SIMONA BRAMATI - Lachesi, la filatrice del destino

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VETRO E FERRO di Loretta Mozzoni

L

’ossessiva contemporaneità del mito sposta la barra dell’analisi critica verso seduzioni di segno letterario che, se per un verso sostengono l’abilità narrativa della pittura di Simona Bramati, dall’altro contribuiscono ad uno spaesamento evocativo. Nei suoi quadri infuria un eccesso di luce, tanto più paradossale in una tavolozza che elabora le mille possibilità dei grigi diversamente orientati dalla prevalenza dei bianchi o dei neri, ma sempre corrisposti da un’inclinazione atmosferica d’ambiente lunare e di vento astrale. Vibrazioni che animano i fondali scuri su cui scorrono girali decorative che sostituiscono i motivi a niello del gotico fiorito con le tappezzerie borghesi, i fondi oro della tradizione trecentesca con gli apparati da lutto della tradizione mediterranea. Laddove l’oro stava ai maestri medievali come il luogo del Paradiso, il nero sta a Simona Bramati come il luogo del Destino, lo spazio della Necessità che non permette interpretazioni individuali del proprio percorso esistenziale e che corrisponde ad un unico imperativo, peraltro sconosciuto e minaccioso. Esiste una perfetta coincidenza tra la realtà psichica evocata dalle sue figure alate – Fate per nulla vicine al mondo dell’infanzia, ma al contrario esecutrici del Fato - e il linguaggio figurativo prescelto che si compone di pochi elementi formali di fortissimo impatto comunicativo. Figure che procedono di lato per entrare nel campo visivo a passo di danza, che appaiono come sospese in una incorporeità nervosa, fatta di tendini tesi e gesti rallentati; altrove la fisicità appare dominante, dilatata al centro dello spazio figurativo quale presenza assertiva e perentoria. Gli incarnati opachi e lunari, la consistenza carnale mai perfettamente soda pur nella magrezza dominante, denunciano una malinconia dello spirito resa patente vuoi dalle inquadrature ravvicinate che impongono tagli inusuali di visi e busti, vuoi dagli sguardi sfuggenti ed obliqui, vuoi dall’impaccio di sé, della propria fisicità avvertita come un limite. Gli improvvisi inserti cromatici accendono un universo reso monocromo dalle ombre della notte entro cui rimangono imprigionate le figure, compresse tra un piano limite di vetro ed un orizzonte di ferro. La metamorfosi della materia permette di far corrispondere ad ogni affermazione di forma il suo contrario ed ad ogni affermazione di sostanza il proprio corrispettivo in negativo. E’ una specie di partita doppia tra il dare e l’avere, in cui il primo termine sta per suggestione comunicata ed il secondo per emozione restituita. A patto di non lasciarsi più di tanto confondere dal gioco incrociato di rimandi, la forza della pittura della Bramati consiste nel costruire una cosmogonia che prevede un centro ed una periferia entro cui individuare traiettorie intermedie. Al centro c’è la Regina, espressione di una femminilità assertiva e vittoriosa, proclamata tale dal corso inevitabile e necessario delle cose. Insediata su di un trono diamorfico, metà cassettone intarsiato e metà specchiera fiorita e dorata, espone ai suoi piedi l’animale totemico della Bramati, la gallina nelle diverse declinazioni dell’animale adulto e del pulcino, significativamente morto. Sulla spalliera del trono compare una colomba bianca, evoluzione sofisticata dei pennuti da cortile non a caso disposti la prima in posizione preminente di vertice e i secondi a terra, ma non defilati. La figurazione corrisponde ad una separazione netta tra una parte superiore in cui trovano posto la spalliera elaborata del trono, la colomba dalle piume soffici e bianchissime, la testa e il busto della Regina ben acconciata nei capelli raccolti, negli orecchini con i pendenti di perla e nella tunica di pizzo. Ma il mondo dell’iperuranio cessa all’altezza del pube della Regina sfrontatamente esibito come attributo identificativo non di genere, ma di potere. O meglio di un potere che scaturisce dal genere. 14


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