internazionali.

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Marchio milanese che promuove mostre e artisti contemporanei facendo anche ricerca e sperimentazione, con spazi per incontri, performance, convegni e altro.

Il Mappamondo

Via Marco Polo, 9 20124 Milano 02 29002435 info@ilmappamondo.com www.ilmappamondo.com


Robilant + Voena

Via Fontana, 16 Milano 02 8056179 info@robilantvoena.com www.robilantvoena.com

Storica galleria che trae origine dalla Galleria Permanente d’Arte, fondata nel lontano 1926, poi diventata tra i maggiori punti di riferimento del mondo artistico bergamasco e lombardo del XX secolo.

Benappi Fine Art Via Andrea Doria, 10 Torino 011 8146176 info@benappi.com www.benappi.com

Galleria d’arte contemporanea nata nel 1998 a Torino ad opera di Guido Costa. Tutti gli artisti della galleria sono rappresentati in esclusiva per l’Italia.

Galleria Giamblanco

Via Giovanni Giolitti, 39 Torino 347 5642884 galleria@giamblanco.com www.giamblanco.com

Inaugurata nel marzo 1989, la Galleria del Ponte persegue da sempre l’obiettivo di documentare le vicende dell’arte moderna a Torino. La galleria ha ospitato mostre sull’arte torinese dagli anni Venti agli anni Novanta, passando in rassegna anche presenze e problematiche dimenticate.

Galleria internazionale diretta da Enrico di Robilant e Marco Voena, focalizzata sull’arte antica e sull’arte del Novecento, con sedi a Milano, Londra e Sankt Moritz. Nei suoi spazî organizza anche mostre di livello.

Galleria Previtali

Via Tasso, 21 Bergamo 0352 48393 info@galleriaprevitali.com www.galleriaprevitali.com

Benappi è una storica galleria attiva da quattro generazioni e specializzata in arte (pittura e scultura) dal Medioevo all’Ottocento, ma con interessanti pezzi anche sul Novecento e sul contemporaneo.

Guido Costa Projects

Via Mazzini, 24 Torino 011 8154113 info@guidocostaprojects.com www.guidocostaprojects.com

Galleria Giamblanco è specializzata in dipinti dell’Ottocento, pittura neoclassica e scultura dell’Ottocento. È stata fondata nel 2002 da Salvatore Giamblanco e Deborah Lentini e ha sede nel centro di Torino.

Galleria Del Ponte

Corso Moncalieri, 3 Torino 011 8193233 info@galleriadelponte.it www.galleriadelponte.it

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Art Gallery.

Galleria Luigi Caretto Via M. Vittoria, 10 Torino 011 537274 info@galleriacaretto.com www.galleriacaretto.com

Aperta nel 1989, la galleria promuove artisti italiani e stranieri contemporanei, sia emergenti che affermati. È particolarmente attenta alle nuove tendenze che trovano personali soluzioni narrative nell’impiego dei diversi mezzi espressivi, dalla fotografia alla pittura, dai video alle installazioni.

Alberto Peola

Via della Rocca, 29 Torino 011 8124460 info@albertopeola.com www.albertopeola.com

Caretto & Occhinegro

Via Andrea Massena, 87 Torino 338 8712326 info@carettoeocchinegro.com www.carettoeocchinegro.com

La Galleria d’arte Mazzoleni è stata fondata nel 1986 da Giovanni ed Anna Pia Mazzoleni, e nel 2014 ha inaugurato la sua seconda sede espositiva a Londra, nel distretto di Mayfair. Per oltre 30 anni Mazzoleni ha esposto oltre 150 artisti italiani ed internazionali del XX secolo.

Galleria dello Scudo

Via Scudo di Francia, 2 Verona 045 590144 info@galleriadelloscudo.com www.galleriadelloscudo.com

Galleria specializzata in arte antica con focus sulle opere d’arte applicata comprese tra il XIV ed il XVII secolo e sulla pittura fiamminga ad olio su rame e su tavola concepita tra il 1550 ed il 1650.

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La Galleria Luigi Caretto è specializzata nella vendita di dipinti fiamminghi ed olandesi dei secoli XV, XVI e XVII. Leader del settore in Italia, occupa una posizione di primissimo piano anche a livello internazionale.

Caretto & Occhinegro dedica le sue attenzioni a tre settori: la pittura fiamminga, olandese e tedesca dal XV al XVII secolo, una stretta selezione di pittura figurativa contemporanea, e i cosiddetti Arcana Mundi.

Mazzoleni

Piazza Solferino, 2 Torino 011 534473 torino@mazzoleniart.com www.mazzoleniart.com

Dal 1968, anno della fondazione, la Galleria dello Scudo si occupa di arte moderna e contemporanea italiana. In collaborazione con enti pubblici ha organizzato importanti rassegne di carattere strettamente scientifico.

Il Mercante delle Venezie

Corso SS. Felice e Fortunato, 197 Vicenza 366 9916089 galleriabedin@gmail.com www.ilmercantedellevenezie.com


Torbandena

La galleria d’arte Torbandena di Trieste, fondata nel 1964, si occupa del Novecento Italiano e di arte contemporanea europea. La sezione delle avanguardie si concentra sul nuovo espressionismo. mitteleuropeo.

Via di Tor Bandena, 1 Trieste 040 630201 info@torbandena.com www.torbandena.com

Galleria d’Arte del Caminetto, fondata nel 1966 da Romana e Paolo Zauli, è da oltre cinquant’anni un punto di riferimento per l’arte in Italia. Ospita anche mostre ed eventi.

Galleria d’Arte del Caminetto

Galleria Falcone Borsellino, 4/D Bologna 333 3331910 giovannibanzi@gmail.com www.galleriadelcaminetto.it

De’ Foscherari

Via Castiglione, 2/B Bologna 051 221308 galleria@defoscherari.com www.defoscherari.com

Bonioni Arte a Reggio Emilia è uno spazio destinato a collezionisti e artisti che vogliono conoscere da vicino l’arte contemporanea: non solo galleria ma anche luogo d’incontro, di pensiero e di dialogo.

De’ Bonis

Viale dei Mille, 44/B Reggio Emilia 338 3731881 info@galleriadebonis.com www.galleriadebonis.com

Pinksummer Contemporary Art è una galleria situata all’interno di Palazzo Ducale, Cortile Maggiore, Genova. Attiva nel capoluogo ligure, la galleria propone anche importanti mostre di artisti contemporanei.

La Galleria de’ Foscherari nasce nei primi anni Sessanta, con un programma culturale al quale è rimasta fedele, svolto in due direzioni strettamente connesse: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata, e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione.

Bonioni Arte

Corso Garibaldi, 43 Reggio Emilia 0522 435765 info@bonioniarte.it www.bonioniarte.it

Fondata da Stanislao de’ Bonis, la galleria di Reggio Emilia propone dipinti e grafiche dei più grandi artisti del Novecento: Guttuso, Carrà, De Pisis, Balla, Fontana, Maccari, De Chirico e altri importanti maestri. Proprio l’interesse per il Novecento costituisce il tratto distintivo della galleria.

Pinksummer

Piazza Matteotti, 28R Genova 010 2543762 info@pinksummer.com www.pinksummer.com

FINESTRE SULL’ARTE • 171


Art Gallery.

Guidi&Schoen

Galleria focalizzata sull’arte contemporanea, attiva a Genova da più di quindici anni. Fondata nel febbraio 2002, Guidi&Schoen punta soprattutto su pittura, fotografia, arte digitale e video. Organizza anche importanti mostre.

Piazza dei Garibaldi, 18R Genova 010 2530557 info@guidieschoen.com www.guidieschoen.com

La galleria Cardelli & Fontana, fondata nel 1980 a Sarzana da Cesare Cardelli e Francesca Fontana, si occupa di arte contemporanea e astrattismo geometrico storico.

Vôtre

Cardelli & Fontana

Via Torrione Stella Nord, 5 Sarzana (SP) 0187 626374 galleria@cardelliefontana.com www.cardelliefontana.com

Piazza Alberica,5-I°piano Carrara (Ms) 338 4417145 associazionevotre@gmail.com

La galleria ha debuttato nel 2000 con una mostra collettiva dedicata ai pittori livornesi, introducendo quello che poi è stato, ed è tutt’oggi, il tema costante della sua attività: l’attenzione per la scuola toscana, i macchiaioli, i postmacchiaioli.

Poleschi Arte

Via Idelfonso Nieri, 51 Lucca 0583 955707 info@poleschiarte.com www.poleschiarte.com

Storica galleria d’arte contemporanea con sedi a Firenze e a Pietrasanta e, da alcuni mesi, anche a Milano, nella nuova sede aperta nel 2018, per allargare la significativa offerta espositiva che punta soprattutto su artisti italiani.

172 • FINESTRE SULL’ARTE

Un nuovo spazio a Carrara, nelle storiche e raffinate sale settecentesche di Palazzo del Medico, nel cuore della città dei marmi, per mostre e attività culturali dedicate all’arte contemporanea, con nomi di spicco.

Galleria d’arte Goldoni

Via E. Mayer n.45 Livorno 339 7951064 info@galleriadartegoldoni.it www.galleriadartegoldoni.it

Attiva dal 1979, anno in cui fu fondata da Vittorio Poleschi, la galleria propone opere dei maestri del Novecento e dell’avanguardia internazionale. Con sedi a Lucca, Pietrasanta e Milano (quest’ultima aperta nel 2000).

Galleria Poggiali

Via Della Scala, 35/A Firenze 055 287748 info@galleriapoggiali.com www.galleriapoggiali.com


Frittelli arte contemporanea

Dopo l’esperienza del Centro d’arte Spaziotempo, sede di innumerevoli mostre nella centrale Piazza Peruzzi, Carlo e Simone Frittelli hanno voluto dare nell’aprile del 2006, con la nuova Galleria Frittelli, un segno di continuità e allo stesso tempo di rinnovamento, creando un nuovo spazio per l’arte contemporanea.

Via Val di Marina, 15 Firenze | 055 410153 info@frittelliarte.it www.frittelliarte.it

La galleria, attiva dal 1893, è specializzata in dipinti italiani dal XIV al XVII secolo con una particolare predilezione per le opere della scuola toscana. Un lavoro portato avanti da quattro generazioni di antiquari che l’hanno resa una delle gallerie più importanti d’Italia.

Bacarelli Antichità

Via dei Fossi, 45r Firenze 055 215 457 bacarelli@bacarelli.com www.bacarelli.com

Storica galleria aperta nel 1990 a San Gimignano da Mario Cristiani, Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo: oltre alla sede toscana oggi è presente in tutto il mondo, a Pechino, Les Moulins e L’Avana.

Frascione Arte

Via Maggio, 5 Firenze 055 294087 info@frascionearte.com www.frascionearte.com

Bacarelli si occupa di arte antica principalmente italiana dal Rinascimento al Neoclassicismo, con una particolare attenzione per la scultura e la pittura.

Galleria Continua

Via del Castello, 11 San Gimignano (SI) 0577 943134 sangimignano@galleriacontinua.com www.galleriacontinua.com

Francesca Antonacci Via Margutta, 54 Roma 06 45433036 info@al-fineart.com www.al-fineart.com

La Galleria del Cembalo, aperta per iniziativa di Paola Stacchini Cavazza e Mario Peliti, nasce dal desiderio di restituire al mondo dell’arte alcune delle splendide sale al pianterreno di Palazzo Borghese destinate a ospitare la prestigiosa collezione del Cardinale Scipione, poi trasferita a Villa Borghese.

La galleria fondata da Francesca Antonacci, discendente di una famiglia di antiquarî attivi a Roma dagli inizi del Novecento, è un punto di riferimento soprattutto per quanto riguarda dipinti, disegni e sculture.

Galleria del Cembalo

Largo della Fontanella di Borghese, 19 | Roma 06 83796619 info@galleriadelcembalo.it www.galleriadelcembalo.it

FINESTRE SULL’ARTE • 173


Art Gallery.

Studio d’Arte Campaiola Via Margutta, 96 Roma 06 85304622 info@campaiola.it www.campaiola.it

Gagosian è una storica galleria d’arte americana con sedi a New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Roma, Atene, Ginevra e Hong Kong. Nella sua sede romana, Gagosian ospita importanti mostre di grandi artisti internazionali.

Alessandra Di Castro

Piazza di Spagna 3-4 Roma 06 69923127 info@alessandradicastro.com www.alessandradicastro.com

Marchio che opera sul mercato antiquario italiano e internazionale dal 1988, specializzato in arte italiana e straniera dal Rinascimento all’Ottocento. Propone dipinti, disegni, sculture, arredi, oggetti preziosi.

Bertolami Fine Art

Piazza Lovatelli, 1 Roma 06 32609795 info@bertolamifineart.com www.bertolamifineart.com

Fondata nel 1964 con il nome de Il Segno, la galleria ha avviato un importante percorso di collaborazione con alcuni dei maggiori artisti internazionali (tra cui Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Alberto Burri, Lucio Fontana, Alberto Giacometti e Fausto Melotti) che l’ha portata a essere protagonista del panorama italiano dei decenni successivi.

174 • FINESTRE SULL’ARTE

Galleria romana che dal 1964 promuove l’arte contemporanea e non solo: nella sua offerta figurano anche alcuni tra i più grandi nomi dell’arte internazionale del Novecento.

Gagosian

Via Francesco Crispi, 16 Roma 06 42086498 rome@gagosian.com www.gagosian.com

Esponente di una famiglia di antiquari romani dal 1878, Alessandra Di Castro è specializzata in arte antica, pittura e scultura. Ha sede raccolti di uno storico palazzo secentesco dove sono esposti dipinti antichi, sculture, marmi, pietre dure.

Arcuti Fine Art

Via Sant’Eligio, 3/A Roma 335 8119010 info@arcutifineart.com www.arcutifineart.com

Bertolami Fine Arts è una struttura complessa: casa d’aste, galleria d’arte, studio di progettazione di mostre e eventi culturali, con specializzazione nel settore degli old masters.

Francesca Antonini Arte Contemporanea

Via di Capo Le Case, 4 Roma 06 6791387 info@francescaantonini.it www.francescaantonini.it


Galleria Carlo Virgilio & C. Via della Lupa, 10 Roma 06 6871093 info@carlovirgilio.it www.carlovirgilio.it

Lampronti è una galleria che vanta l’esperienza di tre generazioni di mercanti d’arte. Fondata nel 1914, è specializzata nell’arte antica italiana, soprattutto del Sei e del Settecento, con particolare focus sui paesaggi e sulle nature morte.

Paolo Antonacci

Via Alibert, 16/A Roma 335 5631401 info@paoloantonacci.com www.paoloantonacci.com

Galleria Berardi è una galleria d’arte antica specializzata in pittura e scultura soprattutto dell’Ottocento e del primo Novecento. Nel suo lavoro, la galleria segue una rigorosa prassi della connoisseurship, ovvero la pratica di riconoscere la qualità, l’epoca e dunque l’autore di una determinata opera.

F&F Antichità

Corso Vannucci, 107 Perugia 0755 722893 fefantichita@gmail.com www.fefantichita.com

Lia Rumma da anni tratta i grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale. Fondata a Napoli nel 1971, da allora, nelle sue sedi, ha ospitato e promosso grandi nomi del panorama internazionale dell’arte.

Galleria romana attiva nell’antico, nel moderno e nel contemporaneo. È stata fondata nel 1979 e il suo focus principale sono i disegni dal XVII al XX secolo.

Galleria Lampronti

Via di San Giacomo, 22 Roma 335 333325 info@cesarelampronti.com www.cesarelampronti.com

Gli interessi della galleria sono stati da sempre la ricerca, la valorizzazione e lo studio degli artisti e dei dipinti che ritraggono, dalla seconda metà del XVIII secolo fino agli inizi del XX secolo, Roma, la sua Campagna, il Vedutismo italiano in genere e i vari aspetti del cosiddetto “Grand Tour”.

Galleria Berardi

Corso del Rinascimento, 9 Roma 328 3151953 galleria.berardi@gamil.com www.maestrionline.it

La Galleria Antiquaria F & F Antichità é presente nel mercato dell’Antiquariato da oltre 30 anni, interessandosi agli arredi e alle sculture antichi, con particolare predilezione alle provenienze umbro-toscane.

Lia Rumma

Via Vannella Gaetani, 12 Napoli 02 29000101 info@liarumma.it www.liarumma.it

FINESTRE SULL’ARTE • 175


Art Gallery.

Alfonso Artiaco

Fondata a Pozzuoli nel 1986, la galleria si è poi spostata nel 2003 a Napoli e lavora con grandi artisti contemporanei. Dal 2012 ha sede in piazzetta Nilo, nel centro storico del capoluogo campano, dove prosegue la propria attività organizzando anche importanti mostre.

Piazzetta Nilo, 7 Napoli 081 4976072 info@alfonsoartiaco.com www.alfonsoartiaco.com

Studio Trisorio

Inaugurato nel 1974 con una mostra di Dan Flavin, il programma espositivo della galleria intreccia fin da subito pittura e scultura con i nuovi linguaggi dell’arte: la fotografia, il video e l’installazione. Con la galleria hanno lavorato nomi importanti dell’arte mondiale.

Riviera di Chiaia, 215 Napoli 081 414306 info@studiotrisorio.com www.studiotrisorio.com

Umberto Di Marino

Via Alabardieri, 1 Napoli 081 0609318 info@galleriaumbertodimarino.com www.galleriaumbertodimarino.com

La Galleria Paola Verrengia dal 1990 indaga le varie tendenze dell’Arte Contemporanea dei grandi maestri del dopoguerra e di artisti emergenti nel campo dell’Arte Astratta ed Informale, dell’ Arte Concettuale e della Fotografia.

Galleria Paola Verrengia Via Fiera Vecchia, 34 Salerno 089 241925 info@galleriaverrengia.it www.galleriaverrengia.it

Francesco Pantaleone arte contemporanea Via Vittorio Emanuele, 303 Palermo 091 332482 info@fpac.it www.fpac.it

La Galleria Beatrice tratta opere significative dei più importanti artisti del XIX e del XX secolo. Ha sede a Palazzo Sambuca, dimora nel cuore del centro storico di Palermo.

176 • FINESTRE SULL’ARTE

Galleria napoletana, fondata a Giugliano in Campania e poi spostatasi nel 2005 nel capoluogo, attiva da oltre vent’anni e specializzata nell’arte contemporanea.

FPAC - Francesco Pantaleone Arte Contemporanea è stata fondata a Palermo nel 2003 con lo scopo di valorizzare artisti siciliani e fornire una piattaforma a Palermo per artisti già radicati al livello internazionale. Con sede anche a Milano.

Galleria Beatrice

Via Alloro, 36 Palermo 347 6686388 info@galleriabeatrice.it www.galleriabeatrice.it


© www.lukasweb.be - Art in Flanders vzw, Rubenshuis, Antwerpen © Lowie De Peuter & Michel Wuyts, Royal Museums of Fine Arts Belgium, Brussels photo J. Geleyns - Ro scan

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Viaggia nelle Fiandre nel 2020, anno di Van Eyck

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N.4 ANNO I

Fondation Beyeler | Kunstmuseum Basel | Museum Tinguely | Zentrum Paul Klee | MAMCO, Musée d’art moderne et contemporain | Musée d’art et d’histoire | Musée de l’Elysée | MASI, Museo d’arte della Svizzera italiana | Fotozentrum Winterthur | Kunsthaus Zürich | Museum für Gestaltung Zürich

anno I N.4 | dicembre gennaio febbraio 2019/20

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Paul Alexandre e Modigliani | Botticelli | Carsten Höller | Kiki Smith | Dario Ghibaudo Il trittico degli Eremiti di Bosch a Venezia | La deposizione di Antelami a Parma | L’immagine del mare tra Otto e Novecento

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Fondation Beyeler, Basilea, © DMark Niedermann

DICEMBRE GENNAIO FEBBRAIO 2 0 1 9 / 2 0 2 0

ATTUALITÀ

GRAND TOUR

CONTEMPORARY LOUNGE

Il restauro del Giudizio universale e della Pala di San Marco del Beato Angelico

Le stigmate di san Francesco nel Trecento

Carsten Höller

La Deposizione di Benedetto Antelami a Parma

Dario Ghibaudo

◊ OPERE E ARTISTI

Botticelli nella bottega del Verrocchio San Francesco nell’arte del Trecento

◊ DENTRO LA MOSTRA

Bernardo Strozzi. La conquista del colore

Kiki Smith ◊ RENDEZ-VOUS

Paul Alexandre e Modigliani


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