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ta p n ar te ol e Un’intervista a Gerardo Mele di Chiara Lombardo

“Dopo il nostro primo incontro, in uno stage che ho diretto a Torino, e dopo la nostra prima bottiglia di vino, ci siamo incontrati regolarmente. Si è sviluppata una collaborazione preziosa. Gerardo Mele è diventato assistente nei miei stages e poi membro della mia compagnia. La nostra amicizia ha favorito una complicità nel teatro e nella vita. Il suo senso per la pedagogia, così come la sua presenza di attore, ha fatto di lui un compagno insostituibile nella ricerca che ci lega: “la ricerca del proprio Clown”. La sua curiosità e la sua motivazione in questa ricerca, pedagogica e teatrale, ci ha fatto scoprire nuovi aspetti di “Homo Stupidens”, di cui egli è, spontaneamente e in modo naturale, un rappresentante per eccellenza” Pierre Byland Tra le tante parole scritte, tra le parole che compongono le risposte di Gerardo Mele nell’intervista, queste restano particolarmente impresse. In corsivo, virgolettate, lasciate lì, tra una domanda e l’altra; sono parole di Pierre Byland (attore e pedagogo annoverato tra i padri dell’immagine del clown teatrale), parole che parlano proprio di Gerardo. Lui le riporta, ce le regala, e a noi non resta che trattarle “piano”, con la cura che si riserva alle cose speciali. Le abbiamo messe all’inizio, a seguire trovate l’intervista. Immaginate di ascoltare qualcuno che parla con il cuore. Partendo dal presupposto che Byland e Lecoq sostengono che ogni persona abbia un proprio clown da “cercare, accettare e rivendicare”, ci parli della tua ricerca artistica e ci spieghi meglio in cosa consiste “la ricerca del proprio clown”? Chi sono i “modelli” e che cosa, o chi, ti ha ispirato?

— Sicuramente Pierre Byland, ha segnato più di tutti la mia vita artistica e personale, e rimane il mio riferimento. La “ricerca del proprio clown”, secondo la pedagogia Lecoq-Byland è il percorso più completo che ho fatto, dall’insegnamento agli spettacoli. È un cercare che si fonda sull’individuare lo stato d’animo che permette di ritrovare la nostra ingenuità, la nostra infanzia, spesso rompendo schemi educativi e culturali, accettando di essere deriso o perdente, ma felice. Un vero antieroe sempre positivo. In altre parole è una ricerca emotiva, mai psicologica, che libera le capacità espressive dell’uomo: non dell’attore. Sebbene sia una ricerca intima e personale, il clown non lo fa per sé, anzi, non dimentica mai il pubblico e non dimentica mai che è nella finzione. La tua formazione. Il tuo percorso per arrivare a oggi. Hai voglia di condividerlo con noi?

— Ho cominciato come danzatore dal 1976, ma la curiosità verso il corpo e le sue possibilità, anche di relazione con altri livelli del nostro essere, mi ha spinto a studiare la medicina cinese nel 1989, e dall’incontro con C. Coldy nel 1990 nasce la “danza sensibile”, che apre un vero e proprio percorso di assoluta ricerca, anche senza risultati artistici, ma di assoluta crescita e consapevolezza. Attività che non ho mai interrotto. Nel 2000 dall’incontro con Pierre Byland arriva una crescita artistica inaspettata: assistente nei suoi workshop e nel 2002 la prima produzione insieme, Solo Sei (al Piccolo Regio di Torino). Nel 2007 Cadavre Exquis, un gioco dadaista molto apprezzato in Italia e all’estero; nel 2011 Masterklass, trentaquattro repliche a Parigi per fare il punto sul “nuovo clown” con artisti di varie nazionalità e nell’ambito del festival Le clown fait le Byland a lui intitolato. Otto anni circa con la compagnia Stalker Teatro di Torino hanno influito non poco nella mia formazione per gli aspetti umani e la relazione con la diversità e il disagio. Progetti importanti come in Palestina o nel carcere di Torino e molti altri, senza tralasciare il valore artistico.

Ci dai la tua definizione di “clown” spiegandoci anche che cosa si attiva nelle fasi di workshop? Chi può prendervi parte?

— Il clown è uno stato d’animo (in francese: “état d’esprit”, che rende ancora meglio l’idea). Nei miei workshop come in quelli di P.Byland l’improvvisazione, sempre con regole chiare, è un momento magico dove prima o poi hai degli attimi di verità straordinari e vedi la persona, non l’attore che recita. In questa autenticità c’è il “proprio clown” e la ricerca che ne consegue attorno all’uomo, alla sua ingenuità e l’incertezza che lo rendono ridicolo. Spesso è tragico ma la missione del Clown Sensibile non è far ridere. Fa ridere suo malgrado. Nei miei workshop si comincia sempre con una piccola meditazione per poter creare un ritmo comune ed una sorta di effetto branco, molto utile per accordare il corpo come uno strumento musicale e prepararlo alla disponibilità alla relazione e all’ascolto, in modo semplice, generando molto spesso una solidarietà fra gli attori che diventa vitale per l’improvvisazione. Tutto ciò per sviluppare la presenza e viverla direttamente, e niente può aiutare di più l’attore come l’improvvisazione, dove il vuoto diventa un vero e proprio motore per generare. I workshop sono aperti a tutti, le sole limitazioni sono l’età troppo giovane oppure una motivazione flebile. Per un attore non è facile accettare di essere stupido, e per questo ha l’alibi del personaggio che è stupido e non lui, e invece no è lui che è stupido e compie azioni stupide. Nell’improvvisazione si attraversa la stupidità apparentemente banale per incontrare l’intelligenza emotiva utile alla nostra crescita generale e il naso rosso, la più piccola maschera esistente, resta uno strumento pedagogico importante, ma non uno strumento di scena.


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