Corrado Minervini: Abecedario del cooperante

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3 ABECEDARIO DEL COOPERANTE

Corrado Minervini

WORLD IN PROGRESS


World in Progress 3

ABECEDARIO DEL COOPERANTE

Corrado Minervini

Politecnico di Torino

2008


Per contatti: Centro di ricerca e documentazione in Tecnologia Architettura e Città nei paesi in via di sviluppo Dipartimento Casa-Città - Politecnico di Torino Viale Mattioli 39, 10125 Torino, Italia tel. +39 011 564 6439, fax +39 011 564 6442 e-mail: centropvs@polito.it sito: www.polito.it/crd-pvs

Crediti immagini: Tutte le foto e i disegni sono dell’autore

Il capitolo secondo fa riferimento ai seguenti progetti di cooperazione internazionale: 2.1 “Emergency Repair to public buildings for housing refugees in the Republic of Georgia and Azerbaijian” realizzato da Nuova Frontiera-ONG, 1996-1997 2.2 “Emergenza Rifugiati in Burundi” promosso da UNHCR e realizzato da FOCSIV, 1994-1995 2.3 “Housing Reconstruction“, UNMIK, 2000-2001 2.4 “Etude de Faisabilité d’un projet de santé au Burkina Faso“ realizzato da CERFE, 1998

Comitato scientifico: Irene Caltabiano, Francesca De Filippi, Massimo Foti, Nuccia Maritano Comoglio

Curatore del volume: Francesca De Filippi

Della stessa collana:

WP1 Alessandra BATTISTELLI Tecnologia y patrimonio en tierra cruda en Colombia. El caso de Barichara en Santander 2005

WP2 Chiara CHIODERO L’habitat in terra cruda nello sviluppo rurale del nord dell’India: esperienze nella ricostruzione post-terremoto nel distretto del Kachchh. Earthen habitat in rural development of northern India: experiences in post-earthquake rehabilitation in Kachchh district 2008

Composizione: Luisa Montobbio, Dipartimento Casa-Città, Politecnico di Torino

© 2008, Politecnico di Torino, Italia ISBN 978-88-8202-078-1


SOMMARIO L'ARCHITETTO E IL COOPERANTE

INTERNAZIONALITÀ, PROGETTUALITÀ, SOSTENIBILITÀ L'UNIVERSITÀ E LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

1. CAPITOLO PRIMO: I PROLEGOMENI DELLO SVILUPPO 1.1 Abecedario del cooperante

1.2 Il cooperante ed il cooperato

1.3 I rifugiati: note in emergenza 1.4 Dall’emergenza allo sviluppo 1.4.1

Emergenza in formule

1.4.3

Sviluppo e città

1.4.2

La ricostruzione

2. CAPITOLO SECONDO: GLI STRUMENTI DEL COOPERANTE TECNICO 2.1 Georgia: riabilitazione di edifici occupati dai rifugiati 2.1.1

Una Proposta di Progetto

2.1.3

Componente organizzativa

2.1.2

Componente informativa

2.2 Burundi, la ricostruzione o post emergenza 2.2.1

Il Progetto socio-politico

2.2.3

Il Muro e le Opere

2.2.2

Il Progetto tecnico

2.3 Kossovo: la ricostruzione 2.3.1 2.3.2

Municipal Housing Committee

Esercizi di Pianificazione Urbana

2.4 Burkina Faso: sviluppo delle infrastrutture sanitarie 2.4.1

Analisi delle Qualità

2.4.3

Raccomandazioni: principi base e modelli

2.4.2 NOTE

Analisi delle Tipologie

REFERENZE BIBLIOGRAFICHE INDICE DELLE FIGURE

INDICE DELLE TAVOLE

p. 7 p. 9

p. 11

p. 12 p. 13

p. 17

p. 19

p. 19

p. 22

p. 24

p. 28

p. 28 p. 29 p. 31 p. 34 p. 37 p. 37 p. 38

p. 41

p. 46 p. 46

p. 47

p. 49 p. 50 p. 54

p. 56 p. 61 p. 64

p. 65 p. 65

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L'ARCHITETTO E IL COOPERANTE Conosco l’autore da quando, nel lontano 1989, iniziò a frequentare la Scuola di specializzazione in “Tecnologia architettura e città nei paesi in via di sviluppo”. La sua tesi Dalla tradizione alla modernità: tipi di pelle e tipi abitativi come variabili alle griglie strutturali e infrastrutturali analizzava casi studio in Cina e Tunisia individuati come due differenti modi della concezione della casa multipiano nei paesi in via di sviluppo. Minervini introduceva poi una seconda parte sulla tecnologia della ‘pelle verde’ per tamponamenti e coperture con elementi vegetali vivi. Questa conclusione del percorso di specializzazione indicava già la sua profonda attenzione agli aspetti del progetto a scala tipologica e tecnologica. L’approccio pragmatico con cui ha dovuto misurarsi nelle sue numerose presenze con ruoli di esperto cooperante in situazioni al limite caratterizzate dai vincoli drammatici delle post calamità naturali o prodotte dall’uomo, non gli hanno impedito di essere un brillante ricercatore di soluzioni utopiche tecnicamente fondate per un habitat dignitoso e attento alla irrinunciabile necessità di inclusione sociale emergente dagli insediamenti informali nelle città del terzo mondo. Ricordo il suo lavoro sulla ‘collina artificiale’ nell’ambito della ricerca CNR PFEd coordinata da Giorgio Ceragioli, guida e maestro con cui abbiamo condiviso appassionanti momenti di ricerca. La collina artificiale si delineò come matrice di progetto e non progetto specifico e concreto perchè tale potrebbe diventare solo in presenza di contestualizzazione, condizione indispensabile per costruire e non per immaginare. Su questa megastruttura ad alta densità costruttiva ed abitativa gravitano tecnologie complesse, composite ed ibride appositamente studiate per ridurre i costi di produzione e manutenzione, e nello stesso tempo mantenere alta la qualità edilizia e residenziale. Quello generato dalla collina artificiale è un habitat integrato di residenze sui fronti esterni ed un nucleo interno di servizi e piccole attività produttive capaci di accollarsi la spesa di questi terreni che possono essere definiti ‘artificiali’ in quanto in quota. L’ipotesi sulla quale è stata costruita la ‘collina artificiale’ consiste in un sistema strutturale ‘a gabbia’ in acciaio a gradoni, con una sezione trapezoidale. La scelta della gabbia strutturale in acciaio è dovuta essenzialmente al buon rapporto resistenza/peso, adattabilità e componibilità della struttura, la manutenibilità e la economicità. La scelta di tale tipo strutturale è anche dovuto al fatto che l’ipotesi progettuale più propria della collina converge verso l’acciaio in leghe di tipo avanzato che lo sviluppo della ricerca dovrebbe portare a costi accettabili, elevate resistenze, manutenzione nulla, dilatazione molto ridotta buona resistenza al fuoco ecc. Ma il corpo strutturale della ‘collina artificiale’ non è la gabbia in acciaio, bensì la stessa

tecnologia che ricerca, articola e coniuga materiali come le leghe al titanio con quelli poveri e poverissimi come le terre stabilizzate. Minervini partecipa alla ricerca su ibridi e materiali compositi di nuova sperimentazione in atto presso la scuola di specializzazione costruendo un abaco di componenti edilizi, strutturali e di completamento, come le lastre ondulate e non, per coperture, tamponamenti e pavimentazioni con stuoie di paglia di riso e resine di poliestere, travi di scarti di produzione assemblati e pressati con resine. Si tratta di materiali con bassi costi di produzione, che non richiedono mano d’opera specializzata, a causa del processo di lavorazione a moderato contenuto tecnologico. Le tecnologie verdi inoltre completano l’abaco tecnologico della collina e sono studiate per i numerosi vantaggi che possono derivare dall’uso all’interno del sistema edilizio: dalla riduzione dell’inquinamento acustico, alle funzioni di filtro per le polveri, all’incremento della qualità dell’aria e della vita psichica. Coperture e tamponamenti verdi garantiscono minori sollecitazioni termiche e meccaniche alle strutture, maggiore isolamento termico, alleggerimento del sistema di smaltimento idrico e soprattutto permettono l’accesso dell’utenza all’interno del processo costruttivo.

Minervini ricercatore, nei periodi trascorsi a Torino presso il nostro Politecnico, e Minervini cooperante: ruoli apparentemente diversi ma sostanziati entrambi da una profonda attenzione alle persone, alle loro esigenze, alle diverse culture, potenzialità e vincoli. La sua esperienza di cooperante si svolge con la costante consapevolezza delle attese diverse fra beneficiari e donatori oltre che delle possibili incomprensioni culturali e dei danni prodotti dalla mancanza di dialogo con le popolazioni coinvolte. L’abbecedario del cooperante ci rivela la sua capacità di impegnarsi sul terreno dove le utopie tecnicamente fondate devono coniugarsi in tempo reale con le soluzioni immediate ai problemi e con la prospettiva che esse diventino germe di sviluppo per le comunità interessate. Ed anche la sua articolata capacità di rispondere a situazioni anche molto diverse seppure tutte connotate dall’estrema severità dei vincoli. L’autore ha la consapevolezza che intervenire in condizioni estreme chiede più progetto e controllo del processo, per evitare sprechi di risorse e inefficacia delle azioni. L’analisi della qualità non è un esercizio teorico ma una necessità. Il lavoro di Minervini non nasconde le assurdità e gli approcci sbagliati ma sulla base di esperienze dirette e notevole capacità di elaborazione traccia linee guida per comportamenti corretti, per la ricerca delle soluzioni appropriate agli specifici contesti. Sono presentati ambiti tipologici e geografici molto diversi, dall’Africa con la ricostruzione postemergenza in Burundi e lo sviluppo delle infrastrutture sanitarie in Burkina Faso, alle più vicine realtà dell’est europeo con la riabilitazione di edifici occupati da rifugiati in Georgia e la ricostruzione post bellica in Kossovo. 7


Tutti i casi di cooperazione citati, vissuti direttamente dall’autore, sono presentati con dettagli progettuali, schemi tecnici e analisi critiche. Si tratta di dettagli di esperienze sul terreno che difficilmente trovano spazio nella letteratura del settore.

Condivido la sua convinzione che l’università dovrebbe/potrebbe giocare un ruolo decisamente centrale all’interno della cooperazione internazionale fornendo servizi di alta qualità professionale a tutti gli stakeholders del processo di cooperazione, oltre a garantire valutazioni e identificazione di progetti scientificamente corrette e meno compromesse politicamente. Auspico che la recente creazione di un settore delle relazioni internazionali dedicato alla cooperazione nel Politecnico di Torino possa favorire un impegno del mondo universitario negli interventi per lo sviluppo, e che questo abbecedario possa essere un utilissimo strumento formativo per chi intende muoversi professionalmente nel difficile ruolo di cooperante nel settore habitat. Nuccia Maritano Comoglio

Direttore del Corso di perfezionamento in “Habitat, tecnologia e sviluppo”

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INTERNAZIONALITÀ, PROGETTUALITÀ, SOSTENIBILITÀ L'università e la cooperazione internazionale L’Abbecedario del cooperante, terzo numero della collana World in progress, rappresenta un’occasione preziosa di riflessione sia per quanti operano nel campo sia per chi per la prima volta si avvicina al tema della ‘cooperazione’. Corrado Minervini, raccogliendo l’esperienza di molti anni di studio e operatività sul campo, ha voluto trattare un argomento che è raramente affrontato ‘a cuore aperto’, proponendo le proprie considerazioni a stimolo per altri. Chi è il cooperante? Chi è il cooperato, ossia il beneficiario di azioni di sviluppo? Chi è attore e chi subisce la cooperazione? Qual è la logica del donatore e quale quella del beneficiario? Mi sembra significativo che proprio un ‘operatore’ in questo settore, che è anche entusiasta studioso e formidabile comunicatore, abbia deciso di scrivere riguardo la cooperazione attraverso un’analisi critica e propositiva dei suoi strumenti.

Colgo pertanto come opportunità le sollecitazioni di Corrado per riflettere su quale ruolo (e responsabilità) può assumere l’Università – nel cui ambito abbiamo scelto di operare – nei confronti della cooperazione allo sviluppo, nella formazione, nella ricerca, nella progettazione e nella consulenza tecnica. Sembra sempre più inderogabile che i centri, le strutture di ricerca più prestigiose e avanzate che hanno concorso in modo determinante alla crescita della conoscenza, della tecnologia, della ricchezza dei paesi ‘forti’ pongano al centro dei loro interessi e delle loro strategie i temi dello sviluppo autenticamente sostenibile, della riduzione del divario tecnico-scientifico e socio-economico tra le aree del mondo, della lotta allo spreco e all’insensatezza dei comportamenti, della valutazione rigorosa delle opportunità e delle necessità, della revisione critica delle ideologie e degli interessi di parte. Del resto oggi, dopo l’onda lunga degli entusiasmi neo positivisti, sempre più si ha coscienza che le risorse a disposizione non siano tanto abbondanti rispetto al fabbisogno. E che i limiti di spazio, di materiali, di clima, di disponibilità energetica, di reddito, di accessibilità, di programmi, i limiti posti da società chiuse, e segregazione razziale o religiosa, i limiti posti dalla scarsità di conoscenze, non adeguate ad affrontare il problema casa e città per tutti, i limiti alle possibilità di controllo ambientale, siano condizioni che non caratterizzano soltanto i luoghi più lontani dall’Occidente evoluto. I segnali della limitatezza delle risorse cominciano ad esser chiari. Senza dimenticare che ci si è garantiti alti standard di vita solo al prezzo dell’arretratezza del resto del pianeta: un bilancio energetico di risorse che cerca di trovare l’equilibrio.

I problemi emergenti dal mondo chiedono ricerca e formazione professionale in grado di confrontarsi con utenze generalmente dimenticate dai normali circuiti accademici. L’enorme potenziale scientifico a disposizione dell’Università è in grado di produrre risultati di portata rivoluzionaria sul piano della ricerca di forme inedite di interdisciplinarietà, della sperimentazione di nuovi materiali e nuove forme di produzione, del trasferimento tecnologico dai settori di punta dell’innovazione ai mondi in via di trasformazione. La città del ‘Sud’ del mondo, spesso luogo di accumulo e esplosione di tensioni, accoglie la possibilità di un infinito laboratorio culturale per il futuro. Non da meno risultano importanti le attenzioni rivolte allo sviluppo dei piccoli centri, dove le proposte tecnologiche, urbanistiche, infrastrutturali a piccola scala possono portare benefici importanti a numeri consistenti di persone. Tali situazioni, caratterizzate da scarsità di risorse, per organizzare risposte adeguate alla molteplicità di vincoli possono innescare processi creativi autentici, lontani dal rischio di stereotipi formali o linguistici: attenzione, invenzione, plausibilità, ascolto. In tal senso si sono mosse le esperienze del Politecnico di Torino, in particolare il Centro di ricerca e documentazione in tecnologia, architettura e città nei Paesi in via di sviluppo1 del Dipartimento Casacittà, ossia nel curare l’aspetto della formazione delle risorse umane da coinvolgere in progetti, in istituzioni, organismi operanti nel campo dello sviluppo, accanto ad attività volte alla diffusione di informazioni ed al sostegno delle relazioni tra studiosi, ricercatori, enti pubblici e privati a livello nazionale ed internazionale. L’obiettivo è quello di formare persone con un approccio ‘integrato’ al progetto fondato sulla capacità di interagire e scambiare, con atteggiamento flessibile, in contesti culturali, politici, economici differenti, dei quali capire di volta in volta le caratteristiche e peculiarità, individuando ogni risorsa disponibile. Una forma di cooperazione da riconfigurare ogni volta, basata sul riconoscimento di un partenariato di attori diversi, con una prospettiva non più di breve e medio termine.

Per realizzare tutto ciò è però necessario che l’Università sappia incentivare i rapporti di scambio, costruire relazioni tra partner diversi basate su criteri di continuità, creare occasioni di dialogo tra settori disciplinari accademici ed iniziative pubbliche e private, svolgere azioni di coordinamento e facilitazione. Agisca cioè con un atteggiamento generale di natura strategica, creando sinergie mettendo a massimo rendimento le risorse che già esistono. In questi termini il dialogare con attori diversi è certamente un esercizio utile e necessario per l’Università che, pur avendo un ruolo chiave nel produrre e diffondere conoscenza, per la sua distanza ‘dal campo’ assume spesso un linguaggio inadeguato a inefficace. Oggi, nonostante un’accresciuta attenzione e partecipazione a questi processi, ancor di più va 9


rafforzata la consapevolezza dell’estrema importanza dei compiti formativi di cui l’Università è responsabile nei confronti delle nuove generazioni, assumendo una posizione precisa nei confronti di atteggiamenti che assegnano all’architettura lo spazio della stravaganza e della gratuità, dell’agire in contesti metafisici in cui le risorse sono infinite e le possibilità di scelta illimitate. Internazionalità, progettualità, sostenibilità sono idee-guida che hanno pieno diritto di cittadinanza in un ateneo. Internazionalità intesa come finestra aperta sulla diversità e sulla pluralità delle culture e delle condizioni materiali, per quanto lontane, per quanto difficili da capire. Progettualità come capacità di finalizzare saperi diversi e risorse scarse alla realizzazione di obiettivi la cui ragione civile concorre alla costruzione di valori etici, alla risposta a domande autentiche, in un processo che vede l’identificazione stessa del problema, il suo riconoscimento, come parte integrante della risposta progettuale. Sostenibilità come filosofia della parsimonia e della qualità conseguita non a scapito di altri, ma a favore di tutti, in un quadro di utilizzo delle risorse finalizzato al benessere reale delle persone, prima e al di là degli interessi delle forze economiche dominanti.

Ringrazio dunque Corrado di questa ‘provocazione’, di cui beneficeranno certamente gli studenti del Corso di perfezionamento in Habitat Tecnologia e Sviluppo che il CRD-PVS organizza e coordina, e i tanti studenti e laureandi che sempre più si stanno avvicinando con curiosità e passione al problema. Francesca De Filippi

Direttore del Centro di ricerca e di documentazione in Tecnologia, Architettura e Città nei Paesi in via di sviluppo

1 Il Centro di ricerca e documentazione in tecnologia, architettura e città nei paesi in via di sviluppo ha dato seguito alla missione formativa della scuola di specializzazione in Tecnologia, Architettura e Città nei paesi in via di sviluppo, (fondata da Giorgio Ceragioli nel 1989) con un corso di perfezionamento di durata annuale in Habitat, Tecnologia e Sviluppo.

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CAPITOLO PRIMO I prolegomeni dello sviluppo

La cooperazione internazionale presuppone che ci siano due interlocutori che ‘cooperano’ per la realizzazione di un programma di ‘sviluppo’ in una determinata area ‘non sviluppata’. I due principali interlocutori sono: il cooperante ed il beneficiario delle azioni di cooperazione. Essi discutono e si adoperano in merito all’opportunità di produrre sviluppo in seno, evidentemente, al contesto del beneficiario, ma parlano due lingue differenti perché il più delle volte appartengono a culture differenti: quella dello ‘sviluppo’ e quella del ‘sottosviluppo’. A seconda delle condizioni di sviluppo potenziale del beneficiario1 e degli eventi che ne hanno caratterizzato il sottosviluppo si predispongono progetti di emergenza o di ‘semplice’ sviluppo.

Da diversi decenni ormai la cooperazione internazionale opera nel mondo intero dividendolo in due: il primo ed il terzo mondo, i ricchi ed i poveri. Il secondo mondo originariamente in antitesi con il primo ha gettato la spugna nel 1989 con il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione della cosiddetta cortina di ferro. Ma solo con la fondazione delle Nazioni Unite e l’adozione e proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani2 la cooperazione prende voti laici, definisce i suoi chiari principi e si fa multinazionale, bilaterale e poi anche decentrata3. Dal 1948 l’articolo 25 di quella Dichiarazione Universale recita il diritto di tutti alla casa, alla salute e al lavoro4. Oggi lo recita ancora e grida la sua stentata applicazione a distanza di mezzo secolo, mentre la cooperazione internazionale è diventata un affare internazionale. Le ‘agenzie di sviluppo’ fanno fiorire i loro profitti pur di garantire lo sviluppo dei più poveri in nome dell’efficienza e dell’alta professionalità. La globalizzazione dal canto suo tenta di riportare alle regole dell’economia dello sviluppo anche quelle più peculiari di un’economia differente e del sottosviluppo. La lingua si universalizza e cosi il cooperante, il beneficiario, i programmi ed i progetti di emergenza e di sviluppo diventano termini che si riferiscono a concetti consolidati nel corso di questi ultimi anni. Hanno addirittura determinato un glossario della cooperazione internazionale molto specifico, i cui significati si sono radicati intorno ad espressioni prevalentemente anglofone, che usano cioè la lingua dell’ ‘invasore’, come spesso la definisce il ‘beneficiario’. È per questo che nei capitoli che seguiranno, la terminologia inglese (in italico) sarà affiancata a quella italiana che, nella maggior parte dei casi (non sempre), risulterà dalla traduzione della versione originale.

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1.1 Abecedario del cooperante

Come s’è visto gli attori (stakeholders) del processo di cooperazione sono essenzialmente il cooperante (colui che rende attivo un progetto di sviluppo e che in teoria coopera con il beneficiario) ed il ‘cooperato’, ossia il beneficiario delle azioni del programma di sviluppo. Il cooperante ed il ‘cooperato’ non sono però che alcuni degli attori che partecipano al progetto di cooperazione. Le categorie di attori sono in realtà quattro, almeno quante sono le principali funzioni che si esplicano all’interno del processo di cooperazione, e si possono riassumere in quattro differenti personaggi: – il donatore (donor), privato o pubblico finanziatore di programmi di sviluppo, – il beneficiario o target del programma, – il realizzatore o anche implementatore (implementing partner), responsabile della proposta tecnica (per la realizzazione del programma) e generalmente anche esecutore del progetto, – il valutatore, figura di esperto che valuta il progetto (o proposta tecnica) sia nella fase propositiva (ex ante-evaluation) o a seguito del suo completamento (ex post-evaluation).

Le Azioni che queste categorie di attori sono chiamati a svolgere sono relative a: – programmi (programmes) e – progetti (projects)

I primi sono proposti dai donatori, i progetti invece sono proposti dai realizzatori. In pratica sulla base di politiche di sviluppo identificate dai donatori per i paesi ‘donati’ si elaborano programmi di sviluppo per settore (per esempio agricoltura, sviluppo industriale, amministrazione pubblica) o per tema (occupazione, strade rurali, approvvigionamento idrico, smaltimento dei rifiuti ecc.). Le agenzie di sviluppo (profit e non) sulla base di bandi di concorso, pubblicati dai donatori, si propongono di realizzare il programma sottoponendo al donatore una propria interpretazione del programma attraverso una proposta tecnica. Le proposte tecniche sono valutate da un punto di vista

Figura 1: Gli enti che partecipano ai programmi e progetti di sviluppo.

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Figura 2: Le ONG si fanno portavoce dell’azione umanitaria a favore di Comunità di Base.

qualitativo e quantitativo, il valore dell’offerta (o proposta tecnica) è opportunamente stimato e il miglior proponente è selezionato ed incaricato dell’esecuzione del progetto proposto.

Il donatore ed il beneficiario (il beneficiario finale, ossia la totalità dei cittadini, e spesso i poveri, i vulnerabili, gli esclusi) raramente comunicano tra loro. Tra l’altro è sempre più invalso l’uso di considerare beneficiario un governo o un ministero, in altri termini un ente governativo equipollente al donatore. I cittadini, i beneficiari ultimi delle azioni di cooperazione, sono semplicemente ultimi e si identificano con gli amorfi e passivi recettori dei benefici di un’attività di cooperazione, paradossalmente a loro favore, che si svolge, sempre a loro, da cinquant’anni. Quando si parlano, donatori e beneficiari, comunicano indirettamente attraverso mediatori ovvero esperti professionisti incaricati sia dell’identificazione di un bisogno sul quale impostare un programma sia dell’eventuale esecuzione del progetto. Solo a partire dagli anni settanta i beneficiari hanno cominciato ad essere timidamente attori del processo di sviluppo che li concerneva. Tale partecipazione non escludeva comunque il ruolo del mediatore5 che si faceva occasionalmente latore di istanze di sviluppo della cosiddetta comunità di base presso le sedi dei donatori. Quando poi i beneficiari risultano essere colpevoli di azioni non legali, come ad esempio l’occupazione abusiva di terre o di edifici, allora anche il semplice rapporto tra istituzioni (legali) e comunità di base (colpevoli) è definitivamente, in teoria, negato. È questo il caso di diversi progetti di recupero di illeciti edilizi, generati da indigenti, che si intendono recuperare (in altri termini: sanare) non per altro motivo che per favore umanitario6. In queste delicate situazioni sono le Organizzazioni non Go-


giocare un ruolo decisamente centrale all’interno della cooperazione internazionale in termini di fornitore di servizi di alta qualità professionale a tutti gli stakeholders del processo di sviluppo nei paesi emergenti oltre naturalmente a garantire una valutazione e identificazione di progetti meno compromessa politicamente e più scientificamente corretta. Ciò che è sicuro è che comunque le università – per il momento e come si evince dallo schema – non hanno alcun rapporto, o hanno un rapporto molto sporadico e discontinuo, con le fonti erogatrici di finanziamenti (i donatori).

1.2 Il cooperante ed il cooperato

Figura 3: Il motore dello sviluppo.

vernative che stabiliscono il dialogo costruttivo con le Comunità di Base, che a loro volta rappresentano gli indigenti costituitisi in associazione spontanea.

In realtà i programmi di questi ultimi decenni hanno come principale obiettivo quello di innescare il motore dello sviluppo all’interno di un paese o di una comunità. In questa logica della moderna economia di mercato anche il recupero della domanda potenziale (e perciò anche di quella parte della popolazione emarginata, più vulnerabile ed in una parola: povera) diventa cruciale. Ciò giustifica altresì l’intromissione professionale delle cosiddette Agenzie di Sviluppo a carattere profit all’interno della cooperazione internazionale. Queste, assieme a tutti gli altri attori, contribuirebbero a raccordare i pezzi del delicato puzzle del circolo virtuoso dello sviluppo che il programma di cooperazione internazionale intende promuovere. Nello specifico le Agenzie di Sviluppo, ispirate finanziariamente dai donatori, consolidano il rapporto tra i rappresentanti della domanda (le pubbliche amministrazioni) e i rappresentanti dell’offerta (investitori e produttori). Il loro campo, d’azione è differente da quello delle ONG che invece si adoperano affannosamente (sebbene abbiano – coscientemente o no – lo stesso obiettivo) a risollevare le sorti della domanda potenziale negoziando, tra il settore informale e le pubbliche amministrazioni, l’accesso e l’accessibilità al mercato. Finora non sono state menzionate le università che oggi operano un ruolo ancora troppo marginale all’interno della cooperazione internazionale, essendo questo limitato a ricerche sporadiche e spesso inefficaci, e alla formazione – funzione tra l’altro contesa alle Agenzie di Sviluppo e alle agenzie delle Nazioni Unite. Alla luce delle impressionanti risorse e capacità, le università potrebbero invece

Il cooperante dell’Europa occidentale che opera nei paesi in via di sviluppo è una figura ambigua: tra l’imbarazzato nell’affrontare una realtà culturale e sociale radicalmente differente dalla propria ed il super dotato, orgoglioso delle proprie conoscenze, del sapere tecnico-scientifico acquisito quasi geneticamente a causa dei propri natali (fortunati) in un paese che garantisce molti diritti, un benessere e soprattutto un passaporto. Egli è pieno di timori e nello stesso tempo è sicuro di se. Appena gli verrà data la possibilità mostrerà i suoi muscoli, il suo computer, i suoi dati, la sua rete di conoscenze, la sua abilità logica, la sua eloquenza.

I cooperati (coloro che subiscono il cooperante), invece, da una parte ne subiscono il fascino con timore reverenziale: lui tutto può e qualsiasi cosa dica è vera; dall’altra ne deridono le movenze e la pretesa di conoscere quel territorio che si svela solo ai suoi storici abitanti. Questi sono coloro che per sfortunate vicende legate ad accidenti storici o naturali si trovano lì piuttosto che dall’altra parte e guardano all’ ‘invasore’ della loro povertà con rabbia, ironia o timor panico a seconda delle circostanze o area geografica. Molto spesso infatti loro hanno conosciuto lo sviluppo di quando ‘si stava meglio prima’ (è il caso delle popolazioni balcaniche, del sud america e di parte della Cina) e pertanto la reazione snobistica alla cooperazione internazionale è quasi d’uopo.

È cosi che il cooperante figura talvolta da sapiente esperto talvolta da insolente imbecille, a seconda del punto di vista7. Lui (il cooperante) crede di sapere almeno quanto la cultura a cui appartiene. In effetti, lui sa, ma sa spesso inutilmente, stupidamente, o forse farebbe meglio a non sapere perché la sua sapienza è inutile in una terra di cui non sa e forse non vuole nemmeno sapere.

Ma poi sarebbe veramente possibile conoscere quei luoghi e quella cultura nell’arco di una missione? Sarebbe effettivamente possibile riuscire a vestire la cultura altrui abbandonando la propria? Il dilemma è stato proposto negli annali dell’antropologia culturale e poi nella avvincente letteratura di Carlos Castaneda8, quando gli strumenti cognitivi del ricercatore occidentale finivano per corrompersi nella lettura del diverso, dell’altrui e del ‘maivistoprima’. A questo punto Castaneda propone nella sua metafora letteraria la corruzione della mente 13


attraverso l’assunzione di droghe allucinogene che avrebbero potuto fornire la possibilità (o l’alibi?) di avvicinarsi ai luoghi ineffabili dell’altro.

La cooperazione ci passa su volgarmente e con violenza rinuncia alla comunicazione con l’altro e fonda un proprio linguaggio, un metodo, una logica che nella maggiorparte dei casi non solo non è condivisa ma impensabile da parte dell’altro (il cosiddetto cooperato).

Figura 4: Il cooperante ed il cooperato, il Donatore ed il Beneficiario.

Di fatto si è sviluppata una barriera quasi insormontabile tra la logica dell’occidente e la cultura altra, la cultura della povertà alla quale non è degnata altra dignità che la supposta ‘inoperosità della povertà’ (non si produce perché si è poveri) che gia si morderebbe la coda nel momento in cui si sostenesse che ‘si è poveri perché non si produce’. A riprova della quasi impossibilità di comunicazione tra il cooperante ed il cooperato (o meglio tra il donatore ed il beneficiario) a causa del loro far riferimento a logiche differenti si potrebbe portare un test9 che è stato adoperato in Mathari valley, uno degli slum più disumani di Nairobi (Kenya).

Priorities of Mathari valley people10

Mathari valley is one of the worst slums in Nairobi, Kenia. The Nairobi City Council made a survey of over 2,000 families in Mathari valley. They asked the people what problems the people saw as most important in their lives in the Valley.

Instructions: Rank in order of what you think the people in the Valley answered as their first, second, third priorities, etc. Place a number 1 by the one you think they ranked first, a number 2 by the one you think they ranked second, etc up to 10. Write your numbers in the left hand column.

A.

B.

C.

D.

E.

F.

Individual ranking

Actual

_______________ Land

______________

_______________ Clean water

_______________ Shelter

_______________ Clothing

_______________ School fees

_______________ Food

G.

_______________ Money to expand their business

I.

_______________ A better standard of housing

H.

J.

_______________ Educational facilities

_______________ Sanitation

______________

______________

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______________

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Sum up**

* Do not mark the sign (whether positive or negative) ** The lower the score, the closer to the community’s perception 14

Subtract personal from actual*

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Attraverso questo test si riesce a dimostrare che la distanza culturale tra il cooperante ed il cooperato è quasi incolmabile e che l’approccio allo sviluppo dei beneficiari è radicalmente diverso da quello in genere adottato dai donatori11.

In pratica le risposte ottenute dalla popolazione locale di Mathari Valley (actual responses) a questa inchiesta sui fabbisogni (need assessment) sono le seguenti in ordine di priorità:

1

Risposte ottenute dalla popolazione locale (inglese) Food

Risposte Ipotesi di ottenute dalla Significato popolazione locale (italiano) Cibo

2

Shelter

Un tetto

3

School fees

Tasse scolastiche pagate

Una forma qualsivoglia di sostentamento primario come per esempio la nutrizione

Un riparo, un’abitazione anche se minima per proteggersi dalle intemperie Istruzione gratuita per la conoscenza di strumenti e tecniche di mercato o di produzione

4

Clothing

Abbigliamento

5

Land

Terra

6

Money to expand their business

Denaro per lo sviluppo delle attività

7

Clean water

Acqua pulita

8

Sanitation

9

Impianti Adeguata igienico sanitari struttura fognaria per migliorare le condizioni igienico sanitarie

Better standard Migliori of housing condizioni abitative

10 Educational facilities

Scuole

Indumenti idonei ed essenziali allo svolgimento delle future attività produttive

Proprietà di un pezzo di terra per abitarci e su cui iniziare la propria attività produttiva Un minimo di garanzie finanziarie per l’investimento iniziale

Approvvigioname nto idrico con acqua potabile garantita

Un’abitazione più confortevole ed adeguata ad eventuali miglioramenti socio-economici

Istruzione e servizi sociali per garantire la crescita

1

Risposte Interpretazione delle risposte, in ottenute dalla prima persona, alla domanda: “Di popolazione cosa avresti bisogno?” locale (inglese) Food & Shelter

Mi si fornisca di un essenziale kit per la sopravvivenza

2

School fees & Clothing

3

Land & Money Avrei bisogno di maggiore to expand their stabilità: possedere un pezzo di business terra per vivere e per effettuare investimenti nel settore produttivo o commerciale

4 5

Clean water & Sanitation Better standard of housing & Educational facilities

Mi si dia la possibilità di apprendere il minimo per comunicare ed intraprendere (mi si paghi le school fees) cosi come la possibilità di apparire in condizioni accettabili (clothing)

Avrei bisogno infine di approvvigionamento idrico, impianti igienico sanitari, un’abitazione decente e servizi scolastici; ma tutto questo, probabilmente, sarà già il risultato del processo di sviluppo che si sarà realizzato a seguito dell’ottenimento di: 1. Food & Shelter 2. School fees & Clothing 3. Land & Money to expand their business

Tavola 1: Analisi dei bisogni a Mathari Valley

Il beneficiario segue una sua logica ineccepibile affermando che il suo modo di vedere il suo processo di sviluppo attraverso l’aiuto esterno consisterebbe in soli tre punti: 1. avere la garanzia della propria sopravvivenza, 2. poter essere informato adeguatamente sulle modalità di produzione ed investimento, 3. poter disporre di una maggiore stabilità economica iniziale basata sul possesso della terra e di una somma in denaro per effettuare i necessari primi investimenti.

Secondo il beneficiario la diretta conseguenza di queste donazioni o garanzie per lo sviluppo sostenibile locale sarebbero l’acqua potabile, appropriati impianti igienico-sanitari, migliori condizioni abitative e relativi servizi sociali.

La logica della popolazione locale è impeccabile ed è basata sulla richiesta di aiuti diretti per far fronte alla fisica sopravvivenza, alla formazione ed al possesso di sufficienti mezzi di produzione.

La logica del donatore invece è radicalmente opposta e consiste nel dover innanzitutto assicurare all’ambiente condizioni igienico sanitarie adeguate allo sviluppo incipiente, perché, spiega il donatore, attraverso l’acqua potabile e corrette condizioni igienico-sanitarie, si evitano le malattie infettive e pertanto ci si mette in condizioni di lavorare e produrre. Al primo posto tra le azioni di supporto allo sviluppo delle popolazioni indigenti sono pertanto incluse quelle che gli indigeni considerano una mera conseguenza del processo di sviluppo, e che i donatori invece considerano una condizio sine qua non per lo sviluppo. 15


Al fine di attivare una qualsiasi produzione hai bisogno di un ambiente sano che ti permetta di essere sano e produttivo

Se mi offrissi la possibilità di sopravvivere e di produrre, potrei garantirmi infine un ambiente sano

Figura 5: Donatore e beneficiario: posizioni contraddittorie per lo sviluppo.

Quale delle due logiche è da considerarsi più appropriata? Difficile dirlo. Di fatto la logica dei donatori è propria di un occidentale che ha sviluppato standard abitativi liberi dalle proprie deiezioni ed un ambiente (apparentemente) pulito; e che grazie a questi standard può ulteriormente svilupparsi; dimenticando (volutamente?) le proprie origini. La logica del beneficiario invece glissa sulla questione ‘rischi sanitari’ come se questi fossero congeniti alle condizioni di vita locali e non potessero in alcun modo nuocere alla propria esistenza e produttività. In verità è probabile che gli anticorpi degli indigenti del terzomondo siano più sviluppati di quelli di altri e che basterebbe in realtà qualche piccola misura cautelativa per ovviare al problema del deficit sanitario e affrontare con più serenità (o appropriatezza) quello della produzione e sviluppo. È cosi che la maggior parte dei programmi di sviluppo lanciati dai donatori a partire dalla fine degli anni ottanta non possono prescindere da quelli che sono chiamati i basic need provision, ovvero l’offerta di soddisfacimento di bisogni primari finalizzati a garantire un ambiente abitativo e produttivo salubre. A distanza di quasi vent’anni sembra che uno sforzo, sia pure limitato, si stia compiendo per mediare le due posizioni nel momento in cui i principali donatori: – interpretano ‘la garanzia di sopravvivenza’ rivendicata da parte delle popolazioni più indigenti in termini di sussidio di basic needs, da applicarsi adeguatamente nelle situazioni di rischi endemici di malattie infettive. 16

Figura 6: Logica del Donatore: Migliori condizioni igienicosanitarie per garantirsi un ambiente sano per lavorare, produrre, guadagnare e poi migliorare le proprie condizioni abitative.

– soddisfano la ‘necessità di essere informati adeguatamente sulle modalità di produzione ed investimento’, attraverso azioni di capacity building di investitori locali, attraverso assistenza tecnica delle piccole e medie imprese e creando incubatori per le micro-imprese con potenziali di crescita. – rispondono alla richiesta di ‘una maggiore stabilità economica iniziale basata sul possesso della terra e di una somma in denaro per effettuare i necessari investimenti’ favorendo il foreign direct investment12, l’aiuto allo sviluppo in forma di credito13 e lanciando i credit ratings14 per aiutare le municipalità (che beneficiano del processo di decentralizzazione) a disporre di risorse finanziarie per creare infrastrutture utili alla produzione e sviluppo di imprese.

Eppure nonostante questi sforzi e le enormi capacità e risorse dell’occidente civilizzato si è ben lungi dalla risoluzione dei problemi della povertà (soprattutto nel sud del mondo), benché si stiano muovendo i primi passi verso la comprensione di istanze di sviluppo della popolazione urbana più povera15 consistenti nel: – riconoscimento dell’esistenza di proprie risorse e strategie per emergere dalla povertà, – rimozione degli ostacoli all’espressione delle loro capacità, – riconoscimento delle loro identità culturali, – riconoscimento del ruolo dominante, nei progetti di miglioramento urbano, dei poteri di organizzazioni democratiche preesistenti.


1. water supply

2. sanitation

3. housing

4. health care services

5. health education

Figura 7: Basic Need Provisions

1.3 I Rifugiati: note in emergenza

Il rifugiato è il beneficiario per eccellenza dei programmi di emergenza. È una figura sociale che si è creata nel momento in cui il cittadino urbanizzato ha dovuto forzatamente abbandonare il suo stato e condizione per trasferirsi altrove senza ruolo né funzione se non quella di fruire abusivamente di un territorio altrui.

Le categorie di fruizione del territorio sono essenzialmente due: stanziale e nomade. La prima ha sviluppato la ‘cultura urbana’ a cui apparte-

niamo, la seconda ne è la sua antitesi. La distinzione topica è essenzialmente quella che risale all’opposizione tra la figura maschile e quella femminile, tra l’allevatore e l’agricoltore; figure che hanno poi ritrovato una loro precisa collocazione letteraria e, diciamo pure morale, nelle figure bibliche di Caino e Abele, irruento e battagliero il primo, docile e assecondante il secondo. Le figure di habitat che sono legate a questi due rispettivi caratteri sono l’itinerario ciclico e la città. Quest’ultima – in conflittuale combinazione con il rurale circostante – si realizza nella sedimentazione di modelli abitativi, nella combinatoria di materiali durevoli e in un’economia che dalla produzione sistematizzata e trasformazione dei prodotti primari passa alla loro accumulazione e commercializzazione. Dall’altra parte invece il nomadismo tende alla provvisorietà, al dinamismo, alla degna sopravvivenza e allo scambio di prodotti artigianali o comunque peculiari della mobilità del nomade. Oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive in città. Il territorio del mondo è stato progressivamente urbanizzato e larghe fasce di popolazione si sono da diverso tempo accomodate alla stanzialità urbana. Quando queste sono indotte alla mobilità coatta sia da fenomeni catastrofici naturali e accidentali (terremoti, inondazioni), che da eventi bellici, allora una nuova categoria antropologica viene a crearsi: quella del non stanziale e del non nomade, quella del nomade ex-stanziale o semplicemente del rifugiato. I rifugiati sono i nomadi del ventesimo secolo: figure contraddittorie di ex-cittadini a cui è stato imposto, a causa di evento calamitoso o bellico, lo status provvisorio di nomade.

Vi sono diversi tipi di rifugiati: quelli che fuggendo dalla guerra si rifugiano in un territorio generalmente non urbanizzato che potrebbe offrire loro garanzie di pace (per esempio i profughi ruandesi in Zaire e Burundi nel 199316); quelli che fuggendo dalla loro città si insediano in località dalle quali altri sono fuggiti (come per esempio i rifugiati bosniaci nelle case serbe della città di Mostar in Bosnia Erzegovina nel 1994), quelli che ritornano ad occupare villaggi o città d’origine essendo stati precedentemente costretti ad abbandonarli (come i contadini del Kurdistan iracheno subito dopo i bombardamenti dei villaggi da parte del governo di Saddam Hussein), quelli che fuggono e si rifugiano in edifici pubblici occupandoli (come a Tbilisi per i rifugiati georgiani dell’Abkazia e sud Ossezia), quelli che fuggono e basta. Se i primi organizzano campi profughi in piena campagna, delle vere e proprie città di migliaia di abitanti sorte dal nulla, gli altri si sovrappongono alle strutture già esistenti provocando problemi di ordine socio-economico; i terzi, paradossalmente i più fortunati, devono affrontare ‘solo’ problemi di ricostruzione delle loro stesse abitazioni, i quarti devono tentare l’integrazione all’interno di un tessuto sociale alieno e diffidente, gli ultimi, come tutti gli altri, devono sopravvivere fisicamente e psicologicamente dopo aver perduto tutto tranne, purtroppo, la memoria. 17


Le Nazioni Unite hanno creato un’agenzia, con sede a Ginevra, dal nome UNHCR17 (United Nations High Commission for Refugees) – in italiano ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) – che si interessa della organizzazione e gestione di azioni a favore del sempre più crescente numero di rifugiati nel mondo.

I campi profughi costituiscono l’immagine più forte dell’impegno sul campo dell’agenzia delle Nazioni Unite. Si tratta di città nuove: le uniche fondate da mezzo secolo a questa parte. Si presentano con le caratteristiche dell’anti-città: totalmente improduttive e negative a causa dello stato di profonda depressione psichica in cui versano i loro abitanti, ciò che induce l’inabilità fisica. Il campo profughi, la città dei rifugiati per eccellenza si presenta come insediamento di nuova fondazione perfettamente ed illusoriamente funzionale. La città è costruita secondo principi della pura razionalità: da una parte i servizi, dall’altra le abitazioni ed i servizi primari alle abitazioni, né ci sono aree produttive18 a sottolineare la temporaneità di un insediamento assunto a luogo di cura dalla violenza e inciviltà; in una parola dall’inurbanità. Al prorompere dell’emergenza le organizzazioni internazionali, e attraverso queste le organizzazioni non governative, si adoperano nell’individuare le fonti di approvvigionamento idrico, nel definire i punti di distribuzione di acqua e cibo, ed i luoghi per le evacuazioni e smaltimento dei rifiuti organici. Le strade larghe come viali della desolazione non portano a nulla; non hanno altra funzione che di garantire un adeguato drenaggio e dislocare i servizi. I campi profughi si costruiscono pertanto intorno a mere necessità funzionali tipiche della cosiddetta prima emergenza (approvvigionamento idrico e alimentare, smaltimento dei rifiuti e delle acque) e su

una maglia di circa 100 x 100 metri all’interno della quale si organizzano i quartieri e all’interno di questi cellule che ospitano fino a 60 persone.

A fine emergenza i campi profughi sono smantellati e i rifugiati sono accompagnati da programmi di rientro nelle loro terre d’origine o sono raramente rilocalizzati. Ma ciò è vero solo in parte. Ancora oggi in Libano i campi profughi sono città di diseredati, luoghi vuoti da un punto di vista istituzionale e che vanno a sommarsi alle innumerevoli realtà di slum internazionali come le bidonvilles, le favelas e i barrios.

Figura 9: Esempi di maglia sulla quale tracciare un campo profughi.

Canali di drenaggio tutt’attorno i blocchi di cellule Cellule. Ogni cellula può contenere fino a 8-10 tende ed uno spazio comune per la cucina coperta ed economica

Servizi vulnerabili come scuole, centri sportivi attrezzati, polizia e centri di distribuzione alimentare Buffer : Trincea di separazione tra servizi vulnerabili e campo profughi

Pertinenze sanitarie (latrine) negli interstizi tra batterie di cellule

(in verde) sedi delle ONG incaricate di gestire direttamente attività speciali o servizi

Lo spazio centrale all’interno della cellula ospita la cucina comune

(in tratteggio) i principali assi stradali e di drenaggio (in giallo) i quartieri residenziali per rifugiati ulteriormente divisi in celle. Tra i quartieri le strade sono disseminate di servizi igienici e centri di approvvigionamento idrico

Figura 8: Esempio di campo profughi.

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Le batterie di latrine servono gruppi di cellule. Sei cellule (circa 400 persone) devono essere servite da una batteria di 8 latrine. Ogni latrina infatti serve circa 50 persone per 3 anni se il pozzo nero ha una profondità di 5 metri ed un diametro di un metro e mezzo Figura 10: Aggregazione di cellule.


Figura 11: Cellula di 450 mq in grado di contenere fino a 60 persone e dettaglio dello spazio destinato al riposo e alla cucina (coperta).

1.4 Dall’Emergenza allo sviluppo

Emergenza e sviluppo hanno bisogno di approcci completamente differenti: il primo prevalentemente tecnico, il secondo economico. La fase della ricostruzione che segue l’emergenza e predispone allo sviluppo affronta invece (o dovrebbe affrontare) tematiche dell’uno e dell’altro molto spesso separatamente: da una parte la ricostruzione di servizi, infrastrutture e (se il paese è strategicamente importante) anche abitazioni; dall’altro l’assistenza tecnica alle imprese e istituzioni locali per la ripresa economica.

Figura 12: Dall’emergenza allo sviluppo.

In questa fase di estrema delicatezza, nel corso della quale si imposta e si decidono le forme dello sviluppo territoriale, la pianificazione urbana è esclusa e relegata a ruolo di semplice supporto infrastrutturale allo sviluppo. In altri termini la logica funzionale sulla quale si basa la costruzione dei campi profughi è ripresa e riapplicata. Solo molto dopo, e solo in alcune realtà geografiche, il territorio è fatto oggetto di attenzione da parte della comunità internazionale ed assunto a base gestionale (urban management) e fondamento normativo dello sviluppo.

1.4.1 Emergenza in formule

In fase di emergenza i problemi che devono essere affrontati sono quelli del quotidiano legati alla sopravvivenza fisica dei rifugiati o dei sopravvissuti al cataclisma o alla guerra. Le domande alle quali l’emergenza risponde sono normalmente le seguenti: – Quanta acqua per giorno e per persona occorre predisporre e distribuire ? – Quanto grande deve essere la trincea o i pozzi neri delle latrine ? – Quanto cibo ? – Come organizzare il monitoring sanitario ? Semplici questioni che sono legate a formule di calcolo per l’approvvigionamento idrico e lo smaltimento dei rifiuti organici umani come riportate nei riquadri qui di seguito. 19


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Il monitoring sanitario invece è effettuato attraverso analisi finalizzate all’identificazione di settori di priorità sui quali dover intervenire, per esempio: 1. Smaltimento dei rifiuti organici umani ed animali (Excreta disposal) 2. Gestione dei rifiuti solidi (Solid waste management) 3. Gestione dei rifiuti sanitari (Waste management at the medical centre) 4. Rimozione e smaltimento dei defunti (Disposal of the dead bodies) 5. Gestione delle acque luride (Wastewater management) 6. Miglioramento igienico (Hygiene promotion) Ciascun settore deve essere analizzato in aree residenziali, mercati pubblici, mense pubbliche, centri medici e scuole. A questo proposito potrebbero essere realizzati software applicativi come per esempio quello messo a punto da WEDC19 (Emergency Sanitation: Rapid Assessment and Priority Setting Tools).

1.4.2 La ricostruzione

La fase di ricostruzione viene gestita da enti multilaterali sulla base di indagini (assessment) elaborate e applicate da esperti tecnici di organizzazioni non governative o gruppi di lavoro appositamente istituiti come per esempio l’International Management Group (IMG)20. Il Preliminary Housing Damage Assessment (riportato qui accanto) è basato sull’analisi dei danni arrecati a quattro diversi componenti edilizi: 1. Murature e orizzontamenti (Walls and Floor Structure) 2. Impianti e partizioni interne (Internal Construction) 3. Tetti e coperture (Roof) 4. Porte e finestre (Windows and Doors) Ciascun componente viene valutato visivamente e un grado (percentuale) di danno è attribuito seguendo le istruzioni riportate nel dettaglio qui di seguito a titolo di esempio.

Tavola 2: Foglio di calcolo della qualità del sistema di smaltimento di deiezioni in area residenziale (tratto da Emergency sanitation: rapid assessment and priority setting tools, WEDC (Water, Engineering and Development Centre) Loughborough University, Leicestershire, Great Britain).

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Tavola 3: Indagine preliminare di danno.

La somma dei danni e i relativi costi di riabilitazione sono calcolati su un foglio Excel una volta attribuiti i costi correnti di costruzione per metro quadro e l’estensione totale dell’edificio. L’obiettivo del Damage Assessment consiste nell’identificare la percentuale di danno funzionale al calcolo del costo di riabilitazione basato sulla valutazione del costo di costruzione a nuovo.

Tavola 4: Dettaglio.

È difficile che l’ente finanziatore (il donatore) finanzi l’intero importo relativo al danno calcolato. Normalmente solo una parte è presa in considerazione e questa è pari al costo e fornitura dei materiali da costruzione aumentata di un’ulteriore percentuale del costo della manodopera. Si suppone infatti che il beneficiario contribuisca in qualche modo alla riabilitazione della propria abitazione con i propri risparmi, l’auto-costruzione o il soccorso mutuo dei vicini e/o parenti. In tal modo si realizza una prima e primitiva forma di partecipazione alla “cosa urbana” che, a rigor di logica, dovrebbe poi essere seguita da azioni sempre più coinvolgenti i cives e che porterebbero al decision making process21 dello sviluppo urbano. In verità questa logica è negata dalla più settoriale ed ingiustificata delle posizioni che vuole che, in fase di ricostruzione, la riabilitazione delle infrastrutture (a rete e sociali) sia sicuramente necessaria ma anche sufficiente allo sviluppo di una determinata area, che la partecipazione dei cittadini può essere limitata alle attività di ricostruzione delle loro case, che la città ed il suo sviluppo è esclusivo appannaggio del piano regolativo di un governo, centrale o provvisorio che sia (vedi il caso Kossovo). 23


Il costo di riabilitazione è calcolato sulla base della percentuale del danno (Real Total Damage Assessment) moltiplicato per il costo della costruzione a nuovo Campi rosa: da riempire Campi grigi: calcolo automatico Tavola 5: Quadro di calcolo dei costi di riabilitazione.

L’impressione è che lo sviluppo (quello degli altri, quello di coloro ai quali si stanno risollevando le sorti) incuta timore, che schiacciare sull’acceleratore della pianificazione partecipata per raggiungere uno sviluppo persino sostenibile non sia particolarmente raccomandabile né auspicabile, e che poi la partecipazione (semmai eccessiva) possa destabilizzare il precario equilibrio (sociale, economico e politico) che si sta tentando di ricostruire.

Se le fondamenta dello sviluppo attraverso la pianificazione urbana partecipata di una città distrutta (dalla guerra o da un terremoto) devono gettarsi in questa fase, è senz’altro questione discutibile. Certo è che la maggior parte delle organizzazioni internazionali ed i più importanti donatori come l’Unione Europea o gli Stati Uniti ritengono (posizione sostenuta attraverso azioni e non attraverso dichiarazioni d’intenti o di appartenenza a scuole di pensiero) che la pianificazione (partecipata o meno) sia da considerarsi base e fondamento dello sviluppo solo a partire da una fase avanzata della ricostruzione se non addirittura a partire dal lancio di progetti di sviluppo. L’Africa, con le dovute eccezioni, ne è comunque esclusa cosi come l’area caraibica. A seguito di una visita curiosa e indagatrice sul ruolo della pianificazione urbana all’interno delle politiche di EuropeAid22, buona parte dei responsabili di uffici di rango ha mostrato profonda convinzione che la pianificazione urbana nei paesi in via di sviluppo non possa che corrispondere ai soli impianti a rete urbani (rete elettrica e strade, ma soprattutto rete fognaria e idrica). Infatti a tutto il 2004 EuropeAid non aveva ancora assunto politiche di aiuto allo sviluppo regionale che integrassero la pianificazione urbana all’interno delle attività promotrici di sviluppo.

La ricostruzione è un momento particolarmente delicato della storia dello sviluppo di un paese. Smorzare le energie che si sviluppano dopo aver toccato il fondo o non saperle gestire e in qualche modo tarparle sarebbe come negare a un bambino il diritto ad esprimere il proprio carattere in piena fase di crescita. 24

1.4.3 Sviluppo e città

La fase di sviluppo della cooperazione internazionale è basata sull’assunto che le risorse esistenti all’interno di una comunità siano produttive e pertanto in grado di produrre o far produrre un valore aggiunto. Di fatto questo assunto coincide con le stesse ragioni d’essere di un qualsiasi insediamento urbano. La città infatti originariamente si determina in funzione di comuni interessi volti alla produzione ottimizzata, accumulo e commercializzazione di prodotti primari. Il passaggio dalla pastorizia errante e raccolta di frutti e vegetali selvatici all’agricoltura e allevamento, in effetti aveva, nella storia dell’antropologia evolutiva, un obiettivo quanto mai funzionale: ottimizzare la produzione vegetale ed animale, accumularne i prodotti per un uso costante nel corso dell’anno, vendere i prodotti variandone ovviamente i valori nei periodi di maggiore o minore fabbisogno. Di qui ai concetti di investimenti produttivi e speculativi il passo è stato breve. Presto si è compreso infatti che il denaro aveva un valore in funzione di una percentuale solitamente pagata per il suo uso (il prestito) in un determinato periodo di tempo23 e che era pertanto possibile valutare il costo effettivo di un investimento a lungo termine attraverso il calcolo del fattore di sconto e quindi degli importi capitalizzati nel tempo. Detratto il costo d’investimento effettivo è possibile valutare lo sviluppo, sia in area urbana che rurale, attraverso criteri di valutazione tra i più diversi. Innanzitutto lo sviluppo è solitamente valutato in funzione del valore di mercato totale dei beni e servizi prodotti da una determinata comunità (urbana, regionale o nazionale) e nel corso di un determinato periodo di tempo. Il parametro di valutazione di questo tipo di sviluppo ha un nome: è il Prodotto Interno Lordo (Gross Domestic Product). Ma non è il solo. Lo sviluppo urbano concepito solo ed esclusivamente in funzione dello sviluppo economico può facilmente provocare sperequazioni sociali ed un’instabilità socio-economica conseguente. Pertanto tra gli indicatori dello sviluppo urbano sono stati inseriti quelli identificati e lanciati da UNDP (Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite - United Nations Development Programme) all’interno del programma Millennium Development Goals24. Sono 48 ed i parametri economici sono in netta minoranza.

Come già detto la stessa città ha in sé primordiali tensioni di sviluppo a fronte di una concentrazione di esseri umani all’interno di un ambito territorialmente limitato. Ciò portava ricadute negative come per esempio l’accumulazione delle umane deiezioni e conseguenti condizioni igienico-sanitarie insalubri e sviluppo di malattie infettive che inducevano sottosviluppo a meno di un adeguato (nelle forme e nei modi) approvvigionamento d’acqua potabile, cibo e un sistema di allontanamento e trattamento dei rifiuti. L’efficiente gestione di questi ed altri servizi all’interno della comunità urbana comportava un esborso consistente da parte della stessa comunità che pertanto doveva innanzitutto organizzarsi prima di far fronte all’investimento per


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l’approvvigionamento o miglioramento dei cosiddetti impianti urbani e servizi collettivi.

Il bilancio tra ricchezza urbana prodotta e costo complessivo ed effettivo (relativo cioè alla componente tempo) di tutti i servizi è però un parametro di sviluppo solo quantitativo. La qualità dei servizi offerti alla collettività è misurabile, ma solo soggettivamente25 o attraverso la comparazione con le caratteristiche di qualità degli standard (per esempio europei) che fungono da parametri di riferimento.

Stabilito che lo sviluppo è misurabile, paragonabile e persino programmabile, risolte le controversie in merito alla qualità dello sviluppo, rimangono comunque interrogativi sulle questioni a monte e per cui è ben lecito domandarsi: “quale sviluppo?” … E poi: “sviluppo di chi e rispetto a chi ed in che modo?”, “Svilupparsi: ne vale poi la pena?” E ancora: “A quale sviluppo ci si riferisce?”, “È New York un parametro di sviluppo importante?”. Si deve definire la violenza delle bande di giovani criminali che “difendono” un quartiere mostrando i muscoli e non solo, una sorta di violenza evoluta dalla forza delle mute di cani che invadono la notte delle città dei paesi in via di sviluppo?. Il buon senso suggerirebbe inoltre che non si può definire sviluppo il passaggio tra una Parigi traboccante di rifiuti liquidi e solidi umani del settecento e una Parigi traboccante di deiezioni animali domestici del ventunesimo secolo. E poi: sarebbero indicatori di sviluppo la violenza urbana che si è sviluppata nelle periferie urbane di ogni metropoli e la invivibilità delle città inquinate e fondate sulla non comunicazione tra i propri residenti? Se la risposta fosse positiva molte capitali europee sarebbero subito sbalzate dai primi posti delle classifiche dello sviluppo.

Detto ciò, ne consegue che lo sviluppo è un concetto piuttosto inqualificabile e per certi versi paradossale. Per evitare di cadere in queste trappole inquietanti lo sviluppo si è vestito di “sostenibile”26 per poterci garantire almeno una speranza, ma ancora tutta da progettare. Secondo le definizioni più accreditate sostenibile è innanzitutto “uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”27. A tal fine il progetto di sviluppo deve poter essere fondato sull’equilibrio tra tre diverse componenti: il sociale, l’ambientale e l’economico.

Figura 13: Regola dell’equilibrio: relazione dei campi che definiscono la Sostenibilità.

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Nonostante i vent’anni trascorsi dalla nascita del termine “sostenibile”, forse a causa del dibattito ancora in corso tra le diverse scuole di pensiero che attribuiscono alla sostenibilità differenti significati, una definizione univoca di “sostenibile” in realtà non esiste. Le definizioni riportate da alcuni dizionari sembrano soprattutto riferirsi al concetto di “manutenzione con il minimo sforzo”, laddove l’espressione “manutenzione” ha in sé il dinamismo implicito di un’azione che possa riprodursi nel tempo e pertanto essere replicabile e eventualmente evoluibile (incremental) se applicata con appropriatezza28. Sustainable, adj. 1. capable of being sustained. 2. (of economic development, energy source, etc.) capable of being maintained at a steady level without exhausting natural resources or causing severe ecological damage: sustainable development. (Collins, Concise English Dictionary).

Sustainable, adj. 1. capable of being sustained. 2. a: of, relating to, or being a method of harvesting or using a resource so that the resource is not depleted or permanently damaged. (Sustainable technique, sustainable agriculture); 2. b: of or relating to a life style involving the use of sustainable methods (sustainable society); (Merriam Webster’s Collegiate Dictionary). Sostenibilità, s.f. Possibilità di essere mantenuto o protratto con sollecitudine e impegno o di essere difeso e convalidato con argomenti probanti e persuasivi. (Devoto-Oli).

I concetti ai quali si potrebbe far riferimento per comprendere, giustificare ed applicare la sostenibilità sono, come si è visto, diversi. Soffermandosi sul “minimo sforzo” della manutenzione, trasferendo questo concetto in un’immagine della fisica elementare ed identificando lo sviluppo sostenibile con il movimento prodotto dallo sforzo in termini di spinta, si sarebbe indotti a riflettere sul fatto che tale sforzo (o spinta) – può essere esterno o anche interno, ovvero può dipendere non solo da chi lo produce ma anche da possibili propulsioni interne, e – può dipendere dalle condizioni del terreno, ovvero dal contesto che caratterizza l’oggetto da muovere o sviluppare come si evince dai tre disegni che rappresentano i tre tipi di moto (sviluppo) che è possibile indurre in un corpo. I tre tipi di movimento indotto, qui rappresentati, non contemplano né l’esistenza di una forza implicita al corpo che possa in qualche modo contribuire almeno all’inerzia del moto indotto, né tanto meno prendono in considerazione la possibilità di facilitare il movimento (in particolare il terzo, il più angosciante e purtroppo il più rispondente alla realtà degli sforzi di sviluppo inutilmente sostenuti per buona parte dei paesi in via di sviluppo) attraverso azioni sul contesto (smoothing) che facilitino la messa in moto o la inerzia del moto.


Figura 14: Tre condizioni fisiche di stato.

Figura 15: Lo smoothing dello sviluppo.

Figura 16: Il moto interno dello sviluppo.

In sintesi lo sviluppo ovvero la metamorfosi da uno stato ad un altro è il risultato di un minimo sforzo (una spinta) che può essere concepito come esterno e/o interno; e quello esterno può essere diretto (spinta sull’oggetto) o indiretto (azione sul contesto). Sviluppare lo sviluppo sostenibile implica pertanto l’elaborazione e l’adozione di una strategia che usi minimi sforzi per indurre il più duraturo movimento possibile: un movimento che si auto riproduca (sia cioè replicabile) e sia evoluibile nel tempo.

Lo sforzo esterno diretto consiste in quello indotto da un evento o una strategia prodotta da un ente (interessato) perché si produca sviluppo. Lo sforzo esterno diretto è in genere prodotto da un cooperante tra le mille difficoltà di riuscire a comunicare in un contesto fisicamente, linguisticamente e culturalmente differente da quello in cui è abituato a vivere e lavorare. Tale sforzo si produce in genere attraverso la cosiddetta assistenza tecnica (technical assistance), il trasferimento di conoscenza (knowledge transfer o training) o trasferimento di tecnologia (technology transfer) ed azioni di supporto logistico e funzionale come per esempio la costruzione degli ambienti di lavoro e produzione dello sviluppo (costruzione di incubatori d’impresa o uffici amministrativi) o la costruzione di infrastrutture per lo sviluppo come strade e ponti.. Lo sforzo esterno indiretto consiste invece nel ‘mettere in condizione’ il contesto di sviluppare quelle qualità gia presenti nell’oggetto di sviluppo. Si tratta di attività modulate non necessariamente sul target e che risultano da una quanto mai attenta ed appropriata identificazione delle leve dello sviluppo del paese o della comunità. Lo sforzo interno è quello indotto dall’ente ‘in via di sviluppo’ per alleggerire lo sforzo prodotto all’esterno (che talvolta è oneroso nel tempo29) ed è volto a garantire la possibilità di una gestione autonoma ed indipendente del progetto di sviluppo una volta che l’aiuto esterno si ritira. Lo sforzo interno in genere è quello che è offerto dagli enti beneficiari in garanzia agli enti donatori. Tale sforzo coinciderebbe con la capacità potenziale ed effettiva, delle risorse umane e non, di proseguire lo sviluppo indotto dalle azioni offerte dai donatori.

Una volta definiti i campi di applicazione dello sviluppo sostenibile, le sue qualità potrebbero essere ricercate in attributi le cui caratteristiche fanno riferimento a concetti ricorrenti sia nel testo che nella letteratura e sono: a. lo sviluppo sostenibile partecipato (participatory development). Lo sviluppo ottenuto attraverso la partecipazione della popolazione locale alla ricerca dello sviluppo sostenibile della regione, b. lo sviluppo sostenibile consistente (consistent development). Lo sviluppo coerente con le caratteristiche sociali ed economiche della popolazione locale; Lo sviluppo ambientale deve pertanto essere accessibile (in termine di investimento) alla popolazione locale, c. lo sviluppo sostenibile rilevante (relevant development). Lo sviluppo pertinente con la realtà geografica, fisica, sociale ed economica. Per esempio il terziario avanzato laddove la riconversione industriale è necessaria.

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CAPITOLO SECONDO Gli Strumenti del Cooperante Tecnico

Una volta fornito il lessico ed i concetti fondamentali, utili e critici nell’ambito della cooperazione internazionale, gli strumenti del cooperante tecnico seguono in forma di opzioni derivate dalla pratica professionale. In questo specifico caso sono riportati strumenti e tecniche adottate nel corso di esperienze professionali nel settore dell’emergenza in Georgia, post emergenza e ricostruzione in Burundi e Kossovo30, e dello sviluppo in Burkina Faso. Sono descritti i fatti e soprattutto gli adempimenti e le crisi del cooperante al quale è chiesto di improvvisare ed improvvisarsi, di progettare, comunicare ed eseguire lavori nei tempi e nei modi che sono brevi, difficili, rischiosi.

2.1 Georgia: Riabilitazione di Edifici occupati dai Rifugiati31

A seguito delle tensioni politiche ed etniche all’interno dell’area caucasica immediatamente dopo la frammentazione indipendentistica dei margini dell’impero sovietico, la Georgia32 ha dovuto far fronte alla guerra contro gli indipendentisti dell’Abkazia e del sud dell’Ossezia e al conseguente gravoso problema dell’insediamento temporaneo di migliaia di rifugiati provenienti dalle aree di crisi. Scuole, ospedali ed alberghi erano presi d’assalto e occupati dalle masse di rifugiati. Il tasso di occupazione era ben al si sopra del previsto e consentito. Stanze destinate ad ospitare due persone erano occupate da una o più famiglie (quattro o sei persone) e pertanto ben presto tutti gli impianti tecnologici a rete (impianti elettrici, impianti di approvvigionamento idrico e di smaltimento delle acque luride) saltavano a causa dell’eccessivo numero dell’utenza (almeno doppio rispetto al previsto) e soprattutto a causa dell’uso negligente o vandalico.

Nel 1996 i rappresentanti dei maggiori donatori dell’emergenza internazionale (Croce Rossa, UNHCR, ECHO33) erano presenti sul territorio georgiano, impegnati in azioni umanitarie a favore dei rifugiati. L’obiettivo del programma dell’Unione Europea, rappresentata in questo caso da ECHO, consisteva nella riabilitazione degli edifici occupati dai rifugiati al fine di offrire loro un alloggio decoroso sebbene temporaneo. Tale obiettivo si scontrava con ben due dati di fatto: 1. il carattere non temporaneo degli insediamenti dei rifugiati che sicuramente nel breve termine non avrebbero potuto trovare migliore sistemazione, e 2. il carattere stesso del rifugiato: anarchico ribelle che negava e disprezzava quelle istituzioni che erano direttamente o indirettamente responsabili del suo stato, deprivato di ogni bene, talvolta persino degli affetti e purtroppo non della sua vita alla quale avrebbe voluto volentieri rinunciare. Quelle istituzioni erano lo Stato che in quel momento lo ospitava, erano l’alloggio nel quale si trovava solo (con il suo dolore) o con la sua famiglia (se fortunato); il riguardo che ne aveva era pressoché inesistente. Le buone intenzioni di ECHO si sarebbero presto scontrate non tanto con questa realtà (di cui si sperava e si spera ancora oggi, possedesse coscienza) quanto con uno sforzo finanziario e manageriale dovuto alla incessante riabilitazione degli immobili occupati dai rifugiati, che rendevano, dopo la riabilitazione, nuovamente invivibili i loro stessi alloggi, cosi creando un circolo vizioso che finiva per beneficiare non solo i rifugiati (che forse non se ne rendevano neanche conto), ma anche e soprattutto le organizzazioni non governative attive sul territorio ed impegnate nella riabilitazione ciclica di questi dormitori e le imprese edili locali in odore di mafia. A ciò si aggiungeva una osservazione assai curiosa. I bagni collettivi appena riqualificati per uso comunitario erano immediatamente occupati da quelle famiglie di rifugiati costrette fino ad allora a condividere la camera con un’altra famiglia.

Figura 17: Georgia 1995. Flussi migratori di rifugiati di diversa etnia e facciata laterale (lato servizi) di edificio occupato da rifugiati a Tbilisi, 1996.

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Figura 18: Occupazione di edifici pubblici da parte di rifugiati in Georgia (1996). Nelle fotografie: la condizione dei lavabi prima dell’intervento, i lavabi dopo l’intervento, il vano dei lavabi collettivi (uno per piano) occupato da una famiglia di rifugiati.

Era evidente che a fronte di impellenti bisogni di privacy le famiglie non esitavano a risolvere il problema autonomamente ed a scapito dell’intera comunità del piano che avrebbe dovuto fruire dei bagni appena rinnovati. La lotta per la sopravvivenza era feroce e l’intera comunità evidentemente non era organizzata. Non esisteva un’autorità riconosciuta o ‘democraticamente’ eletta che organizzasse le azioni secondo la logica del rispetto altrui ed il riconoscimento del bene comune.

2.1.1 Una Proposta di Progetto

Al fine di rompere il circolo vizioso occorreva rendere responsabili gli utenti degli alloggi occupati (i rifugiati e le loro famiglie) della necessaria manutenzione ordinaria e straordinaria di quelle stesse strutture. Un’impresa quasi impossibile a causa del

risentimento ed ostilità nei confronti di Stato e società. Di fatto i rifugiati non sono certamente ben visti dalla stragrande maggioranza della popolazione locale: essi sono coloro che portano odio e violenza, in una parola: instabilità sociale e sottosviluppo. In queste condizioni occorreva operare in due opposte direzioni: 1. a favore dei rifugiati per far loro riconoscere la nuova realtà, ed il fatto che quello spazio da loro occupato, anche se piccolo, era il ‘loro’ alloggio; 2. a favore della rimanente società urbana perché accettasse i nuovi venuti con i loro problemi e li integrasse progressivamente all’interno delle attività ed in genere della vita urbana. Non poteva essere diversamente: il semplice programma di riabilitazione fisica delle strutture

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edilizie doveva corroborarsi di una componente psico-socio-culturale dalla quale non poteva prescindere, ovvero, gli edifici occupati dai rifugiati non potevano prescindere dagli stessi rifugiati ai quali occorreva innanzitutto riconoscere il proprio status psico-sociale fatto di instabilità, aggressività, violenza. Il rifugiato avrebbe dovuto innanzitutto riconoscere quel luogo sia pur brutto e limitato nello spazio, come proprio: come propria casa. Per far ciò occorreva indurre il beneficiario a toccare, ad accarezzare quelle mura a farle sentire sue, a ripararle, ad accudirle, in altri termini a provvedere alla sua manutenzione e con ciò metter fine al circolo vizioso del distruggere e riaggiustare. Dall’altra parte anche il ‘normale’ cittadino georgiano avrebbe dovuto comprendere le ragioni delle condizioni socialmente precarie del suo nuovo coinquilino e del temporaneo disagio che stava subendo. In particolare avrebbe dovuto intendere che la durata di quella temporaneità era una funzione della sua capacità di comprensione e conseguente ed eventuale offerta d’aiuto.

La Proposta di Progetto elaborata nel corso dei primissimi giorni di lavoro consisteva nel coinvolgimento diretto del rifugiato/beneficiario all’interno delle azioni di cosiddetta ‘riabilitazione fisica’. In altri termini il rifugiato avrebbe beneficiato di adeguati utensili di lavoro ed una breve formazione in loco (vocational training e on the job training) per far fronte alle riparazioni resesi nel frattempo necessarie per una sua decorosa sopravvivenza nei cosiddetti centri collettivi. Che l’autocostruzione (self-help) implicasse una bassa qualità dei risultati ottenuti era risaputo. Tale consapevolezza però non ostacolava la determinazione di prendere in considerazione un metodo e le relative azioni strategiche fondamentalmente basate sull’investimento in mano d’opera (labour intensive) invece che in capitali (capital intensive) cosi come invece era accaduto fino a quel momento. A ciò doveva affiancarsi una paziente e sapiente campagna di informazione (awareness campaign) indirizzata alla rimanente popolazione urbana. Tuttavia anche gli stessi rifugiati avrebbero dovuto essere informati di quanto stava per capitar loro. Una campagna d’informazione che chiarisse gli obiettivi ed invitasse alla collaborazione avrebbe dovuto essere lanciata nella fase iniziale del progetto e far perno su canali d’informazione tra i più disparati: affissione di posters, comunicazione via radio, ed invocazione verbale.

Questa Proposta di Progetto, critica ed allo stesso tempo complessa, fu presentata al project manager delegato in Georgia dalla Unione Europea e fu approvata assieme ad una schematica rappresentazione illustrata delle attività di riabilitazione da svolgere nei centri collettivi occupati dai rifugiati e consistenti in: 1. smaltimento dei rifiuti liquidi (sanitation). Adeguamento del numero delle latrine e delle sezioni dei tubi di scarico al numero degli utenti; 2. approvvigionamento idrico (water supply). Offerta garantita di una quantità minima di 35 litri d’acqua al giorno da erogare in 15 ore; 30

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Figura 19: Settori nei quali svolgere attività di riabilitazione.

3. protezione dalle intemperie (weather protection). Creazione di condizioni di salubrità all’interno degli alloggi evitando infiltrazioni di acqua piovana da tetti e finestre; 4. raccolta rifiuti (refuse collection). Creazione di adeguate condizioni igieniche all’interno e all’esterno dei centri collettivi organizzando la raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi; 5. sicurezza (security in the building). Prevenzione di incendi e shock elettrici all’interno di ciascun alloggio. Fu molto probabile che questa banale rappresentazione finì per colpire ed esaudire le aspettative del delegato che un po’ per disattenzione un po’ per negligenza trascurò la componente più cospicua ed importante dell’intera Proposta di Progetto, ovvero il coinvolgimento (diretto ed indiretto) dei beneficiati tutti, ovvero sia i rifugiati che gli altri, quelli che rifugiati non erano, ma che li subivano. La componente partecipativa infatti, proprio perché non presa in considerazione con adeguata consapevolezza e professionalità fu oggetto, a termine lavori, di pesanti commenti ed obiezioni essenzialmente maturate dal fatto che i concreti risultati ottenuti non erano paragonabili, in termini di qualità e di immagine, a quelli di altri operatori (principalmente ONG) attivi su progetti analoghi.

In effetti il Progetto proponeva un approccio radicalmente differente dal convenzionale. Da meramente tecnico l’approccio diveniva partecipativo. Ciononostante la componente tecnica non era trascurabile in quanto mediata dal coinvolgimento della popolazione residente (i rifugiati) e dalla loro adeguata formazione. Le implicazioni di questa Proposta di Progetto erano drammaticamente rischiose soprattutto in termini di visibilità (ciò che sta particolarmente a cuore all’intera comunità dei donatori) e di mancanza di una politica di valutazione corredata da tecnologie per la valutazione a breve e medio-lungo termine. Il quadro delle azioni da svolgere si arricchiva in maniera considerevole. A parte la riabilitazione fisica (physical rehabilitation programme) da far svolgere in self-help agli stessi beneficiari, altre numerose azioni (complementari alla riabilitazione) erano state integrate nel progetto con l’obiettivo di perseguire una ricorrente auto manutenzione (selfmaintenance programme) degli edifici occupati dai rifugiati. Nello specifico due nuove componenti rendevano l’approccio complesso e vario: la componente informativa e quella organizzativa; la prima tesa a rendere i rifugiati dapprima coscienti della loro condizione e poi conoscenti delle tecnologie


Figura 20: Confronto tra Approcci.

Tavola 6: Proposta di progetto. Approccio e Azioni.

appropriate per l’auto manutenzione, la seconda per creare una struttura di comunità di base (Community Based Organisation - CBO) che si rendesse responsabile della esecuzione dei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria a partire dall’immediato futuro.

Con l’informazione via radio si desiderava semplicemente annunciare l’avvento del progetto; in altri termini si voleva trasmettere un fatto ed un programma che li avrebbe coinvolti. La radio era la più diffusa dei mass media tra i rifugiati e l’oggetto della trasmissione doveva essere umano anzi molto umano. In pratica era stata trasmessa un’intervista indiretta del capo-progetto mediata dal racconto di un testimonial (una famosa cantate georgiana). L’oggetto dell’intervista era la vita privata di un uomo che, con tutta la famiglia si appassionava alla causa dei rifugiati più che a quella della sua organizzazione e si rivolgeva pertanto all’uomo più che al suo habitat. Il messaggio veicolato faceva perno sul fattore umano invece che fisico, sul soft invece che sull’hard in modo da aprire una breccia ed un interesse durevole anche nel rifugiato più ostinato.

2.1.2 Componente informativa

La componente informativa aveva un ruolo chiave nella realizzazione del progetto. Rifugiati e non dovevano essere informati su quanto stava loro succedendo recuperando così quella consapevolezza dei rispettivi ruoli e funzioni che avrebbe sicuramente contribuito al successo delle azioni di progetto. Come gia detto, da una parte i rifugiati avrebbero dovuto acquisire la consapevolezza che qualcuno si stava interessando a loro e non solo al loro habitat, dall’altro la rimanente popolazione avrebbe dovuto essere stimolata innanzitutto alla comprensione delle condizioni psico-fisiche del rifugiato e degli sforzi che si stavano compiendo per avvicinare le due comunità (quella dei rifugiati e quella dei residenti) – tra l’altro della stessa etnia – per collaborare entrambi allo sviluppo unanime della città.

I rifugiati avrebbero dovuto schiudere quell’impenetrabile coriacea corteccia che si erano costruiti a propria ultima difesa a fronte di quanto già fosse loro capitato. E ciò risultò quanto mai difficile. Tre azioni furono definite e realizzate: 1. l’informazione via radio, 2. l’approccio personale, 3. il coinvolgimento sociale.

Se l’informazione via radio introduceva al rapporto tra cooperante/rifugiato (cooperante / beneficiario), con l’approccio personale il messaggio / invito alla collaborazione avrebbe invece assunto carattere più esplicito. A seguito di una rigorosa selezione di assistenti sociali tra la popolazione giovane e devota, e dopo una rapida formazione, un gruppo di giovani studentesse universitarie era stata inviata a bussare a tutte le porte dei rifugiati per presentare il programma di lavoro ed invocare la loro adesione e collaborazione. Nulla di più difficile doveva aspettare le giovani volontarie che si trovarono inizialmente davanti un muro di totale indifferenza al coinvolgimento nella ristrutturazione dei centri collettivi. Ma la loro azione fu esemplare per la pervicacia risolutiva. 31


Figura 21: Spettacolo di danza georgiana organizzato per i rifugiati all’interno del teatro comunale della città di Tblisi.

La maggior parte dei rifugiati capitolò mostrando dapprima dubbio e poi progressivamente interesse. Il coinvolgimento sociale doveva semplicemente coronare le due precedenti azioni trascinando i beneficiari nientemeno che a teatro per sancire, finalmente, l’appartenenza del rifugiato alla comunità urbana tutta intera e di cui loro ne facevano parte a tutto titolo. Uno spettacolo di danza e canto folclorico fu organizzato all’interno del teatro municipale ed invitato fu un gruppo georgiano famoso in patria ed all’estero. I rifugiati furono informati via radio e in seguito fu loro distribuito un biglietto omaggio. Ciononostante l’adesione non fu massiccia probabilmente a causa della comunque avvertita non appartenenza (o appartenenza ancora da costruire) al territorio urbano ed ai suoi relativi servizi.

An Italian NGO is implementing several humanitarian aid projects financed by ECHO. Among them the Rehabilitation Projects for Collective Centres occupied by Refugees aims at providing the refugees with basic needs. Moreover the Italian NGO aim is to raise the awareness of the refugees in order to improve their own living conditions. OUR TARGET is YOUR TARGET

A MEETING will be held where the following topics will be discussed: - organisation of the Rehabilitation Works - carrying refuses away to the rubbish bins, and cleaning adjoining area - organisation of everyday duty on each floor - electricity consumption and safe condition in use - refugees’ involvement in opening and functioning: workshops, kindergartens and other common places etc.

Figura 22: Poster affisso all’ingresso dei centri colettivi.

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Ma non fu tutto. Le attività di persuasione dei rifugiati alla collaborazione alla riabilitazione degli edifici occupati cominciarono con un persistente volantinaggio nei luoghi di maggiore presenza dei rifugiati a cui si aggiunse l’affissione di manifesti (50x70 cm) che incitavano a condividere gli obiettivi dei programmi di riabilitazione dei centri collettivi a cominciare dalla salvaguardia delle più elementari norme di igiene fino alla partecipazione a riunioni che di li a poco avrebbero gettato le basi di una organizzazione responsabile degli edifici anche in forma di servizi collettivi come scuole ed asili nido. A questo punto le azioni informative divennero ulteriormente più diffuse e persistenti. Una serie di nove manifesti (30x42 cm) furono affissi in ciascun piano dei nove edifici target, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. Si trattava di informazioni (una sorta di vademecum) in merito ad un corretto uso dei servizi collettivi e soprattutto dell’impianto elettrico che aveva causato non poche vittime tra i più piccoli residenti a causa dell’uso concomitante di diverse tensioni all’interno dello stesso impianto o di cortocircuiti dovuti all’uso contemporaneo di numerosi elettrodomestici e cucine elettriche. La ‘campagna pubblicitaria’ fu di proposito invadente e puntava il dito dritto in faccia all’utente indisciplinato colpevolizzandolo. Tale affronto incontrò pertanto una certa ostilità da parte del destinatario del messaggio. Infatti, subito dopo l’affissione, i primi manifesti furono strappati.


La reazione da parte degli assistenti sociali che avevano in carico l’azione doveva essere immediata e tecnologica per non perdere il vantaggio mediatico creato dalle precedenti campagne di informazione. Gli stessi manifesti precedentemente strappati dalle pareti su cui erano stati affissi furono rincollati con una colla istantanea, più resistente e diffusa sull’intera superficie del manifesto.

You can watch the televison but do not use the iron

You can switch on the electrical stove but do not watch the television

A toilet which works well is a pleasure for everybody. To make it works: do not block it up, keep it clean and throw the papers away into the proper buket

You can use the iron but switch off the electrical stove

Do not use at the same time: iron, television, electrical stove

Why do you block up the washstand? Clean your dishes before washing them. Please use the rubbish bins

Figura 23: Campagna informativa sull’uso degli impianti.

Le campagne di informazioni e di costruzione della consapevolezza (awareness campaign) dello stato e condizione di rifugiato e della necessità di risollevarsi con le proprie forze e non con l’esclusivo contributo della comunità internazionale erano completate ed avevano creato un ambiente favorevole alle azioni successive basate sul reclutamento e formazione (vocational training) degli stessi rifugiati per la riabilitazione fisica. Quanto questa campagna mediatica abbia contribuito al buon risultato del progetto è di difficile stima. Questa avrebbe forse dovuto essere pianificata in sede di gestione del programma, compito generalmente affidato al donatore o a chi lo rappresenta. La valutazione dell’incidenza di una awareness campaign è possibile se fatta su un campione (caso) e su un controllo o riscontro quanto più possibile simile al caso, ovvero, nel caso specifico un edificio occupato da rifugiati sul quale si fosse applicato un approccio partecipativo non accompagnato da campagna di informazione.

Ad ogni buon conto il costo medio di riabilitazione degli edifici collettivi occupati da rifugiati risultava comunque doppio quando si applicava un approccio convenzionale invece che partecipativo, a prescindere dalla efficacia delle campagne mediatiche sui rifugiati in condizioni di emergenza. A tal proposito ancor più pertinente risulta la questione in merito alla necessità e relativa efficacia di campagne di informazione non tanto indirizzate ai diretti beneficiari (i rifugiati) quanto a coloro che per un novero di ragioni consideravano i rifugiati responsabili diretti o indiretti della instabilità sociale della città ospite. L’avversione nei confronti del rifugiato (di fatto è una figura antropologicamente prossima a quella del nomade) da parte del residente (lo stanziale) è storica e comunque palpabile in ogni situazione a questa assimilabile. La ‘pubblicità progresso’ stempera l’acrimonia e persuade alla convivenza civile preparando le basi dello sviluppo sostenibile. Nel 1996 i cittadini di Tbilisi (quelli che loro malgrado ospitavano nella loro città i loro cugini rifugiati dall’Abkazia e sud-Ossezia) furono raggiunti da una sequenza di messaggi televisivi nei quali si presentava loro una figura di rifugiato che era, anzi doveva essere, radicalmente diversa dal luogo comune del ladro, malfattore o mendicante, anche se, in ogni caso, il rifugiato pur sempre rappresenta un peso per una società già di per sé stremata ed un’economia inesistente o in via di sviluppo. Per un mese i cittadini di Tbilisi guardarono sul principale canale nazionale e nelle ore di punta quattro ‘corti’, ciascuno ripetuto per una settimana, in una sequenza ragionata e con titoli che si rincorrevano come schematizzato qui di seguito.

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Titolo iniziale

Refugees (Rifugiati)

Argomento

Titolo finale

From the war to the Collective Centres (Dalla Guerra ai centri Collettivi)

Refugees, but not for ever (Rifugiati, ma non per sempre)

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Refugees, but not for ever (Rifugiati, ma non per sempre)

The collective centres, the life and the social workers (I Centri Collettivi, la vita e gli animatori sociali)

Refugees, but not only (Rifugiati, ma non solo)

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Refugees, but not only (Rifugiati, ma non solo)

Organisation of the community activities for rehabilitation works (Organizzazione delle attività comunitarie per Iavori di riabilitazione)

Refugees: the hope to be citizens (Rifugiati: la speranza di essere cittadini)

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Refugees: the hope to be citizens (Rifugiati: la speranza di essere cittadini)

Refugees working for themselves. Spokes persons (Rifugiati che lavorano per loro stessi. Testimonial)

Refugees: not anymore (Rifigiati: ma ora basta!)

Tavola 7: Titoli di testa e coda dei cortometraggi.

Il rifugiato era letto nella sua cruda realtà di miserabile che lascia la guerra alle proprie spalle insieme a molta parte della sua famiglia, dei suoi averi e doveri; lascia il proprio ruolo, la professione ma soprattutto la distruzione e la morte. Nel primo video è un animale nudo che nasconde le sue pudenda: il non voler rimanere tale …per sempre. Nel secondo video il rifugiato è visto nella sua umanità, nel suo quotidiano mesto, nel suo pollaio. Vive, anzi tira a campare, nella promiscuità, dolore e pericolo. È inquadrato nel suo habitat, abbrutito e costretto a capitolare davanti alla videocamera con l’ammissione dolorosa della propria provenienza, ossia, la propria colpa, ma anche la sua volontà (ahimè!) a collaborare (rifugiato ma non solo). Nel terzo video la volontà si traduce in azione, inizialmente un po’ timida e impacciata, poi emerge con convinzione, nel lavoro, la speranza di ridiventare cittadini …come glia altri (i destinatari del messaggio). Nel quarto video le testimonianze si susseguono fervide, convinte ed appassionate. Il lavoro di ri34

abilitazione degli edifici occupati dai rifugiati tramite i rifugiati stessi si fa realtà innegabile, accattivante e serena. La richiesta della sostenibile replica delle azioni prodotte esemplarmente in altri centri collettivi chiude la sequenza con la finale: Rifugiati, ma ora basta!

2.1.3 Componente organizzativa

Nulla di quanto precedentemente descritto poteva essere realizzato se non supportato da una consistente azione organizzativa avviata sin dalle prime battute con i ‘capi edificio’ rappresentanti la comunità dei rifugiati. Si trattava di figure politiche o di anziani dal velo carismatico. Non sempre risultavano ricettivi e poi immediatamente collaborativi alle proposte di progetto. Spesso diffidavano o nicchiavano, nullificavano le iniziative, rappresentando quel modello di carattere chiuso, ostico e difensivo proprio dei rifugiati. Purtroppo se non si otteneva la loro adesione alle iniziative del progetto, questo restava sulla carta. Dinnanzi a questi casi svaniva il mito della saggezza carismatica aperta ad azioni ed immagini innovative ed innovanti; svaniva la convinzione che l’amichevole approccio del vecchio del villaggio avrebbe aperto le porte allo sviluppo sostenibile. Ciononostante, dopo i primi difficili incontri, fugati i dubbi e le incertezze, con la parola e non solo, il progetto aveva accesso negli edifici occupati dai rifugiati.

La componente organizzativa del progetto mirava essenzialmente a garantire che la manutenzione ordinaria e successivamente anche quella straordinaria fosse eseguita. La spazzatura avrebbe dovuto essere raccolta per piano e poi riversata nei container donati dal progetto a ciascun edificio occupato. Per tutto ciò doveva essere eletto un responsabile per piano e un capo-edificio, che fungeva da responsabile ultimo di tutte le opere di manutenzione.

Rubbish bins and shovels have been dellivered. It is asked to make a proper use of them and to use the shovels, delivered to the community leader, for cleaning the space around the bins

Materials for cleaning and upkeeping have been delivered in order to start up a maintenance programme for public and private facilities

Figura 24: Campagna informativa sulle donazioni del progetto.


Figura 25: Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati.

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Figura 25: Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati.

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Alla fine del progetto una vasta campagna di distribuzione di attrezzature e materiali per la pulizia di bagni e cucine fu organizzata con il clamore necessario soprattutto alla visibilità del progetto nella quale sembra riversarsi l’unico interesse della classe dei donatori. TYPE OF BUILDING

KIND OF BUCKET A1 Bucket per family

Communal Toilets

Private Toilets

A2 Bucket per toilet

B Bucket per family

CONTENT 1 socket 1/2 kg disinfectant powder 1 brush

4 kg disinfectant powder 3 gloves 15 mt flexible 2 taps 2 valves 2 kg chlorine 1 socket 1kg disinfectant powder 1 brush

Tavola 8: Liste di attrezzature e materiali per la manutenzione ordinaria di bagni e cucine.

2.2 Burundi, la ricostruzione o post emergenza34

Il recupero delle infrastrutture sanitarie e delle infrastrutture a rete (strade, reti di approvvigionamento idrico e di smaltimento dei rifiuti liquidi e rete elettrica) è, insieme alla ricostruzione delle abitazioni e servizi sociali (scuole, ospedali ed edifici amministrativi), tra le operazioni più peculiari della post emergenza. In altri termini quelle strutture ed infrastrutture che consentono mobilità e non morbilità alla popolazione civile devono essere immediatamente recuperate alla propria originale funzionalità o addirittura recuperate ad una funzionalità migliorata rispetto all’originale35.

Cliniche, ospedali regionali, e presidi sanitari locali sono pertanto tra i primi ad essere ripristinati per cominciare ad offrire alla popolazione locale un primo, fondamentale ed indispensabile servizio di salute pubblica. È molto probabile tuttavia che tali servizi non siano stati distrutti o danneggiati dalla guerra o da altro evento naturale quanto da una congenita mancanza di cultura della manutenzione. Ciò accade prevalentemente quando la cultura locale si trova di fronte ad un manufatto ed una funzione che non riconosce come originariamente propria. È il caso per esempio dei presidi ospedalieri regionali o degli ambulatori (presidi sanitari di primo livello) che spesso, in contesti come quello africano, figurano come avamposti della cultura sanitaria occidentale in territorio dalla “cultura sanitaria” completamente diversa.

A seguito della guerra fratricida tra etnia Hutu e Tutsi36 in Rwanda37 e Burundi38 ed immediatamente dopo l’organizzazione di campi per rifugiati lungo la linea di frontiera tra i due stati, la ricostruzione non poteva che riguardare sia i centre de santé39, effettivamente distrutti e privati di ogni attrezzatura sanitaria dai miliziani di entrambe le fazione, che i centri sanitari regionali a cominciare dalle aree più prossime alle arene degli scontri più cruenti a dimostrazione chiara della fine dell’odio, della lotta e a testimonianza di un nuovo corso di pace. La logica politica era impeccabile, quella sociale e culturale un po’ meno in quanto lo scontro si era territorializzato a tal punto che anche le aree su cui insistevano i servizi sanitari si riteneva appartenessero, secondo regole non scritte, ad una delle due fazioni in lotta. Gli interventi di recupero pertanto non potevano considerarsi come interventi super partes e privi di connotazione politica. In tale contesto il cooperante, il cui incarico sembrava essere confinato al solo ripristino della funzionalità delle infrastrutture, doveva affrontare e risolvere un progetto socio-politico oltre che tecnologico.

2.2.1 Il Progetto socio-politico

Figura 26: Distribuzione di materiali e prodotti per l'automanutenzione.

Il reclutamento delle maestranze e della manodopera era in effetti una delle azioni più delicate dell’intero progetto socio-politico, ma sicuramente non la sola. Innanzitutto è d’uopo presentarsi e presentare il progetto, ed il programma a cui appartiene, al di37


rettore dell’ospedale. Conviene concertare questa delicata azione di pubblica relazione con un rappresentante (il project manager) dell’ente donatore (in questo caso UNHCR – United Nations High Commission for Refugees). La presentazione è un atto dovuto non solo per informare ed eventualmente ottenere l’autorizzazione a procedere40, quanto per ricevere indicazioni in merito alle attività di recupero da svolgere ed alle loro eventuali priorità41. Alla direzione furono indirizzate questioni quali: – esistenza di un deposito di attrezzi e materiali da costruzione e relativo custode di fiducia, – maestranze da coinvolgere nella riqualificazione dell’ospedale, – disponibilità alla collaborazione da parte del personale medico e paramedico, – esistenza di piante, schemi o planimetrie dell’ospedale, – relazioni tecniche sullo stato di funzionamento degli impianti a rete.

Dalle risposte ricevute dal direttore risultarono abbastanza esplicite informazioni in merito alla fazione (etnia) alla quale era conveniente indirizzarsi per il reclutamento di maestranze e manodopera e soprattutto informazioni relative all’affidabilità del guardiano del deposito degli attrezzi e dei materiali. Solo successivamente, per evitare di avere incursioni anche violente presso il cantiere da parte dell’etnia esclusa dal reclutamento, con il maestro responsabile del cantiere indicato dalla direzione è stata negoziata l’assunzione di un’ulteriore squadra di fazione o etnia differente, giustificando la proposta con argomenti umanitari e egualitari (del tipo: l’ospedale è un servizio offerto dalla comunità internazionale, rivolto a tutti e per tutti gli abitanti dell’area e pertanto è necessario che a partire dalle fasi di riqualificazione tutti i gruppi etnici siano coinvolti). Si organizzarono cosi due team di maestranze di uguale numero ed operanti in due settori distinti e con compiti distinti. Nel caso studio in questione il team hutu si occupava della costruzione delle batterie di latrine, mentre il gruppo tutsi era responsabile della costruzione di altri manufatti di servizio come la cucina per i malati, l’inceneritore, le fontane eccetera. I due gruppi di lavoratori operavano in ambiti ed aree dell’ospedale tra loro lontane, ma unico era il deposito dei materiali e delle attrezza-

Figura 27: Capocantiere hutu presenta una delle sue batterie di latrine.

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ture cosi come il responsabile della loro custodia (hutu perché hutu era apparentemente il controllo di quel territorio).

In un’unica occasione i due gruppi si sono cimentati in un’attività comune. Occorreva dare manifestazione di forza, ed entrambi i gruppi erano disposti a mostrare i muscoli. In realtà quella occasione era stata creata per fornire un’opportunità di lavoro collettivo nel quale non potesse essere distinto il lavoro dell’uno rispetto all’altro, ma solo ed esclusivamente il risultato di uno sforzo congiunto e indifferenziato. Si trattava di trasportare le solette delle latrine dal luogo di produzione fino alla posizione finale, a coprire le trincee appena scavate (Minervini, 1997). I due gruppi ancora animati da forzute e bellicose velleità di dominazione dell’uno sull’altro furono invece costretti a dimostrare a se stessi che l’obiettivo dello sviluppo non poteva che raggiungersi se non attraverso la collaborazione solidale.

2.2.2 Il Progetto tecnico

Il rilievo dell’intera struttura ospedaliera fu fatto attraverso battuta fotografica e riscontro visivo. I due metodi portarono allo schizzo di una planimetria rudimentale ed all’acquisizione della necessità di dover operare (progettare e comunicare) utilizzando solo ed esclusivamente un foglio di carta di formato A4 (l’unico esistente a Ngozi), accompagnato da un numero di parole strettamente sufficiente a non creare equivoci o a non negare quanto invece risultava evidente dal disegno al tratto.

Figura 28: Capocantiere tutsi fotografato con la sua opera principale: un inceneritore.


Figura 29: Trasporto delle solette delle latrine. Hutu e Tutsi in flagranza di collaborazione solidale.

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Figura 30: Schizzo della planimetria dell’ospedale di Ngozi (Burundi).

La battuta fotografica portava in evidenza le caratteristiche peculiari della struttura ospedaliera di Ngozi e nello stesso tempo identificava i bisogni sui quali doveva fondarsi l’intero intervento di riqualificazione post bellica.

Innanzitutto si trattava di un ospedale caratterizzato da un insieme di padiglioni distribuiti un po’ casualmente su una superficie di circa cinque ettari di terreno solo in parte in piano e per il resto con pendenze tali da causare solchi erosivi consistenti nel corso della stagione delle piogge. L’ubicazione apparentemente casuale dei padiglioni, delle funzioni sanitarie (chirurgia, medicina, pediatria) e dei servizi (cucina, lavanderia, amministrazione) era essenzialmente dovuta al fatto che il progetto planimetrico originario era stato poi integrato da altre funzioni e servizi resi necessari dalla disponibilità di donazioni (grants) da parte della comunità internazionale. E così succedeva che nuovi padiglioni si aggiungevano a quelli esistenti secondo una logica né sequenziale né incrementale. I percorsi di collegamento tra i padiglioni erano di fatto dei tracciati di minimo percorso ad eccezione di quelli principali carrabili che portavano all’amministrazione (la dove era parcheggiata l’autoambulanza – unica macchina di servizio dell’ospedale a servizio della direzione42) e all’obitorio. Buona parte di questi percorsi erano impraticabili per parte dell’anno a causa della mancanza di un opportuno drenaggio delle acque pluviali particolarmente copiose durante le piogge stagionali. 40

Attraverso la battuta fotografica risultavano le condizioni e i relativi bisogni delle funzioni accessorie al funzionamento di un ospedale che avrebbe potuto ospitare circa 180 persone (personale incluso), ma che ne ospitava molte di più. Queste erano: 1. le fontane pubbliche (se ne riscontrava una sola nonostante l’ospedale ospitasse oltre ai degenti, anche i parenti dei malati pari ad un numero quattro volte superiore a quello dei pazienti, alloggiati su stuoie all’interno o appena fuori i padiglioni di ricovero; 2. le latrine (esistenti, ma insufficienti e soprattutto piene e non più utilizzabili a meno del rischio di diffusione delle malattie infettive a causa delle quali buona parte dei pazienti erano ricoverati); 3. la cucina dell’ospedale (esistente, ma completamente priva di un sistema di ventilazione naturale e camino per l’eliminazione dei fumi prodotti dalla legna arsa); 4. la cucina delle famiglie dei malati (inesistente, ma ritenuta indispensabile data l’abitudine familiare di accompagnare il malato nel corso dell’intera degenza per cui si costituivano focolari un po’ dappertutto all’interno dell’ospedale); 5. la lavanderia (chiusa per vetustà delle lavatrici, comunque inoperose già prima che cominciasse la guerra fratricida); 6. lo stenditoio (apparentemente unico danno di guerra riportato all’interno dell’intera struttura ospedaliera);


7. il drenaggio (inesistente sull’intera area pertinenza dell’ospedale); 8. la recinzione (caratterizzata da poche decine di metri a fianco dell’ingresso principale lungo una delle strade più importanti della città di Ngozi).

A ciò si aggiungeva – in quanto bisogno riportato dai medici che operavano nell’ospedale – la necessità di ripristinare l’intero sistema a rete di approvvigionamento idrico sotto traccia (ovvero sotto il piano di calpestio in terra di fine limo) che nel corso del tempo si era o rotto e riempito di polvere di argilla. Il principio ed obiettivo al quale il progetto di riqualificazione dell’ospedale doveva ispirarsi e che si imponeva a seguito del rilievo fotografico era il seguente: un ospedale non poteva rispondere agli obiettivi funzionali più elementari (cioè fornire servizi sanitari per garantire la salute pubblica) se non avesse soddisfatto condizioni igenico-sanitarie fondamentali per evitare di portare a livello endemico le malattie infettive da cui la maggior parte dei pazienti tentava di liberarsi. I bisogni rilevati nel corso della battuta fotografica occorreva che fossero soddisfatti nell’arco di tre mesi. Ciò implicava la progettazione, la quantificazione di costi e tempi, la presentazione dell’intero progetto all’ente donatore e la relativa loro negoziazione, la scelta della manovalanza e l’organizzazione delle attività di riqualificazione (tutte esterne) nel corso della stagione delle piogge.

2.2.3 Il Muro e le Opere

Tra tutti i bisogni identificati alcuni, tra cui il muro di recinzione, necessitavano interventi di entità e impegno considerevoli a causa dei tempi limitati e delle sfavorevoli condizioni meteorologiche. Il management della manovalanza, dell’approvvigionamento dei materiali da costruzione (molti dei quali erano da acquistare in capitale) e la comunicazione delle operazioni da svolgere doveva raggiungere livelli di massima efficienza. La costruzione del muro doveva iniziare prima delle altre opere, prevedere soluzioni tecnologiche differenziate a seconda della ubicazione e soprattutto rispondere alla sua principale funzione richiesta: evitare che nell’ospedale potessero pascolarci

animali domestici e randagi che avrebbero potuto contribuire alla diffusione delle malattie infettive43. Tre furono le tecnologie adottate per la costruzione del muro: 1. mattoni cotti con malta di argilla stabilizzata e fughe in malta grassa di cemento per la tenuta all’acqua, 2. rete metallica, 3. rete metallica e arbusti. Una tenda mobile procedeva con la realizzazione del muro di recinzione e mano d’opera giovanile fu organizzata per il delicato dettaglio delle fughe tra i mattoni.

La comunicazione, come accennato, si svolgeva attraverso la lingua francese e schizzi o disegni al tratto su fogli di formato A4. Il processo di comunicazione seguiva le seguenti fasi: innanzi tutto si concordava con il responsabile dei lavori l’obiettivo da raggiungere, poi ci si accertava della comune interpretazione dell’obiettivo attraverso la discussione sulla rappresentazione (schizzo) del manufatto da produrre e in seguito si entrava nel dettaglio dell’esecuzione sia in forma verbale che grafica. Se i disegni delle fontane pubbliche e sgrassatori, drenaggio e altre opere minori erano di semplice comunicazione ed esecuzione, quelli relativi ad opere complesse come la cucina dei parenti dei malati erano presentati e commentati in diverse fasi, ripensati e corretti, e relativi a sezioni o parti di opere da realizzare progressivamente: prima le fondazioni, poi gli spiccati, la copertura ed i dettagli di finitura. Molte altre opere come il drenaggio trasversale ai percorsi carrabili e la riabilitazione dell’essiccatoio erano invece realizzati solo attraverso la costante guida quotidiana dei lavori che oltretutto dovevano recuperare e riciclare il più possibile i materiali non utilizzati e persino gli oggetti trovati come vecchi letti e griglie metalliche abbandonate. In molte occasioni inoltre il project manager del programma di post emergenza dell’UNHCR osava richieste del tutto sensate come per esempio un nuovo deposito d’acqua a servizio delle sale chirurgiche. Ciò comportava un ulteriore sforzo progettuale al quale spesso non corrispondeva la realizzazione per mancanza di fondi.

Figura 31: Foto di rilievo delle condizioni dell'ospedale. In evidenza: gli improvvisati focolari domestici e stenditoi.

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Figura 32: Disegni e foto delle fontane, sgrassatori e drenaggio delle acque.

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Figura 33: Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati.

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Figura 33: Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati.

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Figura 34: Essiccatoio ricostruito con forme che risultano dalla necessità di utilizzare tutti i materiali rimanenti alla fine della riabilitazione dell’ospedale.

Figura 35: Schizzi progettuali di nuovo deposito d’acqua.

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2.3 Kossovo: la Ricostruzione44

Per la prima volta nella storia, una situazione controversa come quella che si era creata in Kossovo45, era stata presa (temporaneamente) in carico dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU – United Nations Organisation)46. Uno stato indipendente di fatto era nato, ma ne faceva amministrativamente le veci l’UNMIK ossia la cosiddetta Missione Amministrativa Interinale per il Kossovo delle Nazioni Unite (United Nation Interim Administration Mission in Kosovo)47. Tra i compiti di questa amministrazione civile sperimentale si annoveravano appunto quelli di: – svolgere funzioni di normale amministrazione civile; – promuovere e stabilire la sostanziale autonomia del governo autonomo; – facilitare il processo politico che avrebbe portato alla determinazione del futuro del Kossovo; – coordinare gli aiuti umanitari delle agenzie internazionali; – supportare la ricostruzione delle infrastrutture essenziali; – mantenere legge e ordine civile; – promuovere i diritti umani; – assicurare il sano e libero rientro di tutti i rifugiati alle proprie case in Kossovo.

Quanti di questi compiti siano stati effettivamente svolti ed i relativi obiettivi siano stati effettivamente raggiunti è oggetto di diverse analisi. Sembra comunque che la maggior parte della critica tenda per una definizione dell’ UNMIK prossima a quel crogiolo amministrativo-burocratico fine a se stesso rappresentato dalle Nazioni Unite che ne è evidentemente madre. A complicare le cose inizialmente c’era la quadripartizione della macchina amministrativa in quattro pilastri di cui il quarto (in carico all’Unione Europea) avrebbe dovuto occuparsi dell’intera ricostruzione a partire dall’accertamento ed analisi dei danni (damage assessment) che invece fu redatto da UNHCR (United Nations High Commission for Refugees) e IMG (International Management Group)48. Il risultato fu sorprendentemente diverso in termini di metodologia di indagine usata, livelli di danno attribuito e naturalmente risultati. All’interno di questa imbarazzante situazione che generava evidentemente sfiducia nei confronti delle istituzioni il quarto pilastro dell’UNMIK, cioé l’Unione Europea (European Union – EU) doveva operare e gestire il programma di ricostruzione degli alloggi (Housing Reconstruction Programme)49 a partire dall’autunno del 2000. Per una semplice questione di natura logistica il Kossovo fu diviso in cinque regioni, ognuna delle quali fu affidata ad un coordinatore delle attività di ricostruzione a loro volta supervisionati da un Ufficio Centrale per la Ricostruzione degli alloggi (Housing Directorate) in Pristina.

2.3.1 Municipal Housing Committee

L’Housing Directorate aveva un compito di particolare delicatezza: stabilire le linee-guida per la ricostruzione (Housing Reconstruction Guidelines), con46

cordate con i diversi e più generosi donatori, assicurare equità (equity) nello sforzo di ricostruzione e massimizzare il valore stesso della ricostruzione. L’istituzione intorno alla quale si intendeva far ruotare il meccanismo della ricostruzione fu denominata Municipal Housing Committee (Commissione Comunale per l’Assegnazione degli Alloggi) e doveva aver sede in ogni municipio kossovaro. Si trattava di un ente teoricamente indipendente dalle agguerrite nuove formazioni politiche (che cercavano di guadagnare proseliti ed elettori attraverso l’allocazione di case da ricostruire) con il compito appunto di stendere la lista dei beneficiari e poi seguire il processo di ricostruzione sia nel processo di approvvigionamento di materiali da costruzione che nelle fasi di esecuzione dei lavori. Un impegno ciclopico all’interno di uno stato che stato non era e che comunque muoveva i propri primi passi al di fuori della cultura e organizzazione sociale di tipo clanico (come quella albanese-kossovara) e all’interno invece di una cultura democratica di tipo ‘avanzato’ come quella europea e occidentale. Di fatto l’obiettivo non dichiarato del Municipal Housing Committee consisteva nell’offrire ai funzionari ufficiali municipali un’adeguata responsabilità, autorità morale e competenza tecnica, dando adito al costituirsi di un primo nucleo di onesta autorità municipale che doveva far fronte a pressioni che talvolta mettevano a repentaglio anche la stessa vita dei partecipanti a questo esercizio di Institutional e Capacity Building (Realizzazione e/o Rafforzamento delle Istituzioni e Realizzazione e/o Rafforzamento delle Competenze delle Risorse Umane). Di fatto era abbastanza evidente che il Municipal Housing Committee non funzionasse che come paravento istituzionale di una logica della ricostruzione di cui non era responsabile. La logica della ricostruzione risiedeva essenzialmente nelle tasche dei donatori affranti dalla pietas e dall’impellente necessità di mostrare efficienza nella spesa per la ricostruzione guidati da un cosiddetto Central Housing Committee50 a cui era stato sottratto potere decisionale persino nelle questioni più tecniche quali la salvaguardia del patrimonio edilizio storico e la revisione della questione urbana che doveva fare riferimento ad un rigoroso quanto banale zoning dettato dell’ideologia del potere centrale socialista. La ricostruzione del patrimonio edilizio storico, per esempio, era affidata ad una cellula della European Agency for Reconstruction in Kossovo la quale elargiva, secondo una logica allocativa del tutto incomprensibile ed estranea alle Housing Reconstruction Guidelines, fondi per la ricostruzione delle Kulla51 anche dieci volte superiori a quelli erogati per la ricostruzione di una normale abitazione. Per non parlare poi delle inesistenti o debolissime strategie per il recupero del patrimonio storico-artistico, a fronte delle generose elargizioni in questo settore dell’Unione Europea e del governo svedese. Il progetto di recupero era elaborato da un’organizzazione non governativa svedese di cui il responsabile tecnico (impiegato part-time) non possedeva esperienza alcuna nel settore affidando la gestione del progetto (dalla elaborazione fino alla esecuzione) a


Figura 36: Esempi di edifici storici (Kulla) danneggiati dalla guerra.

Figura 37: Edificio danneggiato in adobe e esempio di ricostruzione in cemento armato.

dipendenti locali (ingegneri, giovani architetti o studenti della locale facoltà di architettura). L’appropriatezza delle tecnologie costruttive era tema assolutamente sconosciuto (un’eresia) all’interno dell’intero processo di ricostruzione. La differenza tipologica, strutturale e tecnologica tra una casa rurale ed una casa urbana non figurava tra le questioni di cui potevano farsi carico il Central o il Municipal Housing Committe. Il cemento armato era considerato (e per questo apprezzato) una tecnologia rapida e soprattutto una tecnologia unica sia per rimpiazzare una casa rurale in terra (che aveva subito danni di guerra) che per recuperare un multipiano danneggiato nei centri urbani più importanti. Le regole dello sviluppo urbano dovevano invece rimanere quelle stabilite da Belgrado (nei tempi passati) basate su una morfologia urbana categorizzata per densità di popolazione e carattere produttivo dell’insediamento urbano e nella maggior parte dei casi facendo riferimento a piani urbanistici

vecchi di decenni. Chi si apprestava a trasferire una moderna conoscenza della pianificazione dello sviluppo urbano era, all’interno dell’UNMIK, un’agenzia delle Nazioni Unite (UNCHS - Habitat) che soffriva come tutte le altre simili agenzie di indolenza pachidermica e sonnolente burocrazia.

2.3.2 Esercizi di Pianificazione Urbana

All’interno di questo quadro certamente non edificante quanto scoraggiante i tecnici delle municipalità si trovavano in una situazione quanto mai imbarazzante in quanto dovevano mostrare obbedienza a: – una finzione normativa (o performance istituzionale) dell’Housing Committee (imposta dal nuovo governo centrale UNMIK); – una datata imposizione delle regole dello sviluppo urbano che appartenevano al passato e soprattutto all’odiato soprafattore52. 47


D’altro canto gli stessi funzionari amministrativi dei locali uffici di urbanistica sebbene ricchi di voglia di fare nelle nuove istituzioni locali ammettevano la loro inabilità. Pertanto sporadiche azioni di formazione alla gestione dell’Housing e Social Housing ed un paio di esercizi di pianificazione urbana furono inserite all’interno del programma del quarto pilastro dell’UNMIK. Queste azioni dovevano affrontare diverse questioni: 1. innanzi tutto la conoscenza del proprio territorio, 2. le analisi finalizzate allo sviluppo concertato (tra le comunità urbane e le limitrofe comunità rurali), integrato (alle risorse ed ai potenziali economici) e sostenibile (in ragione della realizzabilità e replicabilità), 3. la metodologia di trasferimento della conoscenza, 4. la translazione del processo decisionale dal topdown al bottom-up, e 5. l’elaborazione di strategie di land development mirate ai casi specifici individuati nell’analisi.

La conoscenza del territorio consisteva nella raccolta sistematica dei dati e delle informazioni relative alla popolazione residente, all’occupazione dei suoli ed al loro uso, alle caratteristiche del costruito e dei servizi al cittadino (infrastrutture primarie e secondare); nella elaborazione di carte tematiche che ne riassumessero i contenuti. Per far questo in tempi brevi occorreva predisporre moduli formativi che affrontassero il tema della informatizzazione dei dati raccolti e della loro rappresentazione sistematizzata all’interno di mappe territoriali (Knowledge Mapping Analysis).

La metodologia da adottare per il trasferimento della conoscenza in seno alla gestione del territorio e pianificazione urbana costituiva il fondamentale motivo di successo dei proposti esercizi di pianificazione urbana. Dopo aver più volte sperimentato a. la formazione diretta dei tecnici municipali sia in sedi universitarie locali che esterne, b. l’assistenza tecnica relativamente a specifici settori (principalmente la progettazione e della valutazione delle priorità delle infrastrutture a rete e dei servizi sociali), attraverso una sorta di training on the job, e dopo aver constatato il relativo fallimento della sostenibilità del Knowledge Transfer in entrambi i casi (Minervini, 2006), la scelta si era diretta verso la mediazione del trasferimento di conoscenza da parte di studenti universitari (o meglio giovani architetti) iscritti alla scuola di specializzazione in Tecnologia, Architettura e Città nei paesi in via di sviluppo del Politecnico di Torino. Quattro studenti della scuola furono selezionati53 per condurre esercizi di pianificazione urbana in due città: esercizi pertanto comparabili nel metodo e nei risultati. Nel corso del mese di attività la collaborazione tra i giovani architetti ed i tecnici delle municipalità fu sorprendente in termini di capacità di produrre gli effetti e i risultati voluti. I tecnici delle municipalità, di fatto dovevano confrontarsi con coetanei o giovani professionisti di età inferiore la cui sapienza 48

in fatto di analisi e progettazione urbana non eccedeva la loro. Pertanto la comunicazione si effettuava su di un piano quasi paritetico. Il processo di apprendimento si svolgeva nel suo farsi (learning by doing), non si esprimevano competitività e non si confrontavano posizioni tra una cultura dominante e una dominata. Il ruolo del supervisore si confondeva con quello istituzionale dell’Housing Coordinator (funzionario UNMIK) e pertanto figurava come discreto suggeritore di modelli e tecnologie di analisi e progettazione o come semplice coordinatore delle attività in corso.

La translazione ovvero l’inversione del metodo usualmente adottato nel processo decisionale (decision making process) dal top-down al bottom-up consisteva nell’adottare un approccio partecipativo assolutamente conflittuale con le regole tradizionali della società locale. Il sindaco e le cosiddette autorità locali di fatto erano temporaneamente emarginate dal decidere le direzioni dello sviluppo in quanto considerate arrogantemente pretenziose nei confronti della conoscenza di un territorio abitato da tutti i cittadini. Pertanto tutti i rappresentanti della comunità urbana (privati, pubblici e rappresentati della società civile, ovvero le organizzazioni non governative) furono convocati per esprimere opinioni e valutazioni in merito allo sviluppo urbano sostenibile attraverso consolidate tecnologie di approccio alla gestione di meeting note con il nome di Focus Group Discussion e Nominal Group Technique. L’approccio fu sorprendente e persino apprezzato dai maggiori rappresentanti politici, e naturalmente incoraggiato dall’amministrazione temporanea dell’ONU.

Ma il nodo fondamentale dello sviluppo urbano delle città kossovare intorno al quale le autorità istituzionali ed internazionali dell’UNMIK continuavano a girare intorno era quello della mancanza di dialogo tra le etnie dominanti (quella albanese e quella serba), ciò che evidentemente impediva l’utopistica armonica convivenza civile e sviluppo integrato delle comunità nel territorio. Evidentemente la guerra e le pesanti perdite in termini di vite umane da entrambe le parti era un ricordo troppo fresco perché l’auspicato dialogo potesse essere innescato. Questa fu la principale ragione di quell’eterno procrastinare la soluzione dello sviluppo della regione kossovara a partire dall’attribuire poca importanza alla pianificazione urbana in quanto base normativa dello sviluppo locale sostenibile da parte dell’UNMIK e da parte dell’intera comunità internazionale. Fatto sta che, in particolare a Decan laddove il conflitto etnico era stato più cruento, l’interesse nei confronti dello sviluppo economico era stato vivamente percepito cosi come la necessità di doverlo impostare sulla base della collaborazione e partnership tra le diverse comunità ed etnie. La comunità serba54 e quella albanese avevano accettato di incontrarsi e, mettendo da parte risentimenti e polemiche, discutere di questioni concernenti le loro rispettive risorse ed i comuni interessi di sviluppo sulla base della convivenza civile. Nonostante le buone intenzioni dichiarate da entrambe le parti e


la straordinaria occasione creata da un apparentemente banale esercizio accademico di pianificazione urbana, i programmati incontri di scambio e discussione tra le due antiche comunità nemiche furono ostacolate dalla stessa amministrazione UNMIK perché, suggeriva la nota ufficiale, “i tempi non erano maturi”. Persa questa straordinaria occasione le due comunità furono costrette ad incontri mediati dai giovani architetti costretti alla spola tra i terreni dichiarati ostili – in questo caso – solo dalla comunità internazionale.

Questi esercizi di pianificazione urbana (noti anche sotto il nome di Preparatory Urban Plans) furono presto dimenticati nell’andare fatuo di quella gestione temporanea di un caso unico al mondo: il Kossovo.

2.4 Burkina Faso: Sviluppo delle Infrastrutture Sanitarie55

Nel quadro dell’identificazione di proposte sostenibili per il miglioramento delle cosiddette ‘Formazioni Sanitarie’56 (FS) in Burkina57 nell’agosto 1998 nelle due regioni occidentali di Koudougou e Ouahigouya fu visitato un campione statisticamente rappresentativo (poco più del 16%)58 di – ambulatori o presidi sanitari territoriali (CSPS Centre de Santé et de Promotion Sociale), – ambulatori attrezzati o centro sanitario di prima referenza (CMA - Centre Médical avec Antenne Chirurgicale), – centri ospedalieri regionali o centro sanitario di seconda referenza (CHR - Centre Hospitalier Régional). Gli obiettivi specifici dei sopralluoghi consistevano: a. nella identificazione del rapporto tra stato di necessità richiesta da parte delle autorità locali e stato di bisogno effettivo, b. nel valutare le caratteristiche di ciascuna Formazione Sanitaria da un punto di vista della qualità e quantità dei servizi offerti e loro stato di conservazione, e c. nel costruire una base credibile ed estendibile a tutte le altre Formazioni Sanitarie (quelle non visitate e quelle delle regioni orientali) per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Figura 38: Esempi grafici di densificazione di aree pubbliche e diversificazione delle attività (disegno dell'arch. G. Bagoni).

In realtà sin dai primi passi del progetto s’imponeva una questione a monte relativa al forte contrasto tra la cultura medica occidentale e quella locale, fino al rapporto tra il valore dell’esistenza (e della relativa cura dell’esistenza) nell’occidente cosiddetto ‘civilizzato’ e nell’Africa subsahariana. In altri termini ricorrevano domande del tipo: è possibile e quanto è possibile il trasferimento in Africa del modello di ‘cura del corpo’ occidentale? è questo modello accettabile? a quali condizioni? fino a che limite? Le prime ed immediate riflessioni erano in merito alle caratteristiche delle infrastrutture sanitarie in occidente che potrebbero ricondursi semplicemente a igiene dell’ambiente per evitare contagi, organizzazione razionale degli spazi, visibilità e riconoscibilità della struttura59 sul territorio per una facile identificazione e raggiungibilità. Queste tre condizioni erano di difficile applicabilità all’interno del contesto subsahariano laddove la cura medica del corpo è prevalentemente affidata alla stregoneria e naturopatia popolana.

Dopo le prime visite a presidi sanitari ed ospedali appariva più che chiaro che il modello europeo non godeva di grande successo. Nella stragrande maggioranza dei casi il modello occidentale non aveva attecchito nonostante gli sforzi finanziari della comunità internazionale e soprattutto la persistenza con la quale era imposto. I presidi sanitari erano abbandonati a se stessi, tutti privi dei più elementari servizi igienici, in guerra continua con la polvere, il fango, le termiti, il piscio dei pipistrelli. I centri ospedalieri ed i presidi sanitari evoluti (CMA) 49


non presentavano condizioni e caratteristiche migliori salvo che si trattava di cliniche o ospedali privati gestiti da religiosi.

Da una rapida analisi territoriale i CSPS erano spesso ubicati in zona baricentrica rispetto ai villaggi e pertanto risultavano completamente isolati dal resto del mondo (quindi scarsamente visibili) e spesso persino privi di acqua ed energia. La logica dello sviluppo attraverso insediamenti urbani di piccola media taglia o la gerarchizzazione degli insediamenti in termini di importanza e servizi offerti (logica tipica della cultura occidentale e tutt’altro che tipica del continente africano) non era applicata, cosicché le strutture sanitarie di tipo occidentale si trovavano a rappresentare se stesse in un contesto nel quale non c’era alcun riferimento alla cultura (occidentale) che le aveva concepite sviluppate ed esportate. In effetti i CSPS secondo la normativa nazionale dell’epoca60 avrebbero dovuto semplicemente coprire una area di dieci chilometri di raggio e 10.000 abitanti; altro non era raccomandato per la localizzazione delle FS. Inoltre la norma era solo in parte applicata ed anche se lo fosse stata il contrasto comunque rimaneva evidente nonostante i tentativi dell’ambiente e della mancanza di manutenzione di mimetizzare nel paesaggio quelle presenze di cultura barbara.

2.4.1 Analisi delle Qualità

Le indagini effettuate nelle 38 Formazioni Sanitarie nei distretti di Koudougou e Ouahigouya riguardavano principalmente: lo stato di manutenzione e condizione fisica delle strutture, l’esistenza e condizione di latrine, cucine per i malati, inceneritori, approvvigionamento idrico, drenaggio, recinzione, passaggi e collegamenti esterni, tipo e condizione dell’impianto elettrico, stato di manutenzione delle aree esterne.

Inceneritori improvvisati a cielo aperto in CMA e CSPS.

I metodi d’indagine adottati erano quelli della - rilevazione metrica (per una valutazione sia pure approssimativa delle opere da eseguirsi per la manutenzione straordinaria e delle nuove costruzioni), – osservazione diretta (per la valutazione dello stato di conservazione delle strutture e delle infrastrutture, nonché della mancanza dei necessari servizi), – intervista di uno o più addetti per FS (per l’assunzione di dati relativi alla percezione dei bisogni soddisfatti e non, nonché alla valutazione delle capacità di gestione della manutenzione ordinaria e straordinaria).

Se da una parte queste indagini costruivano un database in formato alfanumerico per successive elaborazioni statistiche, dall’altra facevano maturare riflessioni sul tema dell’incarico ovvero sul concetto di qualità (da migliorare) di una Formazione Sanitaria nell’Africa sub-sahariana. Le immagini qui di seguito testimoniano delle prime e più essenziali percezioni della qualità insostenibile delle Formazioni Sanitarie visitate in dieci giorni. 50

Latrine in blocchi d’argilla in stato di evidente abbandono (CSPS della regione di Ouahigouya). Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarie nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).


CSPS tipico. Dispensario, Maternità e Deposito MEG. L’area di pertinenza è molto vasta; mancano drenaggi, recinzioni, latrine, inceneritore, acqua ed elettricità.

Sala parto in CSPS. Il letto delle partorienti (su cui il medico posa incurante le sue scarpe) è incrostato di sangue e mucillagini.

Maternità in CMA della regione di Koudougou. Le camere attrezzate con letti in ferro sono disattese. Le pazienti sono distese su proprie stuoie nel portico dell’ospedale.

Maternità in CMA della regione di Koudougou. I lavandini sono fuori uso. L’acqua è erogata da una fontanella nell’area prossima alla maternità. Non esiste drenaggio. I panni sono lavati in bacinelle di proprietà delle pazienti nella zona non melmosa più prossima alla fontana.

Celle d’ospedalizzazione per l’emergenza in CSPS, tanto piccole da non riuscire a contenere un letto d’ospedale donato da NGO occidentale.

Cucina economica di ospedale all’interno di vano non areato. Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarie nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).

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CMA realizzato dalla Banca Mondiale. Dettagli ridondanti e cucina dell’ospedale di 9 metri quadri. Costi di costruzione e manutenzione insostenibili dalle istituzioni locali.

Mobilette con lettiga a traino. Esemplare costruito dal medico del CSPS.

Dettaglio della lavanderia dell’ospedale san Camillo, gestito da religiosi.

Dettaglio dell’ingresso agli edifici di un tipico CSPS. Tra la terra battuta e il piano di calpestio del dispensario o della maternità non esiste alcun elemento di mediazione.

L’ospedale san Camillo di Ouagadougou ha ben tre elementi di mediazione tra la strada e l’ingresso ai padiglioni: una fascia di aiuola verde, ghiaia e marciapiede.

Uso di materiali e tecnologie appropriate per la costruzione di Formazioni Sanitarie: mattoni di adobe e cellule fotovoltaiche per l’approvvigionamento idrico da trivellazione. Figura 39: Indagine fotografica sulle Formazioni Sanitarie nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso).

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Il progetto non poteva che schierarsi dalla parte della qualità sostenibile e questa anche quando applicata ad una Formazione Sanitaria non poteva prescindere dai tre principi fondamentali che la definiscono: la durabilità, l’appropriatezza e l’evoluibilità, sui quali le raccomandazioni che seguono furono basate.

namento della struttura sanitaria che per sua natura doveva rispondere alle indispensabili condizioni igieniche ed alle caratteristiche adeguate alle funzioni richieste per ciascun centro sanitario e sottolineate nelle Raccomandazioni generali e Principi base (paragrafo 2.4.3).

Durabilità La durabilità certo non poteva esser concepita solo ed esclusivamente in funzione della durabilità dei materiali edilizi, ma avrebbe dovuto essere il risultato della combinazione della qualità tecnologico-progettuale, delle strategie di manutenzione adottate, e delle risorse economiche disponibili. Il rapporto tra queste tre condizioni è complesso. Sicuramente di queste tre componenti la manutenzione svolge sicuramente un ruolo chiave se si considera che a parità di costi d’investimento un manufatto con poche risorse iniziali e piccoli investimenti ricorrenti nel tempo obbliga ad una strategia di manutenzione che di fatto garantisce una maggiore durabilità e qualità globale in confronto ad un manufatto che dispone di un notevole investimento iniziale ed alcun investimento ricorrente (Franceys R., 1992). Tra l’altro dei due casi enunciati quello con costi reiterati realizza persino un risparmio sulla capitalizzazione, ma è costretto evidentemente ad uno sforzo maggiore in termini di elaborazione di strategia di manutenzione e soprattutto di elaborazione di un progetto tecnologico ed architettonico che fa ricorso a tecnologie povere ed al basso costo. Ciò significa che un progetto di qualità globale61 elevata che pianifica anche la manutenzione nel tempo del manufatto assicura da un lato una buona durabilità e dall’altro costi capitalizzati più bassi a parità di investimento globale.

Appropriatezza “La più semplice definizione di tecnologia appropriata è di Paul Osborne: “(Una tecnologia appropriata è) ‘una tecnologia di cui la gente può appropriarsi’62. Una tecnologia che la gente non può usare, che li rende dipendenti da una grande organizzazione, non è appropriata (…). Tecnologie pesanti e capital intensive63 possono essere particolarmente appropriate per grandi edifici, ma non per case e villaggi” (Cadman D., Payne G.K., 1990). La tecnologia appropriata, in opposizione alla tecnologia convenzionale, ha come parametri le risorse disponibili (umane e materiali), le condizioni di contesto (climatologiche socioeconomiche, politiche) e poi, avendo come obiettivo la qualità globale, articola il basso costo delle tecnologie povere con l’alta tecnologia.“(…) l’idea di appropriato è in contrasto sia con l’uso indiscriminato delle tecnologie industriali e automatizzate, sia con le posizioni pure e semplici del tradizionale come unica base tecnologica valida, anche se ‘migliorabile’ (…).” (Ceragioli G., 1989). L’appropriatezza delle Formazioni Sanitarie doveva essere ricercata nell’adattamento delle sue strutture alle condizioni contestuali fisico-morfologiche ma anche economico-produttive e culturali fatte salve quelle condizioni necessarie al funzio-

Figura 40: Proposte per soluzione di annosi inconvenienti delle FS africane.

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L’evoluibilità L’evoluibilità di un edificio consiste nel suo carattere in fieri ovvero nell’essere predisposto, sin dal suo concepimento, ad evolversi in una struttura dai caratteri funzionali più complessi. L’evoluibilità è di fatto una caratteristica del progetto di qualità globale in quanto pianificando lo sviluppo di un manufatto edilizio e dell’uso dello spazio si asseconda una naturale predisposizione alla progressiva trasformazione dell’habitat umano (crescita ed evoluzione sia a livello tecnologico che dimensionale) e soprattutto si recuperano parte dei costi di impianto.

In ogni caso, a parte la necessaria applicazione di questi fondamentali principi volti a garantire qualità degli edifici e di servizi all’interno delle Formazioni Sanitarie, la quasi totalità delle FS necessitavano comunque sia interventi di manutenzione ordinaria (come una nuova impermeabilizzazione del tetto, una nuova pavimentazione, la sostituzione di maniglie e chiavistelli) che manutenzione straordinaria per la ventilazione degli ambienti, per la maggior parte affetti dal gravoso problema dei pipistrelli alloggiati nell’intercapedine tra tetto e plafond, e per la soluzione dei raccordi tra edifici e terreno circostante.

2.4.2 Analisi delle Tipologie

I tre modelli di referenza sanitaria fissati dalla legislazione nazionale (il Centre de Santé et de Promotion Sociale – CSPS, il Centre Medical avec Antenne Chirurgicale – CMA – ed il Centre Hospitalier Regional – CHR) avevano sviluppato caratteristiche tipologiche distinte e ciononostante legate da un percorso evolutivo che in qualche caso aveva permesso il passaggio da una CSPS ad un CMA. Nel fissare le raccomandazioni per il miglioramento delle Formazioni Sanitarie si è tenuto conto di tale aspetto evolutivo e lo si è ulteriormente rafforzato64. Il CSPS era costituito da un dispensario, una maternità (70 metri quadrati ciascuno e approvvigionati d’acqua potabile) ed un deposito di medicinali essenziali e generici (Médicaments Essentiels Génériques – MEG) di 20 mq.

Ciascuno dei due edifici principali (dispensario e maternità) ospitava diverse funzioni a cui non necessariamente corrispondeva uno spazio suo proprio. Le funzioni ospitate nei due edifici principali erano: – nel dispensario: sala d’attesa, consultazione, primo intervento e cura, degenza e deposito; – nella maternità: sala d’attesa, consultazione prenatale, parto, cura, degenza post-natale)

Il centro sanitario avrebbe dovuto essere necessariamente dotato di servizi quali: latrine/docce, cucina per i malati, sale di degenza ausiliarie, alloggi per il personale (in un numero variabile da 2 a 4, a seconda delle necessità). In virtù dei menzionati principi di evoluibilità l’organizzazione dello spazio esterno avrebbe dovuto consentire la possibilità di uno sviluppo planimetrico ulteriore del centro sanitario e la possibilità di una facile ed accurata manutenzione ordinaria dei servizi ausiliari, dei passaggi coperti e non, e degli spazi di raccordo tra il costruito ed il non edificato. 1. Dispensario e deposito MEG 2. Pozzo per approvvigionamento idrico 3. Latrine

4. Maternità 5. Cucina per malati e parenti dei malati 6. Pannelli fotovoltaici

7. Locali di degenza 8. Estensione del dispensario

9. Deposito d’acqua 10. Piccolo laboratorio

Figura 41: Definizione dell’area di pertinenza da destinare a un CSPS con prospettive evolutive.

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Figura 42: Schema evolutivo di un CSPS.


Figura 43: Cellule e schemi strutturali evolutivi.

Ai due edifici principali a fronte dell’incremento quantitativo del bacino d’utenza e dell’aumento delle attività (ciò corrispondeva in genere ad una sempre maggiore fiducia conferita dalla popolazione servita all’istituzione sanitaria a fronte dell’aumento della qualità del servizio) si associavano ulteriori funzioni che necessitavano di ulteriori spazi chiusi come per esempio il laboratorio, nuovi reparti a padiglione ed i sempre più diffusi spazi destinati ai centri di recupero nutrizionale CREN (Centres de Récupération Nutritionnelle). Al momento del salto di qualità da CSPS a CMA ancora ulteriori funzioni e i relativi spazi si sarebbero integrati a quelli esistenti. Le reti e le fonti di alimentazione sarebbero state potenziate così come i sistemi di evacuazione e trattamento dei rifiuti liquidi e solidi. Sono estese le operazioni di manutenzione e rafforzate le appendici funzionali come i percorsi battuti, le opere di drenaggio, i raccordi tra manufatto edilizio e l’habitat circostante, le opere di finitura in genere. Un CMA che si sviluppa da un preesistente CSPS è dotato di una sala operatoria, un laboratorio d’analisi ed uno di radiologia, sale di degenza differenziate per patologia e relativi servizi (ausiliari ed amministrativi) potenziati. I servizi di lavanderia e relativo essiccatoio e la cucina dell’ospedale65 sono funzione del numero dei pazienti serviti e delle necessità contingenti. Da un punto di vista squisitamente dimensionale e distributivo funzionale un CHR, aldilà dell’incremento della superficie destinata a ciascuna delle funzioni già prevista all’interno di un CMA, aumenta esponenzialmente le funzioni di organizzazione dei sistemi di evacuazione e smaltimento dei rifiuti solidi e liquidi e quelle dei servizi ausiliari per i malati. Lavanderia con servizio di disinfezione ed essiccatoio diventano obbligatori così come la cottura e la distribuzione del cibo. Particolare importanza rivestono i sistemi di drenaggio e di trattamento delle acque luride. 55


Figura 44: Schema funzionale di CHR.

Figura 45: Servizi minimi di una FS per garantire un adeguato livello d’igiene.

2.4.3 Raccomandazioni: principi base e modelli

Una FS oltre a consistere in un’articolazione spaziale di funzioni tutte legate alla sanità ed alla cura dei malati avrebbe dovuto qualificarsi attraverso uno status igienico opportunamente e convenientemente superiore a quello dell’habitat circostante e tale da garantire il regolare svolgersi delle funzioni di carattere sanitario. In altri termini doveva presentarsi nel suo complesso, con caratteristiche igienico-sanitarie per lo meno conformi alle più elementari raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità o alle più elementari regole d’igiene e del buon senso (naturalmente secondo le accezioni cella cultura occidentale). All’uopo fu suggerita la realizzazione, nelle immediate vicinanze degli edifici che compongono la FS, dei seguenti servizi e successive raccomandazioni quasi in forma di manuale: 1. pozzo, inizialmente con pompa manuale, 2. latrine per malati e personale di servizio, così suddivisi: una latrina per il personale di servizio, una per il dispensario, una per la maternità ed una per i malati con malattie infettive, 3. sistema di evacuazione e di smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi, 4. drenaggio, 5. struttura per la preparazione dei pasti a cura dei malati o loro familiari che li accompagnano63, 6. recinzioni, 7. energia, 8. padiglioni per il ricovero.

Al fine di garantire l’efficiente funzionalità ed il miglioramento delle qualità delle FS occorreva fossero garantite due essenziali condizioni di base: 1. il rispetto di appropriate ed indispensabili condizioni igieniche e 2. la rispondenza alle caratteristiche qualitative (paragrafo 2.4.1) ed alle funzionalità dei servizi da erogare (come elencato qui di seguito) in ciascun centro sanitario a fronte di uno specifico livello tipologico (paragrafo 2.4.2).

Per quel che riguarda la prima condizione sarebbe da sottolineare che le FS in quanto (idealmente) rappresentanti di un modello efficiente di cura e di gestione sanitaria pubblica (di origine occidentale), avrebbero dovuto in realtà farsi carico della ostentazione di un modello d’igiene esemplare in termini di servizi di cui fornirsi e di comportamenti a cui adeguarsi. Le FS avrebbero dovuto perciò fornire alla popolazione indigena servita un concreto e valido riferimento esemplare per quel che riguarda le soluzioni appropriate ai fabbisogni primari come per esempio l’approvvigionamento idrico ed energetico, le tecnologie costruttive, la gestione delle risorse, l’organizzazione dello spazio, l’evacuazione ed il trattamento dei rifiuti liquidi e solidi, un’adeguata alimentazione. 56


Il Pozzo per adduzione idrica La FS deve essere in grado di garantire acqua potabile per un minimo di 20/50 litri d’acqua al giorno/persona fino ai 115/120 (a livello di ospedale di distretto), per soddisfare bisogni di idratazione, alimentazione e garantire altresì una sufficiente condizione igienica a livello personale e dell’ambiente67, soprattutto all’interno dei manufatti edilizi. Garantire la potabilità68 significa: 1. essere in grado di manutenere la fonte di approvvigionamento idrico (recintando e pulendo il bacino di raccolta delle acque e/o evitando la contaminazione della falda acquifera), 2. essere in grado di controllare periodicamente le caratteristiche qualitative dell’acqua di falda e, non meno importante, quelle dell’acqua in cisterna ed all’uscita, attraverso un contatto frequente con il CRESA (Centre Regional d’Education pour la Sante et l’Assainissement), 3. essere in grado di effettuare trattamenti preventivi di potabilizzazione in caso di epidemie.

Figura 46: Servizio minimo di approvvigionamento idrico.

La FS deve quindi essere dotata di un forage per l’approvvigionamento d’acqua potabile, di una cisterna per la raccolta e deposito, e di una rete di distribuzione per l’uso dell’acqua all’interno delle strutture (dispensario, maternità, saloni di degenza, sala operatoria ecc.). La FS deve inoltre essere dotata di un punto d’acqua in prossimità delle latrine e di opportuni avvertimenti in merito alle norme igieniche più elementari che fanno uso di acqua. Un punto d’acqua deve essere previsto anche in corrispondenza delle cucine dei malati, per l’uso domestico. In corrispondenza di ciascun punto acqua occorre predisporre un opportuno pozzo a perdere tale da risultare facile la sua riconversione in pozzetto d’ispezione nel momento in cui si dovesse trasformare il sistema di evacuazione a dispersione in un sistema di evacuazione in rete.

Le Latrine e le Docce Ciascuna FS deve essere dotata di latrine di tipo ventilato e migliorato (VIP – Ventilated Improved Pit-Latrine)69 per i pazienti ordinari, per il personale di servizio e, separatamente, per i pazienti con malattie infettive. Il numero di latrine deve essere sufficiente a garantirne l’uso a non più di 50 persone per latrina. L’uso delle VIP non è comunque consigliato nel caso la popolazione residente superi le 170 persone per ettaro (Sinnatamby G.S., 1983) al fine di evitare la contaminazione della falda acquifera e per problemi di natura economica. Nel caso in cui tali valori fossero superati (il caso si presenta per i CMA particolarmente frequentati e per i CHR) si suggerisce la costruzione di batterie di latrine a basso consumo di acqua con secondo sistema di trattamento in fossa settica e terzo in laguna (per i CHR).

Figura 47: Planimetria e schizzo assonometrico di una core unit.

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Figura 48: Schema funzionale di una VIP e latrina a basso consumo d’acqua.

Le modalità di costruzione devono essere tali da garantire solidità alla soletta ed alla camera di raccolta sottostante e la non infiltrazione nel sottosuolo delle materie organiche (Minervini, C. 1997). In ogni caso ne è consentita la costruzione a non meno di 20 metri da una fonte di approvvigionamento idrico e ad una distanza massima dall’edificio di pertinenza non superiore ai 50 metri (perché possa essere facilmente raggiungibile da parte dei suoi utenti. Uno schermo verde ed una semina di piante profumate come la citronella sono raccomandabili. La durata di una latrina è funzione del volume della camera di raccolta, della popolazione servita e della sua manutenzione che deve consistere, oltre che nella settimanale disinfezione della soletta, anche nella evacuazione dei sedimenti organici dalla camera di raccolta70. La manutenzione delle latrine non può essere affidata ai malati, ma si possono incoraggiare i malati a farne un uso corretto attraverso una pressante campagna di informazione. Nel caso di latrine a basso consumo di acqua (qualora cioè la FS fosse dotata di sufficiente acqua corrente proveniente da rete municipale o falda freatica particolarmente copiosa) è auspicabile la realizzazione di un unico blocco latrine-docce e lavanderia per malati con relativo sistema di smaltimento e trattamento delle acque71. Sistema di evacuazione e di smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi Il sistema di evacuazione e di smaltimento dei rifiuti liquidi si realizza attraverso la costruzione di pozzi a perdere, sgrassatori e fosse settiche, men-

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tre i rifiuti solidi sono dapprima raccolti poi differenziati e quindi eliminati: interrati o bruciati in appositi contenitori (inceneritori) o ancora trattati in stazioni di compostaggio. Il sistema di trattamento più conveniente è funzione delle dimensioni della FS e soprattutto del tipo di rifiuto. Se infetto il rifiuto liquido ha bisogno di un ulteriore trattamento prima di essere smaltito, o di essere raccolto in inceneritore e bruciato se si tratta di rifiuto solido. Una particolare attenzione meriterebbe il sistema di trattamento dei rifiuti liquidi per mezzo di lagunaggio. È evidente che questo sistema è realizzabile solo a condizione di disponibilità di acqua corrente in rete. Il Drenaggio Il drenaggio dell’area non edificata della FS ha la specifica funzione di irreggimentare le acque pluviali, evitare fenomeni di erosione e soprattutto o di ristagno. Canali di scolo e pozzi per l’infiltrazione capillare nel sottosuolo fanno all’uopo se dotati di opportuna pendenza e se collegati in rete in funzione della progressiva espansione planimetrica della FS.

La Cucina per malati La maggior parte delle FS sono già dotate di cucina per i malati spontaneamente realizzata dai parenti dei pazienti per ospitare le funzioni di preparazione cibo al riparo dalle intemperie. Le piccole costruzioni (massimo 12 metri quadrati) sono in mattoni di terra cruda e le copertura sono realizzate in tecnologie altrettanto poverissime; hanno


Figura 49: Sistemi base per il trattamento dei rifiuti solidi infetti (inceneritore) e liquidi organici.

Figura 50: Soluzioni appropriate per il drenaggio delle acque pluviali.

Figura 51: Cucina per malati e parenti.

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un solo accesso e rare piccole aperture per la fuoriuscita dei fumi72. Raramente cucine economiche migliorate sono realizzate all’interno di tali ricoveri. Si raccomanda la realizzazione di cucine per malati a basso costo, aperte almeno su due lati, fornite di cucine economiche migliorate e di sistema di ventilazione naturale per l’allontanamento dei fumi. Tutte le cucine per malati visitate riportavano un buono stato di manutenzione e pulizia dell’ambiente interno. È pertanto facilmente auspicabile che le nuove strutture proposte siano curate da coloro che ne faranno uso. Tra i servizi ausiliari si suggerisce una fontanella per ogni otto foyer (e relativo sistema di evacuazione delle acque usate) ed un’area (all’interno della vasta area di pertinenza della FS, spesso non usata) attrezzata per l’approvvigionamento di legno combustibile. Una valida alternativa alle cucine per malati appena descritte è costituita da forni solari e cucine paraboliche ad energia solare in particolare nelle FS di nuova creazione.

La Recinzione La recinzione di una struttura sanitaria (anche la più piccola) è di cruciale importanza per evitare che animali da cortile e randagi possano liberamente circolare in un ambiente che per definizione deve assicurare un ambiente il più possibile asettico. La recinzione può essere realizzata facendo uso delle tecnologie più disparate in funzione delle caratteristiche delle FS (CSPS, CMA, CHR) e l’area da recintare non necessariamente deve includere l’intera area di pertinenza della FS, ma limitarsi alla superficie funzionale all’espletamento delle funzioni essenziali73. Così come mostrato nei villaggi che sovente fronteggiano le FS, gli stessi edifici possono costituire parte integrante delle recinzioni; la rimanente parte può essere realizzata in legno, rete metallica associata a fitta siepe o alberatura.

Les Salle d’hospitalisation Buona parte delle FS lamentavano la mancanza di sale per la degenza soprattutto in occasione di gravi epidemie. È stato suggerito che in caso di emergenza, le FS siano dotate di tende da campo e che fosse predisposta anche una area attrezzata con latrine, cucina per malati e fontane pubbliche). Ricoveri per la degenza possono essere predisposti anche grazie alla realizzazione di padiglioni, opportunamente attrezzati in casi di bisogno con letti in giunco, zanzariere impregnate e box con relativo lucchetto per la custodia degli effetti personali. Il padiglione risulterebbe di capienza media di 10-12 letti74 e d’una tipologia del tutto opposta a quanto finora concepito e costruito per la degenza d’emergenza, pur conservando i caratteri essenziali delle costruzioni indigene e cioè il basso costo, i materiali poveri e l’uso di tecnologie rinnovabili, come si deve per un habitat provvisorio ed usato non sovente. In occasione di un ampliamento del CSPS o della trasformazione del CSPS in CMA, tale costruzione potrebbe comunque offrire una valida base alla realizzazione di una sala di degenza largamente funzionale e opportunamente attrezzata. 60

Figura 52: Forno solare e cucine paraboliche.

Figura 53: Proposta di padiglione per la degenza.


NOTE

Figura 54: Letto in bambù.

Figura 55: Cellule fotovoltaiche per l’approvvigionamento di elettricità.

Energia Buona parte delle FS erano sprovviste di energia elettrica per l’illuminazione degli spazi funzionali ad interventi di prima urgenza ed al mantenimento della catena del freddo. Altre invece ricorrevano a fonti energetiche alternative. Per la grande disponibilità di materia prima è stato suggerito l’uso di pannelli solari a celle fotovoltaiche per coprire un fabbisogno medio di 500 W/h per CSPS.

1 Le condizioni potenziali del beneficiario sembra siano determinanti per la definizione dello stato di emergenza altrimenti buona parte degli interventi della cooperazione internazionale in Africa non potrebbero rientrare nella categoria di programmi di sviluppo ma di emergenza. 2 Il 10 Dicembre del 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è approvata (con la risoluzione 217 A III) dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e proclamata “…as a common standard of achievement for all peoples and all nations”. 3 La cooperazione bilaterale è quella che si produce tra due enti governativi di due distinti paesi (in genere uno del sud del mondo e l’altro esponente del blocco dei paesi ‘sviluppati’), mentre la cooperazione multilaterale si realizza tra un’entità multinazionale (come per esempio la Banca Mondiale o le Nazioni Unite, ma anche l’Unione Europea o gli Stati Uniti d’America) ed un governo beneficiario. La cooperazione decentrata invece si svolge tra soggetti autonomi (Regioni, Province, Comuni o in generale pubbliche istituzioni di due paesi), che si sviluppano da un processo di decentralizzazione. Una più approfondita analisi della cooperazione allo sviluppo è fornita in Raimondi A., Antonelli G., 2001. 4 Articolo25 (1) della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: Everyone has the right to a standard of living adequate for the health and well-being of himself and of his family, including food, clothing, housing and medical care and necessary social services, and the right to security in the event of unemployment, sickness, disability, widowhood, old age or other lack of livelihood in circumstances beyond his control. 5 Il riferimento è a J.F.C. Turner che, nel settore abitativo, per primo ha proposto di rivedere il ruolo dei governi centrali da fornitori a facilitatori. Turner ha pubblicato le sue teorie in varie autorevoli pubblicazioni (Turner, 1976) e ha portato queste istanze presso la Banca Mondiale facendosi promotore di approcci e progetti di partecipazione negli anni settanta e ottanta. 6 Se da lato questo meccanismo appare logico (gli enti che gestiscono la legalità e l’illegalità sono in teoria incommensurabili) dall’altro risulta invece paradossale che le sanatorie edilizie in paesi ‘sviluppati’ siano direttamente gestite dai governi centrali. 7 Una barzelletta rende perfettamente questa delicata se non incresciosa presenza del cooperante in terra da cooperare. Il confronto proposto dal motto scherzoso è tra il saputo cooperante ed il sapiente pastore locale, timido, pacifico e rassegnato che si vede avvicinato dal barbaro in vena di performance inoppugnabili, di show informatici e di ‘vittoria’. “Vuoi vedere, vecchio, che ti so dire quante pecore hai nel tuo gregge? … e se la mia stima dovesse corrispondere alla verità, mi regaleresti una delle tue pecore?” Il pastore accetta di buon grado conscio dell’impossibilità di elevare lo sguardo umano a computare un numero di pecore tanto elevato quanto mobile. Il cooperante, dopo aver messo in moto la sua potente macchina informatica, il suo cellulare satellitare, creato il collegamento tra i due, identificato il wireless network alla portata e scaricata l’immagine satellitare del luogo, riportata l’immagine in GIS, combinate le pecore con punti, ordina al programma di rilevare automaticamente il numero dei punti ovvero delle pecore. “1735” propone, con inappuntabile sicurezza, il saputo cooperante. A seguito dell’attimo di imbarazzato smarrimento e dell’impossibilità di non reagire alla sottrazione di uno degli animali di sua proprietà, il pastore ribatte proponendo “se ti dicessi chi sei, ovvero la tua professione, mi restituiresti la mia ‘pecora’ ?” E qui i ruoli del cooperante e del pastore vengono invertiti. Il pastore pomposo d’orgoglio fa riferimento al-

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l’antica saggezza che loro deriva dalle ore di silenzi pensati e sentenzia: “un cooperante … e ti dico anche perché tradisci la tua professione. I motivi sono almeno tre. Primo: sei giunto al mio cospetto quando nessuno aveva richiesto la tua presenza; secondo: mi hai riferito un’informazione che già conoscevo, e terzo perché hai fatto mostra di autentica ignoranza: hai preso il mio cane anziché la mia pecora”. 8 Carlos Castaneda, antropologo dell’Università di California, ha riportato in una trilogia le sue esperienze fatte nel corso di anni di apprendistato presso uno stregone indiano Yaqui. Dopo A Scuola dello Stregone (1968) pubblica Una realtà separata e Viaggio a Ixtlan. 9 Questo esercizio è tratto e adattato da Hope, A., Timmel, S., 1984. Un’altra versione dello stesso test è pubblicata in: Johnston, M., Rifkin, S.B., Health Care Together: Trainign exercises for health workers in community based programmes, London: Macmillan/TALC, 1987. 10 Questo esercizio è ripreso e adattato da Hope, A., Timmel, S., Training for Transformation, a Handbook for Community Health Workers Zimbabwe, Mambo Press, 1984. Una versione di questo esercizio (che non nomina Mathari valley) è anche pubblicata in: Johnston, M., Rifkin, S.B., Health Care Together: Training exercises for health workers in community based programmes, London, Macmillan/TALC, 1987. 11 La differenza media tra le actual responses degli abitanti di Mathari valley e le risposte degli aspiranti cooperanti si attesta generalmente intorno ai 30 punti sui 90 di differenza massima. 12 Il Foreign Direct Investment (FDI) consiste nel creare opportunità di partnership tra imprese di straniere e imprese locali (http://en.wikipedia.org/wiki/Foreign_direct_ investment). 13 In questo settore opera la European Bank for the Reconstruction and Development (EBRD) (Banca Europea per la Ricostruzione e Sviluppo), http://www.ebrd.com/ about/index.htm) e la World Bank (Banca Mondiale). 14 Http://www.id21.org/urban/u1bj1g1.html. 15 Http://www.id21.org:80/urban/u7af1g1.html. 16 La tensione etnica tra Hutu e Tutsi ha assunto livelli di scontro civile con l’indipendenza del Rwanda e del Burundi nel 1962. Con il massacro di trecentomila Hutu nel 1972 la guerra civile ha avuto una tragica escalation. Nel 1993 una nuova recrudescenza dei combattimenti ha fatto seguito all’assassinio del primo presidente democraticamente eletto (di etnia Hutu) lasciando sul terreno oltre duecentomila morti. 17 Http://www.unhcr.it. 18 Sono rari i casi in cui alcune organizzazioni non governative, come OXFAM per esempio, si prendono carico della formazione dei rifugiati alla produzione di prodotti artigianali. Queste attività collaterali alla vita dei campi sono certamente non sostenibili, come gli stessi campi d’altronde; tuttavia contribuiscono a sollevare psicologicamente le popolazioni rifugiate attraverso l’impegno collettivo in attività manuali e pratiche. 19 WEDC: Water Engineering and Development Centres alla Loughborough University in Gran Bretagna, http://wedc.lboro.ac.uk. 20 In Bosnia, nel 1993, quando la guerra non era ancora finita, fu istituito l’International Management Group (IMG) che in breve tempo è stato capace di definire il Damage Assessment ed anche i prototipi di abitazioni da costruire. In Kossovo, pochi anni più tardi, il Damage Assessment fu operato da due diverse istituzioni: IMG e le Nazioni Unite attraverso la sua agenzia UNHCR (United Nations High Commission for Refugees, Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite), creando non poca confusione, non tanto per quel che riguardava le quantità di spesa per la ricostruzione, quanto per le categorie di danno a cui l’assessment faceva riferimento.

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Il decision making process è il processo decisionale che porta all’assunzione di strategie di sviluppo di una comunità o di una città. 22 Europeaid è l’ufficio di Cooperazione Internazionale dell’Unione Europea. L’indagine si è svolta nel 2004 intervistando rappresentanti degli uffici di aiuto allo sviluppo nelle quattro aree geografiche (Europa, sud-America, Africa e zona caraibica, e Asia) ed i responsabili di programmi che comprendevano anche solo in parte la pianificazione urbana. 23 A corollario di questo concetto (concetto del costo del denaro) si è anche sviluppato il principio che un rilevante investimento iniziale non è altrettanto conveniente quanto una successione d’investimenti minori nel tempo (vedi pag. 19). 24 A questo proposito si potrebbe fare riferimento alle innumerevoli statistiche degli Human Development Report (http://hdr.undp.org/hdr2006/statistics/) oppure ai 48 indicatori di sviluppo (http://unstats.un.org/unsd/mdg/ Host.aspx?Content=Indicators/OfficialList.htm) relativi agli 8 obiettivi del Millennium Development Goals (http://www.un.org/millenniumgoals). 25 La valutazione della qualità è un tema controverso che ha portato allo sviluppo di un Metodo di Valutazione della Qualità Globale concepito da Giorgio Ceragioli e Delfina Comoglio all’interno della scuola di specializzazione in Tecnologia, Architettura e Città nei paesi in via di Sviluppo del Politecnico di Torino. 26 Vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Sustainability e http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile. 27 Definizione presente nel rapporto Brundtland (dal nome della presidente della Commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland) del 1987 e poi ripresa dalla Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo dell’ONU (World Commission on Environment and Development, WCED)(http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile). 28 Http://en.wikipedia.org/wiki/Appropriate_technology. 29 Si fa riferimento alla moltitudine dei progetti della Banca Mondiale che sono basati su prestiti e non (se non raramente) su donazioni. 30 Queste due esperienze professionali sono gia state oggetto di pubblicazione (Minervini 1997, 2002). 31 L'autore è stato coordinatore di progetto all'interno del programma di riabilitazione degli edifici collettivi occupati dai rifugiati in tutta l'area caucasica (progetto finanziato da ECHO e UNHCR). 32 Http://en.wikipedia.org/wiki/Georgia_(country). 33 ECHO è l’acronimo di European Community Humanitarian Office e si occupa di aiuti umanitari in prima e seconda emergenza (http://ec.europa.eu/echo/ataglance_ en.htm). 34 L'autore è stato responsabile tecnico delle attività di riabilitazione dell'ospedale di Ngozi (progetto finanziato da UNHCR). 35 Se una struttura o infrastruttura deve recuperare la sua precedente condizione qualitativa (e quantitativa) dipende dalle risorse finanziarie disponibili ovvero dalle volontà espresse dalla comunità dei donors ossia dagli interessi che la comunità internazionale ha sviluppato nei confronti dell’area geografica in questione. 36 Http://www.ladocumentationfrancaise.fr/dossiers/conflit-grands-lacs/affrontements-hutu-tutsi.shtml. 37 Http://en.wikipedia.org/wiki/Rwanda. 38 Http://en.wikipedia.org/wiki/Burundi. 39 I centre de santé corrispondevano ai presidi sanitari territoriali o ambulatori. 40 L’autorizzazione a procedere alla riqualificazione di un servizio pubblico non deve essere data per scontata. Essa dipende in massima parte da accordi preventivamente intercorsi tra l’ente donatore e lo stato che riceve la donazione. In area lontana dai centri di potere istituzionali laddove questi accorsi internazionali vengono siglati, il potere 21


assoluto è nelle mani del direttore del centro ospedaliero. Questi potrebbe decidere, per esempio, di esigere una parte dell’intero costo dell’operazione in contante o altra specie, o altrimenti di creare difficoltà sempre più insostenibili all’operazione, per far meglio intendere la richiesta di regalia. 41 Non è raro che in questo caso il direttore stesso indichi tra le priorità la propria abitazione o quella di colleghi a lui legati. In questo caso, dopo aver verificato opportunamente le priorità stabilite dalla direzione si procede alla negoziazione o, in casi estremi, alla rottura dei negoziati. 42 In effetti l’uso di un’autoambulanza in Africa è quanto mai discutibile in quanto vengono a mancare due fondamentali ragioni: la possibilità di comunicare in tempo reale (facendo per esempio uso di telefono) l’esistenza di una urgenza di ricovero e l’esistenza di strade percorribili da un’autovettura (tipo autoambulanza) in grado di collegare i tutti villaggi del bacino di utenza dell’unità ospedaliera con lo stesso ospedale. 43 Occorre sottolineare che in assenza di inceneritori e latrine il materiale infetto e le stesse feci dei pazienti affetti da ogni sorta di malattia erano di fatto sparse tutt’intorno l’ospedale mettendo a rischio di contaminazione l’intero ambiente. Gli animali avrebbero potuto fungere da inconsapevoli vettori ed i bambini entrando liberamente nell’area dell’ospedale avrebbero potuto contrarre molte delle malattie che nell’ospedale si tentava di curare. 44 L'autore è stato housing coordinator all'interno dell'UNMIK e responsabile di esercizi di pianificazione urbana a Decan e Klina. 45 Http://en.wikipedia.org/wiki/Kosovo. 46 L’acronimo inglese dell’organizzazione delle Nazioni Unite più comunemente usato è UN al posto di UNO. 47 La missione fu stabilita il 10 Giugno 1999 a seguito della risoluzione 1299 del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. 48 IMG fu istituito nel 1993 a seguito del collasso della Yugoslavia e durante il conflitto in Bosnia-Herzegovina e dotato di esperti internazionali di egregio livello in termini di housing, management, pianificazione urbana, approvvigionamento idrico, telecomunicazioni, agricoltura e GIS (Geographic Information System). 49 Il termine Housing in italiano è difficilmente traducibile se non in funzione del termine che l’accompagna. 50 Il Central Housing Committee aveva sede a Pristina (città capitale del Kossovo) ed era guidato da un Senior Housing Coordinator (coadiuvato dai Regional Housing Committee) che si voleva essere debole tecnicamente e remissivo politicamente in quanto doveva annuire alle regole e desiderata del Donor Coordination Committee (la Commissione di Coordinamento dei Donatori). 51 Le Kulla kossovare erano delle magioni fortificate in pietra (le murature) e legno (gli orizzontamenti) che puntellavano il territorio. 52 A parte le oasi (cluster) territoriali nelle quali erano assediate alcune comunità serbe oltranziste, la maggior parte delle municipalità kossovare erano amministrate da funzionari kossovari di etnia albanese. 53 Gianfranco Bagoni, Laura Bozzo, Pietro Mancuso, Marina Pelfini. 54 La comunità serba a Decan era raccolta intorno al Patriarcato ortodosso protetto dalla KFOR (Kosovo ForceNATO) italiana. 55 L'autore è stato consulente tecnico all'interno di un programma dell'Unione Europea avente come obiettivo l'ammodernamento delle strutture del sistema sanitario regionale in Burkina Faso. 56 Le Formazioni Sanitarie (FS) in Burkina Faso sono luoghi e strutture fisiche (manufatti edilizi, servizi e impianti) nei quali e grazie ai quali si attuano interventi curativi e preventivi con medicina convenzionale. Le proposte di mi-

glioramento, una volta definite avrebbero dovuto essere incluse all’interno del finanziamento dell’VIII Fondo Europeo per lo Sviluppo (FED) nel settore della Sanità Pubblica in Burkina Faso. 57 Http://fr.wikipedia.org/wiki/Burkina_Faso. 58 Il campione è statisticamente rappresentativo delle 233 Formazioni Sanitarie all’interno delle due regioni, se si assumono valori pari al 15% di confidence level e 95% di confidence interval (http://www.surveysystem.com/sscalc.htm). In tal modo Le 38 Formazioni Sanitarie visitate potrebbero altresì figurare come campione statisticamente significativo di tutte le strutture sanitarie nazionali. 59 Le strutture ospedaliere o i presi sanitari (gli ambulatori) sono generalmente visibili all’interno della struttura urbana attraverso la segnalazione grafica o simbolica, la distinzione tipologica, e l’ubicazione in aree urbane facilmente identificabili e raggiungibili. 60 Ordinanza prefettizia n. 93/146/SASF/SG: “La CSPS couvre en moyenne 10.000 habitants, dans un rayon de 10 kms”. 61 “ (…) la qualità globale (è) intesa come somma ponderata delle qualità raggiunte in settori specifici (qualità elementari), purché nessuna di queste qualità elementari scenda al di sotto di determinati limiti di soglia considerati come qualità elementari irrinunciabili. Al concetto di qualità globale accostiamo quello di tecnologia appropriata, quella tecnologia, cioè che permette, di volta in volta, di raggiungere la qualità globale voluta, fatti salvi i limiti di soglia per le qualità elementari.” Ceragioli G., 1989. 62 Da una comunicazione verbale di Paul Osborne, Direttore di SATIS (Information and Dissemination Service and Information Management System), Olanda. 63 Capital Intensive si contrappone generalmente a Labour Intensive. La prima espressione si riferisce ad interventi basati su consistenti impieghi di capitale, la seconda invece su impieghi di manodopera. 64 L’evoluibilità delle FS (la predisposizione delle nuove strutture ad integrarsi con quelle che avrebbero potuto realizzarsi in un secondo momento, senza peraltro inficiarne la funzionalità) oltre che costituire un fattore di notevole risparmio, avrebbe potuto rafforzare la convinzione nei confronti dello sviluppo pianificato, a detrimento della cultura della povertà e dello spreco. A questo proposito la letteratura è prodiga di contributi a partire da Graham Tipple A., Wilkinson N., Nour M., 1985. 65 La cucina dell’ospedale si differenzi dalla cucina utilizzata dai parenti dei malati in quanto garantisce la minima sussistenza (ovviamente differenziata in funzione delle diete prescritte) a tutti i malati. Qualora insufficiente o inesistente i familiari dei malati integrano o suppliscono. 66 Nel corso dei sopralluoghi si rilevò che la comunità servita realizzava spontaneamente ripari essenziali per la preparazione dei pasti. Tali rudimentali cucine erano particolarmente usate nell’area della maternità per la presenza di donne che non avrebbero avuto altrimenti altro modo per alimentarsi. In genere ed in caso di particolare lontananza dalla propria abitazione il nucleo familiare si trasferiva con il paziente presso la Formazione Sanitaria. 67 Le raccomandazioni della OMS e di altre organizzazioni internazionali stabiliscono un ammontare minimo di 3-10 litri di acqua per persona al giorno per il soddisfacimento di bisogni di sostentamento. La quantità d’acqua necessaria per ulteriori propositi come la cucina e l’igiene, di fatto dipende da fattori socio-economici, nonché dalla disponibilità d’acqua alla fonte di approvvigionamento e dalla convenienza che può derivare dal consumo. Per quel che riguarda le FS indicazioni di larga massima sono segnalate dall’OMS. WHO, 1996. 68 I parametri chimico-fisici e batteriologici da assumere come garanzia della potabilità dell’acqua sono stabiliti dall’OMS. WHO, 1984.

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69 Le latrine migliorate e ventilate rientrano tra le raccomandazioni dell’OMS, hanno la peculiarità rispetto alle altre di ventilare la camera di raccolta e contemporaneamente di impedire la fuoriuscita di mosche (lì nate e nutrite) dalla stessa camera di raccolta attraverso una zanzariera opportunamente posizionata all’estremità di un condotto di ventilazione (anche questo opportunamente dimensionato) che dalla camera di raccolta supera la sovrastruttura. In merito ai sistemi di costruzione e di manutenzione di una VIP (Ventilated Improved Pit Latrine) ed alle caratteristiche di evoluibilità del sistema di evacuazione e trattamento dei rifiuti organici si veda Minervini C. 1997. 70 L’evacuazione dei rifiuti solidi sedimentati nella camera di raccolta è lecita per mezzo di pompa meccanica solo nel caso di camera di raccolta unica e di sovrastruttura ancora in buono stato e soletta integra. L’evacuazione a mezzo manuale – per uso del materiale organico come compost – è raccomandabile invece solo in caso di doppia camera di raccolta e a distanza di circa un anno dalla chiusura della camera di raccolta ormai satura. 71 Questo gruppo di servizi è usato anche in condizioni di emergenza e viene identificato con il nome core unit (unità funzionale di servizi). 72 Aperture più grandi per la fuoriuscita dei fumi sarebbero improbabili all’interno di una costruzione particolarmente debole da un punto di vista strutturale. 73 L’intera area di pertinenza di un CSPS può essere divisa in due aree: l’area funzionale nella quale insistono gli edifici e l’aree di immediata pertinenza, o area di servizio che consiste in una area usata per il coltivo (produzione orticola, cerealicola e/o produzione di legno) anche al fine di incrementare la redditività del Centro. Un chiaro esempio di buona gestione dell’area di servizio per far fronte ai bisogni che gravitano nella FS è fornito dal CMA di Nanoro laddove insistono due vasche per la coltivazione di spirulina che viene somministrata ai pazienti affetti da malnutrizione. 74 La tipologia a padiglione comune è stata suggerita dalla dottoressa Ouadraogo Dierdère Elise del Centre Medical di Gourcy (Regione Sanitaria di Ouahigouya) la quale commentava adducendo l’origine rurale della maggior parte dei pazienti delle CM e CSPS a giustificazione della preferenza espressa dagli stessi a vivere in un ambiente comune piuttosto che in vani di ridotte dimensioni, più simili a celle che non a camere d’ospedale, nelle quali la segregazione (allontanamento dal proprio nucleo sociale e quindi familiare originario) viene generalmente associata alla malattia e vissuta come una ulteriore malattia che certo non avrebbe favorito la guarigione.

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INDICE DELLE FIGURE Figura Figura Figura Figura Figura Figura

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1: 2: 3: 4: 5: 6:

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Figura 18:

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19: 20: 21: 22: 23: 24: 25: 26: 27: 28: 29: 30: 31: 32: 33: 34:

35: 36: 37: 38: 39: 40: 41: 42: 43: 44: 45: 46: 47: 48: 49: 50: 51: 52: 53: 54: 55:

Gli enti che partecipano ai programmi e progetti di sviluppo 12 Le ONG si fanno portavoce dell’azione umanitaria a favore di Comunità di Base 12 Il motore dello sviluppo 13 Il cooperante ed il cooperato, il Donatore ed il Beneficiario 14 Donatore e beneficiario: posizioni contraddittorie per lo sviluppo 16 Logica del Donatore: Migliori condizioni igienico-sanitarie per garantirsi un ambiente sano per lavorare, produrre, guadagnare e poi migliorare le proprie condizioni abitative 16 Basic Need Provisions 17 Esempio di campo profughi 18 Esempi di maglia sulla quale tracciare un campo profughi 18 Aggregazione di cellule 18 Cellula di 450 mq in grado di contenere fino a 60 persone e dettaglio dello spazio destinato al riposo e alla cucina (coperta) 19 Dall’emergenza allo sviluppo 19 Regola dell’equilibrio: relazione dei campi che definiscono la Sostenibilità 26 Tre condizioni fisiche di stato 27 Lo smoothing dello sviluppo 27 Il moto interno dello sviluppo 27 Georgia 1995. Flussi migratori di rifugiati di diversa etnia e facciata laterale (lato servizi) di edificio occupato da rifugiati a Tbilisi, 1996 28 Occupazione di edifici pubblici da parte di rifugiati in Georgia (1996). La condizione dei lavabi prima dell’intervento, i lavabi dopo l’intervento, il vano dei lavabi collettivi (uno per piano) occupato da una famiglia di rifugiati 29 Settori nei quali svolgere attività di riabilitazione 30 Confronto tra Approcci 31 Spettacolo di danza georgiana organizzato per i rifugiati all’interno del teatro comunale di Tblisi 32 Poster affisso all’ingresso dei centri collettivi 32 Campagna informativa sull’uso degli impianti 33 Campagna informativa sulle donazioni del progetto 34 Fotogrammi tratti dai cortometraggi televisivi sui rifugiati 35/36 Distribuzione di materiali e prodotti per l'automanutenzione 37 Capocantiere hutu presenta una delle sue batterie di latrine 38 Capocantiere tutsi fotografato con la sua opera principale: un inceneritore 38 Trasporto delle solette delle latrine. Hutu e Tutsi in flagranza di collaborazione solidale 39 Schizzo della planimetria dell’ospedale di Ngozi (Burundi) 40 Foto di rilievo delle condizioni dell'ospedale. In evidenza: gli improvvisati focolari domestici e stenditoi 41 Disegni e foto delle fontane, sgrassatori e drenaggio delle acque 42 Disegni e foto della cucina per i famigliari dei malati 43/44 Essiccatoio ricostruito con forme che risultano dalla necessità di utilizzare tutti i materiali rimanenti alla fine della riabilitazione dell’ospedale 45 Schizzi progettuali di nuovo deposito d’acqua 45 Esempi di edifici storici (Kulla) danneggiati dalla guerra 47 Edificio danneggiato in adobe e esempio di ricostruzione in cemento armato 47 Esempi grafici di densificazione di aree pubbliche e diversificazione delle attività 49 Indagine fotografica sulle FS nelle regioni di Koudougou e Ouahigouya (Burkina Faso) 50/52 Proposte per soluzione di annosi inconvenienti delle FS africane 53 Definizione dell’area di pertinenza da destinare a un CSPS con prospettive evolutive 54 Schema evolutivo di un CSPS 54 Cellule e schemi strutturali evolutivi 55 Schema funzionale di CHR 56 Servizi minimi di una FS per garantire un adeguato livello d’igiene 56 Servizio minimo di approvvigionamento idrico 57 Planimetria e schizzo assonometrico di una core unit 57 Schema funzionale di una VIP e latrina a basso consumo d’acqua 58 Sistemi base per il trattamento dei rifiuti solidi infetti (inceneritore) e liquidi organici 59 Soluzioni appropriate per il drenaggio delle acque pluviali 59 Cucina per malati e parenti 59 Forno solare e cucine paraboliche 60 Proposta di padiglione per la degenza e letto in bambù 60 Letto in bambù 61 Cellule fotovoltaiche per l’approvvigionamento di elettricità 61

INDICE DELLE TAVOLE Tavola Tavola Tavole Tavola Tavola Tavola Tavola

1: Analisi dei bisogni a Mathari Valley 2: Foglio di calcolo della qualità del sistema di smaltimento di deiezioni in area residenziale 3-4: Indagine preliminare di danno e dettaglio 5: Quadro di calcolo dei costi di riabilitazione 6: Proposta di progetto. Approccio e Azioni 7: Titoli di testa e coda dei cortometraggi 8: Liste di attrezzature e materiali per la manutenzione ordinaria di bagni e cucine

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LA COLLANA

World in progress mette in comune ricerche, progetti e riflessioni portati avanti all'interno del Centro di ricerca e documentazione in Tecnologia, Architettura e Città nei paesi in via di sviluppo. Trovano spazio sulle pagine della collana temi diversi, da quelli tecnologici fino alle problematiche più generali sullo sviluppo dell'habitat nella sua accezione più ampia. L'interesse è rivolto ai contesti urbani e rurali dei paesi emergenti, dove è evidente la necessità di intervento per il miglioramento delle condizioni di vita, lo sviluppo socio-economico o la salvaguardia del patrimonio esistente.

Centro di ricerca e documentazione in Tecnologia, Architettura e Città nei PVS

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L'AUTORE Corrado Minervini, 52 anni, architetto, è specialista in “ tecnologia delle città nei paesi in via di sviluppo” . Dopo una breve parentesi professionale in Italia, ha cominciato a lavorare nei paesi in via di sviluppo nel 1989, dapprima in Cina, poi in Africa, quindi in Caucaso, sud America e nei Balcani. Ha vissuto in prima persona la transizione economica e culturale dei paesi dell’ est durante la fase di emergenza e poi di ricostruzione di un nuovo sistema urbano e sociale a seguito di scissioni e guerre. L’ esperienza nei paesi in via di sviluppo è stata un’ opportunità per riflettere sul linguaggio della città a partire dalle sue prime unità significative di cui si è perso l’ originario senso comune ed in modo particolare il valore della partecipazione allo sviluppo urbano.


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