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LA PAROLA AL DIRETTORE CSA NEWS Le tre battaglie dei bambini

Le tre battaglie dei bambini

di Silvia Zerbinati

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È certamente difficile. È certamente difficile parlare di progetti, iniziative, sorrisi e speranza quando a pochi chilometri da qui, che ci riguarda da vicino e nel profondo, c’è sofferenza vera. Abbiamo ricevuto articoli molto belli che raccontano dei “nostri” bambini, frequentanti i servizi educativi di CSA, e raccontano di quanto il nostro lavoro è importante per mantenere attorno a loro un clima di serenità, di certezze e di affetto. Poi, però, è sufficiente prendere il cellulare un attimo tra le mani per vedere immagini strazianti di bambini assolutamente uguali ai nostri, ma in fuga, in braccio

alle loro mamme, se va bene, o per

mano a donne sconosciute, alle quali si affidano senza capirne il perché. Con una colonna sonora composta dal suono di esplosioni, grida, pianti. Potremmo essere noi. Potremo essere noi. Quei bambini, tutti i bambini, sono nostri, perché sono il futuro.

Il dolore dei bambini in situazioni estremamente tragiche, come la guerra, è, spesso, un dolore silenzioso. Sembrano, a volte, quasi più preparati degli adulti a gestire la paura. Ci sembrano, in certe situazioni dolorose, persino più maturi, servizievoli e tranquilli che in un periodo di “normalità”. È una quiete apparente. Forse per questo motivo si tende a sottovalutare le conseguenze psicologiche che potrebbero segnare la loro personalità e condizionare la loro vita. Chi ha lavorato per molti anni con i bambini della guerra, tra gli operatori umanitari nei Paesi Balcanici, in Rwanda, in Kosovo, ha raccolto con attenzione psicologica le loro parole attraverso il contatto, lo sguardo, i disegni, i diari, le danze e le preghiere, s’è convinto che al conflitto esterno si accompagni dentro l’animo dei bambini un conflitto psicologico altrettanto, e forse più, grave. Mi sono imbattuta recentemente in un articolo di Luigi Ranzato, Psicologo e Psicoterapeuta che ha collaborato con l’ONG “Medici con l’Africa” in Rwanda dopo il genocidio del 1994 in un progetto dell’Unicef per i bambini traumatizzati e con “Caritas Nazionale” nel 2000 dopo il conflitto del Kossovo. Nell’articolo, egli riporta al fatto che questi bambini devono affrontare tre battaglie dal cui esito può dipendere la riuscita o il fallimento del loro progetto di vita e della loro felicità. Queste battaglie si chiamano: tradimento, perdita e trauma.

Proviamo a capirne le ragioni, semplificando il più possibile le teorie di riferimento. Tradimento. I genitor i dur ante un conflitto non sono più in grado di proteggere i propri figli dai pericoli fisici. Per loro diventa impossibile anche soddisfare i bisogni primari, come quelli del cibo e del calore o garantire lo spazio e i ritmi del tempo della vita normale, come dormire, andare a scuola, giocare, esplorare il territorio. Ciò determina nei bambini la sensazione di un “tradimento” da parte dei grandi per abbandono, impotenza o cattiveria. A questa sensazione si accompagna la progressiva perdita di fiducia. Vedono sbriciolarsi

le fondamenta della loro breve esistenza così come vedono sbriciolarsi le loro case, le loro scuole, i loro paesi.

Perdita. Tr a i bambini sopr avvissuti, molti sperimentano la perdita dei propri familiari, amici e conoscenti. Molti attendono, invano, il ritorno dalla guerra del proprio padre, di qualche fratello maggiore e di parenti stretti. Diversamente che per i lutti naturali e della quotidianità, l’elaborazione dei lutti di guerra viene congelata, rinviata senza tempo, soprattutto quando non si ritrova il corpo del defunto o non si possono celebrare le esequie e i riti, o i bambini vengono trasferiti presso altri parenti, in istituti, o trasferiti nei campi dei rifugiati. Trauma. Gli avvenimenti di cui sono spettatori impotenti, come le minacce alla propria vita e a quella dei propri cari, la visione di persone uccise, odori e rumori della guerra, attaccano il sistema dei sensi e sono immagazzinati nella memoria. Le emozioni vengono soppresse, ma di tanto in tanto riaffiorano alla superficie. Non in modo chiaro e consapevole, essendoci a monte il diniego di quel dolore, ma attraverso immagini, suoni, odori. Il diniego è da considerarsi come una normale azione di difesa per la sopravvivenza, ma può nel tempo cronicizzarsi. Se non verranno aiutati, questi bambini vedranno assottigliarsi le prospettive di riuscire nella vita, con conseguenze importanti della loro esistenza. A distanza di oltre vent’anni dal primo grande progetto di intervento psicologico organizzato dall’UNICEF a seguito del genocidio ruandese, le grandi organizzazioni internazionali hanno elaborato preziose linee guida

per il primo aiuto psicologico e per gli interventi di supporto psicosociale definiti anche di “resilienza

assistita” . Oggi si dispone di nuove ricerche e nuove teorie su come l’essere umano, messo a confronto con disagi e traumi, possa, con l’aiuto degli altri, riorganizzare la propria ripresa. Ancora una volta, sapremo sicuramente come agire, con le competenze acquisite e con la nostra estrema capacità di riorganizzarci in risposta ai bisogni delle persone, per evitare che il dolore di questi bambini ucraini si vada a celare nel loro animo in modo irreparabile e per evitare che siano,

domani, adulti dall’animo irrever-

sibilmente segnato, come quello di chi ha reso possibile questo orrore e, probabilmente, ne sta godendo.