Noir a scuola

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COOPERAZIONE PRESENTA

UN’OMBRA «NOIR» SULLA SCUOLA 4 ne Edizio

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La raccolta dei racconti del concorso «Cooperazione Noir 2014»


La raccolta dei racconti del concorso ÂŤCooperazione Noir 2014Âť


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Noir a scuola Elisa Piraccini

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ac c op de on e r l c to az on vi ion co nc e N rso ito re oir 20 14

ll’ingresso del prestigioso liceo Franscini i ragazzi si chiamano l’un l’altro, risuonano risate, strilli e insulti, chi cammina a testa alta al centro del corridoio e chi rasente i muri cercando di confondersi con la parete grigiastra. Il professor Ranieri, biologia, arriva col passo elastico e il sorriso smagliante, fin troppo consapevole della sua bella presenza, capelli nerissimi e un’improbabile cravatta verde smeraldo. Apostrofa bonariamente il Bianchi, matematica, calvizie incipiente e pancetta messa in risalto dal taglio della camicia a righine: “Enzo, quando vuoi la rivincita per ieri? Eh, il tennis è una questione di fiato... “ Ammicca a una ragazza del quarto anno dagli enormi occhi azzurri di perenne stupore: “Gaia, oggi viene papà, cosa gli devo dire?” Si fa serio per un attimo salutando Giordano, tedesco, alto e spigoloso, cardigan e cravatta impeccabili: “Corrado, allora ci vediamo dopo per quella faccenda del laboratorio nuovo? Se sceglievano te come vicepreside al mio posto era meglio, tu cosa dici Marina?” dice scherzando alla Monti, italiano, caschetto da zitella, mocassini e gonna sotto al ginocchio; fa un finto baciamano alla Rossi, francese, che arrossisce mettendo in mostra le fossette sulle guance paffute: “Rita, oggi sembra proprio che hai bevuto l’elisir della bellezza, posso offrirti un caffè?” 3


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Metà mattina. I corridoi sono silenziosi, solo a tratti si sentono le voci degli insegnanti che stanno tenendo lezione. La porta dell’aula docenti si spalanca con violenza e Ranieri, col viso gonfio e livido, barcolla fuori e finisce tra le braccia della bidella Eugenia che passava lì davanti. Rantola qualcosa, cade a terra, Eugenia scatta a chiamare aiuto, ma è già troppo tardi. “Shock anafilattico” “E che cacchio è?” “Ma sarai scemo, l’ha spiegato proprio Ranieri l’altro giorno, è tipo quando sei allergico a qualcosa, ma di brutto, e quando lo mangi non riesci più a respirare, ti ripigliano con l’adrenalina” “Eh, a lui non hanno mica fatto in tempo a ripigliarlo” “Ma a cosa era allergico?” “Nocciole, commissario” L’ispettore Bernasconi sta facendo rapporto al suo superiore. “E non lo sapeva?” “Sì, ma sembra che qualcuno gliele abbia messe nel caffè che aveva preso alla macchinetta. Secondo le analisi, ci avrebbero sbriciolato dentro una merendina alle nocciole presa agli stessi distributori. Il caffè era molto zuccherato, e lui non ha sentito l’altro sapore” “Un atto deliberato, quindi?” “Direi proprio di sì... il preside ha avuto ragione a chiamarci, si era accorto che qualcosa non andava.” 4


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“Bene, allora proceda come di routine e vediamo cosa salta fuori” “L’hanno ammazzato!” “Non ci credo” “Non crederci, ma l’hanno ammazzato” “E chi è stato?” “Eh, i polini stanno indagando... comunque per me è stato il preside (risate). No, guardate che non scherzo mica, per me è stato il preside perché la moglie gli faceva le corna con Ranieri” “Ma dici che ci andava davvero con la Rossi?” “Io dico di sì, e lei faceva anche bene, Ranieri era proprio figo” La professoressa Rossi sembra in effetti molto scossa, e la Ghini, inglese, è ben contenta del ruolo di ascoltatrice comprensiva. “Proprio una tragedia... povera cara, come sei pallida... eravate molto amici?” “Bè ci si vedeva spesso, tra una cosa e l’altra, specialmente da quando era diventato vicepreside... “ “Certo... a proposito... sembra che Giordano l’avesse presa un po’ male” dice la Ghini abbassando la voce e osservando l’interessato che passa lì vicino. “Sì bè... Naturalmente lui è più anziano e sperava in un avanzamento, ma... “ Il suo sguardo si mette improvvisamente a fuoco sull’espressione avida della sua interlocutrice. “Cosa vorresti insinuare? Il professor Giordano è un modello di integrità!” L’ispettore Bernasconi è di nuovo nell’ufficio del commissario. 5


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“Se mi permette, signor commissario, la vedo grigia.” “Mi dica” “Innanzitutto, praticamente metà della scuola era al corrente della grave allergia di Ranieri... Mi sembra di aver capito che fosse uno a cui piaceva parlare di sè. E quanto all’occasione, molte persone avrebbero avuto l’opportunità di alterare il caffè, l’ha lasciato sul tavolo dell’aula docenti per un po’.” “Allora bisogna vedere chi poteva volerlo morto.” “Sì signore, e neanche questo è facile. Parlando con insegnanti e studenti, diversi hanno menzionato una tresca tra la vittima e la professoressa Rossi, moglie del preside, che quindi avrebbe avuto un movente, ma a me sembrano chiacchiere da perditempo. Una delle docenti ha sottolineato più volte che Ranieri aveva soffiato il posto di vicepreside a un altro insegnante, che se ne era molto risentito, ma arrivare ad ammazzare qualcuno per questo mi sembra quantomeno eccessivo. Quella mattina poi il padre di una studentessa ha avuto un colloquio con la vittima. Aspetti” dice l’ispettore controllando i suoi appunti “Gaia Silvestri, una bella ragazza con gli occhi azzurri. Stando ad alcune compagne, Ranieri aveva un debole per lei; in questo caso, forse il padre aveva altri motivi, non solo didattici, per parlare con il docente ma – anche ammesso che questa debolezza del professore non sia solo nella testa di chi me ne ha parlato – non ci sono indicazioni serie di nessun tipo.” “Ho capito” dice il commissario con un sospiro “una bella rogna. La cosiddetta arma del delitto era alla portata di chiunque, la vittima si era intrattenuta con un 6


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sacco di persone, e i moventi sono troppi e troppo pochi... Vabbè ispettore, continui pure le sue indagini, vediamo se alla scientifica riescono a cavare un ragno dal buco.” Seduta con la schiena ben diritta, la professoressa Monti corregge i compiti in classe dei suoi studenti. Alcuni desolanti, la maggior parte piuttosto buoni. E’ soddisfatta dell’amore per il linguaggio che sta riuscendo a instillare nei suoi ragazzi. Al contrario di quel disgraziato di Ranieri. Inammissibile, pensa la professoressa lisciando una piega del maglione con un ricamo di matrioske, che un docente del prestigioso liceo Franscini non sappia usare il congiuntivo.

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Bellezza e crimine Paola Ghedini

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a scuola era uno di quei prefabbricati dei quali ce ne sono in giro molti altri uguali. L’insegnante di inglese, camminando con il suo passo spedito, ricordava che le era sfuggito un sorriso la prima volta che ci era entrata, le pareva di essere in un altro paese, non lontano dalla città dove abitava, dove anni addietro era impegnata in una supplenza. Ma qui, finalmente, in questo edificio poco distante dal centro, era stata nominata in ruolo, e perciò ci entrava tutte le mattine, da anni. Le piaceva l’aria che vi respirava, la gioia e l’allegria incosciente dei ragazzi che permeavano il luogo come un mantello trasparente e vivo. Il custode era un omino strano, con dei baffetti ispidi e due occhietti inquisitori, ricordava più un piccolo roditore striminzinto che non un essere umano in piena regola. In effetti lui la metteva un po’ a disagio, con quella sua aria stantia. Gli regalò il solito sorriso largo e splendente, che gli rendesse la giornata migliore, magari. Dopo di lei entrò la mamma di un allievo, così giovane e carina da sembrare una ragazza. Piccola, minuta, con due splendidi occhi scuri e una massa di capelli ramati, curati e soffici. Ma il sorriso, quello le mancava. Inoltre, un’aria cupa e preoccupata le aleggiava intorno, raggelandole il passo, 8


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facendola sembrare sospetta. ‘Buongiorno, sono qui per un appuntamento con una docente’, spiegò al baffuto, e questi la fece accomodare, con un fare un po’ brusco. All’interno della scuola era tutto un vociare e uno schiamazzare usuale: l’anelata pausa. Professori ed alunni erano impegnati in chiacchiere vivaci e a riuscire ad arraffare un panino, una bibita o un caffè veloce al bar. L’insegnante di inglese si imbattè quasi subito nel nuovo collega di educazione fisica, un bel ragazzone stile surfer californiano, che aveva colpito molti giovani cuori sin dal suo primo giorno di servizio... Si salutarono, lei si avvide che lui aveva molta fretta, nemmeno due parole scambiate come al solito, difatti era un tipo simpatico e cordiale, che non se la ‘tirava’ troppo, nonostante... Lei allora si diresse svelta in sala insegnanti per prendere registri e libri per l’ora successiva. La giornata andò poi come doveva andare, come sempre. Ma il giorno seguente tutto era cambiato. Un trambusto insolito, un vago terrore aleggiante nell’aria, l’inusuale presenza della polizia, il preside con gli occhi estraniati, le domande, i visi di tutti terrorizzati. L’insegnante di inglese sulle prime non riusciva a capire. Fu messa al corrente, poco dopo il suo arrivo, che la mamma di un’allieva era scomparsa dal giorno precedente, non si sapeva nulla, le sue ultime tracce portavano 9


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alla scuola, aveva un appuntamento con la docente di diritto per parlare del profitto della sua figliola, ma dalla professoressa non era mai arrivata. Il primo ad essere interrogato fu proprio il custode, l’omino scialbo che l’aveva fatta entrare il giorno precedente. La sua aria furtiva e sfuggente lo rendeva alquanto sospetto agli occhi della polizia. Fu tempestato di domande proprio lì, in aula docenti, dove si installò il commissario per le prime procedure del caso. Volle sapere il poliziotto se l’avesse sentita parlare di qualcosa di interessante ai fini dell’indagine, ma quello niente, con la sua aria ambigua non lasciava trapelare che poche e confuse parole in risposta elle incalzanti domande del commissario. ‘Mah!’ pensò quest’ultimo, ‘mi sa che questo qui bisognerà tenerlo d’occhio, sembra che non voglia sbottonarsi più di tanto, che nasconda qualcosa di importante? Lo rivedrò in questura’ Comunque certo era che da quel momento in poi della signora se ne erano perse le tracce, la giovane mamma avvenente era svanita nel nulla. Nessun collega l’aveva notata, nessun assistente della scuola aveva visto la persona descritta così minuziosamente aggirarsi nei meandri dell’edificio. D’altra parte di corridoi e aule, laboratori e bagni ce n’erano a iosa, se qualcuno avesse occultato qualcosa non sarebbe stato semplice scoprirlo. Furono interrogati ad uno ad uno tutti i colleghi, moltissimi ragazzi, soprattutto gli amici e i compagni di 10


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classe della ragazza la cui madre era scomparsa. E poi il preside, il vicepreside e gli assistenti di segreteria, tutto quanto il personale in servizio. Nulla. Si procedette poi alla perlustrazione della scuola e aula dopo aula, accompagnati tutti da un crescente senso di sgomento, persino le forze dell’ordine, si arrivò alla palestra, che era situata in un edificio adiacente. Giunti qui, l’ispettore incaricato notò subito un andirivieni strano e infatti colse il docente di educazione fisica uscire con fare sospetto da uno spogliatoio. Interrogato sul suo operato l’uomo rispose dapprima un po’ confuso, poi con gli occhi abbassati e un diffuso rossore sul volto. Infine scoppiò in un pianto a dirotto mentre in modo sconclusionato blaterava balbettanto e singhiozzando che non voleva, che non sapeva come fosse successo, che lui non ne aveva colpa, che lei aveva battuto la testa cadendo... L’ispettore non si era fatto trarre in inganno, forte di una lunga esperienza a capo di indagini ben più complicate, sapeva bene che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto ed infatti così era stato. Si scoprì il cadavere della povera donna occultato dentro un grosso materasso utilizzato di solito per il salto in alto. Fu facile ottenere la piena confessione dello stupefatto omicida e la triste storia che dietro si celava. Una tresca piu superficiale che sordida, che purtroppo accade nella vita di tanti. E la tristezza di simili storie è la percezione assai diversa degli attori, come differente è la loro lunghezza 11


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d’onda. La giovane signora aveva scoperto proprio il giorno precedente che dalla relazione con l’attraente insegnante era sbocciata una nuova vita. Lei, da divorziata, pensava all’inizio di una favola bella. Lui non era per niente dello stesso parere.

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Gelide emozioni Paola Moretti Benestante Paola

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uella mattina si sentì lo stridolio delle gomme e il furgone bianco che scappò a tutta velocità. La scuola era gelida, l’aria fredda non aiutava la brutta sorpresa, il suo corpo giaceva nell’aula di scienze, in un angolo, adagiato su un fianco. Mario era il bidello, un bidello esemplare tanto che arrivata la sua pensione tutti erano dispiaciuti che finisse; così gli proposero di rimanere. Aveva sempre una parola gentile per tutti, chi poteva volergli del male fino ad ucciderlo? Sul collo spiccavano dei segni bluacei, gli occhi sbarrati vitrei, e con una mano indicava la porta comunicante all'aula di scienze: il locale tecnico, nell’altra mano sotto le unghie le tracce degli ultimi attimi di vita, tra cui dei capelli biondi. Le mani sporche di grasso e rinsecchite dal freddo non aiutavano le indagini dell'ispettore. Fuori gli allievi mormoravano e tutti avevano dei sospetti, tutti conoscevano Luigi l’insegnante di scienze molto strano e aggressivo. Nessuno poteva entrare nella sua aula senza il permesso, e se ciò accadeva lo si sentiva urlare in tutti i tre piani della scuola. Anche il freddo ostruiva le indagini della polizia, il riscaldamento era rotto da giorni e nessuno era corso ad aggiustarlo. La direttrice era spaesata e per la prima volta in vita sua non sapeva come comportarsi. C'era una troupe televisiva che cercava qualche allievo per avere uno scoop. Lina aveva trovato il corpo, era entrate nell’aula per svuotare i cestini trovando la brutta sorpresa, aveva gri13


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dato talmente forte che la povera donna non aveva più un filo di voce. Non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Mario. Quel giorno gli allievi persero tutte le lezioni, il consiglio di direzione riunì tutti i professori che vennero interrogati dall’ispettore Spark cominciando proprio da Luigi. Lo guardavano straniti e sospettosi, soprattutto dopo le due ore di interrogatorio. Ad uno ad uno entrarono tutti ma nell’aria i sospetti erano solo su di una persona: Luigi. Poi arrivò il turno di Franca, la direttrice, davanti all'ispettore prese tutte le difesi del povero maestro di scienze e disse chiaramente che pur avendo un brutto carattere Luigi non avrebbe mai fatto una cosa del genere. In passato spesso era capitato di difenderlo per il suo atteggiamento molto aggressivo, specialmente con i colloqui con i genitori, gli allievi spesso borbottavano sui suoi metodi di studio e modi poco gentili .Lei lo conosceva molto bene, era sua sorella. Odette, la professoressa di francese, molto discreta e gentile, era ancora spaventata dell’accaduto ma rispose minuziosamente alle domande dell’ispettore anche sulla sua relazione passata con Luigi. Purtroppo la causa di rottura era dovuta proprio al suo brutto carattere. Fu la volta di Angelo il professore di matematica, molto composto disse di non avere sospetti su nessuno ma che quella mattina per poco non urtò un furgone bianco mentre posteggiava la sua moto. Valerio il maestro di ginnastica, vide Mario la sera 14


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prima di morire discutere con Luigi, ma era una situazione diventata normale aggiunse. Spark voleva la lista di chi era entrato ed uscito quel giorno, chi era assente e il perchè, ma qualcosa attirò la sua attenzione in quell'andirivieni di persone imbottite di sciarpe e maglioni pesanti per la temperatura glaciale. Improvvisamente la porta si spalancò e sull’uscio apparve stravolta Florance, la vedova del povero Mario, avvisata da Lina. Piangeva, farfugliava parole, aveva bevuto, ed era stravolta . Disperata, si buttò al collo dell’ispettore per essere consolata,non si reggeva in piedi e cominciò a piangere. Tutti attorno a lei, misero una mano sulla spalla per confortare quel momento molto triste, tranne Luigi che addirittura indietreggiò e uscì dall’aula. La disperazione di Florance, fece commuovere tutti i presenti, fu un momento veramente intimo e qualche lacrima scese dai loro visi. L’ispettore annotò tutto sul suo piccolo quadernetto già molto colmo di dettagli, e finalmente capì.Raggiunse il povero Luigi, e parlarono a lungo. Spark volle sapere esattamente il motivo del litigio avvenuto la sera prima con Mario. I capelli rilevati sul corpo non aiutavano l’ispettore nelle indagini, tutte le professoresse erano bionde, e furono spediti al laboratorio per approfondire la provenienza. Quella mattina fu proprio il freddo a svelare l’assassino, l’ispettore fece una telefonata e Franco arrivò con 15


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il suo furgone bianco, dritto dritto al locale tecnico senza neanche dover chiedere alla segretaria della scuola dove fosse collocata la caldaia. L’ispettore notò i graffi sui polsi del tecnico, e lo sguardo di Florance improvvisamente si fece basso e sfuggente. Tutti erano increduli, si sospettava che avessero una relazione, ma nessuno li credeva capaci di uccidere. Nel silenzio assoluto si sentirono queste parole: – Vi dichiaro in arresto per l’omicidio di Mario il custode. Nooo esclamò Florance, non siamo stati noi, ieri sera, abbiamo litigato perchè Mario ci ha sorpresi insieme nel locale tecnico, lui si è infuriato e c’è stata una forte lite, ma giuro,ispettore che lo abbiamo lasciato vivo. Non so cosa sia accaduto. Luigi, guardò Odette e disse: – Ora parla! Odette sempre composta aggiunse: – Sono stata io! Mario non mi ha mai voluto, pur sapendo che sua moglie da sempre lo tradiva .

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Vendetta Susanna Lagone

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aosuke era accecato dalla vendetta. Lui che era a capo della più famosa gang di Chiba era stato colpito dritto al cuore. Anzi avrebbe preferito che fosse stato così. Invece quelli senza spina dorsale se l’erano presa con la sua sorellina. Naoko. Oltre alla banda era l’unica della famiglia che gli era rimasta. Invece poco dopo l’apertura del nuovo istituto scolastico, per qualche strano motivo lei era stata presa di mira. L’aveva trovata in biblioteca, con i suoi lunghi capelli neri che le coprivano il volto, un taglio lungo tutto il torace richiuso frettolosamente con una spillatrice. Quello che aveva fatto sospettare Naosuke era stato il cuore trovato sopra il libro che la gemella stava leggendo, il quale era stato come impacchettato con il nastro giallo, quello che nella divisa femminile è usato per fare il fiocco. Nessuna banda avversaria avrebbe fatto una cosa simile. Si trattava di qualcosa di diverso. – Troveremo il colpevole di quest’atto atroce – disse il direttore Shourikawa durante il solito incontro mattutino del giorno seguente – Le forze dell’ordine stanno indagando, quindi se vi rivolgeranno delle domande, pregherei che darete tutta la vostra collaborazione per far sì che l’indagine si concluda e il colpevole sia arrestato il più in fretta possibile –. – Saremo noi a trovare per prima il colpevole – borbottò Naosuke – Ragazzi, mi raccomando, occhi e orecchie aperte. Ricordatemi di farmi rapporto – i suoi compagni 17


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annuirono per poi sparire in mezzo alla folla di studenti Mentre camminava nei corridoi, casualmente Naosuke si trovò davanti all’ufficio del direttore. Sentendo che dialogava in modo animato si fermò ad ascoltare. – No! Sindaco non sono d’accordo! Aveva promesso che dopo la morte della studentessa mi avrebbe… – silenzio – Sì, va bene –. Il ragazzo s’insospettì, sembrava come se fosse stato tutto programmato, che Naoko fosse stata scelta per chissà quali motivi politici. Lui era sempre stato sospetto sul fatto che avevano aperto un nuovo istituto scolastico con tanto di dormitori nel quartiere più malfamato di Chiba. Le lezioni erano state sospese, per cui con due dei suoi uomini si mise a pedinare il direttore, che stranamente si stava recando fuori dall’istituto scolastico in pieno giorno. – Che hai intenzione di fare? – chiese il ragazzo con i capelli tinti biondi – Stà zitto! – inveì il capo banda – Mi perdoni, capo – si scusò il biondino – Voi due mi coprirete solo le spalle al resto ci penserò io – Naosuke rispose alla domanda era giusto tenere al corrente anche gli altri due. Dopotutto erano parte della sua famiglia. Il direttore curvò dentro il parco dei dormitori, dove si sedette su una panchina accanto ad un altro uomo che era intento a dare briciole ai piccioni. I ragazzi si spostarono, andando a nascondersi dietro la siepe più vicina alla panchina. 18


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– Ha fatto bene a venire qua Direttore Shourikawa – – Ho svolto il lavoro sporco, ora è giusto che mi dia i soldi – – Ogni cosa a suo tempo, prima deve firmare un documento, dove vi è scritto che non proferirà parola riguardo il piano del Sindaco – – Una volta che avrò prelevato quei soldi, me ne andò da qui, si figuri se parlo di quello che volete fare a quel quartiere – – Sta già parlando troppo…il Sindaco aveva ragione a riguardo – l’uomo mise nuovamente la mano nel sacchetto di carta come per prendere una nuova manciata di briciole di pane, invece estrasse un piccolo Sai che infilò nella gola del direttore. I ragazzi non batterono ciglio, avevano già ucciso in precedenza durante le risse con le altre gang. L’uomo se ne andò lasciando morire dissanguata la sua vittima. – Che cosa dobbiamo fare capo? – chiese il biondino – Andiamo via di qui senza dire niente a nessuno. Qualcuno lo troverà – La vendetta Naosuke non l’aveva ottenuta. O almeno solo in parte. Qualcuno aveva ucciso chi aveva assassinato in quel modo cruento la gemella. Gli restava solo trovare il mandante, perché dubitava fortemente che chi avesse appena ucciso il direttore avrebbe fatto lo stesso con il Sindaco. “Forse ci metterò anni, indagherò fino allo sfinimento finché non troverò una prova che mi conduca al mandante e stavolta non mi farò soffiare sotto il naso la ven19


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detta. Nonostante Naoko non ne sarebbe feliceâ€? sospirò immaginandosi il viso imbronciato della sorella se avesse saputo quello che stava progettando di fare.

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Noir a scuola Romeo Ferrari

Gennaio a vecchia contadina se ne stava al tepore della stufa. Osservava compiaciuta la neve che smussava silenziosa le sagome dell’orto. Aveva messo il mangime per gli uccellini dentro la vecchia buca lettere. L’aveva recuperata dalla demolizione della casa di Maria; il Municipio aveva raso al suolo quella bella casetta per creare un parcheggio ed allargare la strada. Ora che tutti avevano l’automobile il paese si era trasformato; le autorità si accanivano contro le belle cose e non tolleravano più gli animali, che solo pochi anni prima avevano nutrito la gente. Le galline dai loro pollai mandavano puzza e tutti i porcili venivano trasformati in autorimesse. Quella mattina non c’era traffico. La coltre di neve si era viepiù alzata. Nessuno osava mettersi al volante, il mondo si era fermato. Dalla sua finestra Lucia scorgeva la strada sottostante e non c’era traccia di passaggio motorizzato. Distingueva le suole degli scarponi di Franco e si chiedeva di chi potessero essere quelle scarpette che gli si posavano accanto. Un bambino che si recava a scuola? Oppure una donna di quelle che Franco si portava a casa di soppiatto?

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Marzo Luciano passeggiava con il labrador sul sedime della veccia ferrovia. Come sempre e contro gli ordini municipali il cane Fox correva libero. Prese a salire su un sen21


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tierino sconosciuto, muso a terra e coda ritta. Luciano lo chiamò, ma Fox, contrariamente al solito non gli diede retta. Scomparve nel fitto della foresta. Non ubbidire agli ordini del padrone significava per lui un giorno intero senza mangiare. Luciano non capiva e, perplesso, si avviò sul ripido sentiero. Dopo cento metri intravvide Fox scodinzolante ai bordi del famoso crepaccio che una volta era adibito a discarica.. Si avvicinò a questo crepaccio e scrutò dentro all’abisso. Sulle prime non notò niente di particolare, poi un acre odore giunse alle sue narici. Luciano tornò a casa, non senza prima prendersi un bianchino al bar. Era l’ora delle comari; raccontò del fetore che una folata di vento gli aveva mandato, improvviso e fugace, nelle vicinanze del crepaccio. Martina sentenziò che Lucio aveva ancora l’abitudine di gettare le galline vecchie, da lui strozzate perché ormai improduttive, in quel luogo frequentato solo da volpi, tassi e vipere. Il discorso finì lì, c’era da commentare la partita della locale squadra di calcio. Il giorno dopo Fox non prese il sentierino, sicuramente non desiderava passare un’altra giornata a digiuno! Qualche metro più avanti, mentre Luciano si fumava la sigaretta, lo sguardo preoccupato rivolto alle nuvole che si stavano ammassando attorno al Pizzo di Claro, Fox gli corse incontro con una schifezza di straccio rosso fra i denti. Lo lasciò cadere e Luciano lo considerò attentamente. Si trattava di un reggiseno tutto infangato e strappato in più parti. “Sarà un residuato dei lavori che svolgono le scolaresche della Svizzera interna sui monti “ pensò sorridendo. 22


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Aprile Il vecchio Lucio, quello delle galline, faticava ormai a reggersi in piedi, tuttavia quel giorno di aprile non resistette; voleva rivedere i suoi amati luoghi d’infanzia. Armato del suo bastone si incamminò verso il bosco. Era la primavera festante e lui stava vivendo un triste autunno. La sua vista era calata e senza occhiali riusciva a leggere solo i nomi degli annunci funebri. Giunto alla sua panchina preferita si sedette e, inforcati gli occhiali, si accinse a caricar la pipa. Gli caddero gli zolfanelli e, curvo a raccattarli dal prato, la sua attenzione fu attratta dal bagliore che qualche cosa riverberava poco più sotto. Curioso come era stato sempre, una volta esaurito il poco tabacco, scese quasi carponi la ripida scarpata. Era un secchio di latta, di quelli che una volta usavano gli imbianchini. Notò un teschio dipinto sull’ammaccato contenitore e ne dedusse che si trattava di materiale tossico, forse acido. Dicembre, vacanze di Natale Il Blick riportava, dapprima con grande rilievo, poi in quarta pagina, la notizia della scomparsa di Berthi, sedicenne del Togghenburgo. La famiglia, ritratta davanti alla fattoria di legno, non aveva più notizie. I vicini raccontavano di quanto fosse una cara ragazza. Parlava sempre della magnifica settimana trascorsa in Ticino con la scuola di Bischofszell e della sua intenzione di andare da sola laggiù a rivedere gli amici che si era fatta in paese. Il suo telefonino squillava a vuoto nella cameretta che divideva con la sorella Uschi. Neanche lei sapeva di niente, solo che dal suo scaffale mancava quel bel reggiseno rosso. 23


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Noir a scuola Paola Celio

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na morte atroce” commentò il medico legale galattico affiancando l’Ispettore, che avanzava veloce sulle sue propaggini retrattili. “Un veleno lento, ma inesorabile” Avevano esaminato i locali della scuola, ormai inanimata, dove si era consumato il dramma: una serie di aule mute, dalle porte spalancate come fauci inerti. L’Ispettore percorse il lugubre corridoio, immerso in un silenzio funebre. Anche qui, tracce ben leggibili. Estruse il suo occhio stroboscopico e analizzò il pavimento consunto e le pareti dall’intonaco simile alle mani di un vecchio. “Mrhhh” gorgogliò, critico, annusando incuria e degrado. Seguivo i due alieni tenendomi a distanza. I Mirzakiani mi avevano sempre fatto un po’ impressione. Tuttavia, la Terra era in mano loro da oltre un millennio. Far rispettare leggi e regolamenti, per quanto insoliti, era affar loro. “Un caso lampante” disse infine il traduttore elettronico integrato nella sua tuta. “Ma chi poteva volerle male a tal punto?” “Si fa prima a dire chi non gliene voleva” considerai. “Insegnanti, allievi, custodi, persino la preside a volte...” “Prosegua”, mi ordinò. Il medico legale, intanto, mi scansionava con il decoder psicotronico di onde cerebrali beta e gamma. Con-

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tinuai: “Per molti era insopportabile. Di recente era peggiorata. Avanzava proposte assurde. Affibbiava compiti e si aspettava che tutti fossimo d’accordo. Voleva stabilire lei come e cosa insegnare... È logico che non andasse a genio a tutti” “Neanche a lei, secondo il risultato della scansione” rispose l’Ispettore. “Non l’ho uccisa io” ribattei. “Questo sarò io a deciderlo. E non risponda a domande che non le ho fatto” si stizzì l’alieno, ribollendo come un tubo intasato. Tacqui. Non volevo complicare la faccenda. Ero già nei guai perché mi trovavo fuori orario a scuola, a predisporre per l’indomani il laboratorio di chimica. Come spiegare all’Ispettore che la vittima aveva sempre più nemici? È vero, cercava di motivarci, di stimolarci a restare al passo con i tempi. Ma si fissava su singoli aspetti ed era irremovibile su altri più importanti. Per non parlare dei suoi sistemi di selezione degli allievi.... Pochi la sostenevano. Gli altri, me compreso, la criticavano. Ma questa faida interessava a pochi e la situazione era ormai degradata. Impossibile che un Mirzakiano capisse queste sensazioni terrestri, tanto sottili eppure capaci di fomentare il peggio. L’Ispettore emise uno schiocco, contrariato dal mio silenzio. Uscimmo sul cortile. Gli alieni gorgogliarono tra loro, guardando ogni tanto la scuola che, sotto il cielo livido, aveva preso una sfumatura terrea. 25


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Le donne delle pulizie abbassarono le tapparelle dei due finestroni centrali, che mi avevano sempre ricordato dei bulbi oculari. Fu come se avessero pietosamente chiuso le palpebre all’edificio, che aveva vissuto troppe cose e ora meritava riposo. Gli alieni convocarono il custode. Tra lui e la vittima non era mai corso buon sangue. “Che c’è?” li apostrofò, arcigno come al solito. Zoppicava. I Mirzakiani lo scansionarono. Poi valutarono il responso e lo investirono con una raffica di domande. Perché zoppicava? La vittima lo aveva mai criticato per le prestazioni lacunose? Perché era poco collaborativo? Poteva elencare gli attrezzi e le sostanze di cui disponeva? Il custode esplose: “Basta! Io lavoro a scuola per mantenere la famiglia, mica per fare il missionario! E zoppico perché sono caduto in montagna!” Il medico legale socchiuse i suoi sei occhi, simili alla bottoniera di un ascensore, e lo soppesò. Ma l’Ispettore lo lasciò tornare al suo sgabuzzino. “Posso andare anch’io?” chiesi, speranzoso. “Lei resta qui” mi rispose, secco. Iniziai ad avere paura. Maledette macchine! Misuravano onde, vibrazioni, secrezioni, ma non ascoltavano le parole. Io non c’entravo con quella storia. Ok, avevo avuto degli scontri con lei, avevo proposto dei cambiamenti. Ma essendo l’ultimo arrivato... Lei invece era lì da sempre. Una vera istituzione. Ma da qui a sopprimerla! Doveva essere colpa del custode. Per forza. Cinico e indolente. Sabotava sempre le sue iniziative. Quante 26


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volte l’avevamo sentito imprecare? Sperai con tutto me stesso che le macchine, almeno su questo, mi dessero ragione. L’Ispettore visualizzò i nomi di insegnanti e allievi. Fece accurati controlli sui macchinari. Vidi che analizzava i profili psichici e comportamentali di ognuno e li incrociava con i dati delle onde cerebrali. Per mia fortuna, la lista degli indiziati si allungava. Ma io restavo il primo. Due ore dopo, la cittadinanza era convocata nel cortile della scuola. Alcuni seccati, i più incuriositi. L’Ispettore e il medico alieni salirono a bordo del veicolo a propulsione antimaterica e si sollevarono di pochi metri, affinché li vedessimo. “Terrestri!” tuonò l’altoparlante collegato al traduttore. La folla tacque, intimorita. “Siamo giunti a conclusioni gravi circa l’omicidio che si è consumato qui, anche per omissione di soccorso. E i nostri rilievi indicano che i responsabili...” Tutti erano con il fiato sospeso. “...siete tutti voi!” Scoppiò un boato di protesta. “Terrestri!” ci richiamò la voce meccanica. “Vi ritenevamo una razza intelligente. Forse non abbastanza per capire che voi tutti avete UCCISO LA SCUOLA con un cocktail di veleno micidiale: l’indifferenza, il modo di pensare egoistico e l’atteggiamento minimalista! Lo sapevate che è un organismo vivente, no? E che la sua so27


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pravvivenza dipende da ognuno?” Le proteste ripresero vigore. “Non è colpa nostra! È colpa dei politici! Anzi, della crisi! No, dei docenti! Dei genitori! Degli allievi! Della società! Dei tablet! Dell’iPhone555S!” “Silenzio, terrestri!” tuonò di nuovo la voce. “Vi abbiamo dato fiducia. Vi abbiamo lasciato fare. Ma da ora ci occuperemo noi delle scuole. A modo nostro, naturalmente” Circolarono sguardi allarmati. Nella galassia, i Mirzakiani erano noti per la loro fredda razionalità e inflessibilità. Solo allora ci rendemmo conto che avevamo bruciato la nostra unica chance. E che, adesso, qualcosa di davvero terribile ci attendeva.

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Un affondo risoluto Pierino Ceppi

“P

ierino, vai alla lavagna.” Tutti i lunedì mattina alle otto e cinque in punto Pierino lascia il banco, nel quale non si è ancora seduto perché sa che sarebbe stato inutile accomodarsi, e va alla lavagna. Odia quella materia, ma più ancora il suo insegnante. E questo fin dalla prima ora di Matematica alle Medie, quando ognuno degli allievi aveva dovuto alzarsi e dire il proprio nome e cognome, e quando era toccato il suo turno, il signor M. con un sorriso derisorio si era permesso di indicare ai suoi compagni che lui, Pierino, con quel nome sarebbe stato la barzelletta della classe. Ecco perché odia quella materia e più ancora il suo insegnante. Ma Pierino non è un cattivo allievo, anzi riesce bene in tutte le altre materie. A Matematica va male per sua volontà: “Non gliela darò mai vinta a quel vecchio odioso e rimbambito d’un EMME!” Tra le altre discipline ce n’è una che ama in particolare: Scienze. Quella materia segue il suo sogno: diventare medico legale. Già si sta allenando. Cattura lucertole e topi che mette in croce fissandone le zampette con gli spilli su un’assicella, poi con un coltellino ben affilato ne apre la pancia e ispeziona gli organi interni. Così, quando è entrato per la prima volta nell’aula di 29


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Scienze ha scoperto un paradiso. Lì è stato subito attratto dallo scheletro appeso a un trespolo con un gancio avvitato nel cranio. Quello per lui è lo scheletro del signor M. Dopo appena tre mesi di Medie è già intervenuto più volte su quelle ossa che penzolano mollemente incernierate tra di loro: omeri, ulne, femori, tibie, peroni del signor M. sono già in frantumi. Se non fosse che il docente di Scienze gli è simpatico e lo loda per le sue conoscenza, le avrebbe veramente già rotte. Ecco ciò che vorrebbe fare al prof. M. non solo rompergli le ossa, ma anche, o soprattutto, non avvitargli in testa un semplice gancio, ma conficcargli un grosso punteruolo nel punto in cui si incontrano le ossa frontale, parietali e occipitali e divaricarle e mettere all’aria il cervello. Le tavole anatomiche lo fanno sognare. In particolare quella con il cuore con atri e ventricoli e il sangue venoso in blu e quello arterioso in rosso vivo. “Certo dal cuore dell’EMME sgorgherebbe più sangue che da quello di un topo.” Dalla tavola dell’intero corpo umano che illustra gli organi interni, ha individuato il punto preciso dove è collocato il cuore. Aiutandosi con l’indice che scende lungo lo sterno, si indica dove dovrà colpire con un affondo risoluto: non al centro del torace perché la lama non penetrerebbe, ma solo un po’ a lato, e non perpendicolare ma di sbieco perché la punta raggiunga l’organo vitale. E’ un altro lunedì e peggio degli altri. Il prof. M. entra in aula. 30


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Tutti in coro, meno uno, gli allievi: “Buongiorno, professore.” Lui grugnendo qualcosa, forse “buongiorno”, si avvicina alla cattedra e, dalla cartella dal cuoio rammollito dagli anni e dall’uso, scarica le “verifiche”. Questo lunedì Pierino non dovrà uscire subito alla lavagna e sorbirsi le risate dei suoi compagni ai commenti del prof sui suoi errori. Lo aspetta qualcosa di ben peggiore, la consegna delle verifiche introdotta da: “Pierino, oltre che un grottesco eroe di barzellette, sei anche un burrico!” E per Pierino burrico è peggio di asino. Il prof nella distribuzione segue la trafila classica: dal migliore al peggiore zigzagando tra i banchi. E’ così anche questo lunedì, ma oggi non ci saranno risate per l’ultimo foglio. Pierino è tranquillo, aspetta il suo turno. Più di venti nomi vengono pronunciati e più di venti commenti, elogiativi i primi ma sempre più spregiativi man mano che il plico di fogli si assottiglia in mano al signor M. Siamo all’ultimo. Il prof dal fondo dell’aula risale verso i primi banchi. Pierino tiene ben stretto il serramanico. Il prof, arrivato alla sua altezza, si gira verso di lui. Con uno scatto Pierino affonda la lama nel torace appena di lato allo sterno e la rigira e rigira. Il prof lascia cadere l’ultimo foglio e si porta le mani al petto con un grido strozzato che vorrebbe essere un urlo. 31


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Poi cade ginocchioni e infine disteso. La classe dopo un attimo di smarrimento è in subbuglio. Alcuni allievi spaventati corrono fuori e gridano: “Il prof è morto!” Dopo poco, seguito da altri docenti, arriva il Direttore che, resosi conto dell’accaduto, dice ai ragazzi: “Tutti fuori e per oggi a casa.” Come tutti gli altri allievi, Pierino rincasa. Alla mamma che vuole sapere come mai è rincasato così presto risponde laconicamente: “E’ morto un docente.” Poi si rende latitante per tutta la giornata aspettando che gli capiti qualcosa di grave. La sera c’è il papà ed è costretto a sedersi a tavola con i famigliari. A cena appena iniziata, suonano alla porta. Il papà: “Pierino, vai ad aprire.” “Papà, manda Marta.” “L’ho detto a te. Dai, muoviti” Pierino riluttante si alza con calma dalla sedia, dispone con cura il tovagliolo a fianco del piatto e s’avvia alla porta d’entrata con i passi più corti che può. Altro scampanellio. “Muoviti! Non è educato far aspettare fuori della porta.” gli manda il papà. Perché deve aprire la porta, altrimenti avrebbe già le braccia allungate per farsi mettere le manette. Apre. Torna in sala da pranzo e dice: “Papà, ti vuole il direttore delle Medie.” 32


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Il papà alzandosi dice: “Sicuramente ne avrai combinata una più grossa del solito!” E mentre il papà fa accomodare il Direttore nell’atrio, Marta dice: “Avrà ammazzato un compagno o persino un professore per vedere come è fatto dentro.” Intanto nell’atrio, dopo i convenevoli, il Direttore: “Guardi cosa hanno trovato le donne delle pulizie nel banco di Pierino risistemando l’aula dove è morto il professor M.” e gli porge una scatola. Il papà ne alza il coperchio. Dentro ci sono un serramanico e dei pezzi che, se non ci fosse rimasta la faccia intatta, non si saprebbe che sono il corpo e le membra, ora dilaniati, di una bambola della sorella. E prima che si richiuda la porta si sente: “Povero professore, è stato un infarto. Un infarto, poverino.”

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La scomparsa di Nana Michelle Rajower

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ana si svegliò di colpo, era tutta sudata, fuori era tutto buio e nevicava molto forte. Si mise davanti alla finestra gelata, si intravedevano le venature del ghiaccio depositato durante la notte, appoggiò la fronte contro la finestra e cadde a terra. I suoi genitori erano andati in Russia per un convegno allora Nana era da sola in casa. Erano appena le 6 del mattino ma Nana cominciò comunque a prepararsi per la scuola, si fece la doccia poi andò in camera e si vestì, si mise un paio di jeans bianchi con una maglietta piena di scritte, poi andò in cucina e mangio due fette biscottate. Corse a lavarsi i denti e si mise le sue Timberland, il suo giubbotto di pelle e il suo cappello borchiato. Prese la sua cartella e uscì di casa, chiuse la porta e andò alla fermata del bus che distava circa 1 chilometro, la neve scendeva fitta fitta senza far vedere nulla a Nana, lei andava dritta sperando di incontrare presto il palo della fermata. Nana era esasperata quando finalmente si scontrò contro un palo che segnava la fermata, era così felice che le veniva voglia di gridare ma presto arrivò il bus e lei salì . Nel veicolo faceva un po’ più freddo del solito ma comunque più caldo che fuori. Quel bus era molto vecchio quindi ad ogni curva faceva uno strano scricchiolio cosa che Nana era abituata, ma sentiva il pavimento più sottile e fragile sotto i suoi piedi, come se quando si fosse alzata il pavimento sottostante crollasse. Lei stava lì mogia mogia sorridendo ai suoi compagni sul bus facendo finta di 34


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niente ma in realtà era terrorizzata, non disse niente ai compagni perché non le avrebbero creduto. Il bus fece un curva brusca e Nana per non cadere appoggiò i piedi a terra e tutto il pavimento dell’area posteriore crollò. Nana era sospesa nel vuoto, anche mezzo bus, tutti urlavano e quando il conducente si girò solo un istante il bus prese male una curva e cadde in un burrone capovolgendosi di continuo. La benzina colava da tutte le parti e si riusciva a vedere il motore che si staccava, quano la benzina entrò a contatto del motore, Nana diede un calcio al motore ormai in fiamme per evitare l’esplosione del veicolo, il motore si stacco definitivamente e qualche secondo dopo esplose. A scuola invece la direttrice stava aspettando i soliti ritardatari quando arrivò un ragazzo con la faccia terrorizzata, che raccontò le raccontò l’avvenimento con il bus, la direttrice chiamo immediatamente la polizia e l’ambulanza che andarono al luogo della catastrofe. Il bus era pieno di bambini ormai morti, dal freddo o dai colpi della precipitazione, erano tutti morti, c’era solo una cosa che non quadrava ai soccorritori, nell’ultimo sedile in fondo c’era una cartella e un portafoglio ma il posto era vuoto. La polizia aprì il portafoglio e vide al suo interno l’abbonamento per il bus con il nome Nana Riago, era riuscita ad uscire. I soccorritori cercarono per tutta la città ma di lei nemmeno una traccia, la neve aveva già cancellato le sue impronte e la nebbia era così fitta che con l’elicottero non si riusciva a vedere nulla. Nana stava camminando dritta con l’obbiettivo di andare a scuola, era il luogo più vicino, lei camminava e camminava, finché non vide un 35


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grande edificio rosso, era la scuola! Con le poche forze che aveva corse fino ad arrivare all’entrata ma era chiuso e lei si lasciò cadere a terra mentre sentiva che la neve la stava ricoprendo piano piano fino a nasconderla completamente. Nana si era rotta il braccio gravemente quindi l’osso era uscito e perdeva molto sangue. I soccorritori seguirono le tracce di sangue ancora leggermente visibili fino a trovare la scuola, da lì le tracce scomparvero e loro entrarono e cercarono ovunque la polizia sapeva che sarebbe morta di dissanguamento a momenti quindi cercarono il più veloce possibile ma con nessun risultato, ma ad un certo punto ad un soccorritore venne in mente di cercare fuori perché si era ricordato che hanno dovuto sfondate la porta per entrare, allora tutta la squadra uscì e si mise a scavare nella neve ma il territorio era immenso. Intanto Nana era sempre più sepolta nella neve. Ad un poliziotto cadde la pala proprio accanto a Nana e lui tirando su la pala portò in superfice Nana ormai congelata, il poliziotto annunciò il ritrovamento della ragazza che venne portata d’urgenza all’ospedale e per miracolo si salvò.

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Noir a scuola Bee Alice

E

ra una giornata di Primavera,io con i miei amici eravamo andati al Luna Park. Eravamo io, Giovanni, Sare, Gilly, Simone e Alex.–Andiamo alla casa stregata!– propose il mio amico Giovanni.– Chi che viene con me? Non avrete paura!? – tutti erano d’accordo che si andasse dentro la casa stregata, ma io non mi sentivo tanto sicura, ma non dissi niente.Ci dirigemmo verso la casa stregata.– Sei biglietti per favore.–chiese Sare.– Buon giro – ci disse il cassiere in tono macabro. Tutti risero, ma io no, sentivo che qualcosa non andava... – Tutto bene Jo? Mi sembri un po’ strana.–mi chiese Alex – No va tutto bene. Andiamo! – li risposi io con il mio tono più convincente. Bip. Presi il mio natel e lo spensi. Pensavo che non mi sarebbe servito. Entammo nella casa. Si sentivano dei gridi di bambini. – AAAHA!!!! – gridai – È solo una ragnatela finta – mi disse ridendo Simone. Si vedevano teli che sembravano fantasmi. Tutti ridevano e scherzavano. – Sembra tutto così reale!! – disse Sare. –Vero, guarda davanti! – disse gilly. Sare stava andando a sbattere contro il muro. – Grazie! Per un pelo. – Dal soffitto cadde un ragno tutto peloso. – Cavolo che colpo! – disse Alex, ma... – Non è finto! Si sta muovendo! AAHA! – gridò Alex in preda al panico. – Dai non ci caschiamo – disse Gilly. Eravamo rimasti solo io, Alex e Gilly tutti gli altri erano andati avanti. – Te lo giuro si sta muovendo, dentro la mia maglietta! Aiutatemi a toglierlo – insisteva Alex. Andai a vedere: si muo37


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veva sul serio! Lo aiutai a togliersi la maglietta. La maglietta cadde per terra e il ragno uscì e risalì la parete. – Io non ci sto più qui.Io torno indietro.–disse Alex ritornando all’entrata. – Dove sono gli altri? – chiesi a Gilly. – No,saranno andati. Non si accorgeranno neanche che manchiamo. – mi rispose.” Cavolo, quel ragno era vero, l’ho toccato. È un mistero.” pensai. Procedemmo. Non si sentivano più urla, si sentiva solo i nostri cuori battere e il nostro lieve sospiro. Eravamo in mezzo a una sala, piena di specchi, quando sentimmo un urlo terrificante. – Cosa è stato? – chiese Gilly, un po’ di paura ce l’aveva anche lei, e non era l’unica. Negli specchi si vedeva la nostra immagine riflessa... così d’un tratto comparve, riflessa sui tanti specchi, l’immagine di un licantropo. – Uao! Non avevo mai visto un licantropo così reale! – mi disse, stupita, la mia compagna. Il licantropo si avvicinava a noi, ma c’erano così tante immagini riflesse che non sapevamo quale fosse in realtà il licantropo vero. – Qual è quello reale? –dissi in preda al panico. – Non ne ho... – non riuscì a finire la frase che il licantropo mi assalì. Mi saltò addosso, io per fortuna riuscii a spostare in tempo. – Andiamo via! – gridai.Cercammo la via d’uscita per quell’inferno di specchi e riflessi. Il licantropo era in piedi, a cercarci. Trovammo l’uscita poco prima che il licantropo trovasse noi. Eravamo in un corridoio buio, i nostri cuori battevano all’impazzata. Camminammo per qualche minuto finché non entrammo in una sala ampia con un divano al centro. Sul divano c’era una persona. Non si muoveva e non respirava .Era morta. – Andiamo a vedere? – chiese Gilly. – Ok–ci av38


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vicinammo. – AAAAHH! – gridammo. La donna si era alzata di scatto.Io corsi verso l’angolo più vicino nella stanza,mentre Gilly corse dall’altra parte della stanza. La donna cominciò a parlare: – Come avete osato disturbare il mio sonno? Adesso non uscirete mai più da questa stanza se non in bara! – concluse la sua frase con una risata acuta.Vidi una porta tutta nera.Gilly mi guardava con degli occhi spaventati, li indicai la porta. Sussurando li dissi:–al mio tre – mi annui con la testa.–Uno, due e... tre – tutte e due corremmo verso la porta. Provai ad aprirla. Pesava tantissimo,ma con un pò di forza riuscimmo ad aprirla. Nell’altra stanza non c’era niente. – Che strana questa stanza... – dissi io. – Qui sembra che non ci sia un’uscita. – disse Gilly. – È vero, forse è nascosta,ma se non c’è dobbiamo tornare indietro, all’entrata, ripercorrendo tutte le stanze. – il mio tono non era tanto convincente, ma ero sicura che Gilly si sarebbe rassicurata,ma non era la realtà. – Gilly,io non ce la faccio più siamo dentro da più di mezz’ora.Pensavo che durasse al massimo dieci minuti!Voglio uscire da questo posto! – mi disse in tono molto sicuro e sincero.–Anche io voglio uscire, è un incubo. – Cominciammo a cercare una porta nelle pareti vuote. “Questo posto non è per niente bello, pensavo che sarebbe stato molto più divertente. Poi chissà dove saranno tutti gli altri. Mi sto cominciando ad innervosire.” stavo pensando nella mia mente. – Gilly! Ecco la porta! Vieni ad aiutarmi!! – mi chiamò la mia amica. Corsi subito da lei. La porta era molto piccola ci passavo io a malapena. Entrai prima io: la stanza successiva sembra molto allegra, era gialla con 39


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diversi palloncini colorati in giro. – Che bella stanza! – dissi stupita. – Vero! È molto meglio delle altre! Poi si vede la porta! – Vero! Leggi sopra la porta! C’è scritto: USCITA! Evviva! – esultai. – Prendiamo un palloncino?–mi chiese Gilly tutta contenta. – Ok,io lo prendo giallo! — Io verde! – Andammo a prendere il palloncino, andammo alla porta, e... Quando varcammo la porta non c’era quello che ci aspettavamo: eravamo uscite dalla casa stregata, c’erano i nostri amici, ci avvicinammo a loro ma loro non ci vedevano. Intorno alla casa stregata c’era il nastro giallo della polizia, i nostri genitori stavano piangendo. Io e Gilly ci guardammo e capimmo tutto. – Proviamo a rientrare, forse ritroveremo quello che abbiamo perso. – mi disse Gilly. – Ok,entriamo. Sei pronta? – ci demmo la mano e rientrammo nella casa stregata. È la fine?

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Noir a scuola Petros Michalopoulos

C

i sono momenti in cui si vorrebbe passare inosservati ma poi, neanche a farlo apposta, tutti ti cercano. Nora si era appartata su di una panchina fermamente intenzionata a ripassare le lezioni di italiano. Aveva appena letto la prima strofa della poesia che il professore Lironi aveva imposto alla classe di studiare a memoria, quando ecco avvicinarsi Stefania e Carlo. Erano la coppia più glamour di tutto il Liceo 1 di Lugano. Sempre perfetti, sempre alla moda. Che cosa vogliono questi due? Pensò infastidita Nora che non aveva tempo da perdere. «Settimana prossima verrai al ballo?» le chiese Stefania. Per la prima volta, prendendo spunto dalle serie televisive americane, il comitato degli studenti aveva organizzato un grande party di fine anno. Dopo lunghe trattative era riuscito a strappare al preside il permesso di adibire la palestra a discoteca. Il tema della festa erano gli anni venti e bisognava vestirsi in perfetto stile: vestiti flapper e abiti scivolati. Insomma, tutto quanto ricordasse i mitici anni ruggenti. Quella festa doveva entrare nella storia del Liceo. A Nora sarebbe piaciuto andarci. Adorava ballare ma raramente poteva uscire la sera. Aveva poche amiche e il finesettimana doveva aiutare la sua mamma. Papà non c’era più. La questione però, era che non osava chiedere i soldi 41


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per un nuovo vestito. E poi non aveva nemmeno un cavaliere. «Non so ancora» rispose senza alzare gli occhi. «Ci saranno tutti. Sarà una grande festa» disse Stefania, poi i due si allontanarono. Nora sentì che ridevano e sentì anche suonare la campanella che annunciava la fine della ricreazione. Il professor Lironi era in ritardo. Per un tipo preciso come lui, era alquanto sorprendente. In cinque anni non era mai successo. Erano già passati dieci minuti e molti alunni stavano rimettendo libri e astucci negli zaini, felici di avere evitato l’interrogazione, quando eccolo, trafelato, entrare in classe. «Bene, iniziamo subito» disse mentre appoggiò la cartella sulla cattedra. Ma c’era qualcosa di strano. Il nodo della cravatta era allentato, dettaglio inspiegabile per un perfezionista come lui che metteva i puntini su ogni i. La fronte era un mare di rughe e soprattutto aveva uno sguardo allucinato. O abbattuto. Nora, seduta in prima fila, notò una piccola macchia rossa sul colletto della camicia. Rossetto? Sangue? «Vediamo chi interrogo oggi…» fece scorrere l’indice della mano destra lungo il registro e, siccome in quel giorno dove voleva essere invisibile, tutti sembravano avercela con lei, Nora fu chiamata alla lavagna. L’interrogazione non andò molto bene. Fece confusione con le figure retoriche presenti nella poesia. La sera ritornò triste a casa dove sua madre aveva altri problemi che non occuparsi dell’andamento scolastico di sua figlia. 42


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La mattina seguente, con un inaspettato cambio di programma, la professoressa Dupuis lesse alla classe alcune poesie della raccolta I fiori del male di Baudelaire. Per due ore parlò di amori proibiti. Nora si annoiò ma, per fortuna, poté poi sfogarsi con educazione fisica. Aveva lunghe gambe che usava volentieri per correre. Le piaceva molto correre, così come ballare. La classe fu accolta al centro della palestra dal professor Robustelli, un uomo dal fisico massiccio. Quella mattina aveva uno strano ghigno stampato in volto. «Oggi andiamo a correre nel parco» ordinò. Il parco Ciani si affaccia sul lago di Lugano ed è ricco di vialetti ideali per passeggiate e jogging all’ombra di alberi secolari. Nora, come sempre, era la prima del gruppo. Faceva mangiare la polvere anche ai ragazzi. Stava concludendo il secondo giro quando una massa scura nel lago attirò la sua attenzione. Deviò la corsa e, superata un’aiuola, si fermò sulla sponda. Con terrore si accorse che la massa galleggiante che aveva notato a dieci metri dalla riva non era un grosso tronco ma il corpo di una persona. Cacciò un urlo di paura. Per recuperare il cadavere, oltre agli esperti della scientifica, dovette intervenire la polizia lacuale. Una volta portato sulla terra ferma, non fu difficile riconoscere il corpo senza vita del professor Lironi. Nora perse i sensi. Il procuratore pubblico incaricato di seguire il caso ordinò un’autopsia e la salma fu trasportata all’Istituto Cantonale di Patologia a Locarno. La dissezione fu ese43


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guita dal dottor Tagliaferri, medico legale, il quale, al di là di un piccolo graffio sul collo, riscontrò unicamente la presenza d’acqua nei polmoni del professor Lironi. La causa della morte era chiara: annegamento. «Di più non posso dire. D’altronde in situazioni di annegamento o di caduta in un burrone non si può mai affermare con certezza se si tratta di incidente, omicidio o suicidio» sentenziò il dottore. Nei giorni successivi furono svolte ampie indagini. Fu setacciato tutto il parco e furono interrogati allievi, docenti e parenti. Non si scoprì molto che potesse aiutare la polizia. Risultò che il professor Lironi viveva solo e che fosse considerato assai pedante. Da buon letterato non tollerava una virgola fuori posto. Mai. E, strano ma vero, non sapeva nuotare. Con delusione degli alunni, in particolare di Stefania che sperava di venir eletta regina del ballo, la festa di fine anno venne annullata. Solo Nora fu contenta di questa decisione. Una mite mattina di metà giugno si tenne il funerale. C’era tutto il Liceo. Finita la cerimonia, Nora, mentre si allontanava in silenzio, non poté fare a meno di notare come il professor Robustelli appoggiò una mano sulla spalla della professoressa Dupuis in un gesto che doveva essere d’affetto ma che a lei sembrò di dominio. La professoressa Dupuis, in realtà, non sentiva nulla. Il suo cuore era fermo al giorno precedente al ritrovamento del cadavere del professor Lironi quando lui l’aveva bloccata in aula confessandole in modo troppo aggres44


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sivo il suo amore obbligandola a difendersi, alzando anche una mano, e a minacciarlo di dire tutto al suo forzuto compagno. Ma questo segreto lo nascose dentro di sĂŠ. Pour toujours.

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Mademoiselle Le Mercier e le stele Christiane Caneva

E

ra piccola, grassa, con i capelli biondi a caschetto, gli occhi blu e sporgenti, le labbra sottili e curve in una smorfia di disprezzo. La professoressa Le Mercier era di cattivo umore. Sempre. Aveva una conoscenza della letteratura francese sconfinata. Umanamente però era un disastro. Nessuno l’aveva mai vista sorridere. Nessuno l’aveva mai vista prendere un caffè o pranzare con i colleghi. Una volta la settimana leggeva i mail professionali. Se doveva rispondervi, lo faceva con carta e penna. Redigeva lunghe lettere dalla retorica pomposa. Le gettava poi con disgusto tra le mani delle segretarie. Faceva una smorfia. Rizzava il naso e serrava strette le labbra, come un “cul de poule” dicevano le segretarie. Gli allievi li trattava con disprezzo. Un paio di volte l’anno arrivava nel mio ufficio qualche ragazza in lacrime. Allora, riluttante, convocavo la professoressa, sapendo che non sarebbe servito a nulla. Quella volta, però, aveva oltrepassato i limiti. Se n’era resa conto. Sapeva che sarebbe stata rimproverata. Non ricordava esattamente la successione degli avvenimenti, ma ricordava quello che aveva provato: sollievo. Il silenzio di tomba che era piombato di colpo nella classe le aveva però fatto capire che aveva esagerato. La direttrice aveva solo detto: “Sapevo che un giorno sarebbe successo.” Quel giorno ero nel mio ufficio. D’un tratto qualcuno aveva bussato con energia. Una testa bionda si era infilata nella porta 46


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socchiusa. Una studentessa con gli occhi umidi entrò e mi disse tutto d’un fiato: “La Le Mercier è pazza! Sa cos’ha fatto? Ho guardato l’ora sul telefonino. Lei si è innervosita e voleva confiscarlo. Le ho detto che non ne aveva il diritto. Allora me l’ha strappato di mano, è andata alla finestra e l’ha scaraventato giù in cortile. Poi mi ha dato uno schiaffo!” Sgranai gli occhi incredula. Rose Le Mercier stava lavando meticolosamente la lavagna quando arrivai nella sua aula. “Buongiorno” dissi. S’immobilizzò. Girò lentamente la testa. “Buongiorno” rispose freddamente riprendendo a lavare la lavagna. “Ho parlato con una sua studentessa poco fa.” “Ines. Sarà venuta a piangere, povera piccola” rispose sarcastica. “Ha dato uno schiaffo ad un’allieva!” dissi alzando la voce. La professoressa si girò, stringendo la spugna e facendo cadere per terra delle gocce nerastre. Mi fissò. “Stava usando il telefonino. È contrario al regolamento.” “Nel regolamento è forse scritto che si possono scaraventare dalla finestra gli effetti personali di un allievo o schiaffeggiarlo?” Impallidì. “Mi segua nel mio ufficio.” aggiunsi. “Ho un appuntamento ora. Verrò nel suo ufficio domani.” L’indomani la professoressa era malata. Seduta nel mio ufficio mi chiesi cosa le fosse passato per la testa 47


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quel giorno. Presi il dossier di Ines. Era una bella ragazza dai capelli biondi e gli occhi blu. Era nata a Chicago. Il papà era avvocato. La mamma pure. I voti ottimi. A parte questo, niente di speciale. Quella sera, uscendo dal liceo, feci una passeggiata e mi ritrovai a Paradiso. Lì abitava la professoressa. Arrivata sotto il suo palazzo vidi le luci accese a tutti i piani. Era in casa. Per una ragione che ignoro, per una sorta di curiosità malsana, entrai. “Rose e Maria Le Mercier” lessi sulla buca lettere. Quarto piano. Salii e suonai il campanello. Sentii dei passi, lenti e strascicati. La porta si aprì e una signora anziana, dai capelli radi e bianchi, mi guardò stringendo gli occhi globulosi. “Buonasera. Sono la vicedirettrice del liceo dove lavora...” Esitai. “Mia figlia Rose? Oh entri pure.” disse cordialmente. Mi chiesi se fosse una buona idea, ma ormai non potevo più tornare indietro. Probabilmente la figlia non le aveva raccontato nulla. “Rose sta facendo la doccia” mi disse. Il corridoio era stretto, buio, ricoperto di fotografie. Sulle più recenti vi era una bella donna, elegante, sui sessant’anni, con il marito, un uomo affascinante. Su altre foto vi erano anche due ragazzi. “Mia figlia Claire con suo marito e i suoi figli. Hanno appena finito il college.” “Non sapevo che la Signora Le Mercier avesse una sorella.” “Sì, una gemella. Non si vede, vero? Claire è un brillante avvocato, come suo marito. Abita a Chicago. Ci sono stata una volta. È sistemata bene, lei.” Fece una pausa. 48


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“Vuole bere un tè?” Era piccola e magra, aveva la schiena ricurva e camminava con un bastone. Mi porse la zuccheriera. “Non posso prenderne io, di zucchero.” disse. “Diabete. Da più di vent’anni ormai.” “Mi spiace.” Sollevò le spalle sospirando. “Maman? Tu parles toute seule?” urlò una voce dal bagno. “Rose, on a des visites!” “Quoi?” esclamò allarmata. Dopo pochi minuti apparve la professoressa. Guardò sua madre inquieta, poi mi gettò uno sguardo misto di odio e di vergogna. “Je te laisse avec ton amie. Je vais appeler Claire”. La donna uscì dalla cucina. Rose mi fulminò con lo sguardo. “È venuta a verificare se sono malata?” “No. Mi sono solo chiesta cosa le è passato per la testa ieri.” Scoppiò in una risata sonora. Poi tutto ad un tratto cessò di ridere. “Per trent’anni ho subito. Una madre malata. Una sorella venerata da mia madre. Un lavoro che odio. Una vita di privazioni. Per cosa?” Ero a disagio. “Sa cos’ho visto nel viso di Ines?” Tacque. Si alzò lentamente. La seguii con lo sguardo. Andò davanti alla finestra e guardò il cielo. “Quante stelle. Mille volte ho scrutato il cielo spe49


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rando di vedere una stella filante. Claire ne ha vista una da bambina. Mi ero precipitata anch’io davanti alla finestra. Troppo tardi. Aveva espresso un desiderio, lei. Io no, mai.” Sospirò. Sentii avvicinarsi dei passi strascicati. Rose spalancò la finestra e respirò a pieni polmoni l’aria fredda di dicembre. Un soffio d’aria mi fece rabbrividire. Ricordo ancora la sua sagoma davanti alla finestra aperta. La luce di un lampione illuminava il suo viso, pieno di rammarico. All’improvviso udii urlare alle mie spalle “Rose!”. Poi rimase solo la luce del lampione e il nero della notte.

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Alessandra la giovane investigatrice Sara De Giorgis

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i sentì urlare: era il prof di mate che sgridava Alessandra. Per scusarsi ella riuscì soltanto a dire: “Scusi!”. Il prof. disse: “Per questa volta chiudo un occhio, ma che sia l’ultima volta, okay?”. Alessandra annuì e il prof. continuo’ a fare lezione. Alessandra leggeva molti libri gialli e sognava di diventare un’investigatrice. La mattinata passò in fretta, e arrivò l’ora di ginnastica; mancavano circa 10 minuti alla fine della lezione, quando la docente disse ad Aurora: “Aurora vai a mettere via i nastri, per favore.” Aurora annuì, prese i nastri e andò dall’altra parte della palestra. Improvvisamente un urlo ruppe il silenzio della palestra, proveniva dallo scantinato, tutta la classe corse li. Videro Aurora in piedi, pallida, con la mano tremolante e con gli occhi sgranati. Indicava un angolo che non si vedeva dalla porta d’ingresso, così tutti entrarono e videro una pozza di sangue e un corpo smembrato… era il prof di matematica. Tutta la classe lanciò un urlo di terrore, erano intorno al corpo, certi erano increduli, altri invece stavano per svenire o per vomitare. In un attimo arrivò la polizia e anche l’ambulanza, caricarono su una barella il cadavere e lo portarono via. La polizia interrogò la docente di ginnastica e alcuni suoi compagni. Suonò la campanella e tutti andarono a casa, tranne Alessandra. Voleva a tutti i costi scoprire l’assassino, così si nascose senza farsi notare e aspettò che anche l’ultima persona uscisse. 51


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A quel punto andò sulla scena del crimine: la palestra. Purtroppo la porta era chiusa con un lucchetto, per sua fortuna aveva una spilletta per capelli, se la tolse, scassinò il lucchetto, la catena cadde a terra. Entrò nella palestra, dominava l’oscurità e il silenzio. Andò nello scantinato, accese la luce: c’erano solo degli attrezzi, niente di strano, ma laggiù notò qualcosa, sembrava un bottone, c’era anche un’impronta di sangue. Alessandra memorizzò l’impronta e prese il bottone in mano, c’erano due lettere: LS. Alessandra pensò:”Bene, sono a buon punto, devo solo scoprire a chi appartiene questo bottone e il gioco è fatto. Mmmh, LS, credo di riconoscere queste due iniziali, ma certo! Perchè non c’ho pensato prima: si tratta di Leslie Soppith, la docente d’inglese, stasera le farò qualche domanda e se le risposte combaciano avrò trovato l’assassino!!! Forse è meglio che vada.” Uscì dalla palestra, raggiunse il corridoio ed infine forzò la serratura per uscire e scappò. Quando nel pomeriggio finirono le lezioni, Alessandra andò dalla signora Leslie Soppith. TOC TOC! La voce dall’altra parte della porta rispose: “Avanti.” Alessandra entrò. La signora Leslie (seduta sulla sua sedia) era una donna alta e magra, aveva gli occhi neri e i capelli argentati legati in uno chignon. Alessandra salutò educatamente: “Buongiorno signora Leslie, posso farle un paio di domande?” La signora Leslie annuì sorpresa e Alessandra continuò: “Le stava antipatico il docente di matematica?” “Perchè mi fa questa domanda?” Alessandra un po’ sospettosa incalzò: “Per caso è suo questo bottone?” La docente prese in mano il bottone: “Dove 52


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l’ha preso?”. Alessandra rispose: “Rispondo alla domanda con un’altra domanda: dov’era stamattina all’ora dell’omicidio?”. La docente spalancò gli occhi: “Ero qui a correggere i compiti!”. Alessandra sicura di sé le chiese: “Posso dare un’occhiata qui in giro?” La docente ghignado rispose di sì. Alessandra guardò dentro l’armadio: c’era una scarpa con la suola sporca di sangue. Mentre Alessandra analizzava la scarpa non si accorse che la docente aprì il cassetto, prese un coltello, si alzò dalla sedia, le si avvicinò: stava per accoltellarla. Alessandra si girò in tempo, sgusciò sotto le gambe della docente, che infilzò la parete di legno con il coltello: “Non ti salverai Alessandra!!” Alessandra andò verso la porta, era chiusa, cercò di aprirla ma non ci riuscì. “Ti ucciderò Alessandra!!” La ragazza urlò, ma la scuola era deserta. La docente corse verso Alessandra con il coltello in mano, ma la giovane si buttò a terra e la docente sbattè contro la porta e svenne. Alessandra prese il coltello e ruppe la maniglia, la porta si spalancò e Alessandra sgattaiolò fuori dall’aula, ma la prof. riprese conoscenza, riprese a inseguire Alessandra, che corse giù dalle scale, si girò, e vide la docente che le era alle calcagna. Arrivata al piano terra corse al blocco principale, cercò di aprire la porta ma era chiusa con un lucchetto e una catena. Si girò e vide la docente con la fronte sanguinante per la botta di prima, aveva ancora il coltello in mano. Alessandra le disse: “Ma perché ha ucciso il prof.di matematica?” La docente si fermò: “L’ho ucciso perché mi ha tradito!” Con tono tranquillo continuò: “Non potevo sopportare che stesse per spifferare il nostro segreto, quindi l’ho uc53


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ciso.” “Ma quale segreto?” “Sotto la scuola c’è una miniera d’oro, e io ogni notte venivo a scavare, purtroppo il tuo docente di matematica mi aveva scoperto e aveva promesso di non dire niente, ma infine stava per andare a dire tutto al direttore, e io l’ho addormentato, l’ho portato nello scantinato e l’ho sgozzato. Ti ho detto troppo, ciao ciao Alessandra!” La ragazza urlò, ma nessuno la sentì… Alessandra pregò Dio. L’assassina era praticamente ad un metro di distanza, le si stava avvicinando lentamente quando, improvvisamente, si accasciò a terra. Alessandra vide un’ombra dietro il corpo svenuto della docente, e domandò: “Chi sei?” L’ombra sorrise e le rispose: “Sono il tuo salvatore” e scomparve. Alessandra stupita prese il telefono, chiamò la polizia e quando arrivò spiegò loro tutto quello che le era successo. I poliziotti arrestarono la signora Leslie. I genitori, correndo verso Alessandra, la abbracciarono, la portarono verso l’auto, entrarono e partirono. Alessandra si girò verso la scuola e disse: “GRAZIE”.

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Noir a scuola Maria Grazia (Mery) Bello

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rano le 19:00 in punto quando la signora Madyson O’Neil rispose al telefono. Incredula e in preda al panico fece cadere il tacchino ripieno che aveva in mano e il cuore le si fermò per un attimo. La notizia che la sua amata Odillie era morta le giunse come un fulmine a ciel sereno. A casa con lei c’era la vicina Laurel Sullivan, che non perse occasione per spettegolare con il vicinato di cose che neanche conosceva esattamente. Madyson corse al piano superiore nella mera speranza di trovare la sua bimba in camera, dove l’aveva lasciata un ora prima, ma di lei nessuna traccia, solo la finestra aperta e il notebook sul pavimento. Neanche 10 minuti dopo, ecco che l’ispettore Jamey Cooper era a casa O’Neil per interrogare brevemente la donna circa le abitudini della figlia, le persone che frequentava e per sapere se avesse notato qualcosa di strano negli ultimi tempi. Cooper rigirò sottosopra la camera ma non trovò niente di anomalo. Tra i vari effetti personali venne requisito anche il portatile parzialmente rotto. Odillie O’Neil, 15enne di famiglia modesta, bella presenza, dal fisico esile e curato, lunghi capelli marroni e profondi occhioni verde smeraldo, studentessa modello e promessa della ginnastica ritmica, era stata trovata priva di vita nel retro del cortile della scuola, con la testa rasata, totalmente nuda e con polsi e gola lacerati da grossi tagli. 55


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La notizia si sparse immediatamente e Odillie era nuovamente al centro dei pettegolezzi degli allievi della Empire School di Seattle. L’agente Cooper entrò nella classe di Odillie durante l’ora di informatica e avvertì un’inconsueta tranquillità, quasi come se niente fosse accaduto. Dopo vari preamboli, Jamey interrogò uno ad uno i compagni di classe di Odillie tra i quali spiccavano gli animi ribelli dei maschietti Cohen, Brian e Austin, e la presunzione di Kassandra, Shirley e Walesca tra le femminucce. Rimase colpito dalla freddezza di Chloe Sanders che a detta della docente di classe, Mrs Dorothy Chapman, doveva essere quella che meglio conosceva la vittima. Dalle varie testimonianze emerse che Odillie nel corso dell’anno scolastico aveva avuto due brevi relazioni con Cohen e Ray, ma che ultimamente parlava spesso con il bel tenebroso Lovel Farrell, ragazzo 16enne di una classe superiore, molto riservato ma gettonato tra le adolescenti. Una volta rientrato in Centrale, stanco e perplesso, Cooper contattò un esperto informatico per esaminare l’hard disk di Odillie e, dopo vari tentativi e abilità degne di un hacker, ecco che finalmente recuperarono qualche traccia interessante. Apparve dapprima un pseudo diario che la ragazzina aveva salvato con il nome “nightmare” e tra le ultime cose scritte si evidenziavano frasi toccanti come “Ogni volta che riappare un mi piace, un commento e un condividi se ne va un pezzo della mia vita” oppure, qualche giorno prima della sua morte, la stessa 56


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scriveva “non ce la faccio più a sopportare tutto questo”; il resto altro non erano che episodi legati ai suoi successi ginnici e scolastici, messaggi d’amore e immensa gratitudine verso la madre, ma nulla v’era invece a riguardo delle sue amicizie o dei suoi presunti amori. Quelle note portarono Cooper a direzionarsi sui social network più popolari. Vennero a galla sconcertanti e raccapriccianti foto, frasi, ingiurie e minacce pubblicate sul profilo di un gruppo denominato “We Hate You” dove la gente descriveva la vittima come una “provinciale prostituta”, “lurida cagna che si aggraziava i professori per ottenere voti alti” e dove vi erano le più svariate e colorite affermazioni relative alle sua morte. Individui coperti da nickname esprimevano gioia per l’accaduto e per la crudeltà rivolta alla ragazza durante il supplizio e come se non bastasse sul profilo della ragazza era apparsa una foto in cui era in una pozza di sangue con la didascalia “questa è la fine che meritavi”. Quella foto doveva per forza di cose essere stata scattata subito dopo l’omicidio visto che la scena del crimine era stata vietata e circoscritta dagli agenti appena rinvenuto il cadavere. Dopo ore di lavoro, Cooper scoprì che l’immagine risultava essere caricata da un Wi–Fi pubblico di Kissimmee nella lontana Florida, ma che era stato dapprima utilizzato un proxy server, alfine di sviarne la provenienza. Chiunque avesse fatto ciò o era un abile informatico o aveva delle ottime conoscenze con uno di essi. 57


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O’Neil cercò nuove deposizioni e nuovi indizi e parlò a lungo anche con Stacey Carter, 45enne, istruttrice di ginnastica e personal trainer di Odillie, che aveva mostrato grande disperazione alla notizia ma più che altro perché aveva perso l’unica valida ginnasta in grado di partecipare alle prossime Olimpiadi. Nonostante Cooper fosse risalito a chi si nascondesse dietro i nickname, ognuno degli indiziati aveva un valido alibi e benché tutto portasse a pensare ad un caso di cyberbullismo, forse quella non era la pista giusta da seguire. Gli interrogativi che si poneva erano tanti: Come mai gli impegni di lavoro del padre di Odillie non gli permettevano di rientrare neanche per un fatto tanto grave? Cosa ci faceva Mrs Chapman alle 18:30 nel cortile della scuola in un giorno in cui lei non aveva lezione? Perché Lovel Farrell era stato sospeso dall’Empire School proprio quell’infausto venerdì? Con chi doveva incontrarsi Odillie? Perché uscire di casa di nascosto? Perché ultimamente saltava le lezioni di ginnastica? Dov’erano finiti i capelli mozzati e i vestiti della ragazza? Di colpo Chloe Sanders, alias “Fata Nera”, bussò in lacrime alla porta di Cooper, mancava soltanto mezz’ora ai funerali ma aveva qualcosa di interessante da mostrargli… 58


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Pulizie primaverili Angelo Di Campli

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rano giorni frenetici al Liceo di Bellinzona, di lì a poco si sarebbero tenuti i famigerati esami finali. Gli studenti si apprestavano ad iniziare la prima lezione del pomeriggio dopo aver mangiato frettolosamente un kebab al baracchino dell’ambulante. All’improvviso le chiacchere degli allievi furono zittite da una sirena proveniente dal parcheggio antistante. La maggiorparte di loro pensò si trattasse del rumore delle giostre presenti in quel periodo sul prato comunale, ma vennero subito smentiti dal Direttore che tramite l’altoparlante, invitò i presenti a riunirsi immediatamente in caffetteria. Nei corridoi cominciarono a girare voci infondate sull’operato della commissione d’esami, ma i dubbi durarono ben poco. Il Capo della Polizia cittadina aveva indetto una riunione per comunicare loro, che la sera prima nell’atrio della palestra sotterranea era stato rinvenuto il corpo senza vita della donna delle pulizie. Nella sala ci fu un attimo d’incredulità e commozione. Maria „Piccola“, come la chiamavano gli studenti, era molto conosciuta nell’ambiente e lavorando lì dagli anni ottanta aveva visto crescere generazioni di studenti e professori. Gli agenti mostrarono agli alunni uno zaino rosso ritrovato a fianco alla vittima, ma sullo stesso non erano 59


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state riscontrate impronte e gli stessi erano alla ricerca di testimoni. Nel frattempo in fondo alla sala due ragazzi di nome Mimmo e Milly, appoggiati al distributore automatico, vennero colti quasi da un malore e diventarono bianchi come le custodie dei loro telefonini. Quell’oggetto era molto familiare ed erano certi di sapere a chi appartenesse. Appena finita la conferenza scapparono via sui loro scooter, raggiungendo in breve tempo la casa di un loro amico che abitava a pochi isolati. Trafelati e sudati suonarono il campanello e poco dopo apparve Dica che li salutò calorosamente. Non si vedevano da tempo a causa dell’ assenza di Dica da scuola, dovuta ad un grave infortunio al ginocchio patito durante una partita di calcio. Gli raccontarono tutto velocemente, tralasciando però il dettaglio del ritrovamento. Dica rimase molto scosso dall’accaduto e non proferì parola. Pensare che anni prima aveva avuto una relazione con la figlia della donna uccisa che era durata pochi anni. Con una scusa, Mimmo chiese a Dica di prestargli il suo zaino visto che l’aveva smarrito qualche giorno prima. Dica gli rispose che non poteva, visto che l’aveva appena regalato a sua cugina e che ne avrebbe comprato uno nuovo con l’arrivo dei saldi. Passate un paio di settimane, mentre la dinamica dell’assassinio era ancora avvolta nel mistero, arrivò il 60


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giorno tanto atteso degli esami. Dica arrivò presto e di buona lena, al contrario dei suoi amici sempre più dubbiosi. L’esame iniziò in perfetto orario e mentre il tempo passava inesorabile, ad un certo punto, si sentì bussare energicamente alla porta dell’aula. L’esaminatore stranito, aprì la porta e sull’uscio vide due poliziotti che chiesero del Signor Di Carlo Massimo. Ci fu und attimo di silenzio generale in aula, Dica si alzò dalla postazione e andò verso di loro, chiedendo cosa fosse successo. Gli agenti non gli comunicarono nulla e lo portarono via in men che non si dica. Concluso l’esame del mattino, il tam tam mediatico della notizia rimbalzò dalla radio alla televisione, da internet ai social network e in poche ore fu di dominio pubblico. Si vociferava che l’avesse fatto perché Maria metteva il bastone tra le ruote alla relazione con la figlia. Passarono lunghi e tristi giorni di prigione per Dica, che non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo. Ormai era già trascorso un anno e senza accorgersene stava per arrivare il giorno del giudizio. La popolazione pretendeva una punizione esemplare e in quei giorni al Liceo si respirava un’aria strana, tutti sapevano che l’aveva combinata grossa, ma non si capacitavano che quel ragazzo avesse compiuto quell’atroce delitto. 61


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La sera prima del processo, un professore che si apprestava a tenere un corso serale presso la sala multiuso adiacente la palestra, cercando un vecchio dossier, trovò dentro una scatola d’archivio un oggetto avvolto in uno straccio sporco e maleodorante. Tolto il panno scoprì che si trattava di una scultura in legno non ancora ultimata e che rappresentava un calciatore. All’inizio fu tentato di scoprire a chi appartenesse, ma poi si accorse che sulla stessa era presente del sangue essiccato. Capita la gravità della situazione telefonò subito al Direttore che allarmò la Polizia. Dopo un paio di giorni d’indagini, la scientifica confermò che il sangue era proprio della vittima e che quella creazione non ancora terminata, appartenesse a degli ex alunni che l’anno prima, avevano frequentato il corso serale d’incisione nel legno. Dalle interrogazioni poi, uscì fuori che gli stessi avrebbero voluto regalare la scultura ad una persona molto cara, come augurio per la ripresa agonistica. Quella sera di Giugno in un momento la vita dei due alunni cambiò letteralmente. All’ultimo istante decisero di aggiungere anche un paio di scarpe al loro dono, ma visto che le loro finanze scarseggiavano, pianificarono il furto delle quote d’iscrizione dalla cassa presente nella sala multiuso. Allo stesso tempo, Maria „Piccola“ che stava effettuando le pulizie primaverili nella palestra adiacente, 62


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passò proprio di lì e vide qualcuno armeggiare con uno scalpello. Colti sul fatto e con la paura di essere espulsi, spensero la luce per non farsi scorgere e tramortirono con la loro creazione la malcapitata sul viso. Scappando via di corsa, dimenticarono lo zaino e non fecero bene i calcoli con la minuta donna, che spinta vigorosamente, cadde su un attrezzo metallico della palestra procurandosi la ferita mortale alla testa. Mimmo e Milly non si accorsero di nulla e solo all’indomani durante la riunione in caffetteria scoprirono che quella sera successe qualcosa di grande, più grande di loro e più grande della loro amicizia verso Dica.

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Noir a scuola Lelia Adamo

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e scuole private svizzere affrontano programmi di ogni tipo, maturità internazionale livello A del sistema britannico, maturità tedesca. Un altro vantaggio è il plurilinguismo, infatti si vantano ragazzi provenienti da Russia, Germania, Stati Uniti, Francia e Svizzera naturalmente. Sono scuole d’èlite, conosciute per la disciplina ferrea, rispetto degli insegnanti quali figure di autorità. Al Collège Parfait, nella Svizzera francese, è accaduto, un aneddoto molto interessante. I ragazzi dell’ultimo anno, erano in sedici, una classe mista come tutte nel Collège Parfait, ragazzi germanici, Inglesi,francesi e anche provenienti dagli Stati Uniti, proprio su quest’ultimi voglio focalizzare l’attenzione, due ragazzi, molto attraenti, alti biondi dal fisico atletico, bravi in qualunque sport, ma decisamente negati per lo studio, sapevano le loro lacune e soprattutto sapevano che i rispettivi genitori si aspettavano grandi risultati da loro. Un giorno, il professore di geografia, per stimolare lo studio e i risultati degli studenti dell’ultimo anno, propose di mettere in palio un premio per il migliore studente, un orologio molto prezioso double–face, considerato l’orologio da polso più tecnologicamente sofisticato e perfetto della storia della maison svizzera, sul lato del quadrante indica il tempo solare medio e il calendario perpetuo, mentre sul lato fondo cassa con64


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sente di visualizzare la carta del cielo notturno, il movimento angolare della luna, le fasi lunari e l’ora siderale. Davvero un regalo pazzesco, certo, bisognava lavorare sodo per meritarselo. I ragazzi statunitensi Yohn e Stuart, guardavano con odio il migliore della classe, il secchione dagli occhiali spessi come fondi di bottiglia, inglese d’origine, sempre composto e rispettoso, i suoi genitori, al contrario di tutti gli altri studenti, facevano grandi sacrifici per mantenerlo agli studi. Edward lo sapeva bene e voleva non solo andare bene a scuola, ma essere il migliore, per premiare i suoi adorati genitori. Edward era un ragazzo orgoglioso e tenace, ora aveva l’opportunità di possedere un vero e proprio gioiello dell’orologeria svizzera, ma soprattutto rappresentava, un tributo, per il suo grande impegno . I due ragazzi statunitensi sapevano che per loro sarebbe stato praticamente impossibile vincere, dovevano trovare una soluzione, mettere fuori gioco Edward sembrava l’unico modo per avere almeno una debole chance, ma come? Yohn e Stuart avevano deciso di azionarsi in un piano a loro dire diabolico, tutti pensavano di Edward il meglio, sembrava esserci solo lui in classe, ma se il caro secchione fosse stato un ladro, non solo si sarebbe rovinato la reputazione, ma molto probabilmente, sarebbe stato espulso. Yohn, per sondare il terreno, va dal professore di geografia a chiedere come le fasi lunari vengono rappresentate sull’orologio, il professore gentilmente colpito dall’interesse del ragazzo, cosa rara nel caso specifico, 65


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decide di farglielo vedere, era riposto in un cofanetto chiuso a chiave, nulla di sofisticato, sarebbe stato semplice aprirlo, perfetto, ciò che voleva sapere l’aveva scoperto . La notte seguente, Yohn e Stuart decidono di rubare l’orologio, aprono con facilità la porta dello studio del professore, sono bravi ad ingegnarsi e poi guardando la scrivania, Yohn ricorda perfettamente il cassetto dov’è riposto il cofanetto, è il primo a destra, lo apre tenendo il fiato, sì, eccolo è chiuso a chiave e ben visibile, Stuart quasi non riesce a trattenere un boato di gioia, Yohn lo fredda subito con parole dure, –che fai? Vuoi che ci sentano, cretino? Basta un piccolo rumore per attirare l’attenzione e addio orologio, ora cerca di stare zitto Stuart, capito?– Il cofanetto che sembrava tanto semplice da aprire non lo era affatto, malgrado Yohn avesse già aperto altre serrature simili, questa resisteva ad ogni colpo, non restava altro che forzarlo, così con un cacciavite riesce finalmente ad aprirlo ed eccolo; in tutto il suo splendore : uno spettacolo d’orologeria svizzera, ora nelle loro mani. Bene la prima parte del piano è andata a segno, ora dove potrebbero nascondere l’orologio in modo tale che sarà facile incolpare Edward? Nella loro grande capacità intellettiva, pensano che sotto il materasso, sarebbe stato il posto giusto. La mattina seguente, un rumore assordante nei corridoi sveglia i ragazzi nelle rispettive camere, i professori urlano di rimane tutti nelle loro stanze, ed è un ordine! 66


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Quando i professori di tutte le materie fanno irruzione nella stanza di Edward lui era seduto sul letto tranquillo, nell’attesa di spiegazioni su quanto stesse accadendo, ma loro non parlavano erano solo intenti in una strana ricerca tra le sue cose. Ed ecco un urlo spaventoso da parte della professoressa di storia, classico, una donna tende sempre ad urlare, così ovviamente l’intera scuola era lì, chi dentro la stanza, chi fuori accalcato per cercare di capire cosa stesse accadendo. L’orologio era lì, chiaro e lampante chi fosse il colpevole, Edward guardava la scena al rallentatore, non riusciva a parlare come se la lingua si fosse seccata. Il professore di geografia che da sempre aveva un debole per quello studente, non poteva credere ai suoi occhi, doveva esserci una spiegazione, prende in mano l’orologio e lo stringe quasi volesse sapere la verità dall’orologio stesso. –Perché Edward?–questa era l’unica domanda che rintronava nelle orecchie di Edward, sentiva la testa girare come se il mondo avesse d’un tratto altre forme e dimensioni, prima guardava i professori, poi guardava Yohn e Stuart che ridevano soddisfatti e poi guardava l’orologio, d’un tratto era tutto chiaro, era un’equazione elementare, loro l’avevano incastrato, possibile che quei due farabutti erano riusciti a metterlo alle corde? Possibile che non ci sia una giustizia divina contro le ingiustizie? Il professore stringeva forte l’orologio nella sua grande e forte mano mentre faceva un discorso a tutti gli alunni su quanto sia importante l’onestà e quanto siano deleterie le conseguenze di simili gesti, Edward avrebbe avuto l’espulsione dalla scuola, è importante che 67


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gesti simili non si ripetano, sono semplicemente intollerabili. Ma ecco che un voce metallica fa bloccare il professore dal continuare a parlare, si sente:–che fai? Vuoi che ci sentano cretino? Basta un piccolo rumore per attirare l’attenzione e addio orologio, ora cerca di stare zitto Stuart, capito?....una registrazione!, il professore stringendo la mano aveva toccato un minuscolo tasto, l’orologio aveva registrato le voci dei due veri colpevoli, e lì platealmente davanti a tutti le loro voci si erano sentite nitide, perfette. Tutte le teste si erano voltate nella direzione di Yohn e Stuart che rossi in volto erano in preda al panico e finalmente non ridevano più.

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La bambina che fingeva di russare Catherine DeCarli

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nastasia, mi raccomando, rimani qui nella zona del parco. Io rimango a parlare con il mio collega Mina” Riferì la maestra in tono severo. “Ok, va bene” Rispose Anastasia correndo felice dalle sue amichette. “Guarda caro, io vado un attimino in gabinetto. Mi curi tu i piccini?” “Certo!” Disse il collega Mario sorridendole. “Eccomi, finalmente mi sono svuotata”. “C’hai messo tantissimo, si vede che eri proprio piena!” Disse ridendo il collega di Mina. “Era proprio piena si!” Rispose ridendo Mina. Quella era una bellissima giornata di inizio primavera. Mina decise così di uscire con la sua classe. “Ecco, finalmente una bella giornata all’insegna del divertimento!” Disse Mina al suo collega. “Guarda, ci sono già alcune primule. Oh, tu non sai quanto amo l’atmosfera primaverile: i fiori, il sole, gli odori,…. Mario stava per terminare la frase, quando una compagna di Anastasia si avvicinò di corsa. “Maestra, Anastasia si è addormentata laggiù nel bosco. Abbiamo provato a svegliarla, ma non ci riusciamo.” Mina rabbrividì al suono di quelle parole estremamente inquietanti ed immediatamente, cercando di man69


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tenere la calma, chiese alla compagna di Anastasia, Giulia, di portarla nel luogo in cui ella dormiva. “Si trova qui” Disse indicando il corpicino inerme di Anastasia. Anastasia era sdraiata in posizione fetale, le sue piccole mani erano posizionate all’altezza del bacino e la testa era leggermente rivoltata verso Mina. Spostando i capelli biondi, si vide che la gola era stata tagliata. La lingua era stata strappata a morsi e lasciata sotto un mucchio di terriccio. “Andatevene subito, non dovete vedere”. Disse scansando da parte Giulia e gli altri bambini che oramai già erano stati attratti da quel movimento così frenetico nel bosco. “È una bambina di sei anni, di origini russe e frequenta la prima elementare. I suoi compagni mi hanno detto che stava giocando a nascondino. L’hanno poi ritrovata sdraiata coi capelli sfatti. È clinicamente deceduta.” Disse un uomo della polizia scientifica. L’investigatore si avvicinò al corpicino senza vita ed accarezzò i suoi capelli biondi. “Per fortuna i tuoi compagni non hanno veramente visto come sei ridotta. Troverò il colpevole, te lo giuro!” “Ieri nel pomeriggio è stata trovato un corpo di una bambina senza vita. La bambina, di origini russe, stava giocando a nascondino con i propri compagni quando uno di loro l’ha vista sdraiata all’inizio del bosco vicino al parco in cui erano appostati. La maestra che era lì con loro non ha notato nulla di strano a riguardo. Potrebbe però aggirarsi un pedofilo che riesce a passare inosser70


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vato e che riesce ad acquistarsi la fiducia dei bambini. Per ora le notizie terminano qua. Vi faremo sapere più in dettaglio in seguito.” “Come ho potuto lasciarla andare così, senza controllare?” Mina non riusciva a darsi pace. Il suo cuore batteva all’impazzata per la rabbia. Si sentiva estremamente in colpa, come se fosse stata a lei ad ucciderla. Prese in mano un bicchiere da whisky e lo riempì di alcool quasi fino all’orlo. Aveva bisogno di bere e dimenticare la sofferenza. Dopo due sorsi già si sentiva ebbra. Decise di accendere la TV. “Sono state trovate delle tracce che possono ricondurre all’omicida della bambina di origini russe. È stato trovato sul suo vestito un capello, probabilmente appartenente ad una donna. È possibile che l’omicida sia di sesso femminile e non maschile. Si scarta pertanto l’ipotesi di un uomo. Si pensa che colei che ha effettuato questo efferato gesto sia una donna che lavora nell’ambiente scolastico, non si esclude nemmeno che possa lavorare proprio a diretto contatto con i bambini. Si dovrà ancora capire il motivo del gesto, ma la polizia sta ancora indagando più a fondo.” Mina si svegliò di scatto dal suono del telefono. Si alzò, erano le 3 di mattino. “Chi chiama a quest’ora?” Pensò. “Pronto?” “La signora Mina?” “Sì” “È la polizia al telefono. La invitiamo a venire nella nostra sede, perché le dovremmo fare qualche domanda 71


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riguardante il caso di Anastasia.” Mina alzò lo sguardo, aprì la bocca e attaccò il telefono. Si infilò velocemente i pantaloni e si avviò alla sede di polizia. Quando Mina arrivò, l’investigatore era già ad attenderla alla sua cattedra. Mina lo raggiunse col viso teso. “Buongiorno, lei è la signora Mina?” “Sì” L’investigatore gettò sul tavolo delle fotografie. “Questo è il suo capello. E queste sono le sue impronte sul suo vestito.” “Prima di andare al gabinetto Anastasia è venuta da me e molto probabilmente le ho toccato il suo vestito. Mi creda io non ho ucciso quella bambina, per quale motivo dovrei farlo?” Disse Mina tra le lacrime. “Ma il suo capello e le sue impronte non sbagliano signora Mina.” “C’era anche un mio collega, Mario. Io dovevo andare al gabinetto, allora ho chiesto a lui di tenere sott’occhio i bambini. Non so cosa è successo nel mentre, glielo giuro.” “Va bene, per ora la lasciamo andare. Dovrà rimanere pronta per un prossimo appello.” “Va bene.” Mina si alzò e se ne andò con lo sguardo basso e provato. “La polizia ha interrogato oggi la Signora Mina, maestra di elementare di Anastasia. La maestra ha giurato di non avere ucciso Anastasia, ma la polizia ha trovato diversi elementi che porterebbero a lei. Nel momento dell’omicidio Mina ha detto di essersi assentata in gabi72


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netto e di aver lasciato i bambini sotto custodia temporanea al suo collega. La polizia sembra sempre più convinta che la colpevole sia Mina, ma si avranno più avanti ulteriori informazioni a riguardo.” “Mina è ora in carcere. Secondo la polizia Mina è l’omicida. Sono state trovate molte fonti che riportano a lei, pertanto la polizia ha deciso di metterla temporaneamente dietro le sbarre. D’altro canto, il collega, sempre secondo la polizia, non è per nulla colpevole, ma ricerche su di lui non sono state mai sino ad ora effettuate. Per quale motivo? La polizia non ha espresso nulla a riguardo.” “Nuovo colpo di scena! La polizia ha ricevuto ieri una lettera anonima con scritto: “Sono io l’omicida”. La polizia è assai stupita da questa notizia che ha fatto traballare tutto il caso di Anastasia. Chi potrebbe essere stato allora? La polizia continua sulle tracce di una possibile donna, dato che gli elementi iniziali portavano ad un omicida di sesso femminile. La polizia il giorno dopo ricevette un altro indizio: “Un uomo–donna, invece, è il colpevole del reato”. Come poteva essere un uomo–donna, se le tracce trovate appartenevano ad una donna? E il capello, a chi apparteneva realmente alla fine? Il caso di Anastasia si affittì ancor di più. La polizia si ritrovò ad appellarsi a tutti transgenici della zona e del paese in cui abitava Anastasia. Le ricerche si fecero sempre più complesse. L’omicida era sempre più difficile da trovare. Nonostante tutte quelle lettere ricevute, la polizia non riuscì a trovare un 73


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colpevole e il caso di Anastasia fu archiviato, perché non vi erano sufficienti prove. Due anni dopo la morte di Anastasia “È stato riaperto e finalmente chiuso il caso di Anastasia. Il suo omicida ha deciso di confessarsi alla polizia tramite un’ultima e sconvolgente lettera che rivela come è stata uccisa Anastasia, e perché ha deciso di scrivere. Questo è quanto vi è scritto: “Buongiorno, cara polizia. Dopo anni buttati via alla nostra ricerca ci sentiamo in dovere di confessarci. Non siete mai riusciti a trovarci perché cambiavamo identità. Durante il giorno si manifesta il bravo Mario, docile ed affettuoso, soprattutto coi bambini. È proprio per questo motivo che Mario ha deciso di diventare un maestro di elementari. La notte invece si manifesta Franca, la cattiva e maligna Franca, che non tollera nulla, sempre arrabbiata e rancorosa. Ma ora è Mario che parla, non vi preoccupate! Oh certo, Mario si è perso in troppe parole. Veniamo ad Anastasia. Era dolcissima con quei capelli color oro. Ed i suoi occhi erano la cosa più bella. Mario non voleva ucciderla. È stata Franca a non tollerare ciò che le ha detto quando voleva semplicemente darle un bacio su quella bocca di rosa. Per quello le ha tagliato la gola e strappato a morsi la lingua. Voleva punirla per il suo comportamento immondo. Ora Mario si ritrova su un letto di un ospedale, perché gli è stato diagnosticato un tumore fulminante al fegato, perciò gli rimarrà ancora poco da vivere. Ecco perché vi scrive. Franca è arrabbiatissima di questo. La 74


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malattia la rende ancor più rancorosa! Ora finalmente sai tutto. Vergogna a te, cara polizia, per lo scarso lavoro attuato!Ah, un’ultima cosa: dì per favore a Mina che Mario le voleva bene!” Il caso fu chiuso, ma su come Franca si sia procurata il capello e le impronte di Mina rimase per sempre un mistero…

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La donna col camice bianco Silvia DeCarli

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hi è Michela? Non è una ragazza qualunque, ma insomma, nemmeno così stravagante. Lei è semplicemente una liceale, carina, con gli occhi a mandorla azzurri e i capelli neri lisci che le cadono sulle spalle palestrate. Appunto, non è poi così strana, perché si sta giusto preparando per andare a scuola. Ancora il sacco e poi è pronta per partire. Voilà! Come tutti i giorni, Michela prende la sua bicicletta e pedala per tre chilometri verso il liceo San Agostino. Durante il tragitto ascolta sempre la sua bella musica che mai la lascia sola. Michela ama il genere dubstep. Dice che le mette un’energia positiva, in modo particolare alle otto di mattino, quando ancora è assonnata. Quella mattina però si sente strana. Capisce di essere inseguita da qualcosa o qualcuno che non riesce a vedere, ma che sente molto vicino. È una strana presenza che le mette improvvisamente paura e che la spinge a pedalare più velocemente. Delle immagini orribili di morte si proiettano davanti ai suoi occhi. Ma è vero quello che vede e sente? Non lo sa nemmeno lei, ma sa che tutto ciò che le sta succedendo è disgustoso. Michela cerca di pedalare più velocemente per cancellare quelle scene da voltastomaco, i suoi occhi incominciano a lacrimare e le sue gambe ormai pedalano automaticamente senza più sentire alcuna fatica. “Ma quando arrivo? È infinitamente lunga questa 76


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strada” Pensa Michela mentre pedala ad alta velocità. Michela arriva a scuola prima del solito. Non c’è ancora nessuno. Le sue gambe tremano dalla fatica, ma anche dalla paura. Il suo respiro è pesante e spezzettato dai deglutii continui. Finalmente arriva Sara, la sua amica del cuore. Questa sua presenza le dà sollievo. “Cosa c’hai Michi? Sembra che hai visto un mostro!” “L’ho visto sì” Sara non fa caso a questa affermazione e si incammina con Michela in classe. È l’ora di matematica, l’ora più odiata da Sara e Michela. Michela, annoiata a morte, guarda fuori dalla finestra con sguardo assente, ma improvvisamente qualcosa attira la sua attenzione. Una donna con un camice bianco sta camminando avanti ed indietro nel giardino del liceo. Michela incuriosita si avvicina alla finestra per vederla meglio. Con uno scatto furtivo la donna col camice si avvicina al viso di Michela, quasi a sfiorarlo. Michela si protegge mettendo le mani sul viso e quando le toglie la donna è già sparita. Ma chi è quella donna? Perché è vestita con un camice bianco? E perché non indossa le scarpe? Come ha fatto a spostarsi così velocemente dal giardino alla finestra della classe di matematica? Michela si risiede ancora col fiatone. Sara si avvicina chiedendole cosa le è successo. “Michi, tutto bene? Sei strana oggi!” “Quella donna, l’hai vista anche tu? “Quale donna?” “Quella col camice bianco. Mi è venuta addosso ed è sparita.” 77


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“Cosa?” Sara non crede alle parole di Michela, ma decide comunque di sostenerla. Michela non avrebbe pensato di poter vedere le persone camminare così velocemente. E poi quella donna è così pallida! Ed il freddo che ha provato quando ella si è avvicinata a lei, quello è un freddo che mai scorderà! “Sara, vieni con me!” “E la lezione di mate?” “Chi se ne frega della lezione, tanto è noiosissima. Devo scoprire chi è quella donna!” “Ma sei pazza?” “Ti fidi di me? Io l’ho vista, forse tu no, ma credimi, io l’ho vista!” Michela e Sara dicono al professore che vanno al gabinetto ed escono quasi correndo dalla porta. “Oddio Sara, quel freddo. Ho sentito un gelido vento quando lei si è avvicinata a me!” “Ma di cosa stai parlando?” “Tu non vuoi capire, io ho visto una donna col camice bianco, pallida in volto, sembrava morta.” “Tu mi fai paura, Michi!” “Andiamo in giardino, forse la rivediamo!” “Ok.” Arrivate, Michela e Sara aspettano che la figura ritorni, ma non si fa viva. “Michi, è da tre ore che siamo qui, per favore andiamo!” “Va bene, andiamo, ma domani ci ritorno ancora io. Forse vuole vedere solamente me.” 78


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“Forse.” Dice Sara guardando Michela come se fosse pazza. “Tu pensi che io sia pazza, lo so!” “Michi, io non vedo nessuna donna col camice bianco, cosa vuoi che pensi?” “Ok, allora continuerò da sola. Non ho bisogno di te.” “Scusami, ma non capisco che cosa vuoi sapere.” “Nemmeno io lo so, ma venendo a scuola in bicicletta mi sono apparse agli occhi immagini crudissime, di morte. Ecco perché ero così agitata.” “Capisco, ma non voglio entrare in questa storia. Mi fa troppo paura. Perdonami!” “Non fa nulla, ma se scoprirò qualcosa mi dovrai regalare quel cd dubstep che mi piace tanto!” “Sarà fatto!” Michela il giorno seguente nemmeno va a scuola, ma decide di presentarsi nel giardino del liceo, dove il giorno prima ha visto la donna col camice. Le ore passano, ma nessuna traccia di lei. Ad un certo punto però Michela sente dei brividi alla schiena. “È arrivata” Pensa impaurita. Si guarda attorno e finalmente la vede sulla sua destra che la guarda in modo assai arrabbiato. “Tu mi devi aiutare” Dice spostandosi furtivamente da un posto all’altro. “Ti aiuto, ma dimmi chi sei prima”. “Questa scuola è maledetta! Non ci andare più!” Urla a Michela con forte rabbia. “Cosa sei? Chi sei?” “Io… oh, io sono Michela.” 79


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“Hai scelto me, perché mi chiamo come te?” “Esatto! Tu potresti aiutarmi” “Che cosa sei?” “Sono un fantasma oramai! Questa scuola ha un passato colmo di violenza!” “Raccontami ti prego!” Chiede Michela incuriosita. “Questa prima non era una scuola. Era un ospedale psichiatrico. Qui venivano torturati i malati mentali.” “Tu eri una malata mentale?” “Certo che no!” “Io ero colei che avrebbe dovuto torturare la gente, ma mai l’ho fatto. Io ero colei che liberava questa gente!” “Come mai sei un’anima così agitata?” “Perché mi hanno torturata ed uccisa selvaggiamente! Ti prego aiutami a punire una persona.” “Chi?” “Quella persona è ancora in vita e lavora nella tua scuola.” “Chi è?” “Il direttore.” “Il direttore? Che cosa gli devo fare per rimandarti in pace?” “Ucciderlo, devi ucciderlo!” Dice a Michela con gli occhi rossi dalla rabbia. “Ma stai scherzando? Io non uccido nessuno! Non riuscirei ad uccidere nemmeno una mosca!” “Tu fallo, altrimenti sarai perseguitata per tutta la tua vita.” “È tutto una grandissima cazzata! Lasciami in pace e sparisci dalla mia vita.” 80


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La donna si avvicina penetrando aggressivamente in Michela. Michela si piega indietro. Le sue braccia si tendono all’indietro e il suo corpo si inarca. Michela è ora diventata la donna col camice bianco, assetata di vendetta. La donna col camice bianco entra nella scuola sbattendo violentemente la porta. Si incammina furiosamente verso l’ufficio del direttore. Non appena lo vede lo prende per il collo e lo solleva di peso. Nel frattempo, incuriosita dallo strano rumore, la segretaria chiede cosa sta succedendo. Non ricevendo risposta decide di andare a vedere. La donna col camice bianco sbatte violentemente al suolo il direttore che, con l’impatto al suolo, muore all’istante. La segretaria decide di aiutare il direttore ma la donna si gira velocemente bloccando con lo sguardo la porta dell’ufficio. Il direttore viene ripreso di peso e lanciato contro la scrivania che si spacca a metà non appena il corpo oramai già senza vita la raggiunge. Il viso dell’uomo viene poi così strappato orribilmente, gli occhi presi e gettati a terra, ed il cuore, oramai fermo, afferrato di forza dal suo petto ed utilizzato come trofeo dalla donna. Michela non capisce che cosa sia successo. “Cosa è tutto questo sangue?Oddio!” Urla tutta spaventata Michela. La segretaria finalmente riesce ad aprire la porta e davanti a lei si estende uno scenario alquanto macabro che la fa vomitare non appena lo vede. “Michela, cosa hai fatto?” Dice riprendendosi dai conati di vomito. “Nulla, è stata lei! La donna!” Dice indicando con l’indice verso il cielo. 81


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Il segreto di nonna Caterina Marianna Beltrami

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avoli, nonna! Ma la dovevi proprio tenere tutta sta’ roba? – brontolo a voce alta. Nonna Caterina era morta da sole tre settimane e, quale unica erede in buona salute, toccava a me vuotare la grande casa. A dire il vero la villa l’avrei tenuta più che volentieri ma, con tutti i lavori di manutenzione che c’erano da eseguire e con quei due mostri succhia sangue ancora agli studi, una casa così non potevo permettermela. – Certo che il Corticiasca è proprio un gran rompi, poteva almeno concedermi qualche settimana in più. Invece no, il signore la vuole subito la casa. – proseguo sempre più scazzata. – Povera Alice, mi sono ridotta a parlare da sola, si vede proprio che sono conciata male. – Il Corticiasca sarebbe il medico di nonna Caterina, una brava persona per carità, anche se un tantino troppo precisino per i miei gusti. – Completamente svuotata e pulita! – sbuffo, ripetendo le parole del medico. – Come se fosse facile. D’accordo, i clienti non si trovano sotto i cavoli però che palle. – Avevo deciso di incominciare a svuotare la casa dalla soffitta e, in due ore, mi ero già liberata di un bel po’ di cianfrusaglie. Con la nonna non si poteva mai sapere, aveva il vizio di nascondere soldi ovunque e quindi ogni cosa andava controllata.

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Srotolo un tappeto che libera una nuvola di polvere scura e mi trovo fra le mani una scatola di latta rettangolare che era stata nascosta al suo interno. La vecchia scatola di Leckerli di Basilea custodiva un quaderno ingiallito dal tempo. Un diario vergato da una calligrafia ordinata, quasi infantile. Mi accomodo su di un baule e incomincio a leggerlo. Una giovanissima nonna Caterina raccontava di un misterioso amore che però, facendo i dovuti calcoli, non poteva essere il nonno. Ho sempre detestato gli impiccioni e ficcare il naso nella vita privata della nonna non è propriamente molto corretto, tuttavia . . . non riesco a smettere. Guardando con attenzione scopro che il misterioso amore della nonna incominciava con la lettera S, il resto era stato cancellato. Poco più che adolescente lei, uomo maturo, sposato con figli lui. Poi, fra le pagine del diario, tovo un ritaglio di giornale conservato chissà per quale motivo. – In data 16 novembre 1937, nella Scuola maggiore e di disegno di Curiasca, nell’aula al primo piano, è stato rinvenuto il cadavere di un neonato di appena poche ore. – leggo tutto d’un fiato. Dal trafiletto risultava che ad avvisare la polizia era stato un certo Giovanni Mergoscia, bidello e tuttofare del comune. Nessuna traccia dei genitori. Incollata a metà quaderno una busta color crema; al suo interno vi sono quattro capelli chiari, sottili, sottili. Quindici pagine di diario piene di ardore e di passione che terminano improvvisamente con un ritaglio di gior83


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nale ed una busta. Poi più nulla, il vuoto. Io seguito a riordinare ed a rimuginare per tutta la giornata. La notte dormo poco e male, la mia testa di cavolo è sempre fra le pagine di quel diario che non avrei dovuto leggere. La mattina mi alzo di buon’ora, spedisco i due mostri alle medie ed al liceo e ritorno alla villa. A pranzo rimangono in mensa, quindi ho tutta la giornata a disposizione. A mezzogiorno non ce la faccio più. Tormentata più dalla curiosità che dalla fame, decido di scendere all’Osteria del Pepp. Per arrivare all’osteria, passo davvanti alla Scuola maggiore e di disegno che è in seguito diventata la Casa comunale. A gestire l’antica osteria ora è il Massim, il figlio del Pepp che d’estate si gode il sole nella cascina di Miglieglia. Come mi aspettavo, accanto al biliardo trovo l’Idelma, la mamma del Massim. Generalmente faccio di tutto per evitarla ma questa volta ho bisogno di lei. Lesta di lingua e fine di testa, l’Idelma è la custode delle memorie o, meglio ancora, dei pettegolezzi del Malcantone. – Da la nona Caterina o trovat... – poi proseguo in italiano perché con il dialetto mi incasino facilmente. – Un articolo di giornale del 1937, parla di un neonato trovato morto. – L’Idelma ha un sussulto. – Brüt rop, brüt rop! – risponde. E stranamente, da parte di una pettegola del suo calibro, non aggiunge nessun dettaglio. Siccome io sono una che non molla provo a chiedere del Mergoscia, il bidello e tuttofare comunale. Di nuovo 84


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l’Idelma si rifiuta di risponderle. Ora è il Massim a spiegare che il Mergoscia, detto – ul Bianchin – per via del suo particolare attaccamento alla bottiglia, da anni risiede alla vicina Casa per anziani. Le parole non dette dell’Idelma hanno attizzato ancor più la mia curiosità. Di risalire alla villa non ne ho voglia, perciò decido per una visita alla Casa per anziani. Della nonna Caterina, –ul Bianchin– se ne ricorda benissimo, quando però provo a chiedere del neonato del 1937, incomincia ad innervosirsi e un’infermiera è costretta ad intervenire. Ul Giuvann ora è stanco ed agitato e io sono gentilmente invitata ad andarmene. Sono già alla porta quando il Mergoscia, parlando quasi a sé stesso, farfuglia: – Spartaco! – La voce è affaticata ma comprensibile. Poi l’infermiera gira la sedia a rotelle e l’uomo sparisce definitivamente dalla mia vista. Istintivamente collego il nome Spartaco con la S corrispondente al misterioso amore della nonna. Scendo verso al paese e, con la scusa di salutare la nonna, passo al cimitero. Di defunti di nome Spartaco al cimitero ve ne sono tre: due troppo anziani e uno che può essere stato l’amore maledetto della nonna. Spartaco Torriani se n’è andato nel 1943 e, sulla sua tomba da galantuomo, un epitafio sbiadito ma ancora leggibile che da solo mi fornisce tutte le informazioni che ancora mi mancano: – Qui giace Spartaco Torriani, maestro elementare, marito devoto e padre esemplare – Ora sono davanti alla tomba dove, tre settimane prima, nonna Caterina era stata seppellita. Fisso la croce 85


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provvisoria in legno che più avanti verrà sostituita con la lapide definitiva. Le dedico un pensiero carico di nostalgia poi, con le mani nude, raccolgo una manciata di terra che infilo in un provvidenziale sacchetto di plastica. Con il sacchetto della Coop, scendo fino a quella che era stata la Scuola maggiore e di disegno. Là, spargo la terra nell’aiuola attigua all’edificio. Un gesto sicuramente inutile ma per me simbolico. – Che almeno la stessa terra vi unisca. – mormoro. – Madre e figlio, separati nella vita uniti nella morte. – aggiungo, ripetendo una citazione conosciuta e letta chissà dove. Sono molto stanca e decido di andarmene a casa, tra poco arriveranno i mostri. Un alito di vento mi scompiglia i capelli, una brezza gentile che ha la delicatezza delle carezze di nonna Carolina, una donna buona e gentile che non merita di essere giudicata. – Non ti preoccupare nonna, manterrò il tuo segreto. – Domani avrei distrutto il diario, così doveva essere, così aveva voluto la vita.

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Noir a scuola Sabrina Mariani

Ore 8:00 ierino Paolino era un alunno della 2 F. Come tutti i lunedì a quell’ora Pierino si preparava ad entrare a scuola. Pierino era felice, quel giorno sarebbe stato interrogato in storia, si era preparato benissimo: aveva studiato per circa 3 ore, aveva così tanto ripetuto le stesse 3 pagine che le aveva imparate a memoria. Pierino, anche se sapeva la lezione benissimo, era un po’ preoccupato, infatti, il venerdì precedente Pippo, suo compagno e stretto amico, era stato interrogato in geografia. Pippo era molto agitato e, per sbaglio, disse aragosta a posto di Aragona. La prof. Fiorito si era molto arrabbiata e gli aveva messo 4. “E se succede anche a me ?” pensò Pierino. La campanella squillò e Pierino si mise a correre nel corridoio: voleva arrivare per primo, si sarebbe nascosto e avrebbe fatto uno scherzo a qualcuno. Appena entrò Pippo, Pierino, che si era nascosto dietro la porta, urlò “Buh” e Pippo fece un grido, poi i due si misero a ridere. Aspettando Caio, il professore di religione, Pierino si mise a chiacchierare con Sempronio del derby, se fosse più forte la Roma o la Lazio. Dopo un minuto Pierino capì che Sempronio non capiva nulla di calcio... Alle 8:10 arrivò Caio che fece una lezione sull’induismo ma Pierino capì poco: aveva la testa piena di mille pensieri, si ripeteva continuamente la lezione di storia .

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Ore 9:10 Pierino alle seconda ora aveva la verifica di arte che consisteva in un disegno. Pierino non era proprio preoccupato della verifica di arte, era bravissimo in disegno, secondo la Lampolla era il miglior alunno che aveva mai avuto nella sua carriera di insegnante. Pierino era orgoglioso di andar bene in arte, poteva dire“ Sì, io sono bravo in almeno una materia”. Paolino,infatti, nell’altre materie aveva la media del 6. Pierino prese 10 e lode al disegno,ma gli importava poco. Ore 10:10 Ricreazione Pierino si divertì molto a ricreazione: giocò con Pippo e con Giovannino a tennis con una pallina di carta crespa, vinse tutte e due le partite 5–3 ottenendo il titolo di miglior giocatore al mondo di Cart–tennis (così Pierino aveva chiamato il gioco) . Ore 10:20 Finalmente era arrivata l’ora di storia, ad Pierino era arrivata la pelle d’oca quando entrò la Fiorito “Buongiorno” dissero in coro gli alunni della 2 F. La Fiorito, molto frettolosa, si sedette e disse “Cominciamo con Sto.”. La Fiorito tagliava in due i nomi delle materie “Che razza di professoressa di italiano è?” si chiedeva Pierino. “Pierino vieni !”. Pierino, molto lentamente, si avvicinò alla cattedra. “Hai studiato?” chiese la professoressa. “ Si, signora professoressa” disse Pierino con voce bassa. Cosa gli avrebbe chiesto la Fiorito? Pierino pensava che gli avrebbe domandato date, approfondimenti, 88


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approfondimenti degli approfondimenti …Pierino deglutì. “ Qual è la capitale dell’impero romano d’oriente?” “ E’ Costantinopoli” disse Pierino con molta sicurezza: era per lui una domanda facilissima . “ Bene, Paolino, prendi una caramella, sono contenta di questa buona interrogazione” “ Tutto qua?” pensò Pierino, 3 ore di studio e tante preoccupazioni per una interrogazione di un minuto e 30 secondi! “Vabbe ho vinto una caramella e ho preso un buon voto” si disse fra sé. Prese la caramella e se la mise in bocca, era buonissima. Pierino ne voleva delle altre per quanto erano buone e allora fece una cosa per cui ebbe rimorso per tutto l’anno: mentre nessuno guardava prese la busta delle caramelle e la mise in cartella. Ore 10:55 “Aspetta Martina che ti metto il voto, dove è la mia penna ? Aspetta ce l’ho nella borsa.” Disse la professoressa. Pierino estrasse una penna rossa dall’astuccio e corse verso la professoressa. “ Usi questa signora professoressa” . “ Non ti disturbare Paolino, prendo la mia” rispose lei. Pierino cominciò a pregare. La Fiorito prese la penna mise il voto a Martina (9) e non disse nulla . Evidentemente non aveva notato l’assenza della busta contenente le caramelle. In quel momento squillò la campanella e la Fiorito uscì dalla classe. Pierino si sentiva sollevato, fosse stato scoperto molto probabilmente avrebbe preso una 89


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nota, ma l’aveva fatta franca. Ma, proprio in quel momento rientrò la Fiorito e disse: “Ho dimenticato le caramelle sulla cattedra” ma appena vide che sulla scrivania non c’era la busta delle caramelle capì che qualcuno le aveva prese . Pierino ansimava. Sapeva di non aver nessuno scampo: la professoressa l’avrebbe scoperto. “ Per l’ultima volta, chi ha preso le caramelle, se chi ha commesso il crimine si fa avanti non gli metterò la nota”. Ma Pierino non aveva il coraggio di farsi avanti, aveva imparato da Sherlock Holmes che, di solito, il criminale dirige le ricerche del crimine da lui stesso commesso in modo di incolpare qualcun altro. “Signora professoressa credo di sapere chi è il colpevole. Ho diversi candidati, secondo me o è stato Gianni o Filippo o il nostro nuovo compagno Arcibaldo. Gianni non può mangiare zuccheri, infatti, la madre non vuole perché si eccita troppo. Ma ora, la mamma non c’è quindi secondo me ha preso una caramella e se l’è mangiata e preso dalla frenesia si è mangiato tutta la busta. Poi Filippo come tutti sapete, è un golosone mentre Arcibaldo ha tendenze a rubare”,“Controlliamo nei loro zaini” urlò Francesco. Ma, come sapeva benissimo Pierino, nei loro zaini non c’era nulla . Pierino conosceva bene la Fiorito, sapeva che la professoressa sarebbe andata in fondo con la storia, decise di confessare. “Professoressa lo confesso sono stato io a rubare 90


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quelle buonissime caramelle, sono come la droga, mi scuso con tutta la classe, ma erano così buone e ne volevo prendere solo due o tre, non sono riuscito a resistere, ma appena mi sono seduto al mio banco, sentivo una sensazione che non avevo mai provato, forse era questo il senso di colpa mi ero chiesto. Era la prima volta che lo sentivo, ho avuto molto rimorso,soprattutto quando ho incolpato ingiustamente i miei compagni”. Ora può anche mettermi la nota, ho fatto una cosa sbagliata, è giusto che paghi”. Finito di parlare Pierino si risedette al suo banco. Appena Pierino finì, qualcuno applaudì gridando: “Bravo, hai fatto la cosa giusta”: “Bravo Pierino che hai confessato per questo non ti metterò la nota” Pierino promise, che da quel giorno, non avrebbe mai più rubato. Morale: chi commette un peccato o una cosa brutta, se si pente, sarà perdonato da Dio e da tutti.

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Noir a scuola Dotta Cheyenne

Il direttore della Maiflorini era l’uomo più temuto della zona. Aveva due grossi baffi neri sotto il naso e la sua voce roca, come venuta dalla gola di un morto, faceva sobbalzare l’intero istituto. Se ne stava tutto il giorno appisolato sulla sua sedia di pelle animale sonnecchiando, ma non appena scopriva una cicca spiaccicata sul piazzale o un graffito sui muri dell’istituto diventava una belva. Jimmy Paterson era un ragazzino spiccio, senza amici, ed era talmente impopolare che viveva nell’oblio dei suoi compagni di classe e dei maestri. E quando venne chiamato in direzione per il controllo medico annuale, quel pomeriggio, nessuno si accorse del ragazzino che usciva silenzioso tremando come una foglia. Entrò dalla porta cigolante e prese posto alla cattedra . Lo studio era ricoperto dalla polvere perché anche il bidello aveva il terrore di entraci a pulire; sugli scaffali troneggiavano pile di richiami e sulle pareti filanti ragnatele. A un tratto la lampadina lampeggiò e infine si spense lasciando la direzione alla tenue luce del sole nascosto. Già da giorni faceva così e il direttore aveva chiamato l’elettricista che doveva arrivare a momenti. Poco dopo la segretaria spalancò la porta avvisando Jimmy che il direttore era andato ad accogliere l’elettricista e poi se ne andò . Jimmy cominciava ad avere la gola secca per l’agi92


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tazione e sul tavolo c’era un invitante bicchiere d’acqua. Spinto dalla sete lo trangugiò. Poco dopo la segretaria irruppe di nuovo nella stanza ma prima che potesse dire qualsiasi cosa lanciò un urlo lacerante …– Qualcuno chiami il medico! – La sagoma del ragazzo privo di sensi era distesa sul grigio pavimento. Fuori regnava il caos, i professori si erano accalcati l’uno sull’altro per vederci qualcosa e gli allievi arrampicati sulle loro schiene come selvaggi. Finalmente arrivò il medico che si fece spazio nella mandria e riuscì a sbatterle la porta in faccia. Quando uscì, il suo volto faceva pensare al peggio… Vi furono diverse indagini da parte della polizia che però non condussero a niente. Due mesi dopo l’incidente, la donna delle pulizie si apprestava a pulire i vetri dell’ufficio del direttore dopo esattamente due mesi che non lo faceva più. Stava travasando il prodotto quando una goccia traboccò dal contenitore che corrose la cattedra creando un buco. La donna sbiancò in volto e il giorno dopo si licenziò…

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Ti amo da morire Boris Cambrosio

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uella mattina il clima all’interno dell’aula era teso. Gli studenti iscritti alla Facoltà di medicina del Polo Universitario di Bellinzona avrebbero assistito alla loro prima autopsia. Alcuni avevano accuratamente evitato di fare colazione, non sapendo come avrebbero reagito alla vista di quanto il professor Nicola Lobisturi avrebbe compiuto. In questo caso il sistema nervoso parasimpatico avrebbe potuto avere reazioni che di simpatico poco avrebbero avuto. Il nome del professore però aiutava, e non poco, a sdrammatizzare la tensione. Gli allievi dicevano del professor Lobisturi che fosse tagliato per il lavoro che si era scelto, ed egli stesso non poche volte aveva la battuta pronta, soprattutto durante le lezioni anche quella mattina decise di calcare la mano sulla sua vena sarcastica. “Bene ragazzi, affronteremo oggi un passo fondamentale della vostra formazione. L’autopsia che andrò a compiere in vostra presenza dimostrerà quanto una persona possa essere bella dentro, anche se non baderemo all’estetica. Se qualcuno di voi è del segno zodiacale dei pesci potrebbe anche giovarne, poiché la patologia è una branchia molto importante della medicina. Essa ci permette di aprire gli occhi, oltre che i corpi, sulle cause e le origini delle patologie ancora non completamente svelate in tutto il loro essere. Dirò di più: colui, o colei, che andremo ad esaminare autopticamente, nella maggior parte dei casi è una per94


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sona con una formazione non accademica. Hanno scelto di donare il loro corpo alla scienza, così almeno si può dire di loro che sono stati all’Università.” Nell’aula risuonò una risata, ma nemmeno tanto fragorosa. “Siete pronti?... Bene. Andrò ora a prendere in cella frigorifera un corpo privo di vita, ma non agitatevi; salma e sangue freddo.” Solo il professore trovò divertenti queste parole. Quando il professor Lobisturi ritornò dopo pochi istanti, il silenzio in aula era aumentato di intensità anzi, di volume. Le ruote del carrello sottolinearono l’entrata dello stesso con un cigolio. Una volta posizionatolo dinanzi a sé, ancora una volta il professore non rinunciò ad alleggerire la situazione e, parafrasando Mel Brooks, disse: “Si – può – fare!” Alzando il lenzuolo per scoprire il corpo senza vita destinato all’autopsia dimostrativa, il professor Lobisturi non compì il gesto integralmente. Rimase con il braccio destro immobile a mezz’aria, e sul suo volto si dipinse un’espressione meravigliata, ed allo stesso tempo stranita ed interrogativa. Esitò a riporre il lenzuolo sul corpo e, mostrando un aplomb molto professionale, con voce ferma e vuota di coinvolgimento, rivolgendosi agli allievi disse: “Abbiamo un problema.” L’attenzione ed il rispettoso silenzio degli studenti s’interruppe con un mormorio, rappresentato da un immaginario punto di domanda sulle loro teste. 95


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Quando poi gli stessi studenti vennero fatti uscire dall’aula, nei corridoi già c’era una certa agitazione fra i presenti, in testa a tutti il Rettore dell’ateneo che non smetteva di credere a quello che il professor Lobisturi gli raccontava in merito a quanto successo. Meno di 20 minuti più tardi la polizia e le autorità inquirenti erano già sul posto, ed iniziarono a circolare le prime voci su quanto accaduto. In sostanza il corpo rinvenuto sul carrello autoptico non era di un volontario che si era donato alla scienza, bensì di una persona a tutti conosciuta ed alle dipendenze dell’Università. La segretaria di direzione Annie Chilita. Un’affascinante donna di trent’anni compiuti da poco, dai capelli biondi come il grano, e dai modi dolci e cordiali. Svolgeva il suo lavoro con passione e competenza, ed era da tutti ben voluta. Apparve evidente ai più che potesse trattarsi di un delitto. A nessuno sfiorava l’idea che una donna tanto sorridente e serena, così almeno appariva Annie agli altri, si fosse tolta la vita; e in effetti non era accaduto anche perché il corpo era intero. Agli inquirenti due particolari apparvero interessanti per il prosieguo delle indagini: gli indumenti e gli effetti personali della vittima vennero ritrovati in un comparto a estrazione della cella frigorifera; inoltre rilevarono delle macchie di sangue pulite sommariamente, sempre all’interno della cella frigorifera. Pensarono quindi che il delitto fosse stato commesso a freddo. In effetti venne riscontrata una profonda ferita di un’arma da taglio sulla schiena. Forse la vittima aveva tentato di fuggire ed è 96


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stata pugnalata alle spalle. Questa tesi era valorizzata dal fatto che non vi erano ferite che facessero pensare che Annie si fosse difesa. Gli indumenti non erano però sporchi di sangue. Annie era nuda quando ricevette la pugnalata. Cosa l’aveva costretta a rimanere senza vestiti in un ambiente freddo come quello della cella frigorifera? Cosa l’aveva spinta a scappare completamente spoglia e poi, per dirigersi dove? Domande che non avrebbero trovato risposta, se non in parte, almeno sino a quando gli inquirenti non avrebbero visionato il contenuto del computer di Annie. Non quello personale, il personal computer, bensì quello al lavoro. Non dava certo un quadro preciso di quanto successo, ma era chiaro che il movente era stato passionale. Messaggi nella chat del suo indirizzo di posta elettronica che non celavano dubbio alcuno su quanto avvenuto la notte precedente. La chiacchierata internautica era avvenuta con un altro utente. Il nickname era Charlie Chatlin, ed era evidente vi fosse una relazione fra Charlie ed Annie. Messaggi che non davano spazio a dubbi che fra i due vi era una relazione intima, molto intima. Gli ultimi messaggi davano indicazioni chiare. Charlie Chatlin: “Ogni giorno ho sempre più il desiderio di stare con te <3” Annie: “Il tuo calore mi scalda l’anima <3 Ho voglia di stringerti <3” Charlie Chatlin: 97


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“Anche tu mi scaldi l’anima <3 e il cuore <3 Vediamoci stasera <3 Vediamoci in cella frigorifera” Annie: “Brrrr… già mi vengono i brividi :) ” Charlie Chatlin: “ :) A stasera <3” Annie: “A stasera <3 Ti amo da morire <3” Mai parole furono più profetiche.

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Noir a scuola Piero Combi

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acconto tratto dalla mia esperienza nella modesta aula di frazione di un paese nel mendrisiotto. correvano gli anni 60 andavamo a scuola elementare.una trentina di alievi dalla prima alla quinta maschi e femmine in aula mista non era facile ma eravamo felici e contenti .tutto filava dritto giunti a fine autunno le giornate cominciano ad accorciarsi e si stava volentieri al coperto di quel locale che era riscaldato con una pignia a legnia che per resistere ci tenevamo stretti a volte con il fumo che bruciava gli occhi.una sera mentre uscivamo per rincasare notiamo un auto che si ferma nel piccolo piazzale con uno strano personaggio a bordo .il giorno seguente lo rivediamo sempre alla stessa ora e sembra che ci aspetta noi passiamo velocemente per la stradina agricola a quel punto lui scende dalla vettura e ci viene incontro . noi non potevamo in aula perche fermandoci a giocare non ci accorgemmo che la maestra aveva gia chiuso la porta ed era gia andata via .noi ci facciamo coraggio e l afrontiamoma con la paura che ci assale .lui ci intrattiene ofendoci delle caramelle e altri dolci poi ci mostra delle foto ma noi non accettammo niente ma lui insistente ce le mostra .noi rimasti sconvolti il giorno seguente confidiamo tutto ella maestra che interpella le autorita e i gendarmi .il losco personaggio fu assicurato alla giustizia e noi rimanenno scossi e per molto tempo .per ciungere in paese dovevamo attraversare un bosco e la sera le ombre basse degli alberi si allungavano fino a toc99


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carci e ci incuotevano ancora paura.io percorrevo il tragitto tutto di corsa con il cuore che mi arrivava fino in gola .non dimentichero mai questo brutto incontro finoche avro memoria e quando passo in quel luogo mi sembra di di rivivere la scena e credetemi non fu per niente una bella avventura.

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La forza dell’istinto Silvia Tagliabue

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utti stavano rientrando in classe alla fine della pausa mattutina. Angela invece, quando aveva lezione di anatomia, procrastinava sempre il suo ritorno in aula fino all’ultimo momento. Non le piaceva affatto il professore Tagliabue, che tutti chiamavano scherzosamente Tagliatopi. Non sapeva esattamente il perché, era solo una sensazione che provava quando lo vedeva e dover ascoltare la sua voce per cinquanta lunghi minuti era un tormento. Nessun’altra persona le aveva mai provocato questi sentimenti e sapeva anche che erano contrari ad ogni logica giacché il professore si era sempre comportato normalmente. Alla fine si decise ad entrare nell’edificio e si avviò verso l’aula di scienze. Mentre percorreva il corridoio, ormai quasi deserto perché la maggior parte degli allievi sedeva già al proprio posto e si accingeva a seguire la prossima ora di lezione, la sensazione spiacevole si acutizzo ancor di più chiudendogli lo stomaco come una tenaglia. Provava un misto di ansia e paura che le gelava le mani e la faceva sudare freddo. Si sforzò allora di dare retta al suo buonsenso che in quel momento lottava per farsi udire e, ripetendosi per l’ennesima volta che non stava correndo alcun pericolo, varcò la porta del laboratorio di scienze. Quando guadagnò in fretta il suo posto il professor Tagliabue, che aveva già cominciato la lezione, interruppe la sezione di quello che era stato un topolino 101


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bianco per guardarla ed inarcare un sopracciglio. Anche se tutto durò solo un paio di secondi, lei ne fu completamente scombussolata e non riuscì più a concentrarsi per tutta l’ora che seguì. Si sentiva quei suoi occhi penetranti sulla pelle, anzi si sentiva trapassata e sezionata da quello sguardo. Il campanello che segnava la fine della lezione fu liberatorio ed Angela, che era stata l’ultima ad entrare in aula, fu ora la più lesta ad andarsene. Mentre rincasava valutò se confidare i suoi timori a sua madre, ma più ci pensava e più si convinceva che sarebbe apparsa ridicola o tutt’al più l’avrebbe fatta parlare con qualche psicologo e lei di strizzacervelli non voleva più saperne, aveva già avuto a che fare con loro quando la sua migliore amica Elisa era scomparsa sei mesi prima nel nulla e nemmeno la polizia aveva saputo rintracciarla. Non aveva altre amiche con cui confidarsi come faceva con Elisa e quindi adesso si teneva tutto dentro. Con Elisa aveva condiviso segreti, amori, paure e compiti, questi ultimi più che condividerli, se li faceva fare da lei che era la più brava della classe. Decise che quella sera avrebbe messo fine una volta per tutte a quel malessere che provava nei confronti del Tagliatopi. I suoi genitori erano invitati da amici, inoltre c’era il consiglio di classe per la fine del trimestre e il professor Tagliabue sarebbe stato occupato a scuola fin verso le dieci, o almeno così sperava. Verso le sette quando i genitori uscirono, Angela si mise le scarpe e una giacca scura, prese il suo coltellino svizzero e una torcia e partì alla volta dell’abitazione del professore. Percorse il tragitto cercando di restare calma 102


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e pensando che se avesse visto con i suoi occhi che quella casa non nascondeva nulla di brutto, forse avrebbe vinto la sua irrazionale paura. Il professore abitava in una casetta di un solo piano, circondata da un piccolo giardino trascurato, che offriva diversi possibili punti d’accesso. Angela trovò una finestra aperta che aveva però le persiane chiuse. Con l’aiuto della lama del suo coltellino riuscì a sganciare la barretta di ferro che bloccava le due ante di legno. Ora poteva entrare facilmente ma il cuore cominciò a martellarle in petto e il respiro divenne affannoso. Le ci vollero dieci minuti buoni per calmarsi e vincere la tentazione di darsela a gambe. Continuava a ripetersi che il consiglio di classe era di sicuro ancora in pieno svolgimento e quindi lei non correva alcun pericolo. Scavalcò il davanzale e si ritrovò nella stanza da letto del professore. Poi in un corridoio su cui davano alcune altre porte. Percorse tutte le stanze velocemente per avere un’idea globale dell’interno dell’abitazione. Oltre che dalla camera da letto, il piano terra era composto da un elegante soggiorno, una ampia cucina, uno studio– biblioteca, un bagno e un ripostiglio. Angela vide delle scale che portavano a quello che avrebbe potuto essere un solaio, visto che il tetto era a falde spioventi e lasciava quindi lo spazio per un locale mansardato. Cominciò a salire i gradini e man mano che avanzava sentiva le gambe farsi molli e la paura impadronirsi della sua mente. Quando arrivò davanti alla porta di legno provò ad aprirla ma era chiusa a chiave, accese la torcia per esaminare meglio la serratura perché in quell’angolo 103


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la luce del corridoio sottostante arrivava appena. Notò allora un chiodo sulla parete da parte alla porta dove stava appesa una chiave. Con mano tremante prese la chiave, la inserì nella serratura e girò. La porta si aprì cigolando e lei venne investita da un tanfo nauseabondo di escrementi di animali. Illuminò l’interno della stanza e scoprì centinaia di gabbiette contenenti migliaia di cavie bianche da laboratorio e poi, in fondo al locale, sotto ad un tavolo scorse una figura di una ragazza che dormiva raggomitolata per terra. Il suo cuore saltò un battito, ma questa volta di felicità. Si trattava della sua amica Elisa scomparsa. La svegliò, si abbracciarono piangendo e uscirono in tutta fretta da quel lugubre posto. Il professor Tagliabue venne arrestato quella sera stessa e si venne a sapere che aveva rapito la ragazza per avere una brava aiutante che badasse alle sue cavie che vendeva illegalmente a laboratori scientifici di ditte farmaceutiche internazionali. Elisa era sopravvissuta in quel solaio tutti quei mesi mangiando solo qualche pezzo di pane e qualche topolino che arrostiva con un becco bunsen. Quando la polizia chiese ad Angela come avesse fatto a capire che la sua amica si trovava in quella casa, lei rispose che aveva semplicemente ascoltato il suo istinto.

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La vittima Daniele Spasciani

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n dolore acuto gli trapanava il cranio. Attorno, il buio. Poteva distinguere solamente la sottile linea di luce che filtrava sotto la porta. Gli oggetti che lo circondavano erano tutti dello stesso colore e sfumavano per gradi allontanandosi dalla fonte fioca. Il tatto lo avrebbe guidato non appena avesse raggiunto la consapevolezza del luogo in cui giaceva, prono, su una superficie dura ed irregolare. Le fitte non erano localizzate in un punto soltanto, dopo il risveglio dal sonno malato poteva percepire fastidiosi spasmi ovunque sul suo corpo immobilizzato. Non aveva memoria di quanto gli fosse successo. Quanto era restato in quella posizione? Perché sdraiato? Qualcosa nelle sue sinapsi aveva fatto cilecca. Con grande difficoltà liberò la mano destra e si toccò la testa. Una protuberanza umida. Portò l’indice alla bocca. Sulla lingua il gusto dolciastro del sangue. Ripulì le dita sui pantaloni della tuta da ginnastica. Tentò di alzarsi, ma le caviglie erano bloccate. Un peso le stritolava. Si sollevò sulle braccia. La base d’appoggio sfuggì e ricadde sui gomiti battendo la faccia su una sfera liscia. Cuoio. Una palla. Una palla da pallavolo. Sfilò i piedi e udì il tonfo sordo del trampolino sul pavimento. Eretto, ma ancora instabile, si mosse zoppicando verso il filo luminoso. Tastò in cerca della maniglia. La trovò e fece leva più volte con energia. Niente da fare. L’anta era massiccia, non sarebbe stato in grado di buttarla giù a spallate nelle sue condizioni. Doveva gridare, qualcuno 105


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lo avrebbe sentito. Gli uscì dal petto un ruggito sovraumano, selvaggio e disperato. Sputò per terra i grumi di sangue che dal naso gli erano scesi nella cavità orale. Si schiarì la gola e urlò ancora! Si trattava di inspirare e buttar fuori tutto il fiato con violenza. Se solo a scuola ci fosse stata un’anima, sarebbe stato subito soccorso. Il quadrante illuminato dell’orologio gli diceva che studenti e professori dovevano essere a casa già da un pezzo. Dov’era il custode? La signora dell’impresa di pulizie? Urtò gli scaffali. Un cesto si rovesciò e le clavette lo investirono. Imprecò picchiando i palmi sul muro. Si asciugò il sudore con la prima cosa che trovò in tasca. Sembrava cotone leggero. Il bordo era ruvido, graffiava. Un altro tentativo, si disse. Decise di strillare come se gli stessero strappando la pelle di dosso. D’un tratto ci fu un armeggiare di chiavi, poi un fascio bianco lo accecò. Grazie al cielo! Pensò barcollando qualche metro sul campo da basket della palestra prima di lasciarsi crollare su un materassino dimenticato sulla lunetta dei tiri liberi. – Professor G., si sente bene?– la donna si era inginocchiata su di lui. – Non lo so. Io… Io ho un gran mal di testa, e… Diavolo! Non capisco, non capisco proprio… – Vado a prendere bende e disinfettante in infermeria. Stia fermo dov’è.– disse la collega P. trottando verso le scale Aveva i brividi. Una strana paura si insinuava nei meandri della sua mente ancora obnubilata dal colpo feroce. Già, era stato attaccato ed era svenuto. La ragione affio106


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rava gradualmente, la dinamica dell’aggressione subita sarebbe lentamente risultata più nitida. La polizia. Avrebbe chiamato la polizia. L’autore di quel gesto scellerato non sarebbe scampato alla giustizia. Ne avrebbe ricordato il volto e il nome. Prima del blackout cerebrale le lezioni erano già terminate, una ragazza di quinta B lo stava aiutando nel magazzino. Una biondina. Le nebbie cominciavano a diradarsi. Se solo avesse avuto uno specchio, si sarebbe certamente osservato mentre la smorfia di disgusto andava dipingendosi sul suo volto, rigato di coagulo nero. Il cuore prese a battere rapido. Terrore o rimorso? Forse entrambi. Gli parve di affogare nel fango. Affondò di nuovo le mani nelle tasche. Cotone leggero. Estrasse il ritaglio di tessuto strappato, lo guardò incredulo. Buttò indietro il capo in un gemito. Che imbecille! Si morse il labbro inferiore. Serrò i pugni. Le nocche si imbiancarono. – Mio Dio!– esclamò sgomento. Si sarebbe sciolto in pianto, ma la professoressa era già di ritorno. Una simile debolezza suonava come un’ammissione di colpa. Provò a cancellare il cattivo presentimento di vedere gettati nel baratro dell’infamia anni di onesto lavoro e si rifugiò nella parte che avrebbe da lì in poi recitato per scagionarsi dalle accuse che il futuro gli avrebbe riservato. – Come va?– gli domandò lei. – Voglio andare a casa mia. – Non se ne parla. La porterò all’ospedale. – No. Sto meglio. 107


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– Chi le ha fatto questo? – Nessuno. Sono caduto. Semplicemente caduto. – Non mi inganna! È impossibile che si sia chiuso là dentro da solo.– la donna passava una garza sterile sulla ferita facendogli vedere le stelle. – Piano, per favore. – Mi scusi. Crede di potersi alzare? – Sì. Tutto a posto. Vorrei solo fare una bella doccia e mettere qualcosa sotto i denti. La P. lo squadrò sospettosa. Non c’era nulla di confortante o di materno in quegli occhi. Solo dubbi. Dubbi che avrebbero dato vita a congetture. Le congetture si sarebbero trasformate in pettegolezzi e i pettegolezzi sarebbero giunti alle orecchie di tutti. Scostò bruscamente la mano della professoressa che, vedendosi respinta, ebbe un moto di stizza. – Ma dove va?– urlò a G. che stava dirigendosi all’uscita. – Gliel’ho detto! A casa!– rispose nervosamente l’uomo. – Perché non avverte la polizia? Non le diede retta. Contava di raggiungere in mezzora la sua abitazione. Quella sera avrebbe telefonato ad un suo amico medico per farsi visitare l’indomani. Si sarebbe messo in malattia per un paio di settimane. Non avrebbe sopportato di dover fornire spiegazioni sul suo aspetto ammaccato. Ma la cosa più importante sarebbe stata accendere il caminetto del soggiorno. Il fuoco avrebbe incenerito le mutandine di pizzo e cotone che il professore aveva strappato alla biondina di quinta B. 108


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La scuola si tinge di “Noir” Letizia Galli

Quella notte da far venire i brividi il signor Giacomo andò a portare a passeggio il cane Tobi. Appena fuori dal recinto di casa sua c’era una fitta foresta illuminata dalla luna piena e accompagnata dal rumore assordante dell’ululato dei lupi. Era da più di cinquant’anni che viveva in quella casetta piccola ma accogliente con un cane e sette gatti, erano tutto quello che gli restava. Aveva perso la moglie, Julia, dieci anni prima della tragedia. Lei una gran bella donna, castana con i capelli lunghi, occhi scintillanti verdi, una semplice ragazza che appena vide Giacomo se ne infatuò, fu amore a prima vista. Avevano avuto un figlio, Simon, che a sua volta a 25 anni si sposò e pochi anni dopo nacque Sofia. Giacomo era molto legato a sua nipote, non la vedeva spesso ma tutti i lunedì andava lui a prenderla a scuola, che poco distava da casa sua e insieme facevano merenda, giocavano a carte e si raccontavano tante storie. Ma quel fine settimana qualcosa andò storto. Alla mattina della domenica di carnevale, Giacomo si svegliò e come da sua abitudine scese in cucina per dare da mangiare a Tobi e ai gatti, ma di quest’ultimi ne arrivarono solo quattro. Gli gli altri tre li chiamò tutto il giorno ma a casa non tornarono. Cominciò ad agitarsi, sollecitò subito suo figlio perché venisse ad aiutarlo a cercarli. Magari si trattava di uno scherzo dei ragazzini della scuola, pensò. Niente da fare, i gatti era come se fossero spariti 109


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nel nulla. Passò la notte in bianco pensando a come avessero fatto a scappare, in tanti anni che vivevano lì non si erano mai allontanati, si doveva trattare di qualcosa di più grande e più grave. La mattina seguente andò con Tobi nel bosco vicino a casa a controllare di nuovo. Il tempo passava ed era ora che Giacomo andasse a prendere Sofia a scuola. Raccontò la storia alla nipote e lei gli disse di non preoccuparsi, che avrebbe ritrovato sani e salvi i suoi adorati gattini. Però le venne una strana sensazione. Giacomo intanto passò la settimana insonne, ogni notte faceva la stessa cosa, si addormentava per mezzoretta sul divano poi sentiva dei rumori e di colpo si alzava pensando fossero tornati. Ma quando si rendeva conto che non c’erano diventava sempre più malinconico e angosciato infatti andò un po’ fuori di testa. Era venerdì quando Simon telefonò al padre chiedendo se potesse andare lui a prendere Sofia a scuola. Giacomo era felice di rivedere sua nipote ma era talmente turbato che appena arrivato a scuola sentì miagolare, non si sa se era la sua immaginazione oppure fosse vero. Aprì di corsa il portone principale della scuola e gridò: “Fermi oppure sparo!”. Aveva con se una pistola finta ma gli allievi, tutti tra gli undici e i dodici anni di età, non capirono. Si misero ad urlare e tentarono di rifugiarsi in un’ aula. Giacomo a quel punto prese un ragazzino in ostaggio e si rinchiuse in bagno e sempre con voce tremante e forte gridava: “Ridatemi subito i gatti, non posso vivere senza di loro!” I bambini non sapevano di cosa stesse parlando quando finalmente arrivò la maestra con Sofia, che le 110


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aveva spiegato la situazione. La maestra pensò che l’anziano signore doveva davvero amare molto i suoi gatti per mettere in pericolo la sua vita e quella dei ragazzini. Provarono a farlo ragionare ma non ci fu verso, era cocciuto e spaventato quanto loro. Però nel frattempo in classe arrivò il maestro di scienze che voleva cominciare la lezione; aveva con sé una scatola... Non sapendo chi fosse quell’uomo, tirò fuori un gatto da essa per spiegare ai ragazzini come fosse il corpo umano. Cominciò con un colpo alla nuca e il gatto, ormai privo di vita, cadde. Giacomo a quel punto si accasciò a terra, il suo cuore non era in grado di resistere ad una scena di quel genere dopo che Merlot, uno dei suoi tre gatti spariti, fu rapito come esperimento di scienze. Sofia si accasciò subito verso il nonno, gridando. La maestra chiamò un’ambulanza che in poco tempo era lì. Ma per il nonno non c’era più niente da fare. Arrivò anche Simon, che non riusciva a spiegarsi l’accaduto. Quella notte in cui Giacomo uscì a far la passeggiata con Tobi, furono proprio il maestro di scienze e il suo complice, il giardiniere della scuola, a prendere uno dei suoi gatti. Si intrufolarono lentamente nel giardino di Giacomo, controllando che nessuno li vedesse. Ma essendo una casetta al largo della foresta, quasi certamente nessuno avrebbe visto. Presero dei biscotti per gatti per attirarli. Merlot fu il primo ad avvicinarsi pensando che fosse il suo padrone, era il più piccolo dei sette e ancora doveva imparare a non farsi ingannare dagli umani. Purtroppo ci misero poco a prenderlo, lo posarono subito in una gabbia e in fretta misero in moto l’auto del giar111


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diniere, e via a scuola. Per fortuna che Giacomo era fuori a passeggiare con Tobi e non si accorse di nulla, altrimenti chissĂ cosa sarebbe successo. Nel frattempo gli altri due erano tornati a casa. Si erano allontanati a cercare Merlot, ma purtroppo non lo trovarono. E purtroppo nemmeno il loro padrone era lĂŹ ad accoglierli come solo lui sapeva fare...

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Armadietto 7 Isabella Zappa

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icono che è morto. L’hanno trovato in ginocchio, la faccia nel fango, dietro la scuola. Dicono che ha dei segni sul collo, forse è stato strozzato. La polizia sta interrogando tutti, tutti quelli che potevano avere un motivo per ucciderlo. Ma chi… chi poteva desiderare la morte di un ragazzino? E in un modo così crudele, per di più. …Certo però che Max non era un ragazzino qualunque: non aveva amici, a scuola non ci andava quasi mai, e a dire dei professori i risultati erano pessimi… Una famiglia già seguita dai servizi sociali, la madre che deve fare due lavori, il padre sempre ubriaco… Prima o poi sarebbe finita così, si sente dire… Di certo il professor Borla, il docente di greco e latino, non verserà una lacrima per lui. La settimana scorsa, il professore aveva trovato nella sua cartella una busta di plastica contenente una lingua di maiale ancora sanguinante e il messaggio “a lei che piacciono tanto le lingue morte!”… E lo scorso inverno, rincasando la sera tardi, era stato aggredito alle spalle a colpi di bastone, e solo l’abbaiare dei cani l’aveva salvato… Poi c’è Tobia, un ragazzino di prima, minuto, occhialuto e spaventato, che avrebbe volentieri continuato a frequentare le elementari, se non le avesse terminate… Una volta, dopo la lezione di ginnastica, aveva trovato i suoi occhiali in fondo al gabinetto. Un’altra volta la sua bicicletta spuntava dal container della scuola. Anche lui 113


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sarà di sicuro sollevato dalla fine di queste angherie! Quando hanno girato il corpo hanno visto che dalla bocca gli spuntava qualcosa, un pezzo di nastro, forse. Più tardi l’autopsia rivelerà che è morto per soffocamento: nella trachea c’era una piccola chiave, con la scritta, ancora leggibile, armadietto 7. Le impronte sul collo erano le sue, probabilmente il segno di un ultimo, vano, tentativo di liberarsi… Ma perché un ragazzo di 5° si è messo in bocca la chiave del suo armadietto? L’hanno aperto, l’armadietto. Dentro ci hanno trovato tre libri: una raccolta di poesie di Rilke, la Metamorfosi di Kafka e Cecità, di Saramago. A far da segnalibro una foto di mamma e papà, vicini e sorridenti, con lui tra le braccia, scattata all’ospedale il giorno della sua nascita. E una lettera per Giulia. “Cara Giulia, scusa se ti scrivo, se mi permetto anche solo di avvicinarmi a te col pensiero. Tu ed io veniamo da due mondi diversi, ti vedo andar a casa con tua madre, su quel grande suv, ho visto anche dove abiti, è proprio una bella casa, io… io, dopo la scuola non vado a casa subito, perchè non c’è nessuno ad aspettarmi: mamma rientra alle 22, papà… papà non sappiamo mai a che ora rientra, e poi… a volte vorrei che non rientrasse, perché se ha la sbronza triste viene e si sfoga con mamma o con me… Tuo papà l’ho visto in televisione, era proprio elegante con quel completo grigio! Anch’io vorrei poter dire “mio papà fa l’avvocato”, e invece… Allora la sera 114


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vado in giro, cerco un albero sotto il quale sedermi e leggo. Una sera ti ho vista, con quel bastone. Ti ho seguita, fino a casa dal professor Borla. Ma non preoccuparti, non dirò a nessuno quello che hai fatto. Ti voglio bene, o forse è qualcosa di più. Non so. Mamma dice che papà ci vuole bene, anche se ci dà le botte. A me sembra strano, ma voglio crederle. E’ meglio crederle. Ma a te voglio bene davvero, tanto. E non te lo direi mai con le botte, io. Quando ti vedo nei corridoi mi sento svenire e devo correr via da scuola. Vado nel bosco, mi siedo sotto gli alberi e guardo il cielo tra le fronde. Il cielo è blu come i tuoi occhi, ma quello riesco a guardarlo senza sentire le gambe che tremano. Oggi ho visto il ragazzino di prima, quel Tobia a cui fai un sacco di scherzi, che ti guardava di nascosto. Sii prudente, non vorrei che ti succedesse qualcosa. Io… io sono disposto a fare qualsiasi cosa per te, anche inghiottire la chiave del mio armadietto, se me lo chiedi.” “Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi” Max

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Noir a scuola Giorgio Dagostino

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rank Stüder professore di ginnastica delle scuole medie di La Spezia, giovane trentenne d’origine Basilese, il padre si trasferì a Lugano negli anni cinquanta, amante del bel canto entrò nel Männerchor composto prevalentemente da svizzeri tedeschi, monitore di sci alpino e alpinista apprezzato nell’ambito del CAS come il figlio Frank che gli somigliava molto anche fisicamente, le sue origini nordiche lo evidenziavano, alto e slanciato di corporatura atletica, un volto: occhi azzurri con riflessi scuri sorridenti, labbra sottili marcate, baffetti biondi sovrastanti, capelli dello stesso colore ondulati. Larghe spalle braccia muscolose. La sua collega insegnante di italiano storia e geografia, si è innamorata di lui e coglie ogni opportunità per incontrarlo nella sala professori dove si intrattiene cercando di interessarlo alla sua persona e non si accorge dall’atteggiamento di Frank un po’ distaccato di proposito, ché già lo ha fatto innamorare con il suo innato fascino e la sua femminilità. Laura Prati trentunenne di famiglia ticinese da più generazioni, la sua bianca fronte accarezzata da scuri capelli lucenti, occhi castani con riflessi azzurrati, sprizzano intelligenza e simpatia, lunghe ciglia nere e vellutate completano il suo bel volto. Corpo statuario dalle linee armoniose e sensuali, sempre vestita con molto buon gusto. Una persona raffinata che inconsciamente affascina i colleghi anche quelli di una certa età a farle galantemente un po’ di corte. E,fu proprio uno dei suoi 116


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colleghi insegnante di matematica ad innamorarsene, malgrado avesse moglie e due figli. Giovanni Bernasconi cinquantenne caratterialmente un po’ strano, affetto da una forma di depressione congenita che gli procura disturbi psicologici depressivi che manifesta anche in famiglia di cui la moglie ed i figli ne soffrono. Aiutato dagli psicofarmaci che il suo medico curante gli prescrive con una certa leggerezza, reagisce cercando di uscire da quel diabolico labirinto depressivo che lo fa soffrire, aggrappandosi a sogni come il sentimento d’amore nato per la bella collega. Il caso volle che al termine di una giornata di scuola dove tutti i colleghi già erano usciti, si trovò solo con Laura in sala professori mentre lei stava correggendo i compiti. Cercò subito un pretesto per distoglierla attirando la sua attenzione, con la sua innata cordialità ci riuscì al punto che con una certa disinvoltura guardandola fissa negli occhi, le disse in tono un po’ scherzoso “sai Laura che credo di essermi seriamente innamorato di te”, lei perplessa immediatamente con il suo abituale severo tono come si trattasse di uno dei suoi alunni, con determinazione gli rispose: “Giovanni mi meraviglio della tua leggerezza seppur con il tuo abituale tono scherzoso ti permetti certe battute, presumo che si tratti di una delle tue solite, per cui la prendo come tale e non intendo ritornare sull’argomento, per cui ti prego… rimaniamo buoni colleghi” e subito si alzò dal suo posto di lavoro raccolse i suoi libri gli porse la mano augurandogli una buona serata. Giovanni rimase mortificato e vergognandosi della leggerezza con cui si era lasciato andare, ben conscio della sua debolezza, 117


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soffrendone continuava a sentirsi attratto da quella donna e temeva di non potersi sottrarre da quel sentimento che malgrado tutto lo faceva sognare. L’anno scolastico volgeva verso il termine e come normalmente avveniva fu organizzata la gita scolastica. Fu deciso per l’itinerario da seguire per la meta: l’eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro, sulla sponda orientale del lago Maggiore. Il sabato mattino due grandi bus accolsero studenti e insegnati, nel primo presero posto gli insegnati designati ad accompagnare le prime due classi: il professor Frank, il professor Bernasconi e la professoressa Laura. Frank alla partenza diede il benvenuto a tutta la scolaresca e quale corista del coro Valgenziana annunciò che durante il viaggio avrebbe intonato dei canti popolari tipici e che tutti avrebbero dovuto partecipare. Iniziò intonando il primo canto con la partecipazione generale compresa la bella voce di Laura in perfetta armonia con la voce tenorile del direttore improvvisato. Il professor Bernascone rimase silenzioso e in disparte per tutto il viaggio, mentre Laura prese la parola fra un canto e l’altro per dare qualche ragguaglio sulla meta prevista, ne descrisse brevemente la storia che ben conosceva: “Si tratta di una costruzione del XII° secolo quando un tal Alberto Besozzi mercante usuraio dell’epoca, scampato da un naufragio durante una traversata del lago, avrebbe fatto voto a Santa Caterina d’Alessandria di ritirarsi per il resto della sua vita in preghiera e solitudine in una grotta in quel tratto di costa. Avrebbe poi fatto costruire una cappella alla Santa ancor oggi individuabile nella 118


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chiesa dell’eremo dedicato a Santa Caterina del Sasso. Il complesso monastico sorse intorno al XIV secolo con le due chiese a strapiombo sulla sponda del lago in territorio del comune di Leggiuno. Vedendo tutti molto attenti, Laura proseguì : “la facciata della chiesa con porticato a quattro archi sono conservati affreschi attribuiti ad uno dei figli di Bernardino Luini e sempre a strapiombo si erge la torre campanaria alta quindici metri, vedrete ragazzi il posto vi piacerà”, seguì un applauso generale e un nuovo melodioso canto. Giunti a destinazione si recarono a pranzo nel vicino ristorante dove Giovanni prese posto alla sinistra di Laura poiché la sua destra era già occupata da Frank. I due giovani iniziarono a conversare fra di loro escludendolo, lui pur conscio di rendersi ridicolo si sporse verso Laura per cercare d’inserirsi nella conversazione, ma Laura gli voltò il volto rivolgendosi verso Frank. Si udirono i sorrisi maliziosi degli alunni che avevano assistito attenti alla scena. Giovanni umiliato e mortificato si chiuse in se stesso per tutta la durata del pasto. Al termine si alzò senza nulla dire avviandosi lentamente a testa bassa verso la balconata del ristorante che protetta da un parapetto si trova a strapiombo sul lago, si tolse le scarpe che depose ordinate ai piedi del parapetto, salendolo si fece il segno della croce e allargando le braccia si lasciò cadere nel vuoto.–

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La chiusura del cerchio Linda Mariano

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veva dato l’allarme la signora che ogni giorno, dopo scuola, veniva ad aiutarlo a fare le pulizie. Lei puliva un’ala della scuola, lui l’altra. Quando era andata a riporre la scopa nel ripostiglio l’aveva trovato. Un taglio profondo incideva la testa e scendeva fino alla tempia e il cranio era spaccato. Era stato colpito violentemente con l’aspirapolvere, sul quale risultavano solo le sue impronte e quelle di lei, che mingherlina com’era non poteva sicuramente essere l’assassina. La scientifica aveva fatto un lavoro minuzioso, la polizia aveva indagato a fondo. Erano state interrogate numerose persone: amici, parenti, docenti, direttore, segretario. Quasi tutti avevano un alibi. Alcuni docenti si erano fermati in classe a correggere, ma a parte il fatto che erano persone a posto, mancava assolutamente un possibile movente. Tutti indistintamente, avevano parlato di lui come di una persona speciale, laboriosa, gentile, allegra, sempre disponibile e molto discreta. Un bidello così è un diamante raro. Chi lo trova se lo tiene stretto e sa apprezzarlo. Le indagini non avevano portato all’assassino e nemmeno al movente. Oggi ricorre il secondo anniversario della sua morte. Stasera nel ripostiglio troveranno un altro cadavere. Lui era veramente una brava persona. Troppo. Da quand’era arrivato tre anni fa, si era conquistato tutti. I 120


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docenti si rivolgevano a lui per tutto e lui era sempre competente e pronto ad aiutare, senza trascurare il suo lavoro, perfino i genitori lo fermavano per fargli i complimenti per la gran pulizia. Gli allevi lo salutavano dieci volte al giorno e lo chiamavano da lontano, gli ex allievi passavano a trovarlo. A me non è mai capitato che ex allievi tornassero a salutarmi. Certo che di complimenti non ne ho ricevuti molti in vita mia, nemmeno quando sono diventato docente, con una media discreta. Padre medico, madre avvocato, si aspettavano che l’unico figlio scegliesse una strada più prestigiosa. A me piaceva insegnare. Ma l’entusiasmo è durato poco. È stressante fare il docente. Gli allievi diventano sempre più difficili, i genitori più egoisti e vedono solo i loro figli, oltretutto, secondo l’opinione comune, visto che i docenti non fanno niente, dovrebbero trovare il tempo per dare tutti quei valori che la società e la famiglia non danno più. Così quando si è presentata la necessità di avere un direttore, mi sono proposto, anche perché mia moglie mi ha spinto. Dire di essere la moglie di un direttore le dava più soddisfazione. Per me le cose non sono migliorate. I docenti pensando che un maestro mediocre non può essere un buon direttore non mi prendono molto in considerazione. Fanno, disfano, ma d’altronde me la sono cercata. Quando mi proponevano qualche attività, dicevo di presentare un piano particolareggiato e poi di provvedere 121


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alla realizzazione. Così si sono abituati ad arrangiarsi da soli… con l’aiuto del bidello. Quando mi trovo qui in direzione da solo, a fare soprattutto burocrazie, sento che mi spengo sempre di più. Mia moglie per un po’ è stata appagata dal mio ruolo di direttore, poi ha ricominciato a recriminare su ogni cosa. I miei superiori mi hanno richiamato cinque volte perché tutti ormai sapevano che bevevo e l’ultima volta sono stato a un passo dal licenziamento. Allora mi sono dato una regolata. Più nessuno ha sentito odore di alcool o mi ha visto bere. I docenti non mi hanno preso maggiormente in considerazione, ma almeno mi hanno dimostrato solidarietà, cordialità e mi hanno fatto partecipe delle loro chiacchierate. Gli scaffali dell’archivio, mai nessuno li aveva puliti. Cos’è venuto in mente quel giorno al bidello di farlo? Quando sono entrato, l’ho trovato che, spostati i classificatori, guardava la bottiglia, le cicche, il dentifricio e lo spazzolino. Si è voltato di scatto, mi ha fissato, non ha detto una parola e ha rimesso i classificatori al loro posto. Nei giorni seguenti cercavo di evitarlo. Quando incrociavo il suo sguardo non vedevo riprovazione, ma solo pietà. Contavo sulla sua discrezione, ma mi chiedevo se avesse parlato con qualcuno. I docenti però erano sempre cordiali. A poco a poco, mi è sembrato che qualcuno mi scru122


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tasse, l’ispettore e i superiori mi sembravano più freddi, quel giorno perfino il segretario era stato insofferente nei miei confronti. Ho visto la signora delle pulizie uscire dal ripostiglio. Dopo un momento è entrato il bidello, l’ho seguito forse con l’intenzione di parlare, ma quando ho visto l’aspirapolvere, ho preso uno straccio, gliel’ho avvolto attorno, l’ho sollevato e ho colpito. Nessuno mi ha visto uscire. Ho chiuso la direzione e sono andato al bar a bere un succo. Mi sono sentito libero. Non aveva parlato con nessuno, altrimenti durante gli interrogatori il fatto sarebbe emerso. Sono cominciati gli incubi. Mi sveglio sempre terrorizzato, mentre urlo. Mia moglie ha capito, ma ha taciuto. Si vede che essere la moglie di un assassino non le conveniva. Cinque mesi fa se ne è andata con un vero direttore. I soldi e i mobili devono restare a lei. Mi ha velatamente lasciato intendere che se faccio storie potrebbe lasciarsi sfuggire qualche dubbio. Oggi pomeriggio, dopo scuola viene qui per firmare le carte del divorzio. Di sicuro i docenti lo sanno perché vanitosa com’è non si è lasciata scappare l’occasione di far sapere a tutti che sposa un direttore di banca. Il veleno l’ho comperato in Italia, dicono che sia rapido e potente. Le proporrò un ultimo brindisi col suo vino prefe123


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rito, alla sua nuova felicità. Io naturalmente non berrò alcool, ma un succo dalla bottiglietta. Quando se ne andrà verserò vino e veleno nel bicchiere con le sue impronte e tracannerò tutto d’un fiato. Andrò nel ripostiglio e aspetterò la morte. Sarà molto doloroso, ma sicuramente meno di questo rimorso e di questa vita. Forse capiranno e non la condanneranno, ma qualche brutto momento lo passerà. Che l’ultima soddisfazione della mia vita sia questa, è la conferma che non c’era altra soluzione che chiudere definitivamente.

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Inchiostro Rosso Linda Attivissimo

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l professor Müller si stiracchiò pigramente, guardando leggermente scocciato la pila di compiti che doveva ancora correggere. La lancetta dei minuti sembrava continuare a correre, e lui faticava a starci dietro. Inoltre, il dover stare rinchiuso nella scuola fino a tardi non gli andava particolarmente a genio. D’altronde, la polizia gli dava un buon contributo per questo lavoretto supplementare. Decise così di mettersi all’opera, inforcando con convinzione la sua stilografica. S’interruppe subito sobbalzando. Aveva sentito dei passi di corsa attraversare riecheggiando il corridoio. Si alzò di scatto aprendo la porta, senza trovare però anima viva in giro. Si chiese perplesso se per caso qualcuno fosse rimasto a scuola a svolgere dei compiti oltre a lui, ricontrollando il corridoio e le zone vicine, non trovando ancora nessuno. Gli venne in mente all’improvviso l’incidente di due anni fa... Il freddo mattino d’inverno si faceva sentire fin dentro alle ossa, costringendo il docente ad affrettare il passo, facendogli sfuggire le macchine della polizia parcheggiate fuori dalla scuola. Entrando nell’edificio si sentiva un gran vociare ma non si vedeva nessuno nell’atrio. Müller seguì il suono e fu guidato verso l’aula di scienze, circondata da tutta la scuola e da numerosi agenti, intenti 125


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a mantenere la calma ed allontanare i curiosi dalla scena del crimine. Ancora non riusciva a capire cosa fosse successo, ma doveva essere qualcosa di davvero grave per una scena del genere. L’unica cosa che intravvide fu una grossa “S” con una “X” sovrapposta, scritta sul muro. Riuscì a cogliere qualche stralcio di conversazione di qualche ragazza: “sei riuscita a vederlo? Povero Mertucci...” “sono arrivata troppo tardi, quando lo avevano già portato via, ma chissà che schifo..” “acido solforico? Brutta roba” Acido solforico? Mertucci? Forse era meglio non saperlo, ma il tragico evento gli venne rinfacciato più volte durante i numerosi interrogatori dell’ispettore. La sera prima c’era stata una festa per i vincitori di un torneo di qualche tipo (non aveva molta importanza in quel momento), e nessuno sembrava essersi accorto dell’improvvisa scomparsa del docente. La polizia non sapeva da che parte girarsi. Qualche settimana dopo, venne a sapere che il professor Castagni era stato preso in custodia per il fatto di essere il sospetto più plausibile. Ma non durò a lungo la sua custodia. Il docente si grattò inquieto il collo. Riprese a correggere i compiti di tedesco rimasti, cercando di finire il lavoro in fretta per andarsene al più presto da quel posto. Al diavolo la polizia, non ce la faceva a stare in quell’edificio. Gli sembrava di sentire un leggero sussurrio aleggiare per l’aula, ma aveva già visto che non c’era nessuno con lui... 126


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Ma poteva esserne certo? Non poté fare a meno di pensare alla tremenda sorte della sua collega, un anno e mezzo fa. Il professor Castagni era stato rilasciato, perché era ovvio che non era lui il colpevole. C’era stato un altro incidente. Quella volta era toccato alla docente di latino Ferrini, trovata crocifissa agli scaffali della biblioteca scolastica. Anche se degli agenti erano stati messi a guardia dell’edificio, il delitto era riuscito a compiersi. Anche a controllare chi entrava per studiare era inutile, perché a quanto dicevano le guardia nessuno era entrato in quella scuola, a parte la docente morta. Nessuno si era fermato per più di dieci minuti alla scena del crimine, come se si aspettassero che ormai diventasse una routine vedere professori venir uccisi. La polizia brancolava ancora del buio, e molti ragazzi e docenti avevano una paura tremenda di entrare in quella scuola, che sembrava maledetta. Altri interrogatori, altre domande senza risposte. Ancora una volta, spiccava la firma a “S”. Si riprese dal flashback con un urlo quando sentì graffiare alla finestra, urlando più forte vedendo il profondo segno sul vetro incrinato. Quell’aula lo metteva in ansia, e probabilmente non era sicuro rimanere lì, perciò decise di rimandare al giorno dopo la correzione e di lasciarli nello scaffale dell’aula docenti, per tornarsene a casa a riposare. Si spostò verso l’aula, più isolata ri127


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spetto alle altre. Entrando, vide ancora le tracce di nastro giallo che la polizia aveva lasciato per il caso Meletti, fresco di qualche mese prima. Meletti era stato trovato in tremende condizioni nell’aula docenti la sera dopo la festa di carnevale della scuola, quando si pensava che vi fosse tornata la calma. Lo aveva visto per prima la professoressa Fiore, svenuta per la vista tremenda. Il direttore dell’istituto e il capo squadra della polizia si stavano mettendo le mani nei capelli. La solita firma, nessun sospetto. Furono nuovamente interrogati tutti, ma nuovamente nessuno dava segno di essere coinvolto negli omicidi, che avevano in comune la ormai ben nota firma. Müller si mise a correre senza pensarci due volte verso l’uscita della scuola, solo per trovarla chiusa. Provò anche le altre, tutte quelle che riuscì a trovare nel suo panico isterico. Tutte chiuse. Quando si staccò dall’ultima, strillò terrorizzato leggendo una scritta inquietante in rosso sul muro dietro di sé. “STANOTTE TOCCA A TE” Si udì un impercettibile sibilo trafiggere l’aria, poi il collo del docente intrappolato. Il suo corpo cadde inesorabile sul pavimento sporco della scuola, spargendo ovunque i compiti. Gli occhi vitrei lanciavano uno sguardo disperato alla porta che bastava spingere con più forza invece che tirare. Il sangue colava dal taglio slabbrato, tingendo i compiti sotto al cadavere, di inchiostro rosso sangue. 128


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Loro Melissa Parolini

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n rivolo di sangue mi squarciava il viso, il cuore rimbombava nel mio petto e scandiva gli ultimi minuti della mia vita. Continuavo a correre in quel corridoio bagnato, ma Loro mi seguivano, potevo sentire i loro respiri affannati dietro di me…”. 18 settembre 2003, ore 6:34 del mattino. Da una settimana avevo deciso che avrei portato la mia classe, la 4a, a cercare funghi nel bosco. Andai in cucina dove vi trovai, come al solito, il pendolo che mi faceva “compagnia”. Mi preparai due panini al prosciutto e li misi nel sacco. Salii in macchina, quando arrivai a scuola erano già lì ad aspettarmi, salimmo velocemente sul pulmino che ci avrebbe portato a destinazione. Dopo un breve viaggio arrivammo e ci inoltrammo immediatamente nella foresta. C’erano molti uccellini che cinguettavano e una miriade di altri rumori tipici del bosco mescolati alle risatine degli alunni. Tutto ciò mi metteva allegria e una sorta di pace interiore. Il sole cominciava a farsi spazio tra le cime degli alberi creando cosi zone ombrose e altre luminose e dando un aspetto ancora più magico al luogo. Dopodiché cominciai a volgere la mia attenzione verso i funghi e al loro profumo, ne trovai subito due. Un sasso contornato da porcini catturò immediatamente il mio interesse, così mi avvicinai. Iniziai a raccoglierli e intanto osservavo il masso che era cosparso da 129


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strani simboli a me sconosciuti. Non so perché ma decisi stupidamente di spostarla. Allora, con un misto di paura ed eccitazione smossi la pietra. Con grande orrore sotto vi trovai una fossa con decine e decine di corpi. Alcuni erano solo resti di ossa, altri avevano ancora qualche brandello di carne attaccato avidamente dalle formiche e altri insetti. Conati di vomito pervasero il mio essere che si tramutò in un lungo e straziante rigetto. Mi voltai leggermente e fui certo di vedere Carl, un mio allievo che mi guardava con aria grave, ma poi svenni. Quando mi risvegliai, trovai venti facce che mi fissavano preoccupate, erano i miei allievi. Si erano molto spaventati ma io li rassicurai inventando una banale scusa, sembrò funzionare. Dissi loro di incamminarsi verso il pulmino e che io li avrei raggiunti. Mentre loro si avviavano io cercavo di dare un senso alla vicenda, ma quando mi guardai attorno notai che non ero nello stesso punto in cui ero svenuto…. Quei rumori che ritenevo tanto rassicuranti, ora m’inquietavano e tutta la foresta aveva assunto un’aria sinistra. Raggiunsi il più velocemente possibile i ragazzi e quando fui sul bus ero convinto di essere finalmente al sicuro. Tornati a scuola salutai i miei allievi e guidai distrattamente fino a casa, ancora sotto shock. Estrassi le chiavi e aprii la porta, non mi accorsi che era già aperta. La casa era stranamente silenziosa, niente rumore di elettrodomestici, nemmeno l’orologio a pendolo della cucina che, in compenso, si era fermato, 19:10. Era molto strano, ma mi convinsi che fossi preoccupato a causa del ritrovamento, e per calmarmi mi misi davanti alla TV 130


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con una ciotola di patatine in una mano e una birra ghiacciata nell’altra. Nonostante solitamente la combinazione delle due mi rilassasse, quel senso d’inquietudine non voleva andarsene. Chiusi gli occhi e feci un pisolino popolato da incubi terribili. Quei corpi, quelle ossa, insetti, ancora corpi… Quando mi svegliai decisi, nonostante l’orario, di andare a scuola per correggere qualche tema. Quando vi arrivai, andai nell’aula di cucina cosi che se avessi avuto fame avrei potuto prepararmi qualcosa, e mi misi a leggerne uno. Tum, tum questo rumore proveniente dalla mia aula di classe, che era esattamente sopra la mia testa, mi tormentava. Controllai velocemente l’orologio appeso al muro:19:00. Fuori era ormai buio. Il rumore persisteva e brividi di freddo percorsero ogni centimetro del mio corpo. Frugai in un cassetto e presi il coltello più lungo e tagliente che c’era. Per sicurezza, lo affilai ancora. Mi tremavano le mani. Salii lentamente le scale e le mie scarpe di gomma scricchiolavano. I rumori avevano lasciato spazio a dei bisbigli, udii due voci, da uomo che dicevano: “Il segreto non è più al sicuro”. L’altro: “Già, l’orologio l’ha avvertito”. Seguito da una risata malefica dei due ma mi sembrava di riconoscere una voce più giovane. Qualcuno esordi: “È ora, facciamolo!”. Smisi di respirare, letteralmente. Volevo fuggire ma i miei arti inferiori erano come paralizzati, non rispondevano ai miei comandi. Solo quando i due uscirono dall’aula indossando una maschera da bambola con occhi porcini, di ghiaccio e le labbra piegate in un ghigno che 131


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lasciava intravedere piccoli denti aguzzi mi accorsi che dietro di loro c’era un ragazzo. Fui subito certo che fosse Carl ma non mi lasciai prendere da questi pensieri e lanciai così un urlo da far accapponare la pelle e mi fiondai giù dalle scale, seguito a ruota dai tre, da Loro. Corsi in quel corridoio che fino a poche ore prima era stato pieno di vita, ma ora era deserto. Ero solo con Loro. Erano le 19:05, le donne delle pulizie avevano appena pulito e quindi le mie scarpe non aderivano bene al suolo, scivolai. Erano sempre più vicini. Durante la caduta mi tagliai la fronte con il coltello, un rivolo di sangue mi squarciava il viso, il cuore rimbombava nel mio petto e scandiva gli ultimi minuti della mia vita. Continuavo a correre in quel corridoio bagnato, ma Loro mi seguivano, potevo sentire i loro respiri affannati dietro di me. La stanchezza era diventata insostenibile, così cominciai a rallentare. Mi raggiunsero. Il coltello ora era nelle loro mani, pensare che la mia arma di difesa mi avrebbe ucciso era stranamente ironico. Il ghigno delle maschere fu l’ultima cosa che vidi prima di essere assassinato. Fui subito certo che sarei finito sotto quella pietra, esattamente come quelle altre persone, brutalmente uccise da Loro, senza scrupoli pur di nascondere quell’oscuro segreto di cui Carl faceva parte e che io non avevo avuto il tempo di scoprire. 19:10.

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La supplente Antonino Mauceri

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osa ci faceva seduto su quella sedia scomoda, in quella stanza tetra, davanti a degli sconosciuti. Non aveva avuto neppure il tempo di radersi. Lavorava in una scuola come ce ne sono tante, e quella mattina si era presentata un’avvenente maestra, i capelli biondi raccolti in uno chignon anni ’60 e due occhioni blu incorniciati in un rimmel che ti bruciavano l’anima al solo guardarli, per prendere in consegna la 4a del maestro Pindacchio, che non aveva saputo fare di meglio che fratturarsi la gamba sciando. Toccava così a lui metterci una pezza e cercare in fretta e furia un supplente. Quella donna lo aveva folgorato dal primo istante. Quando quella mattina entrò nel suo ufficio, indossava un abito tipo chimono di color panna con manica a tre quarti, orlato da bande nere sulla veste e sulle maniche. Una collana con charm swarovsky a forma di teiera le cingeva il collo diafano. Aveva unghie lunghe e nere con french beige e piccoli brillantini rosa. Ai piedi scarpe con tacco, in pelle nera, aperte leggermente in punta, completavano il quadro stupefacente. Non riusciva più a togliersela dalla mente. Entrati in classe, gli scolari tornarono in un baleno ognuno al proprio posto. Era fiero dell’effetto che la sua sola presenza esercitava su di loro. Un fare gentile ma 133


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fermo, che non lasciava adito a fraintendimenti su chi gestisse il potere in quella scuola. Era una bella carta da visita da offrire alla donna. Si congedò e il sole che faceva capolino dalle vetrate antistanti lo convinse che quella sarebbe stata una giornata speciale. Mentre tornava in ufficio, sentiva ancora la cadenza sincopata dei suoi passi e ne percepiva la scia odorosa. Indugiò un istante a inalare l’aria impregata del suo profumo, dolce e agro ad un tempo. Ma cosa poteva interessare a quei due uomini, che gli stavano seduti di fronte, quanto quella donna avesse sollecitato i suoi sensi. Eppure lo ascoltavano famelici e lo invitavano ad andare oltre. Uno dei due scriveva. La mattina trascorse senza particolari sussulti, qualche telefonata, la dettatura di alcune lettere e soprattutto alcune congetture sul pranzo imminente. Era il primo giorno di lavoro e certamente la supplente avrebbe apprezzato la sua compagnia. Avrebbero mangiato in mensa e le avrebbe presentato i colleghi, indicandole quelli di cui poteva fidarsi e quelli che era meglio evitare, come il maestro Capezzoli, impenitente fedifrago e implacabile seduttore. Non era sua consuetudine svelare le proprie preferenze ai subalterni, ma quella donna era speciale e voleva risparmiarle spiacevoli incontri. Come aveva trascorso il pomeriggio e soprattutto a che ora aveva abbandonato l’istituto, gli domandò l’unico dei due uomini che gli rivolgeva la parola. Che gliene importava delle sue abitudini, e quale poteva essere la ragione di tutte quelle domande. Era rimasto in ufficio fin quando la maestra trafelata 134


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entrò senza bussare. Aveva il viso adirato, e a lui parve ancor più bella. La classe era in subbuglio e lei non riusciva a riprenderne il controllo. Gli chiedeva aiuto e lui fu ben lieto di darglielo. Utilizzò tutta la propria autorevolezza per ricomporre l’ordine tra la marmaglia. E per evitare alla donna ulteriori tensioni che avrebbero potuto metterla di cattivo umore e mandare all’aria il suo progetto, decise di rimanere in classe fino al suono della campanella di fine giornata. L’avrebbe poi invitata a bere un aperitivo. Un modo informale per fare il punto sulla sua prima giornata e mettere le basi per un’amicizia che sperava duratura. Fu allora che l’uomo dotato di parola gli rivelò di essere un Commissario di polizia e che la sera prima, nell’aula docenti, era stato rinvenuto il cadavere del maestro Capezzoli riverso sul pavimento in un lago di sangue con il cuore trafitto da un tagliacarte. La Scientifica vi aveva rinvenuto le impronte della supplente. La pista era quella dell’omicidio passionale, la sua doveva essere la testimonianza decisiva, poiché era stato l’ultimo a parlare con l’indiziata prima che uscisse dall’istituto. La donna confessò di avere da tempo una relazione con il Capezzoli, relazione che lui avrebbe voluto troncare, ma lei si opponeva ostinatamente alla rottura e cercava in tutti i modi di ricucire lo strappo. Nel cellulare del cadavere erano stati rinvenuti messaggi della donna con i quali lo supplicava di non abbandonarla. Incalzata dalle domande, svelò di sentirsi impotente e stanca, stanca di una vita priva di amore e di serenità, 135


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sempre alla ricerca di qualcosa che alla fine non trovava mai. E’ vero non aveva più nulla da perdere e forse il suo destino era segnato, non potendo più immaginare una vita senza quell’uomo, ma non era stata lei ad ucciderlo. La voce del Commissario era ora pacata, quasi percepisse l’affetto che lui provava per quella donna. Fu allora che lo lasciarono andare. Gli mancavano le forze e quasi non riusciva ad alzarsi dalla maledetta sedia. Gli sembrava di impazzire, tutto era dunque finito con quella donna, o forse mai cominciato, se non nella sua fervida immaginazione. L’aveva persa per sempre. Fuori dalla Questura, una notte senza stelle incombeva sulla città. Sentiva un impellente bisogno di camminare e di respirare aria fresca, avrebbe raggiunto il proprio appartamento a piedi. Durante l’interrogatorio, grazie alle lunghe notti trascorse a giocare a poker, dal suo viso non trasparì alcuna emozione che lui non volesse. La supplente l’aveva respinto e aveva lasciato l’istituto poco dopo il suono della campanella, comunicandogli che il suo cuore apparteneva già a Capezzoli. Il Commissario aveva risolto rapidamente il caso e lui gli aveva dato una mano decisiva indossando guanti di lattice, gli stessi che utilizzava per medicare le escoriazioni degli allievi più vivaci, prima d’impugnare il tagliacarte. Passo dopo passo, tornava ad essere una formichina del grande formicaio che era la sua città, una formichina insignificante di cui nessuno si sarebbe più curato. Con Capezzoli, era certo, si sarebbero rivisti all’inferno.

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Concepimento mortale Fabiano Mancini

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l professore di matematica Igor Castellini aveva pronto il solito trucco che metteva ormai in pratica da anni di esperienza nell’insegnamento. Come da suo solito si accingeva a fornire informazioni fondamentali ai fini della riuscita dei test intermedi degli studenti, proprio durante gli ultimi istanti di lezione quando ormai più nessuno, o quasi, ascoltava perché già tutti pronti a scattare verso l’uscita dall’aula non appena la campanella avrebbe suonato. Igor Castellini insegnava matematica in quella scuola da ormai più di 20 anni ed era una vera e propria istituzione tra i colleghi docenti che ne ammiravano l’entusiasmo nell’insegnare. Per Igor l’insegnamento era un’arte; l’arte di trasmettere dei concetti a delle giovani e fresche menti che presto avrebbero a loro volta trasmesso dei concetti alle generazioni future. Lo stesso identico principio che i saggi delle tribù primitive usavano per tramandare le tradizioni ed usanze del proprio popolo alle giovani leve. La mattina seguente Piero, il portinaio ultrasessantenne della scuola, come tutte le mattine da 38 anni a questa parte, si stava accingendo ad aprire le porte della scuola per accogliere gli studenti ed i professori per una nuova giornata quando si accorse che stranamente la porta non era chiusa a chiave. –Molto insolito.– pensò Piero –Chissà perché Erica 137


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ha dimenticato di chiudere la porta, non succede mai.– Durante il suo solito giro di controllo mattutino, Piero entrò nell’aula dei docenti e si lasciò scappare un grido di terrore. L’ispettore di polizia Tommaso Lurati capì subito che non si trattava di un professionista, ma di qualcuno che aveva agito per vendetta. Un professionista non avrebbe lasciato l’arma del delitto sulla scena del crimine; avrebbe perlomeno tentato di nasconderla. Il professor Castellini venne colpito a morte con la sua stessa valigetta nella quale teneva i documenti e i test intermedi, che erano ora sparsi in tutta l’aula e ricoperti del sangue dello stesso Castellini, che probabilmente non tentò nemmeno di difendersi. I segni sulla testa di Castellini facevano intuire che fosse stato colpito una prima volta alle spalle ed in seguito ripetutamente sulla parte sinistra della testa e della faccia non appena si accasciò a terra. Secondo la scientifica Castellini era stato ucciso la sera prima. L’ispettore Lurati notò nell’aula dei docenti, oltre al normale materiale che vi si trova, una di quelle forcine per capelli di colore rosa che si usano per le bambine e se la mise in tasca dopo averla attentamente riposta in un sacchetto di plastica. Enrico Delcò, studente all’ultimo anno, quella mattina fu ovviamente molto contento del fatto che una volta arrivato a scuola tutti gli studenti vennero rispediti a casa, senza una spiegazione chiara, con l’invito di te138


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nere il telefonino acceso e di ripresentarsi il mattino seguente per la ripresa delle lezioni. Ciò gli permetteva di dedicare la giornata alla piccola Emilia, sua figlia di quasi 3 anni che vedeva poco a causa delle intense giornate a scuola e le parecchie ore passate a studiare nei fine settimana in vista degli esami scolastici finali. Enrico fu meno contento quando ricevette una telefonata dalla polizia che lo invitava a recarsi in centrale per un interrogatorio. Quando circa venti minuti più tardi arrivò in centrale di polizia con Emilia nel passeggino, venne invitato ad accomodarsi in una stanza piccola con due sedie ed un tavolo e a consegnare sua figlia momentaneamente in custodia ad un’agente di polizia, la quale fu ben lieta della distrazione che le permetteva di prendersi una pausa dalla stesura di noiosissimi verbali. L’ispettore Lurati fece attendere Enrico qualche minuto e quando entrò nella stanza dove stava aspettando non fece altro che gettare sul tavolo il sacchetto di plastica con la forcina rosa, identica a quella indossata proprio in quel momento da Emilia. Quando Erica Barbarossa aprì la porta dell’appartamento dove viveva con i suoi genitori e si trovò davanti due poliziotti che la invitarono a salire sulla volante con lei, chiese con voce quasi isterica quale fosse il motivo e che lei non aveva fatto niente e che aveva da studiare. Alla fine dovette cedere e salire in auto con i due poliziotti che la portarono in centrale. Anche Erica era studentessa all’ultimo anno e quindi piuttosto sotto 139


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pressione nonostante fosse molto brillante e la media delle sue note si avvicinava al 6. Dopo la fine della scuola si sarebbe iscritta in una qualche facoltà di legge; sapeva già di voler diventare avvocato ed in seguito candidarsi per un posto di procuratore pubblico. Ma i piani di Erica non si sarebbero mai avverati, era certamente una brillante studentessa, ma una pessima bugiarda. L’ispettore Lurati chiese: –Che cosa ci faceva ieri sera dopo le lezioni ancora a scuola?– –Finivo i lavori assegnatici dai docenti come faccio ogni giorno dopo scuola.– rispose Erica. –Come fa ad uscire dall’istituto visto che il custode chiude le porte ogni sera al termine delle ultime lezioni?– –La direzione della scuola mi ha consegnato una chiave per aprire e chiudere la porta principale visto che mi fermo spesso dopo la scuola, anche Piero lo sa. –E perché questa mattina Piero ha trovato la porta aperta ma lei non c’era?– chiese nuovamente Lurati. –Impossibile! Non dimentico mai di chiuderla, o state insinuando che sono stata io a uccidere il professor Castellini?– Nessuno fece trapelare la notizia che Castellini era stato ucciso. L’unico, oltre al custode ed alla direzione della scuola, ad esserne informato era Enrico, interrogato nella stanza accanto perché sul luogo del delitto era stata trovata una forcina rosa uguale a quelle che indossa 140


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sempre sua figlia Emilia. Erica ammise di aver lasciato la forcina sul posto per depistare le indagini e far incolpare Enrico; reo di aver tradito Erica con la sua migliore amica. Un tradimento che portò involontariamente al concepimento di Emilia. Un concepimento, paradossalmente, mortale.

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Con un pugno di mosche Tanja Rianda

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o scenario che l’ispettore Bukota si trovò davanti agli occhi era macabro: il corpo squartato di una giovane donna giaceva scomposto sopra un pianoforte a coda. L’ispettore Bukota era stato chiamato dalla Direttrice della scuola, Mirela Solfado che da quasi vent’anni gestiva e finanziava l’istituto di musica per ragazzi talentuosi dove ordine e disciplina erano fondamentali. L’ispettore era un poliziotto della vecchia guardia, non si fidava dell’elettronica, preferiva immedesimarsi con la scena del crimine imprimendosi mentalmente ogni singolo dettaglio. Il corpo della ragazza presentava diverse ferite da taglio all’altezza dell’addome. Le viscere erano fuoriuscite e scendevano come un piccolo ruscello verso il pavimento. Conficcato nel cuore c’era un archetto di violino; ma ancora più agghiacciante era il sottofondo musicale: la “Sinfonia dei giocattoli” che con le sue note disperse nell’etere, faceva da sfondo invisibile. Dopo aver preso qualche appunto lasciò la scena, voleva fare delle domande ai ragazzi della scuola che per l’occasione si erano riuniti nella caffetteria. Una cinquantina di adolescenti vestiti di blu stavano seduti in assoluto silenzio, tanto da sembrare bambolotti. Venne a conoscenza che in quei giorni a scuola, si disputava un concorso assai ambito di musica. A contendersi la finale erano rimasti due concor142


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renti, Mélodie la ragazza uccisa e Mika. Mélodie aveva diciotto anni ed era la figlia segreta della Direttrice. Piccolissima aveva cominciato a suonare il violino, strumento che sapeva armeggiare con un’eleganza fuori dal comune. Non c’era nota che non uscisse perfetta dalle quattro corde. A chi l’ascoltava regalava grandi emozioni che prendevano direttamente il cuore. Mika anche lui diciottenne era orfano ma molto bravo col pianoforte. Se Mélodie era l’eleganza in persona, lui era l’esatto contrario: rude e impertinente. Ma quando le sue dita si posavano sui tasti in avorio di un pianoforte a coda sembravano impazzire; correvano disordinate sulla tastiera ma l’effetto prodotto era una melodia lancinante che trafiggeva anche i cuori più duri. L’ispettore decise di recarsi nelle camere dove i ragazzi dormivano. Cominciò dalla ragazza. Non condivideva la stanza con nessuno e tutto era perfettamente in ordine. Chissà che rapporto aveva con la madre? Rovistò un po’ in giro e con grande sorpresa, nella custodia del suo violino, trovò un libricino. Era convinto che i giovani scrivessero al computer i loro pensieri e non su un diario. Si sedette sul letto e cominciò a leggere. L’ultima pagina era del giorno prima. … sono felice perché sono in finale ma anche triste perché non so cosa fare. Devo parlare a mamma e dirle del bambino… Quindi Mélodie era incinta, ma chi era il padre? I suoi compagni l’avevano descritta come una ragazza introversa e timida. Però di sicuro si era confidata con qualcuno, e forse quella persona non aveva gradito? 143


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L’ispettore decise di dare un’occhiata anche alla camera di Mika. Lì regnava il caos totale: vestiti e spartiti ovunque, appesi alle pareti c’erano poster di Eminem e Mozart, non certo due stili comparabili. Sopra la scrivania c’era un vecchio dipinto incorniciato: raffigurava un pianoforte con delle note che uscivano dalla cassa. Incuriosito l’ispettore lo tolse dalla cornice e lo voltò, c’era una dedica: “con tutto l’amore che posso”, mamma. Quindi il ragazzo aveva un passato. Doveva parlare con la Direttrice. Andò a cercarla e la trovò seduta su un piccolo divano nel suo ufficio. L’ispettore le si sedette accanto. “La stavo aspettando! Penso che dopo le sue indagini abbia saputo che Mélodie era mia figlia. L’ho avuta molto giovane e subito è stata affidata ad una zia. Avevo una sorella gemella Solla, un talento del violino ma che per un banale incidente ha perso una mano. Sotto pressione dei miei genitori ho dovuto fare carriera con il pianoforte. Ma quello che io non sapevo era che Mélodie aveva un gemello alla nascita; me l’hanno nascosto! È cresciuto con mia sorella e ha studiato pianoforte. Non so che piano avesse mia sorella, ma il ragazzo è arrivato qui alla scuola e non è stato difficile riconoscerlo. Finalmente la mia famiglia era di nuovo riunita ma tenni il segreto per me. Poi ieri sera…Mélodie e Mika son venuti da me. Pensavo volessero parlarmi della finale, invece… Mélodie mi disse che era incinta e che Mika era il padre. Mika?? Forse sono stata un po’ brutale, ma guardandoli 144


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entrambi negli occhi ho semplicemente detto loro che non potevano continuare la loro storia perché…erano fratelli! Se ne sono andati via scioccati ed arrabbiati con me. Capisce? Ho dovuto dirglielo, ma come mi giustificherò davanti ai miei allievi? Loro non sanno nulla. Per loro piangerò un’allieva ma dentro me…una figlia, e Mika? Sono sicura che sia stato lui ad ammazzarla quando ha saputo la verità!” L’ispettore lasciò che si calmasse poi disse: “All’inizio avevo pensato anche io che l’omicida fosse il padre del bambino perché non desiderato, ma sono sicuro che Mika amava veramente Mélodie pur ignorando i fatti, in buona fede ha raccontato tutto a sua sorella Solla. Prima dell’incidente sua sorella era una violinista di talento e suonava con un archetto costruito con un particolare tipo di legno, il Piratinera Guianensis o più comunemente chiamato legno ferro. È un legno che ai nostri giorni non si usa più perché la fibra di carbonio o il pernambuco hanno preso il suo posto. Ebbene nel cuore di sua figlia infilzato c’era l’archetto di sua sorella. Questo è abbastanza per mandarla in prigione. È già stata arrestata, non ha ancora confessato ma lo farà. Ad ogni musicista il suo archetto!! Il caso è chiuso! Le consiglio di chiarirsi presto con suo figlio e in seguito con i suoi allievi se non vuole veramente ritrovarsi con un pugno di mosche!” Si alzò, salutò e lasciò la stanza con un sorriso sornione stampato sulla faccia e canticchiando… la “Sinfonia dei giocattoli”. 145


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Anatomia di un assassino Brian Bernardi

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rano trascorsi diversi semestri da quando la facoltà di medicina, Carl Maria, era entrata nel mirino di ogni cronista della regione, da “L’ inno del popolo” per arrivare a scadenti formati televisivi di cronaca nera. Nessuna testata giornalistica si risparmiava quello che, per molti, era considerato lo scoop più caldo degli ultimi decenni! L’efferato omicidio di una giovane laureanda, privata oltre che dalla dignità anche dalla sua stessa vita, avrebbe fatto grande scalpore mediatico nei molti mesi a venire.” Rameau, ex detective crogiolato sulla sua poltrona da diverso tempo, passava le sue giornate a scrivere e cancellare questo breve paragrafo. Erano ricordi che lo tormentavano nel sonno e spesso si ritrovava a svegliarsi nel cuore della notte, accendeva una Parisienne e riprendeva a scrivere con la penna salda nella mano destra e un whiskey in quella sinistra. Una delle tante sere, mentre il tempo impazzava, Rameau ebbe modo di trovare ispirazione, oltre che dal fondo della bottiglia, anche dalle testimonianze date dalle persone presenti in quel fatidico giorno. Prese un vecchio quaderno dal cassetto del comodino e iniziò a scrivere. “…era una tetra giornata invernale, la neve si era posata da qualche giorno e i cieli non davano segni di ripresa. Elisa, passando le delicate dita fra le ciocche dei suoi capelli; scrutava il bianco piazzale dell’istituto il 146


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quale, lentamente, riacquistava i suoi caratteristici colori urbani. La ragazza, piano piano si smarriva nei suoi pensieri e la voce del professor Telemann non richiamava più la sua attenzione. Le enormi e malandate vetrate davano modo alla luce mattutina di penetrare ed inondare l’aula del professore filo–tedesco impegnato, come di sua abitudine in un lento monologo. La soporifera lezione fu interrotta da un’agghiacciante urlo, il quale riecheggiò nei corridoi dell’ottocentesca struttura e disarcionò l’insegnante di anatomia dalla sua sedia. In men che non si dica, le porte usurate da anni di onesto servizio iniziarono a scricchiolare freneticamente e i lussuosi pavimenti in marmo rimbombarono per i passi del corpo studentesco al pian terreno fino al quarto piano della struttura universitaria. Elisa, venne strappata dalla sua catalessi interiore e, con uno scatto felino, afferrò borsa e cappotto. Prontamente iniziò a seguire la classe che già si era diretta verso l’aula magna, luogo da cui era giunto quell’urlo terrificante. Affianco all’immensa porta in legno massiccio, si trovava seduta la rettrice, in evidente stato di choc. “Chissà quale brutto scherzo le avranno fatto i ragazzi per ridurla così”, disse Elisa, mentre dalla sua borsa tirava fuori un taccuino e una penna. La giovane, giornalista della testata universitaria, si aspettava di vedere l’ennesima burla di qualche buontempone ma, quando riuscì con fatica a varcare la porta della sala, si ritrovò dinanzi uno scenario già vissuto dal Carl Maria tre anni prima. Fece giusto in tempo a memorizzare la scena e a scrivere qualche riga prima che il custode dell’infrastruttura la trascinasse di peso fuori dall’aula. 147


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Non ci volle molto prima che la polizia giungesse per indagare e, nel mentre, Elisa aveva già iniziato a scrivere di come una giovane donna, ancora sconosciuta, fosse stata trovata priva dei vestiti mentre galleggiava in una pozza di sangue. Per qualche giorno tutti i corsi vennero annullati, ma lei, motivata nel voler riportare all’antica gloria il giornale universitario, non abbandonò il suo piccolo ufficio, situato nei dormitori dell’ala ovest. Il caffè liscio era diventato il suo fido compagno notturno ed il bagliore della luna le infondeva ispirazione, mentre ammirava il viale scarsamente illuminato che conduceva nel boschetto limitrofo. Pubblicato finalmente l’articolo, passarono diversi giorni in cui ci fu un andirivieni di detective, peggio di locuste in un campo di grano, i quali spolpavano ogni metro quadro della struttura. Una prova bislacca e neanche tanto convincente venne rinvenuta e un giovane ragazzo, del secondo anno, fu tratto in arresto. La stampa specializzata, di canto suo, esultava e a gran voce archiviava l’evento come un probabile omicidio passionale. Giorni dopo, una giovane laureanda era stata ritrovata appesa per il collo al soffitto della sua camera. Nella sua mano destra stringeva un articolo di giornale mai pubblicato, dove dichiarava come l’atroce omicidio era avvenuto per mano sua…” Rameau si fermò quando un tuono distolse la sua attenzione dal racconto, posò la penna, stracciò le ultime pagine del suo manoscritto, si riaccese una sigaretta e riprese a scrivere. “Erano trascorsi diversi semestri da quando la fa148


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coltà di medicina, Carl Maria, era entrata nel mirino di ogni cronista della regione. Elisa, giovane laureanda era stata privata della dignità e della vita da un assassino celato fra le persone. È stata trasformata e colpevolizzata in mostro, quando il vero mostro si celava fra i suoi compagni di studi, i quali l’hanno assassinata con una delle armi più dolorose per un giovane: Il bullismo.”

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Tutti pazzi per Valérie Filippo Bellini

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uando Vincent arrivò davanti all’entrata principale del liceo “Millefiori” era fin troppo tardi. La polizia era già arrivata sul luogo del crimine e aveva subito recintato la zona del delitto con un lungo striscione di colore arancio per evitare l’intromissione di qualche allievo o docente della scuola. L’atrio del liceo è un frenetico via vai di alunni e docenti lacrimanti e spaventati. Sul pavimento giace il corpo di una donna con i vestiti strappati e zeppi di sangue. La recinzione della polizia impedisce ai non autorizzati di varcare la soglia della morte. Vincent si ferma ad osservare quel pallido corpo senza vita. È Valérie, la segretaria della scuola. Gli occhi gli schizzano fuori dalle orbita, le mani gli balzano tra i capelli e la bocca si spalanca come alla vista di un fantasma. Può ancora sentire il suo odore sulle mani, il suo respiro affannoso sul collo e il sapore delle sue labbra. Da tempo ormai Vincent e Valérie si frequentavano segretamente, perché lei era la segretaria della scuola e questa relazione avrebbe potuto compromettere il suo lavoro. Ma soprattutto perchè Valérie aveva un fidanzato che l’aspettava a casa ogni sera. La notte scorsa lei e Vincent si trovavano all’interno dell’ufficio del rettore della scuola. Valérie era in possesso di una copia delle chiavi, e quando i suoi impulsi sessuali svegliavano il suo animo seducente e selvaggio, ci si recava in compagnia di Vincent. Solo qualche ora prima i due amanti stavano facendo l’amore sulla scri150


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vania del rettore, e ora di lei non rimane altro che sangue, dolore e mistero. Il ragazzo non ha idea di cosa possa essere successo. Cerca di pensare ad un motivo e ad una possibile causa a questo tragico omicidio, ma nella sua mente soccombe il vuoto. Le lezioni vengono sospese, gli alunni e i docenti tornano a casa sconvolti, mentre la polizia indaga sulla scena del crimine. Vincent abbandona l’istituto, cammina solitario, non vuole parlare con nessuno, la sua mente viaggia a mille all’ora ma senza una precisa meta. C’è solo il vuoto. Il rettore della scuola, un uomo robusto dai lineamenti marcati, i capelli folti e lunghi e un sorriso scaltro stampato sul viso, viene avvertito dalla polizia intorno alle ore 18.20 di una notizia estremamente importante: è stata trovata una lettera d’amore anonima nel cassetto della scrivania della segretaria. Il rettore termina al volo di bere l’ennesimo bicchiere di whisky della giornata e si reca immediatamente da casa sua al liceo “Millefiori” “Dunque quello che mi ha appena detto è tutto quello che sa riguardo alla signorina Rossi?” Chiede un agente di polizia. Il rettore mantiene lo sguardo rivolto sulla lettera che ha tra le mani, mentre l’agente di polizia che sta in piedi di fronte a lui attende una risposta. “Signor Lorenzi? Ha capito la mia domanda?” Il rettore alza lo sguardo, sorride maliziosamente e consegna la lettera nelle mani dell’agente di polizia. “Non ho propria idea di chi abbia potuto scrivere questa lettera, agente. E riguardo la signorina Rossi le ho già detto tutto quello che so. Mi dispiace.” 151


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I due si stringono la mano e il rettore esce dalla stanza stringendo forte i pugni, pensando alla sua prossima mossa. Ore 22.15. La notte è calata sulla città. Vincent si trova nuovamente davanti all’entrata principale della scuola. Il cuore batte all’impazzata, il respiro si fa sempre più affannoso ad ogni secondo che passa. Il rettore l’ha chiamato a casa un paio d’ore fa per chiedergli di raggiungerlo dopo le ore 22 nel suo ufficio a scuola. Il tono della sua voce era calmo e rassicurante, forse perché ha bisogno solo di qualche informazione da parte sua sul caso. Ma come mai proprio Vincent? Nessuno è al corrente della relazione amorosa che aveva con Valérie. Come potrebbe mai aiutarlo? Il custode della scuola gli apre la porta d’ingresso, scrutandolo malamente dal capo ai piedi. La polizia ha abbandonato l’edificio. Nella scuola rimangono soltanto lui, il custode e il rettore. Vincent attraversa il corridoio fino ad arrivare all’ufficio del signor Lorenzi. La porta è socchiusa. Fa un profondo respiro ed entra nella stanza. “Grazie per avermi raggiunto con così poco preavviso, Vincent. Prego, siediti pure.” Esordisce il rettore. Vincent nota subito le guance rosse del rettore a causa dell’abuso di alcol, i capelli scomposti e la cravatta in disordine. Sicuramente sa qualcosa che non avrebbe voluto scoprire. “Per quanti anni ti ho avuto come mio alunno, Vincent?” “Se non sbaglio per tre anni.” Risponde Vincent timoroso dell’ambiguità della domanda. 152


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“Bravo. Te lo ricordi bene. Perché io di te ricordo la peggior calligrafia che abbia mai visto, e cosa più importante, il tuo ricorrente errore nel dimenticare di mettere l’apostrofo nelle tue frasi. Ad ogni esperimento scritto ti facevo notare questo errore, ma tu m’ignoravi. Anche questo te lo ricordi?” Chiede il rettore alzando il tono della voce. Certo, me lo ricordo. Ora sono migliorato però, rettore. Ma perché mi fa questa domanda?” “Oltre che un gran bastardo, sei pure un bugiardo!” Recita con disprezzo guardando Vincent con i suoi occhi color sangue. Estrae velocemente dal cassetto della sua scrivania una pistola, la punta verso Vincent e preme il grilletto. Due colpi alla fronte e uno al petto. La dinamica dell’omicidio fu chiara e la polizia impiegò solo un paio di giorni per arrestare l’assassino. Si scoprì in seguito all’arresto che Valérie era l’amante del rettor Lorenzi, ma nessuno lo sapeva, poiché egli ha moglie e figli. Tuttavia il caso di Valérie Rossi fu archiviato definitivamente a causa d’insufficienza di prove. Eppure qualcuno di molto vicino al liceo “Millefiori” deve aver architettato bene il suo piano di morte. L’unico signore che è sempre presente nella scuola, giorno e notte. Un’altra vittima della pazzia d’amore per Valérie. L’unico che l’ha fatta franca.

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Giallo all’accademia Nicola Finke e Bruno Bera

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n quel freddo mattino nebbioso, era il 6 ottobre del 1979, all´accademia dell´Esercito della Repubblica Democratica Tedesca di Dresda, il cadavere del rettore, il Maggiore Generale Wilhem Unterbezahlt, giaceva sulla piazza d´armi. La sera prima c´erano state le prove generali per il festeggiamento dei trent´anni della RDT, ma qualcosa era andato storto. Quando Unterbezahlt aveva azionato il cannone, come segnale per la partenza dell´inno nazionale, la bocca da fuoco era esplosa lasciando esanime il povero Generale. Appena accaduta la tragedia, la Polizia (Volkspolizei) aveva verificato che il cannone era stato ostruito da uno straccio imbevuto d´ammoniaca; chiaramente si trattava di un omicidio. Dal momento che Unterbezahlt era un alto graduato dell´Esercito, l´indagine era stata affidata alla STASI (la polizia segreta) . Il Colonnello della STASI Ernst Hoffmann arrivò all´accademia in bicicletta. Hoffmann era vestito con una vecchia divisa completa di cappello da ufficiale. Quando raggiunse la piazza d´armi si mise ad ispezionare il cadavere, in quel momento gli si avvicinò il Commissario di Polizia Adolf Hürlimann e gli disse: –Ha visto Colonnello, i nemici del popolo hanno colpito ancora!E tutto ciò è colpa vostra! È inaccettabile che certi valorosi compagni non godano della protezione che gli è dovuta da parte vostra, voi che siete la Polizia politica!–

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–Non si scaldi Hürlimann!– disse il Colonnello. – Questo non è un omicidio politico!– Ed estrasse dalla canna del cannone un nastrino arancione e nero, per mostrarlo al Commissario: –Chiunque sia l´attentatore, ha combattuto nella resistenza ed ha aiutato l´Armata Rossa, questo che ho tra le mie mani è un lembo del nastro d´onorificenza della Grande Guerra Patriottica, è una decorazione Sovietica! Si tratta dunque di un militare! –In quel momento, dietro di loro, si fece largo l´anziano vice–direttore dell´Accademia, il Tenente Colonnello Rudolf Löwenheld, figura di spessore dell´Esercito e fondatore dell´Istituto, che disse: –Colonnello Hoffmann, glielo dico io, quello non è un nastro Sovietico, è piuttosto uno scampolo di qualche camicia!– Ed Hürlimann intervenne: –Se lo dice il compagno Löwenheld, io ci credo!– –Compagni, io ho bisogno di ragionarci sopra!– Ed Hoffmann se ne andó senza salutare. Il giorno dopo il Colonnello della STASI si recó dal vecchio Löwenheld, nella sua residenza nell´Accademia. Hoffmann bussó alla porta e disse: –Buongiorno compagno!– –Salve colonnello Hoffmann!– ribatté Löwenheld. –Sono qui per farle qualche domanda sull´Accademia! – –Entri pure, si sieda al tavolo in salotto!– Hoffmann entró e si sedette cominciando a guardarsi intorno; il televisore era sintonizzato sul discorso 155


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del Presidente del Consiglio di Stato, Erich Honecker, che divulgava da Alexanderplatz, in centro a Berlino, il suo messaggio per i festeggiamenti dei trent´anni della RDT, in occasione della festa nazionale del 7 ottobre. – Colonnello, vuole una birra?!?– Chiese Löwenheld. – Grazie, molto gentile!– Ringrazió Hoffmann. Mentre il Tenente Colonnello andó a prendere la birre, l´ufficiale della STASI individuó ció che cercava: un bidone d´ammoniaca da cinque litri, nascosto dietro al divano ed un nastro arancione e nero abbastanza rovinato, posto sul caminetto accanto ad una medaglia Sovietica. Quando Löwenheld arrivò, i due cominciarono a bere e a parlare della vittima. Dopo dieci minuti Hoffmann se ne andó, diretto al commissariato. Arrivato da Hürlimann spiegò l´esito delle sue ricerche: Löwenheld aveva ucciso il suo superiore poiché volela prendere il suo posto. All´inizio il Commissario di Polizia non credeva alla tesi di Hoffmann, ma quest´ultimo gli mostrò dei documenti che dimostravano che Löwenheld, sebbene fosse uno dei fondatori dell ´Accademia, era stato scartato piú volte dal posto di Rettore per opportunismo ed infedeltà alla causa, ma ora figurava come sostituto nel caso che Unterbezahlt fosse inabile al lavoro. A quel punto anche Hürlimann si convinse ed andó assieme al Colonnello della STASI e ad una pattuglia di polizia, dall´assassino. Quando Löwenheld aprí la porta e si trovó davanti lo schieramento, capí di essere stato scoperto. Hoffmann disse: –La dichiaro in arresto, compagno Tenente Colon156


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nello, per l´omicidio del Maggiore Generale Wilhem Unterbezahlt!– Con uno scatto fulmineo Löwenheld si rinchiuse in bagno, dove ingoiò una pastiglia di cianuro, prima di trascinarsi alla finestra dalla quale si buttó sulla piazza d´Armi, luogo dove il giorno prima aveva compiuto il delitto.

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Era un bravo ragazzo Giuseppe Mimmo

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on aveva mai pianto così tanto in vita sua. Gli bastarono pochi attimi per imparare a familiarizzare con il gusto amaro della sofferenza e a danzare sulle cupe note del dolore. Chissà quante volte aveva scherzato con la morte: aveva goduto nell’infliggerla smanettando con il suo joystick in uno dei tanti videogiochi di guerra o di mafia che riempivano le mensole della sua stanzetta; aveva imparato a sbeffeggiarla, prendendosi gioco di quei poveri cristi – di cui tanto parlano i giornali – che avevano abbandonato il palcoscenico della vita in modo paradossalmente comico. Con suo grande sgomento, scoprì presto che la morte aveva pronta l’occasione di esigere da lui il dovuto rispetto. Non aveva mai provato una particolare simpatia verso il Bernini, il borioso compagno di classe che sapeva come rubargli la scena; ma il vederlo lì a terra, immerso in una pozza di sangue e vetri rotti, aveva terribilmente mutato il contenuto dei suoi sogni notturni. Da ormai tre giorni l’edificio della scuola era stato recintato e trasformato in scena del delitto, precludendo il normale svolgimento delle lezioni. L’ispettore Poretti, coadiuvato dal pool di esperti della Scientifica, si attivò sin da subito alla ricerca di indizi che potessero aiutarlo a risolvere quel complicato enigma. Chissà quanto avrebbe desiderato trovare qualche traccia di colpevolezza che lo conducesse dritto al Preside della scuola: la sua continua ingerenza nello svolgimento delle indagini 158


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aveva reso alquanto indigesta la sua presenza sul luogo del misfatto. “Avete scoperto qualcosa? Posso esservi d’aiuto? Sapete, ho tutto l’interesse affinché questa faccenda si concluda il più presto possibile e con la cattura di quel farabutto” “Stiamo facendo il possibile, lei non si preoccupi. Perché non torna a casa dai suoi cari e si riposa un attimo? Le prometto che la terrò aggiornata”. “Lei non si preoccupi per me. Voglio essere presente quando prenderete quel farabutto”. Il detective iniziò a odiare il suono della parola ‘farabutto’ che usciva dalle sue carnose labbra e giurò a sé stesso che alla prima occasione buona gli avrebbe strappato la lingua con la forza. In realtà non c’era ancora una lista di indiziati per l’omicidio dello sfortunato quattordicenne seppure un’ombra di sospetto pendeva sulla testa del bidello, il signor Tacchini, un uomo piuttosto virulento, che più volte aveva minacciato di impartire lezioni corporali ai tipacci strafottenti che lo deridevano per la sua enorme pancia. Ma chi lo conosceva bene lo descriveva come un uomo severo ma affettuoso, incapace persino di disturbare il sonno di una mosca. E poi era certo di avere un alibi di ferro: nel lasso di tempo in cui l’omicidio veniva consumato stava discutendo animatamente di calcio con il professore di scienze e –sempre a suo dire– almeno altri tre docenti erano pronti a testimoniarlo. Il detective Poretti si convinse che l’unico modo per sbrogliare la situazione fosse quella di interrogare sin159


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golarmente i compagni di classe della vittima, alla ricerca di un qualcosa che potesse sbloccare le indagini. Non che fosse un’idea geniale quella! Qualsiasi detective che si rispetti avrebbe fatto lo stesso. Avrebbe DOVUTO fare lo stesso. La girandola di paure e confessioni ebbe inizio intorno alle nove di un afoso martedì di fine marzo. Quella che pareva essere più una riunione dei genitori di fine semestre che un momento di attesa prima della processione dei testimoni si trasformò ben presto in un’occasione di rivolta delle autorità parentali contro le istituzioni e contro il sistema: “Trattano i nostri bambini come se fossero dei criminali” urlò senza remore il padre del mite Bernasconi. “Ma la colpa è di quel buzzurro del Tacchini, mi sembra ovvio!” rincarò la dose la sanguigna signora Tonetto. L’ispettore Poretti riportò la calma tra i presenti con la sola presenza fisica. La maestosa mascella e le callose mani, solide come rocce, avrebbero intimorito persino il Jack LaMotta dei tempi migliori. Seguendo il consueto ordine alfabetico, nel giro di un paio d’ore si esaurì quasi del tutto il valzer delle testimonianze. Lettera V, Vincenzi Stefano. L’ultimo della lista. Il giovane, tenendo la mano destra in una tasca quasi a voler nascondere il leggero tremolio che non accennava a lasciarlo in pace, entrò con passo felpato nella stanza delle torture (o perlomeno è così che lui la immaginava). Timido, quasi impacciato, si sedette sulla sedia così maldestramente da rischiare un goffo capitombolo. Anche per lui la classica domanda: 160


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“Puoi dirci qualcosa che potrebbe aiutarci con le indagini?”. Su sedici ragazzi, ben quindici avevano già risposto con un vago “non so, non credo, Bernini era un bravo ragazzo”. Ma al sedicesimo tentativo la risposta mutò: “Si, certo!”. Il detective sgranò gli occhi, non aspettandosi un epilogo simile, poi lo invitò ad essere più preciso. “E’ stato il signor Tacchini. Ero lì con Marco quando lo ha aggredito con un coltello da cucina ed ha ferito anche me ad una mano. Avevo paura a dirlo prima, il signor Tacchini è così cattivo”. Allora tolse la sua mano destra dalla tasca e la mostrò al suo interlocutore, scioccato dalla tremenda scoperta. Dopo aver spiegato le dinamiche dell’incidente il ragazzo venne congedato; il cielo sembrava finalmente schiarirsi. Con la stanchezza dipinta sul volto, Stefano rientrò a casa poco dopo le quindici. Sua madre, avvisata dei fatti dal marito, gli corse incontro e gli buttò le braccia al collo bloccandogli per un attimo il respiro. Poi si diresse silenziosamente verso la cucina. Nonostante quella coraggiosa deposizione Stefano non riusciva a godere della meritata dose di tranquillità. D’altronde, come poteva? Finché l’arma del delitto avrebbe continuato a giacere in mezzo a quel mucchio selvaggio di videogiochi di guerra e di mafia la partita non poteva ancora considerarsi conclusa. “E’ stato il signor Tacchini”, sussurrò a bassa voce mentre una lacrima franava sul suo sorriso ancora carico di odio…

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Giallo gelosia di Maria Spadea

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ro a lezione di educazione fisica. Il professore mi ordinò di andare a prendere nel ripostiglio degli attrezzi un pallone per giocare a pallacanestro. Quando entrai vidi qualcosa di insolito; era tutto a soqquadro. Pensai a come fosse successo, ebbi una traumatica sorpresa: vidi steso sul pavimento di resina color betoncino, il corpo di Jennifer. In quell’istante il cuore fece un salto, i brividi salirono freddi dalle mani e dai piedi paralizzandomi per alcuni secondi. Un urlo acutissimo uscì esitante dopo essere rimasto bloccato in gola. Tutti i miei compagni compreso il docente corsero verso l’angusta stanza in cui ero, dopo avere sentito quel grido di paura e orrore. Rimasero tutti muti, come se avessero perso la voce, era la loro espressione a parlare. Era viva, fu trasportata in infermeria. Rinvenne dopo circa un’ora, i suoi genitori erano stati chiamati dalla direttrice e corsero a scuola. Subito l’intera scuola era venuta a sapere dell’accaduto, anche se non si sapeva chi, come, quando e perché mise Jenny nello sgabuzzino in quello stato. I genitori e la direttrice le chiesero cosa era successo: disse il mio nome: Maria. Ero una ragazza semplice ma particolare allo stesso tempo. Mi convocarono in direzione, appena entrai i genitori di Jenny mi fulminarono con lo sguardo. La direttrice mi invitò a sedermi, cominciò a camminare avanti e indietro. Senza fermarsi mi disse che Jenny aveva parlato. Io le chiesi di cosa avessero discusso. Mi accusò di 162


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averle dato una botta in testa, di averle fatto un iniezione di sonnifero e di averla poi trascinata nello sgabuzzino la sera prima a causa di una lite. Dissi di non aver fatto nulla di simile, non mi credettero. Chiamarono i miei genitori, li avvisarono e raccontarono loro l’apparente versione dei fatti, i miei erano sbigottiti, chiesero il permesso di portarmi a casa, ma fu loro negato. Arrabbiata e preoccupata tornai in classe aspettando la fine della lezione pensando a cosa fare. Sarei corsa a casa per spiegare le cose ai miei genitori, ma prima dovevo fare una chiacchieratina con Jenny e capire perché aveva fatto il mio nome, siccome martedì sera ero al mare a nuotare. La vidi, ma non potei avvicinarmi perché c’erano i suoi genitori. Corsi a casa più in fretta possibile, quando entrai in casa c’era un silenzio tombale. Chiamai i miei genitori e gli spiegai la mia versione dei fatti. Mi credettero, mi diedero fiducia, consigliarono di non parlare da sola con Jenny perché sarebbe potuto sembrare che la minacciassi. Ero triste perché io e lei eravamo migliori amiche e condividevamo parecchie passioni. Adoravamo andare a cavallo sulle colline, uscivamo spesso con gli amici e ci raccontavamo tutto. Eravamo entrambe fidanzate, da tre mesi Jenny stava insieme al mio migliore amico, Emanuele. Andavamo in classe assieme fin dall’asilo. Io invece ero assieme ad Andrea. Noi eravamo assieme solo da due settimane. Il giorno dopo, a scuola, andai da Jenny, non seguivo mai i consigli dei miei. Era triste, le chiesi perché aveva detto quelle cose, ma mi rispose solo “mi dispiace”. La sostenevano tutti, notai che una ragazza in particolare 163


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stava vicino a Jenny come per controllarla, si chiamava Stefania, non era molto simpatica ed era parecchio volgare. Tutti, compresa lei, mi guardavano dalla testa ai piedi e viceversa pensando fossi stata io, l’ unico che mi credeva era Andrea. Al pomeriggio lo salutai e andai a casa mentre lui si fermava con gli amici per andare a giocare a calcio. Mi girai per guardarlo un ultima volta e vidi che Stefi gli stava parlando gesticolando esageratamente. Mi girai cercando di fare finta di niente. Andai a casa con assoluta calma. Di colpo mi venne in mente una possibile versione dei fatti: Jennifer non avrebbe mai voluto che finissi nei guai o stessi male e sapeva che non ero stata io a farle del male, doveva sicuramente essere stata costretta da chi l’aveva rinchiusa. Doveva essere stata una femmina perché nessun maschio avrebbe avuto un motivo, pensai a una ragazza gelosa del rapporto tra Jenny ed Emanuele. Ma ciò non spiegava perché aveva detto il mio nome, così pensai che indirettamente sarebbe potuta essere una pianificazione contro di me. Dunque Jenny era stata ricattata… ma da chi? Non ne avevo idea. Di notte pensai a Stefania ed ad Andrea, su cosa avevano potuto parlare. La mattina seguente andai da lui e gli chiesi di che avevano discusso, mi disse che gli aveva fatto una sorta di ramanzina sul fatto che doveva lasciarmi per quello che “avevo fatto” a Jenny. Le aveva risposto di andarsene da un altra parte a dire quelle stupidaggini perché non l’avrebbe ascoltata. Mi raccontò che Stefi se ne era andata come se a quelle parole le fosse venuto un tic da 164


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schizofrenia. Mi venne un sospetto… andai da Jenny. Le chiesi se Stefania la ricattava, annui, scoppiò in lacrime. Mi raccontò che l’aveva minacciata di dire ai suoi genitori che non veniva a dormire da me, ma che invece andava a casa di Emanuele, che avrebbe detto alla direttrice che era stata lei a pitturare le porte del bagno e che avrebbe detto ad Ema che lo tradiva, anche se tutto ciò era falso. Jenny spaventata aveva ceduto per paura di perdere i suoi genitori e il suo ragazzo ed essere magari espulsa. Infuriata andai da Stefania, la trovai in pochi secondi, la spinsi sempre più indietro fin che non andò a sbattere contro un muro, le gridai quello che mi aveva detto Jenny, negò. Insistetti minacciando di picchiarla, negò ancora, alzai la mano per tirarle una schiaffo e mi supplico di non farlo. Restai in bilico e le gridai di confessare. Piangendo mi raccontò come aveva fatto e perché; era gelosa del rapporto che c’era tra me ed il mio fidanzato, provava qualcosa per Andrea da quando lo aveva conosciuto. Rimasi dispiaciuta… la abbracciai, sentendomi la causa di tutta la vicenda. Tutto si chiarì, Stefi non venne espulsa perché ormai l’anno era finito, si mise con Andrea, già… ci lasciammo, non era destino che stessimo assieme.

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Dio salvi la regina Nicola Quadri

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Buckingham Palace tutto sembrava normale. La regina si svegliò di buon’ora, come di sua consuetudine; fece un’abbondante colazione. Poi, prima di iniziare a lavorare, si concesse un bel bagno caldo, o così credette. Intanto, una classe universitaria stava per visitare proprio quel palazzo. Dopo cinque minuti di visita un giovane si assentò per circa un quarto d’ora. Ecco che ora la regina si stava immergendo nella vasca reale (come faceva ogni mattina sempre allo stesso orario) che era riempita per metà da acqua calda. Il bagno era una delle cose che lei preferiva fare durante tutta la giornata. Ad un certo punto cominciò ad avvertire dolori atroci e lancinanti lungo tutta la superficie corporea. Lo studente, intanto, aveva appena introdotto una soluzione di acido cloridrico (HCl) e acido fluoro antimonico (HF6Sb) nei tubi idrici che portavano direttamente nel bagno della regina; salì le sfarzose scale e pugnalò il suo complice, che lo aspettava dato che era una guardia del palazzo e gli aveva dato le informazioni necessarie per uccidere la regina e le chiavi del locale tecnico. Si vestì con gli indumenti del defunto complice ed entrò nel bagno della regina Elisabetta II ormai corrosa viva dalla mortale soluzione, ne prese la testa, che era l’unica cosa rimasta del corpo e la mise nel suo zaino. Per eliminare le tracce del aiutante morto lo buttò nella 166


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soluzione della vasca. Tornò e rimise i vestiti della ex guardia e tornò veloce come la luce dalla comitiva dove nessuno si accorse della sua assenza. Il giorno seguente il giovane killer entrò nelle docce della palestra dell’università di Oxford e vi appese la testa della regina con un amo da pesca. Subito dopo si diresse verso il bosco adiacente alla scuola e arse lo zaino. Tornò alle lezioni con la sua classe. Quando rincasò lesse il giornale e vide la notizia che aveva creato stupore, incredulità e soprattutto sconcerto tra la gente che si chiedeva come potesse essere possibile violare l’autorità della regina e di Buckingham Palace. Quella informazione aveva ormai fatto il giro del globo e tutti i telegiornali ne parlavano. L’omicida aveva capelli corti e biondi, occhi azzurrissimi come il cielo e ottimi voti a scuola. Era uno studente non molto alto, e aveva una corporatura snellissima. Non faceva quasi mai sport, eccetto che nelle ore scolastiche di ginnastica. In quel periodo ne faceva ancora di meno perché si era rotto solo un mese prima la gamba destra, e aveva tolto il gesso da solo due giorni, quindi zoppicava ancora. Lui fumava molto, e passava quasi tutta la sua giornata a studiare, anche fino alle tarde ore della notte, con una thermos di caffè che lo aiutava a restare sveglio. La polizia trovò sulla scena del delitto i due barattoli di acido, ma non trovò nessuna impronta digitale. I due barattoli appartenevano all’università di Oxford, dato che il commercio di sostanze chimiche pericolose era controllato dalla polizia, marchiando ogni sostanza con 167


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un’incisione al laser con impresso un numero che corrispondeva al destinatario. Era quasi arrivata la fine della primavera e quindi pioveva abbastanza spesso; anche se la pioggia era alternata da momenti di tempo sereno, comunque sia il terreno rimaneva sempre umido e bagnato e le impronte lasciate da suole di scarpe rimanevano nel terreno. Ecco perché la polizia che aveva trovato nel palazzo impronte composte da terra lasciate da una persona che zoppicava, fece dei controlli fra gli studenti di Oxford che consistevano nel osservare la lunghezza e il tipo di passo di ogni studente o professore. Quando doveva essere il turno dell’omicida un agente trovò la testa della regina durante la sua ispezione della palestra che era rimasta chiusa tutta la mattina e quindi tutti gli sbirri si diressero a vedere la raccapricciante scena dimenticandosi di controllare il passo dell’omicida. La palestra era grande, come d’altronde era tutto l’edificio, e aveva pavimenti di colore blu composti da una specie di gomma che sembrava mollica di pane. Nella scuola c’erano circa tre dozzine di aule, adibite alla materia che doveva essere insegnata. La polizia controllò anche le abitazioni del campus in cerca di sigarette Milit (sigarette fumate nella seconda guerra mondiale e prodotte in Italia) che era stato trovato nel locale tecnico del palazzo reale. Quando stavano avvenendo le perquisizioni alle case degli studenti essi erano ancora in classe. Le casette del campus avevano tutte stesse fondamenta e scheletro che 168


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comprendeva struttura dei muri esterni e portanti,e le finstre si affacciavano tutte sullo stesso panorama. Il panorama era caratterizzato da un bosco composto prevalentemente da conifere tra cui pini e abeti. In mezzo alla veduta si vedeva l’imponente edificio universitario, che continuava alla sinistra con giardini e aiuole fiorite di tutti i colori. In lontananza si scorgeva la città di Oxford che possedeva numerosi palazzi tra cui anche qualche grattacielo. Nell’abitazione del killer erano presenti, nascoste dietro un mobiletto dei pacchetti di sigarette Milit, che suo nonno possedeva dato che aveva combattuto la seconda guerra mondiale e aveva partecipato a qualche battaglia proprio in Italia, dove si era procurato i tabacchi. All’omicida, quindi, restava solo una soluzione: scappare. Perciò scappò a Londra immedesimandosi nel personaggio del suo complice. Tutto filò liscio per una settimana fino a che il nipote della regina notò uno strano e sospettoso passo zoppicante. Fu per questo motivo che il principe assunse un investigatore privato che avrebbe avuto il compito di pedinare e controllare le abitudini del giovane. Infatti scoprì delle Milit. L’omicida si rese conto che il telegiornale lo cercava, dunque preparò i bagagli per scappare all’ estero. Proprio quando stava per aprire la porta di casa trovò venti agenti circondati dalla stampa che stavano per sfondare la porta. Alla polizia che stava per aprire la porta aspettava uno spettacolo osceno, infatti il giovane immerse la sua testa in un catino pieno della soluzione di acido già 169


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usata da lui per l’omicidio della regina e spirò. Si suicidò perché non aveva intenzione di passare la sua vita in una gabbia. Infondo l’idea dell’omicidio non fu poi così intelligente, anche se odiava la monarchia inglese e così tanti soldi che essa prendeva.

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Noir a scuola Samuel Morelli

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egli spogliatoi del liceo Vans la porta era sempre chiusa a chiave dopo le 16.30, ma quel giorno era accostata e fu Lory Harrison (allieva della 4d) che era tornata per prendere la borsetta che aveva dimenticato a vedere un fascio di luce che filtrava dall’ingresso; pensò che era stata fortunata ad aver trovato la porta aperta ma quando entrò vide la sua amica Sarah distesa a terra circondata da un’ enorme pozza di sangue che sgorgava dal capo. La ragazza terrorizzata corse a chiamare qualcuno, arrivò alla direzione in lacrime e il direttore le chiese cosa fosse successo ma la ragazza stentava a parlare e riuscì solo a balbettare qualche parola confusa; il direttore non avendo capito, le chiese di ripetere bene quello che aveva detto e lei più convinta ripeté: – Sarah è priva di sensi nello spogliatoio –. Il direttore corse subito in palestra ma quando arrivò la ragazza non era solo priva di sensi ma per lei ormai non c’era più nulla da fare. Chiamarono l’ambulanza, la polizia e la madre della giovane e dieci minuti dopo erano tutti presenti. La madre di Sarah Teresa, non si dava pace e seguì l’ambulanza che stava portando via la figlia mentre la polizia interrogava Lory. Il giorno seguente la madre si presentò dal direttore e si fece dare una lista delle ragazze che facevano ginnastica prima del ritrovamento del cadavere per poi andare a casa di ognuna a parlare con loro e scoprì che la figlia aveva una relazione con un ragazzo di nome Ryan che il 171


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giorno stesso aveva avuto una discussione con Sarah e nello stesso momento ricevette una chiamata dalla polizia che le disse che doveva passare in commissariato. Quando arrivò, un poliziotto le comunicò: – Abbiamo trovato acqua sulle scarpe di sua figlia quando è stata portata in ospedale perciò la spiegazione più logica é che la ragazza sia scivolata e abbia battuto la testa –. Teresa a queste parole non voleva credere e perciò decise di non dire nulla della sua indagine. Tornò a scuola per aspettare Ryan ma il ragazzo non aveva partecipato alle lezioni quel giorno e non si presentò per le due successive settimane. Teresa non sapendo che fare andò nella segreteria della scuola a chiedere del ragazzo ma le risposero che non erano tenuti a dare queste informazione. Un giorno suonarono alla porta, Teresa aprì subito, era una ragazza giovane,alta con occhi castani e capelli corvini; la signora capì subito che doveva trattarsi di un’ amica di Sarah, così a fece accomodare in casa e le chiese il motivo della visita… La ragazza spiegò che Ryan era tornato a scuola e che lo aveva sentito parlare di Sarah con un amico e che si erano dati appuntamento alla vecchia stazione in via Piemonti 79. Teresa accompagnò la ragazza a casa e poi andò a tutto gas verso la vecchia stazione. Uscì dalla macchina e in lontananza vide due ragazzi: uno era biondo e di media di altezza l’altro invece ca172


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stano e un po’ più alto; la signora si nascose dietro un albero che si trovava di fianco a lei e cominciò a spiare i due giovani. Ascoltando la loro conversazione sentì che il ragazzo biondo parlava del fatto che avesse ucciso qualcuno e doveva scappare. Piano piano Teresa si avvicinò ma sempre “rimanendo nell’ombra” ma nel muoversi lentamente fece un rumore brusco e improvvisamente i due si girarono ma per fortuna la donna non si fece scoprire però i ragazzi insospettiti si guardarono intorno e cominciarono a camminare nella direzione della donna, la quale scappò senza farsi vedere, entrando in macchina per tornarsene a casa . Sulla strada vide un negozio Fai–Da–Te, vi entrò e comprò una corda e del veleno per topi, il commesso non riusciva a spiegarsi a cosa servissero quelle cose alla donna e le disse solo: – 35 dollari e 90 per piacere –. La donna diede i soldi al commesso e se ne tornò a casa. Il giorno seguente andò a scuola per parlare con Ryan; quando vide il ragazzo lo fermò e fece finta di avere un’ aria triste e disse che era distrutta per la morte di Sarah e voleva parlarne con lui. Il ragazzo rispose che non aveva tempo, allora lei lo invitò a cena dicendo di presentarsi alle 20.00. Arrivò a casa e preparò una bella cenetta sostanziosa, e aggiunse quello che aveva precedentemente comperato. Alle 19.55 Ryan era già davanti alla porta suonò e la donna aprì, lui entrò ma non ne uscì più… 173


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Le chiamate misteriose Margot Picchizzolu

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n un gelido e piovoso giorno di inverno Courtney Jonson si trovava nella piccola e polverosa biblioteca della prestigiosa scuola di Londra, chiacchierando con Emily. Poco più tardi arrivò il “The Times” con in copertina una notizia shock. Ma non fecero in tempo a leggerla, perché un urlo le interruppe. Le due ragazze corsero nell’atrio come fecero gli altri allievi, corsero tutti nel luogo dove proveniva l’urlo e trovarono una bella ragazza che giaceva distesa a terra nel bel mezzo di una grande pozza di sangue. I docenti ordinarono agli allievi di ritornare nelle rispettive aule. E cercano di capire chi avesse compiuto tale gesto nei confronti di quella giovane e taciturna ragazza. Courtney si trovava dietro all’armadietto, quando sentì la conversazione tra la prof. Scarlett e Christine, la sua compagna di banco. Lei rimase lì ad ascoltare e la prof diceva: – Allora? Ci stai? Dove hai messo il telefono?– La ragazza mugugnò e le rispose che lo avrebbe ritrovato. La campanella suonò per chiamare tutti i docenti in riunione, presso la Direzione della signorina Watson. Mentre stavano confabulando il telefono squillò, della direttrice, che rispose con tono garbato: –Pronto, college Oxford, chi parla?– La direttrice ascoltava, ma un suono di dita regolare 174


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che batteva sul tavolo le confondeva le idee. Era la prof Scarlett che tamburellava sul tavolo con le sue lunghe unghie rosse, solito da lei. – Prof Scarlett la smetta con il suo tic!– La direttrice adesso con l’ aula piena di silenzio riusciva a concentrarsi e a capire quello che diceva la voce. – È morta! So chi è stat…– –Pronto?– – Catherine James.– La direttrice un po’ snervata voleva attaccare ma la chiamata continuò… Alla direttrice continuavano a passargli per la testa tali parole: è morta, è morta. Poco dopo decise di porre fine alla chiamata, e così fu. Alla fine la ragazza deceduta era proprio il nome citato al telefono. E di nuovo un’altra chiamata, sta volta la direttrice passò la cornetta al vice preside che rispose: – Pronto?– La prof Scarlett iniziò il suo nervosissimo tic. – Pronto?– disse il vice preside. La voce misteriosa disse: –Io lo so! So chi è stato! Drinnn! La campanella suonò, i docenti ritornarono alle loro abitazioni, tranne la direttrice che contattò l’ispettor Edward Robinson. L’ispettore arrivò qualche istante dopo, per ispezionare l’intero edificio. La direttrice fece chiudere l’antico portone dell’entrata della scuola, e si mise a cercare indizi con l’ispettore. Decisero di scendere al pian terreno nell’ locale caldaia. 175


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La direttrice non si dava pace voleva sapere. Giunti al locale caldaia trovarono un telefono, la direttrice si chiese tra lei e lei: –Ma se le chiamate provengono da questo telefono, chi può mai essere così stolto da dimenticarselo?– L’ ispettore con un occhio più attento trovò anche un pezzo di un unghia rossa. L’indomani portarono il telefono in polizia, dove sarebbero risaliti al proprietario, e così fu, il poliziotto disse che dai tabulati telefonici e le ultime chiamate erano dirette proprio alla scuola. Courtney andò in Direzione dicendo di aver sentito una conversazione insolita tra la prof Scarlett e Christine. L’ altoparlante disse: –La prof Scarlett è attesa in Direzione.– La prof entrò, l’aula era completamente buia sembrava quasi un’ interrogatorio, la direttrice disse: – Buongiorno Lucy Scarlett, le sembra famigliare questo cellulare?– La prof parlò solo dopo qualche istante: – E va bene le confesso cosa è successo. Il cellulare è di Christine, l’ ha uccisa lei Catherine, non so bene per quale motivo però subito dopo l’accaduto è corsa da me e ha confessato tutto disperata, si pentiva di quello che aveva fatto.– La direttrice chiamò la ragazza e sentì anche la sua versione: – Cosa io? No non ho mai fatto una cosa del genere e mai la farò. Lo giuro non sono stata io! Era anche una 176


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mia amica, lo ammetto litigavamo spesso,ma non farei mai una cosa simile. La direttrice pensò e poi arrivo alla conclusione. Chiamò la Scarlett nel suo ufficio. Quando entrò c’era solo un unghia rossa sul tavolo e due agenti della polizia che entrarono dopo di lei dalla porta. – Perché?– – Era la figlia dell’amante di mio marito– disse in lacrime la prof. – Perché hai coinvolto Christine? – Litigava spesso con la ragazza, così pensavo che sarebbe stato un gioco da ragazzi incolparla.– –Ho solo una cosa da dirti: Sei diventata docente per amare i tuoi allievi, anche se si ha preferenze, gli allievi sono tutti uguali. Aveva il diritto di vivere come tutti gli altri. Lei non aveva colpa se tuo marito aveva un’amante, sei stata tu a dargliela.–

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Amori confusi Sara Talayman

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l ragazzo correva a più non posso verso la Direzione con le lacrime agli occhi, lacrime calde, appena uscite, piene di paura. Si aspettava di trovare il direttore, invece trovò la prof di italiano, la Rosselli. Il ragazzo ansimava mentre parlava, ma si poteva benissimo comprendere quello che diceva; quando finì di raccontare quello che aveva visto, la prof restò di sasso, non sapeva cosa dire, cosa molto strana da lei, che aveva sempre una risposta pronta. Le solite pettegole lo vennero subito a sapere e quella notizia, anche se tragica, venne pubblicata sul loro blog. ”Federico trovato morto sul tetto della palazzina più vecchia del liceo”. Chi l’aveva trovato era il suo migliore amico Andrea, che in lacrime si gettò tra le braccia di Lucia, la sua ragazza, che cercava di consolarlo, senza però riuscirci. Anche Francesca, la ragazza della vittima, era stravolta, non era più uscita dal bagno da quando la notizia si era diffusa. La Rosselli e il direttore stavano parlando con la polizia. Esaminarono il corpo, che presentava un taglio molto esteso sul petto, vicino al cuore del povero ragazzo, un bel ragazzo, alto e magro; simpatico e dolce era quello che si poteva desumere dai commenti dei suoi compagni sconvolti. La Rosselli era pensierosa e insieme ad un agente della polizia interrogava tutte le persone che avevano un legame con Federico. Nel frattempo due ragazze nel corridoio iniziarono una discussione tutt’ altro che serena… –Ti hanno già interrogata?– 178


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–Non ancora, tra un’ora esatta mi hanno detto–. –La Rosselli ne sa tanto di giallo, non fare scemenze, non tremare mentre parli e se la guardi negli occhi, guardala intensamente, per farle credere che stai veramente male. Nessuno deve sapere che io ho avuto una storia con Federico. Creati un’ alibi. Sai al gioco e dì quello che abbiamo ripetuto più volte!– –Sì, va bene, ma sta attenta anche tu–. Una delle ragazze a cui non sfuggiva nulla era dietro gli armadietti e aveva sentito l’ ultima parte del discorso. Intanto i ragazzi che potevano essere implicati nella vicenda stavano entrando uno per volta nella grande aula dei docenti, dove si teneva l’interrogatorio. Arrivò pure il turno di Lucia e Francesca. Dopo averle interrogate, alcune frasi pronunciate dalle ragazze presero a rimbombare ossessivamente nella testa dell’ insegnante. Una aveva detto: “ è stato il ragazzo che ho amato di più, il ragazzo perfetto”. L’ altra: ” è stato l’ amico al quale ho voluto più bene, l’ amico perfetto.” L’ arrivo di una e–mail riportò la prof Rosselli alla realtà, il cui sguardo ora era rivolto al suo computer. Non guardava mai il blog della scuola, ma questa volta decise che era forse meglio dare un’ occhiata. Venne incuriosita dalla frase scritta in grassetto:” Lucia e il povero Fede avevano una storia”. Per l’ agente di polizia questa fu la dimostrazione che cercava per incolpare Andrea, l’amico che aveva trovato il cadavere. Il ragazzo spinto dalla gelosia del tradimento doveva essere uscito di testa… Tuttavia la Rosselli non era convinta… Andrea era stravolto, il suo migliore amico era morto, la sua ragazza l’ aveva tradito e tutte le accuse per l’ omici179


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dio cadevano su di lui. Voleva risposte, risposte su tutto quanto. Quindi decise di andare da una persona di cui si fidava. – Lei non può credere che sia stato io, io… Era il mio migliore amico non avrei mai fatto una cosa del genere, anche se aveva una storia con la mia ragazza–. La prof stava pensando, era una donna sempre sulle nuvole, sembrava quasi che non lo ascoltasse, e proprio questo fece perdere la pazienza ad Andrea: – Prof mi ascolta?!– – Sì, sì Andrea certo che ti ascolto, tranquillo, fidati, io ti credo, ma dobbiamo parlare con alcune persone per fare chiarezza–. Vennero chiamate nell’ aula, che ormai era diventata un commissariato, Lucia e Francesca. Erano agitate, si guardarono negli occhi, che erano già lucidi, pieni di rimproveri a loro stesse; si erano vendicate, ma le loro coscienze non potevano reggere un peso così grande… Videro la prof Rosselli e due agenti della polizia. Era finita. Improvvisamente dal fondo dell’ aula si udì una voce cupa. – È andata così, vero? Lui diceva che amava profondamente tutte e due, voi, dopo averlo scoperto vi siete volute vendicare. Conoscevo molto bene lui e conosco anche voi. Ma arrivare a ucciderlo, non me lo sarei mai aspettato– . Era una voce triste ma piena di rabbia. Un po’ malinconica forse. Francesca era impaurita e non aveva ancora capito di chi fosse, a Lucia invece cadevano grosse lacrime sulle guancie che si creavano un passaggio tra il fondotinta; lei invece lo sapeva molto bene a chi apparteneva… 180


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L’inizio della saga Elas Achler

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l giallo è un genere che credo conosciate già grazie alla TV. Esistono il giallo d’enigma e quello di suspense, e…” Josh era molto interessato all’argomento, lo appassionava, ad ogni racconto che leggeva si sentiva più coinvolto. Suonata la campanella, come al solito, rimase in classe ancora cinque minuti per fare una domanda alla maestra. Era una donna alta e snella, i suoi occhi celesti contrastavano con il colore dei capelli corvini mentre i denti bianchi e le labbra sottili le accentuavano un sorriso già smagliante. Josh le chiese: “Scusi professoressa, mi potrebbe elencare qualche possibile giallo da prendere in prestito in biblioteca?” “ Puoi provare con dei racconti di Edgar Allen Poe”, rispose orgogliosa lei. Josh protestò: “Mi raccomando, devono essere thriller!” “Certamente.” Confermò lei con aria interrogativa. Soddisfatto si recò in biblioteca per ritirare un paio di libri dell’autore consigliato. L’ispirazione lo portò a scegliere “L’uomo finito” e “Silenzio”, di cui lesse subito la trama tornando a casa. Non fece in tempo a salutare sua madre che era già in camera per iniziare a leggere “L’uomo finito”. Gli bastò un fine settimana per divorare i suoi due volumi. Era ossessionato dai gialli di suspense, ormai non gli bastava più leggere racconti di questo genere, voleva farne parte! Cominciò ad appuntarsi tipiche frasi da omicida trovate nei suoi libri e il lunedì, andando a scuola, ordinò mentalmente il testo che 181


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avrebbe dovuto recitare più tardi. Arrivato a scuola cominciò con due ore di italiano: “ Josh, non dirmi che hai già letto un libro di Poe?” domandò la docente. “No prof, ne ho letti due.” “Wow, e ti sono piaciuti?” “Un sacco, ma ora credo che cambierò attività, leggere non è abbastanza emozionante.” Scienze era la materia delle due ore successive, anch’essa lo incuriosiva molto ma la passione per i “thriller” era incontrastabile. Dopo una lunga e interessante lezione sulle varie sostanze chimiche, Josh chiese al professore, un uomo di media altezza con i capelli grigi in tinta con la barba ben rasata e il maglione, se gli era rimasto del cloroformio. “Il maestro un po’ sorpreso rispose: “Sì, dovrebbe essermene rimasto un po’.” Aprì l’armadio e gliene presentò una boccetta davanti. Josh la prese e già che il docente era impegnato a richiamare un paio di allievi casinisti, intinse nella sostanza lo straccio che aveva furtivamente rubato poco tempo prima. “ La ringrazio per la sua disponibilità”, disse cortesemente il ragazzo restituendo la sostanza in questione, e, mentre il maestro rimetteva al suo posto il cloroformio, si allontanò con lo straccio nello zaino. Ormai era ora di tornare a casa per il pranzo, ma questo non rientrava nei suoi piani. Josh vide un ragazzo di media altezza, snello, con i capelli bruni e la pelle abbronzata, insomma un bel ragazzo; si avvicinò e gli chiese: “Come mai sei ancora a scuola a quest’ora?” “Devo fare una ricerca e resterò qui anche all’ora di pranzo, perché?” chiese lui. “ Per interesse personale.” Replico Josh. Il ragazzo, anche se non soddisfatto della risposta andò nel’aula di informatica, 182


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mentre Josh andò alla toilette, cioè il locale più vicino a quello del ragazzo, e aspettò lì, nascosto, fino al momento in cui sentì il rumore di una maniglia che si abbassava… era il momento! Pedinò il ragazzo per qualche istante, poi estrasse lo straccio dallo zaino e glielo premette sul volto, aspettando che i suoi splendidi occhi verdi si spegnessero per farlo cadere in un sonno profondo. Quando si svegliò, il ragazzo era legato a una sedia, e ancora un po’ stordito chiese a Josh, che era in piedi davanti a lui: “Dove sono? Dove mi hai portato?” “Sei nello scantinato della tua scuola”, chiese tranquillamente Josh. “Cosa ci faccio qui? Cosa vuoi da me?” continuò a domandare terrorizzato il ragazzo. “Non ho niente contro di te, sei solo il povero sfortunato che oggi è rimasto a scuola anche all’ora di pranzo”, rispose Josh. Quello che ti succederà sarà solo per colpa tua…… a proposito, non mi hai ancora detto il tuo nome!” aggiunse ridacchiando mentre gli infilava un pezzo di stoffa in bocca. “Allora, come mi consigli di ucciderti?” gli chiese Josh. “Mhmhmhmhmh… Mhmhmhm” mugugnò spaventato lui. “Sono assolutamente d’accordo con te!” Josh girò attorno al ragazzo e cominciò a recitare la parte in cui l’assassino dice il movente alla vittima: “Sono sempre stato un tipo emarginato, non ho mai avuto 183


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amici.” Nel frattempo strisciava di piatto la lama di un coltello sulla sua guancia. “Quando, invece, tu pensi di essere così carino.” Il coltello ruotò e solcò la guancia del ragazzo, il quale si lamentò afflitto. “Così intelligente.” Questa volta tagliò parte del naso e il ragazzo si lamentò sempre più straziato. “Così popolare.” I lamenti dopo il terzo taglio erano insopportabili. “Ma in realtà sei solamente… morto!” La testa del ragazzo cadde pesante alla base del collo, dondolava a destra e a sinistra. Dopo la campanella tutti rientrarono a scuola ma il loro tragitto terminò prima del previsto. Erano tutti pietrificati davanti alla scena di Andrew morto, nell’atrio principale, con la gola mozzata, guardandolo annegare nel suo stesso sangue, il quale era stato anche usato per scrivere sulla parete: “VOLUME N°1.”

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Noir a scuola Alberto Jelmini

O

ra Aldo non è più tanto sicuro! Dì un po’ che sei stato tu! Aldo, allievo, molti anni fa, di terza elementare nella scuola di un villaggio alpino, fissando la maestra negli occhi (la nonna non diceva sempre che la verità esce dagli occhi?), continuava a ripetere: No, non sono stato io! – La maestra, inflessibile, puntò il dito contro di lui: – Perché mi guardi così? Sei stato tu, dillo una buona volta! – Nell’aula c’era silenzio, un silenzio percorso da scariche elettriche. Aldo, in piedi accanto al tavolo della maestra, ne era impaurito e non osava guardare verso i compagni, dai quali sperava ancora nel profondo dell’animo, di ricevere un aiuto, fosse solo uno sguardo di sostegno, di comprensione; soprattutto dai due compagni di classe, un ragazzo, Carlo, del quale in verità non era molto amico, e una ragazza dalle treccine, Lidia, molto vivace e creativa. Ma in quel momento erano tutti zitti e lontani. Non solo, ma i piccolini di prima e di seconda erano visibilmente spaventati, perché non sapevano che cosa in realtà fosse capitato nel piccolo gabinetto freddo e spoglio della scuola. Quanto ai più grandicelli, di sicuro qualcuno stava facendo un rapido esame di coscienza, non volendo di certo trovarsi al posto di Aldo. Questi, sempre più smarrito e incredulo, con le forze 185


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che gli rimanevano cercava di trasmettere la verità del suo piccolo mondo. Nello stesso tempo però la maestra infieriva con la domanda diventata ritornello: – Sei stato tu! Dì che sei stato tu! – Ad ogni risposta negativa seguiva un silenzio che ad Aldo pareva non dovesse mai terminare. Eppure non distoglieva lo sguardo dal viso della maestra, disperatamente convinto che ad un certo punto avrebbe dovuto accorgersi che diceva la verità! Invece, evidentemente contrariata, ad un tratto si alzò, fece lentamente il giro del tavolo, fissando severamente la dozzina di allievi e gridò: – Allora, è forse stato qualcuno di voi? Su, parlate!– , senza rendersi conto che nessuno, salvo l’eventuale vero colpevole e l’allieva più grande che le aveva appena riportato quanto scoperto, poteva sapere di che cosa si trattasse. Rimasta immobile per qualche istante, in attesa di una risposta che non sarebbe mai giunta, prendendo in mano, quasi per caso, un quaderno dei compiti, soggiunse : – E questo sangue sulla copertina del tuo quaderno, Carlo? La risposta fu pronta: – Mi è venuto sangue da naso! – La maestra lo guardò per un attimo in silenzio, poi, rapida, tornò a sedersi. Fattasi gentile e quasi melliflua, riprese: – Perché non vuoi dire che sei stato tu? Sei l’unico che ieri pomeriggio mi ha chiesto di andare al gabinetto! – 186


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Era vero, ma non aveva notato nulla di strano ed era rientrato tranquillamente in classe. – No! No!... – Stanco dell’assurdo interrogatorio, ora rispondeva solo a monosillabi, con la voce tremante. La maestra se ne accorse e riprese il tono severo e inquisitore: – Sei stato tu! Vedo nei tuoi occhi che sei stato tu! Dì che sei stato tu! Ti trema la voce perché sei stanco di dire bugie! – Il silenzio nell’aula era diventato opprimente. Tutti tacevano, dominati dalla paura, ma nello stesso tempo in aspettativa di qualche informazione su quanto capitato. Invece, come una mazzata, era giunto il ricatto. – Un bravo allievo come te non dice bugie! – E poi subito, ridiventata aggressiva: – Dì una buona volta la verità! Dì che sei stato tu! – La maestra avvicinò il proprio viso alla faccia di Aldo, e scandendo le parole gli disse, feroce: – Sei stato tu! – Al ragazzo girava la testa, non udiva più nulla, salvo il rintronare di un ritornello dentro la testa “Sei stato tu!; sei stato tu...”, ma soprattutto sentiva precipitate nel vuoto quelle che credeva le sue certezze. Per un attimo trovò ancora la forza di guardare verso i compagni: mutismo generale, occhi spalancati e trepidanti, con un misto di curiosità in quelli dei due compagni di classe, che sembravano aspettare con interesse e apprensione la sua risposta. Ad ogni modo non gli venne nessun aiuto, per cui, oltre alla sensazione di trovarsi terribil187


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mente solo, capì di non essere più in grado di sopportare quella situazione. Cercò un’ultima volta di spiegarsi, ma le forze gli vennero meno, per cui all’ultimo, imperioso: – Sei stato tu?–, sentendosi l’acqua alla gola, con una voce che non riconobbe più come sua, lasciò uscire un debole: – Sì... – La maestra era visibilmente soddisfatta: – Finalmente! Ci voleva tanto! Dillo più forte! – E allora Aldo, provando dopo molto tempo un senso di sollievo, ripeté il suo “Sì!” Giunto a casa con un biglietto della maestra, Aldo tremava al pensiero di subire un secondo interrogatorio. Ma la mamma, dopo aver sentito il desolato “Non sono stato io” di suo figlio, gli credette, aiutata dal fatto di conoscere assai bene i compagni di classe, simpaticissimi, ma birbe, capaci di qualsiasi colpo gobbo. Sebbene fosse già quasi notte, scese al villaggio sottostante, decisa a vederci chiaro. Dalle poche parole agitate e sconnesse del figlio non le era parso corretto il modo con cui era stato trattato. Stava già preparando mentalmente le parole da dirsi, quando l’anziana maestra, in paese da pochi giorni per una supplenza, appena aperta la porta, l’accolse con una certa eccitazione: –Immagino il motivo che la conduce qui, e mi scuso perché ho paura di essermi sbagliata col povero Aldo. Stavo correggendo i compiti assegnati ieri sera e senta che cosa mi scrive Lidia. – Aveva in mano un quaderno, e dopo averlo aperto 188


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sull’ultima pagina, seguendo col dito le parole che la ragazzina aveva scritto sul foglio quadrettato, lesse il terzo “pensierino”: “Questa sera Carlo, in gabinetto e si è fatto male alla mano ed è venuto fuori tanto sangue”. La maestra era dispiaciuta e dopo una chiacchierata, congedando la mamma, promise: – Non me l’aspettavo, perché nessuno ha il permesso di scendere in gabinetto dopo scuola, ma domani mattina voglio proprio vedere chi ha spaccato i bicchieri di cristallo e rovinato l’intonaco del lavandino! –

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I frammenti di metallo Michela Ferri

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ra il 16 giugno 1996, mancavano tre giorni alla fine della scuola. Quel martedì si respirava aria d’estate ma per qualcuno… odore di morte. Il professor Formula stava facendo una delle sue noiosissime lezioni mentre gli allievi facevano altro; c’era chi stava appoggiato con la testa sul banco, chi parlava d’altro, chi si dondolava con le sedie, ma niente di tutto ciò dava fastidio al prof. Un unico ragazzo aveva il poter di innervosirlo: era Ludovico, un ragazzo magro, basso, lentigginoso, amante degli insetti, che però quel giorno assente. Nico, uno dei pochi amici di Ludovico, si accorse della sua mancanza e lo disse al professore, che subito dopo aver appreso la notizia impallidì e cominciò a mordere nervosamente la penna. Le lezioni terminarono, i ragazzi uscirono ma il prof. rimase in classe a fissare il muro bianco. Nico lo guardò e chiese perché fosse così pallido ma lui non gli rispose, prese la sua valigetta e corse via. “Dove scappa prof ? Si fermi, voglio solo parlarle!” Gridò Nico, ma ormai il professore era già fuori dall’istituto. Nico cominciò a fare mille domande a tutti: “Avete visto Ludovico?” “Qualcuno di voi sa se è malato.” Sembrava che a nessuno interessasse la mancanza di questo ragazzo, sempre presente e che quando mancava avvisava sempre. 190


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Nico andò a casa molto preoccupato e pensieroso, tanto che quella notte non dormì molto. Al mattino partì presto da casa con l’intenzione di scoprire dove era stato il giorno prima Ludovico. Arrivato davanti al piazzale scolastico, trovò molte macchine della polizia e una miriade di poliziotti che molto freneticamente entravano e uscivano dalla scuola. Il povero Nico chiedeva a tutti quelli che incontrava: “Cos’è successo?” “Perché tutta questa polizia?” Nessuno gli rispondeva. Finalmente un giovane poliziotto gli si avvicinò: “Carissimo, come ti chiami?” “Nico” rispose. “Frequenti questa scuola, se un compagno di Ludovico?” Dopo aver risposto a queste piccole domande gli dissero che avevano trovato il corpo esanime di Ludovico, nel locale caldaie con un proiettile infilato nel cuore. Le indagini erano in corso, il corpo speciale della polizia aveva già rilevato degli indizi importanti: un pezzo di camice bianco incastrato in una valvola e dei frammenti di metallo. Durante una perquisizione approfondita in un’ aula trovarono un altro corpo senza vita, quello della vice direttrice; il caso divenne ancora più intricato e misterioso. Tutti i ragazzi della scuola dovettero rispondere a molte domande e gli interrogatori furono pesanti. “Dove ti trovavi ieri mattina?” “ Qualcuno può testimoniare che eri in quel posto a 191


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quell’ora?” “In che rapporti eri con le vittime?” Dopo aver finito con gli alunni passarono in rassegna gli insegnanti e tutti gli indizi portavano verso il signor Formula, docente di scienze, che non si trovava in sede in quel momento. Decisero di andare nella sua classe per vedere se trovavano qualcosa. E lì purtroppo fecero un’altra brutta scoperta: il corpo corroso del prof. Formula, vicino al cadavere trovarono una lettera e una bottiglietta contenente una soluzione di acido solforico. Gli agenti presero la busta, la aprirono e scoprirono cosa era successo: “Stavo lavorando nel mio laboratorio, trafugavo materiali molto preziosi e dei dati segretissimi, che non avrei dovuto divulgare al di fuori del mio lavoro. (Ho conosciuto delle persone senza scrupoli, disposte a pagare molto bene le mie scoperte e la mia nuova invenzione, il ragno meccanico, ed io in un momento di fragilità ho accettato i loro soldi). Ludovico mi vide e capì subito cosa stavo combinando, corse velocemente a comunicarlo alla vice direttrice. In quel momento ho perso la testa e non ho capito più nulla. Sono andato a cercarlo e con una scusa banale sono riuscito a trascinarlo nel locale caldaie e con il mio ragno meccanico, brevettato da me, ucciderlo è stato un gioco da ragazzi. Non appena Ludovico ha aperto la porta delle caldaie, il ragno, dalla sua bocca speciale, sparò il colpo mortale; vedendo che il mio brevetto funzionava mi sono esaltato all’inverosimile e senza ragio192


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nare passai all’azione per eliminare la vice direttrice, non potevo lasciare che la scuola scoprisse il mio tradimento. Decisi di avvicinarmi alla vice direttrice con la scusa che volevo confessare tutto, la invitai in mensa per un caffè; misi una dose letale di sonnifero nel suo caffè e appena si addormentò, la portai nella prima aula che trovai. Tornato nella mia aula, calmatomi un po’, ho capito cosa avevo combinato e che nulla al mondo valeva la morte di due persone. Il pentimento, il rimorso e la vergogna hanno avuto il sopravvento e per questo ho deciso di compiere questo gesto. Prima di andarmene voglio almeno chiedere scusa e perdono a tutti per il male che ho fatto. Il professor Formula “. Nella scuola scese un silenzio spaventoso, nessuno parlava, nessuno chiedeva, tutti restarono nel palazzo scolastico senza avere il coraggio di tornare a casa. Che il prof. Formula fosse un po’ strano, chiuso, schivo lo sapevano tutti ma che potesse arrivare a tanto nessuno lo pensava…

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Occhi di ghiaccio Valentina Balmelli

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ro seduta al banco con la mia mini gonna nera, quando vidi Asael attraverso la finestra correre verso lo scuolabus. Forse dopo la nostra discussione aveva capito e preso la decisione di confessare tutto. Suo padre lavorava nella squadra anticrimine della città e sua madre se ne era andata quando lui aveva 3 anni. Non l’aveva mai conosciuta, ma era stata proprio lei a scegliere il suo nome di battesimo, Asael uno degli angeli più importanti tra gli angeli vigilanti. Tutto quello che pensava e che sentiva, non conciliava con le sue azioni. Lui era Burbero e sempre pronto a puntare il dito solo perché il mondo non rispecchiava il suo colore interiore. Discutevamo; lui si sentiva di color amaranto, giallo scuolabus, terra d’ombra bruciata e rosso sangue. Io gli dissi che era difficile da dire per quanti colori potessero esistere al mondo, i colori sono infiniti come tutte le tonalità e le sfumature di noi esseri umani. Asael era di un colore incolore, l’insieme di tutti i colori del mondo… Il Nero, the Black, il Noir… A volte si divertiva a spaventare gli insegnanti con scherzi macabri e di cattivo gusto. Un giorno si presento a scuola con la pistola di suo padre,me la fece vedere con orgoglio e mi disse che il giorno prima era andato con suo padre allo stand di tiro per allenarsi. Veniva a scuola solo per un motivo. Si era invaghito 194


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della nostra professoressa di Botanica, la signorina Florence, una donna molto misteriosa, sicura di se, con le sue sigarette lunghe e fini proprio da vamp. Era scomparsa! Il direttore ci informò dell’accaduto. La polizia arrivò per interrogare tutti i professori e per ispezionare la scuola. Era stata la sorella di Florence ad accorgersi della scomparsa. Il padre di Asael dirigeva le indagini, ma non trovarono nulla, la polizia era ad un punto morto. Il giorno successivo tornai a scuola con il mal di testa a causa delle mille domande che mi feci quella notte e forse con le mille risposte senza senso. Era lui che in qualche modo aveva a che fare con la scomparsa della prof., oppure era quel terribile mal di testa che mi mandava fuori strada. Il banco di Asael era vuoto, non si era presentato alla lezione di botanica. Il laboratorio si trovava all’ultimo piano, pieno di piante di ogni genere, la mia preferita era il taxus bacata, detta anche tasso comune o albero della morte. Il direttore ci aveva informato che una nuova insegnante avrebbe sostituito la signorina Florence.Camminavo ansiosa verso l’aula di botanica e prima di entrare un urlo mi fece capire che qualcosa era successo. Dopo alcuni giorni la notizia; sul giornale; l’articolo diceva che l’avevano finalmente trovata sotterrata in un vaso. Il mignolo spuntava dalla terra bagnata, come l’erba appena seminata. Dopo l’autopsia trovarono 7 semi velenosi di una pianta comune nello stomaco della professoressa. 195


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Mi diressi verso casa, la notte era già alle porte, ero stata per ore a pensare, ai sette semi assassini, a cosa dovevo fare, a dove diavolo fosse finito Asael. Decisi di chiamare la polizia e di confessare tutto. Non riuscivo più a dormire, continuavo a pensare ad Asael, ai suoi splendidi occhi di ghiaccio, perché non mi chiamava, perché non si faceva sentire. Erano passati tre giorni di interrogatorio ed Asael non si era ancora fatto vedere alla centrale di polizia. Era il 7 Gennaio 2010 quando mi svegliai con la bocca asciutta, aprendo gli occhi vidi soltando un colore. Il grigio era tutto attorno a me e non capivo dove diavolo fossi finita. Era forse un incubo. Trovai il giornale sul letto, in prima pagina c’era scritto che avevano incastrato l’omicida della professoressa Florence, il movente era la pura gelosia. Mi resi conto dopo che l’assassino della giovane professoressa Florence era proprio davanti ai miei occhi. Nella stanza c’éra soltanto un letto bianco ed un piccolo specchio rotto attaccato alla parete. Rifletteva la mia immagine.

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Sfilata a sorpresa Martina Soldati

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erché mi trattano in questo modo? Cos’ho fatto di male? Proprio non capisco…” é questo che Alice si chiede tutti i giorni. Alice soffre, e nessuno se ne accorge… A scuola tutti la deridono e parlano male di lei, solo perché nella sua scuola la moda è la cosa più importante di tutte: apparire prima dell’essere. Lei è soltanto sé stessa, e per questo viene reputata diversa, strana; ma è pur sempre una ragazza diciottenne stupenda. È vero, è un po’ fuori dalle righe e il suo abbigliamento in stile gotico lo accentua; ed é per questo motivo che viene esclusa dal resto delle ragazze e da ogni gruppo. È una giovane donna molto intelligente e con molte passioni, una di queste è la lettura, mangia libri per sopravvivere, si rinchiude nel mondo surreale della storia che sta leggendo. Dopo un fine settimana, è ora di tornare a studiare sui banchi di scuola, la Scuola di Abbigliamento e Moda di Cottwool, la SAMC. La classe di Alice è composta da sole undici ragazze e quel giorno Natalie è assente, nessuno ne conosce il motivo, ma tutti credono sia a casa malata. È quel giorno che dall’aula di lavori sartoriali, il signor Widdall, il docente di cucito, dopo pochi minuti da quando era entrato, ne esce con una faccia meditabonda e si dirige a passo svelto verso le scale che portano al 197


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piano superiore della scuola, dove si trovano la direzione e la segreteria. Il custode, avendo visto il professor Widdall salire sconvolto, aspettò il suo ritorno nell’atrio. Passarono giusto pochi minuti, quando udì lo scricchiolio della porta della segreteria, segno che l’olio che ci aveva messo la settimana passata, non era stato sufficiente. Non fece in tempo a parlare che il direttor Eric Sapp gli fece cenno con la mano di seguirlo; e così lui fece. Widdall indicò un tavolo imprecisato sul lato sinistro dell’aula, quello lontano dalle finestre. Sapp stava per domandare a Nolan Widdall quale tavolo con esattezza avesse indicato, ma questo non fu necessario… perché vide… Riuscì a trattenere a malapena un gridolino, ma nessuno ci fece caso, da meno il signor Widdall che aveva avuto la medesima reazione a quella scena. Non era più quel color panna a causa dell’uso, ma era quasi completamente sporco di rosso, di quella tonalità del sangue; e sul bordo destro del banco era stato lasciato un forbicione di proprietà della scuola, anch’esso con evidenti tracce dello stesso colore che non migliorava di certo il panorama. Qualche ora dopo giunge la polizia. Domande a destra e a manca, dai membri della direzione ai professori e perfino ad alcune alunne; la polizia brancola nel buio… Sembra sangue, ma al momento le squadre della scientifica sono tutte impegnate con dei rilevamenti di casi più importanti rispetto a quello di un banco sporco in una scuola della periferia. La classe viene così soltanto chiusa a chiave, in attesa della prossima visita del commissariato. 198


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La prima cosa a cui il direttore, molto in ansia, pensò; fu di contattare, dopo la polizia, tutti gli assenti o la loro famiglia in cerca della conferma fossero a casa sani e salvi. Telefonò dapprima a Elisa, una ragazza dell’ultimo anno con alcuni problemi di salute, e la madre confermò che la figlia aveva avuto un forte attacco di asma e perciò era rimasta a casa per riprendersi. La chiamata successiva fu per Natalie, la compagna di classe di Alice. Dall’altra parte del telefono però non ci fu nessuna risposta e il nervosismo del direttore aumentò notevolmente. Mentre Alice si sta recando nell’aula della lezione del pomeriggio, la numero 8 di conoscenze professionali, tutte le ragazze che stavano spettegolando ai lati del corridoio, si zittirono immediatamente e la guardarono di sbieco. «Cosa può essere successo?» «Non lo so, non lasciano entrare nessuno in classe. Il signor Widdall e il direttore, quando sono usciti dal laboratorio prima di chiuderlo, sembrava avessero appena visto un fantasma. Gira la voce che un banco e una forbice fossero insanguinati. Non so proprio cosa possa essere successo là dentro.» «Secondo me c’entra lei! È troppo strana, e poi hai visto come si veste! Mi fa paura.» e puntò l’indice dritto su Alice. Lei, accortasi della situazione, non fece altro che velocizzare il passo. Tutti sapevano, tutti tranne lei… Tutti continuavano 199


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a domandarsi “È stato un omicidio? Se é così, dov’è il corpo?”. Nessuno però aveva il coraggio di dirlo ad alta voce. Il signor direttore, seduto sulla sedia di pelle del suo ufficio, continuava a rigirarsi tra le mani una delle penne con il logo della scuola, e ogni cinque minuti alzava la cornetta del telefono e provava a richiamare Natalie per avere sue notizie, ma niente da fare, entrava sempre in funzione la segreteria telefonica. Dopo due giorni, quel mercoledì sera, era giunto il momento dell’anno che tutte le famiglie degli studenti aspettano, la “sfilata a sorpresa” dove veniva dato un lavoro alle ragazze e dovevano svilupparlo creando un abito da presentare ai genitori per mostrare tutto ciò che la scuola insegnava alle iscritte e quanto tutte loro fossero piene di talento. «Natalie!» urlò Fracesca nel backstage e le corse incontro. A quell’esclamazione il direttore Sapp riuscì a prendere finalmente un sospiro di sollievo e le rughe sulla fronte che gli erano comparse nei giorni precedenti svanirono in un istante. Natalie non era in piena forma, ma non voleva mancare a quell’attesissimo evento ed era ansiosa i vedere sfilare in passerella l’abito creato da lei. Sfilarono molti abiti –uno per ogni studentessa della scuola– fatti di pregiati tessuti di seta e fu un arcobaleno di colori. E poi eccolo… Ecco il corpo del reato, uno splendido abito da sera monospalla bordeaux, drappeggiato sul seno che cadeva morbido lungo i fianchi per poi scendere fino a toccare terra. L’orlo e il piccolo stra200


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scico erano umidi per conferire all’abito un look un poco misterioso e gotico. Il presentatore annunciò che quell’abito era di Alice Vrendis. Ora, tutti la videro… una striscia rosso sangue percorreva tutta la passerella, tutti gli spettatori pensarono che era un effetto voluto, ed era così. Ma il corpo docenti e la direzione misero insieme tutti i pezzi del puzzle. Era stato il vestito di Alice a macchiare il tavolo dell’aula di cucito…

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Un fantasma a scuola Patrick Acquadro

“A

llora cosa abbiamo Invernizzi?” chiese il commissario. “Ehm, in realtà sarebbe un omicidio, quindi non so…” “Invernizzi, non complichiamoci la vita che ho già mal di testa. Chi abbiamo?” “Si tratta di un vagabondo capa.” “Chiamami commissario, Invernizzi, te l’ho detto mille volte.” “Sissignora!” La donna si massaggiò la fronte. “Lasciamo perdere. Cosa gli è successo.” “Gli hanno inferto una serie di colpi di forbice.” “Colpi di forbice, d’accordo...” fece il commissario perplessa. “Però c’è sangue solo lì per terra dove si trova ora.” “Ha ragione lei… egli, sì insomma tu commissaria,” balbettò Invernizzi. “Probabilmente lo hanno sorpreso mentre dormiva. Sembrava bene organizzato, potrebbe darsi che passasse qua tutte le notti.” ‘Si spiegherebbero un po’ di cose,’ pensò il commissario annuendo. Sua figlia frequentava infatti la terza elementare in quella stessa scuola e le aveva raccontato spesso del fantasma che ogni notte spostava i banchi, rubava le giacche dimenticate e lasciava le proprie enormi orme in giro per i corridoi. Il commissario guardò le scarpe logore della vittima: 202


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portava come minimo un 44. “Di chi è questo ufficio Invernizzi?” chiese come scrollandosi da un sogno. “Del direttore. È stato proprio lui a trovare il cadavere.” “Era pulito e in ordine quando l’hai interrogato?” “Come un damerino.” Il commossario lo fulminò con lo sguardo. “Invernizzi!” urlò nell’istante in cui si accorse di uno strano odore, come di fritto. In effetti la figlia le aveva parlato anche di quel profumo così particolare emanato dal fantasma: a lei e ai suoi compagni piaceva tanto perché gli ricordava le patatine. “A chi poteva dare fastidio un povero barbone?” chiese Invernizzi. “Un senzatetto,” lo corresse il commissario. “Un senzatetto che sporca… Magari al bidello!” “Dunque signor Galli, lei conosceva la vittima?” “Certo,” rispose senza esitazioni il bidello. “Chi crede che gliele abbia date le chiavi per entrare? Sì d’accordo, sporcava, ma mi faceva pena. Inoltre ai bambini piaceva parlarne. Era diventato un po’ come la mascotte della scuola, anche se invisibile o quasi.” “E non aveva paura che il direttore potesse scoprirla?” “Chi, quel damerino?” Il commissarrio vide Invernizzi che tratteneva un sorriso grande così. “Quello è già bello che si sia accorto del cadavere. E comunque io tra poche settimane vado in pensione, non avevo nulla 203


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da perdere.” “Capisco. E da quanto andava avanti questa storia?” “Da un paio di mesi. Ogni tanto ci chiacchieravo anche, con il barbone intendo, ma era molto riservato e non mi ha mai raccontato i suoi problemi. Prima o poi speravo l’avrebbe fatto.” “Va bene,” tagliò corto il commissario. “Per ora può andare. Arrivederla signor Galli.” Poi si voltò verso Invernizzi. “Chi resta da sentire?” “La segretaria, la signora Noir, ma non penso c’entri nulla, è così piccolina e indifesa...” “Invernizzi, certe considerazioni tienile per te. Cosa aspetti, valla a chiamare.” La mattina seguente il commissario entrò in ufficio pensando alla delusione della figlia quando avrebbe scoperto che il fantasma non c’era più. Invernizzi le si avvicinò a capo chino. “Abbiamo una confessione,” disse. “Come sarebbe a dire?” chiese incredula il commissario. “Abbiamo scoperto l’identità del barb, ehm, del senzatetto… Era l’ex marito della segretaria Noir.” “Quella minuta e innocente?” “Esattamente,” arrossì Invernizzi. “Siamo andati a prenderla e non ha retto, si è sciolta come una statua di ghiaccio ai Caraibi.” Il commissario sorrise brevemente. “Bella immagine. E perché l’avrebbe assassinato?” “Per non rischiare che lui dicesse al bidello o al direttore chi era. L’avrebbe messa in cattiva luce e di certo 204


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accusata di essere una poco di buono che gli aveva tolto tutto quanto. E aveva probabilmente scelto di dormire proprio lì a scuola per perseguitarla. Lei era così ansiosa che non riusciva più a chiudere occhio, così ieri all’alba è andata a scuola e l’ha ucciso.” “Ora è tutto chiaro. Bravo Invernizzi, hai fatto un buon lavoro.” “Grazie commissaria–o… Ma mi ero sbagliato sul conto della signora.” “Non fa niente, nemmeno io mi ero accorta che nascondesse qualcosa. E poi sbagliando si impara.” “Sì capa.” “Invernizzi!” Oggi la figlia del commissario fa la quinta elementare e racconta spesso di come i banchi continuino a spostarsi da soli e le giacche scompaiano nel nulla. Persino quell’odore di fritto tanto buono è ancora percepibile, anche se forse leggermente meno acuto di una volta. Solo la segretaria e il bidello sono cambiati, e le orme giganti in giro per i corridoi non si vedono più.

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Noir a scuola Chiara Rizza

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utto cominciò quel piovoso e nebbioso pomeriggio di ottobre. I miei genitori avevano da poco perso il lavoro, ed io avrei dovuto passare due interi anni dai miei zii paterni. Mamma arrivò, mi diede un bacio sulla fronte e si diresse verso l’automobile che mi avrebbe portato dagli zii. Papà, era un uomo formidabile che cercava in tutti i modi di rendere felici le persone, ma quel pomeriggio era così turbato, che si poteva quasi scorgere nei suoi profondi occhi neri un leggero tocco di tristezza. Stava lì, appoggiato all’auto gialla, come una statua di sale, col capo chino sulle sue scarpe fradice. Sospirai, alzai da terra le mie due misere valigie da viaggio e senza neanche voltare lo sguardo entrai nel veicolo chiudendo la portiera alle mie spalle. Il paese degli zii era strano e non vi era anima viva. L’autista mi lasciò vicino al cancello, scaricò le valigie e senza una parola ripartì con l’automobile. “Perfetto…” aggiunsi. Mia zia Jane arrivò dopo qualche minuto, salutandomi e scortandomi dentro casa. Zio Mike arrivò per l’ora di cena e non fece altro che domandarmi sul mio profitto scolastico. “Le scuole qui sono molto prestigiose, potrai avere un’educazione davvero raffinata” mi disse. Ah giusto. La scuola... “Non ti preoccupare” aggiunse zia Jane. “Ti troverai benissimo qui con noi, e ti farai molti amici”. Ero davvero stufa di tutte quelle raccomandazioni e domande, così finii più in fretta possibile la zuppa e me ne andai a dormire. Ar206


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rivata in camera, m’infilai sotto le coperte del letto e presi il cellulare. “Gli zii sono OK, ti chiamerò domani” scrissi alla mamma. “Penso che due anni qui mi ammazzeranno. Pensami, ne ho bisogno”, scrissi alla mia migliore amica. Arrivò lunedì e mi preparai per la scuola. La zia mi ci accompagnò in macchina, attraversammo il bosco e vidi un grande edificio scolastico che poteva contenere circa duecento ragazzi. “Non fare tardi; il bosco è pericoloso di sera. Divertiti” mi raccomandò lei. Feci subito amicizia con Josh, un ragazzino che si era anche lui stabilito lì da poco, e legai molto con il professore di scienze, il signor Johnson. Tutto andò per il verso giusto, finché un giorno arrivò a scuola il nuovo direttore. Era un uomo grosso, basso, e con delle strane cicatrici sulla faccia rugosa. Entrò nella nostra classe durante un’ora di scienze, portò fuori dall’aula il signor Johnson e tornò dopo mezz’ora. “Ebbene, sono il nuovo direttore Edward Cratch e da oggi in poi sarò anche il vostro insegnante di scienze” ci disse. Io mi voltai verso Josh e lo guardai sbalordita. “Dov’è il signor Johnson?” chiesi io. Il direttore mi lanciò uno sguardo terribile, dopodiché prese un gesso e scrisse sulla lavagna “Ricerca su leggende e miti del mio paese”. Nel pomeriggio aspettai Josh per iniziare la ricerca. Trovammo –in particolare– un articolo che parlava di un incendio di una casa nel bosco. La leggenda narra che uno scienziato abitava in quella casa, amava la scienza, la natura. Un giorno però, un suo esperimento andò male e lui divenne pazzo. Si dice che si buttò nel camino 207


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acceso insieme a tutti i suoi risultati di ricerche falliti. “Cratch..” dissi. “Che cosa vuoi dire?” chiese Josh. “Lui disse che in anni passati fu anche scienziato! E poi non ti ricordi di tutte quelle cicatrici e bruciature che ha sulle braccia e sulla faccia?” esclamai io convinta. “Non essere sciocca” concluse lui. Il giorno seguente ci fu data una notizia orribile. Il signor Johnson era morto in un incidente d’auto. Nessuno di noi poteva crederci e quando il direttore arrivò tutto contento per la sua ora di scienze, io lanciai uno sguardo d’intesa a Josh. Alle 15.10 del pomeriggio seguente, io e Josh ci incamminammo insieme per scoprire qualcosa in più su quel mistero. Arrivati nel cuore della foresta, vedemmo una casa completamente rasa al suolo dalle fiamme: ne era rimasto solo un rudere di quella che anni fa sarebbe stata una grande casa di uno scienziato. Facemmo il giro e scoprimmo una porta nascosta da arbusti che dava al seminterrato. Vi entrammo, e con cautela accesi la torcia del telefono per far luce. Era una grande stanza polverosa e molto disordinata, traboccante di tavoli in legno, fogli sparsi con calcoli, ricerche e teorie. Mi girai verso Josh quando il mio piede calpestò una fotografia di un uomo in camice bianco: era giovane, solenne e fiero di sé; era il direttore della scuola. “Josh! Dobbiamo assolutamente smascherare Cratch, e sono pronta a scommettere che è lui il colpevole dell’omicidio di Johnson!” L’indomani a scuola spingemmo il direttore dentro l’aula di aritmetica e chiudemmo la porta. Gli mostrai la 208


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fotografia. “Era lei. Era lei, non è vero? Lei era lo scienziato dato per morto, e lei ha ucciso il signor Johnson! Perché?” gridai io. Il direttore rispose “Ebbene sì ragazzi, ma dovete sapere che fu proprio Johnson a valutare inesatti le mie ricerche e i miei esperimenti che in realtà erano assai più che convincenti! Così mi spacciai per morto tra le fiamme, ma da quel giorno non vivo che per vendicarmi”. Senza tanti giri di parole, chiamammo la polizia che arrivò all’istante e imprigionò lo scienziato farabutto. Io e Josh eravamo felici, ora che il mistero era stato svelato. Passò qualche mese, quando mia zia mi disse “Tesoro sei grande adesso, potresti iniziare a lettere i giornali, no?” Non era una brutta idea dopotutto avevo sedici anni. Andai in cucina e lessi in prima pagina “Scappato di galera con un messaggio” – “Vi troverò, voi che mi avete rovinato la vita – Gaia Mergola”.

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Noir a scuola Stjepo Andjelic

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i trovo in un’aula adibita per le riunioni dei docenti, stringo la mano a Pièrre, ex collega con il quale ho lavorato anni fa per la polizia ginevrina, prima che diventassi insegnante di francese, prima che accadesse quel tragico evento che pose fine alla mia carriera da detective; evento che non riuscii a superare. La visione di quel piccolo bambino disteso sulla strada mi aveva scioccato, e decisi così di lasciarmi alle spalle la vita in centrale per dedicarmi all’istruzione. Dopo un abbraccio amichevole, Pièrre rompe il ghiaccio: “Son venuto qua, Pascal, perché come forse hai saputo, c’è stata una scomparsa nella tua scuola, ed un po’ per ricordare i vecchi tempi nei quali lavoravamo insieme, ti volevo chiedere se fossi disposto a farmi da consulente esterno“. La proposta mi sorprende, ma ho un certo timore che mi blocca, così decido inconsciamente di erigere un muro. “Guarda, ti ringrazio dell’offerta ma…” “Aspetta prima di rifiutare, sappiamo che ormai lavori in questa scuola da sette anni, e pensavo potessi essermi d’aiuto nel muovermi tra le mura di quest’istituto, e poi perché da quando ci siamo lasciati, non ti ho più sentito e non sapevo come stessi, se fossi riuscito a superare l’accaduto.” Ha ragione, come confermato dalla mia psicoterapeuta, avevo tagliato tutti i ponti che potevano ricon210


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durmi a quella parte della mia vita, rinchiudendomi in una campana di vetro, impaurito e deciso a non voler più soffrire tanto. “Sì, adesso sto bene, però ti pregherei di non rivangare troppo su quell’episodio, adesso preoccupiamoci di trovare il ragazzino” “Come vuoi.. presumo quindi che il tuo sia un sì” “Mm..” Glielo confermo con un cenno di capo. “Okay, allora.. “ riprende lui, tirando fuori dalla tasca del giaccone un piccolo taccuino..”ti riassumo brevemente cos’ho raccolto fin’ora, non molto a dir la verità: il bambino si chiama Bernard, va in prima media, è figlio unico,…”. Lo interrompo, “lo so, ho avuto modo di conoscere i genitori nella riunione con gli insegnanti, una coppia molto affiatata”. “Povera signora, il marito è via per lavoro” mi informa Pièrre, “ed in un momento come questo avrebbe sicuramente bisogno di conforto”. “Dovremmo farle visita il prima possibile” propongo io “prima che si offuschi la mente da cattivi pensieri e conclusioni affrettate, bisogna scoprire chi e quando ha visto il bambino per l’ultima volta”. Dandomi una pacca sulla spalla, Pièrre mi incoraggia dicendomi: “ti è bastata una rispolverata che eccoti già in pista ed attivo come ai vecchi tempi”. Guardo l’orologio, sta per cominciare la mia ora di francese, dopo la quale avrò il pomeriggio libero: “ora devo andare, ti chiamo fra un’ora, mi aspetti vero?” “Certo!” conferma lui. Prima di rientrare in classe, vedo nei volti degli allievi uno sguardo di sgomento, ora toccherà a me, insegnante 211


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ed adulto, cercare di rincuorarli e dargli quella speranza che aiuta a superare situazioni di questo genere. Entrando in classe, diversamente dal solito, c’è un silenzio tale che sento le lancette dell’orologio affisso sopra la porta scandire i secondi. Per distrarli decido di tirar fuori un dvd dalla mia scrivania “chiudete i libri, oggi guardiamo ‘la ricerca della felicità’, la grammatica francese può aspettare”. Tornando in macchina dall’incontro con Julie, la madre di Bernard, penso che di primo acchito non ci ha portato molti elementi utili su cui lavorare. La notte della scomparsa del figlio era stata chiamata d’urgenza in ospedale, in quanto unica chirurga ortopedica dell’ospedale. Aveva dovuto operare un giovane ragazzo, Mario, che per arrotondare, consegna pizze a domicilio; si era fratturato il femore cadendo dallo scooter prima che potesse arrivare a destinazione. Decidiamo di fermarci per bere un caffè e mangiare una ciambella. Pièrre tira fuori il suo block notes e comincia ad annotare quanto raccolto, e sogghignando gli dico: “Ah già che scrivi col sinistro, nel redigere i rapporti in centrale sporcavi sempre i fogli“. Nel pronunciare queste parole, come un fulmine mi attraversa la mente. Mi ricordo che Bernard è mancino, e che pure lui, insistendo nell’usare quella maledetta penna stilografica, mi rendeva la vita impossibile durante la correzione dei compiti in classe! Non riuscivo mai a capire se sbagliava o meno gli accenti sulle parole, dato che ci passava sopra con il pugno della mano e finiva col pasticciare l’intero foglio! Quasi tornando in me, mi rendo conto che ciò che 212


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prima era soltanto una supposizione, ora era diventata una certezza. Me lo aveva anticipato lo psicologo, credeva soffrissi di un disturbo bipolare. Interrompo Pièrre, rivolgendomi a lui con voce tremante: “Julie dove ha detto che è caduto il ragazzo?” “Rue de la Prulay, su una curva stretta, la temperatura era scesa sotto lo zero e c’era la strada ghiacciata a causa dei depositi d’acqua situati nelle buche dell’asfalto” mi risponde lui “strano però, non piove da giorni”, riflette, senza staccare gli occhi dal foglio. “Forse non lo sai, ma sono diventato vegetariano” lo informo io. “Cosa c’entra?” mi chiede lui. “Eh, mi son ricordato ora di una cosa alquanto singolare; stamattina nel buttare l’immondizia, ho notato un cartone di pizza” che non ricordavo d’aver ordinato “con dentro un avanzo, era un trancio al prosciutto, inoltre in bagno c’era anche un secchio con dentro dell’acqua”, incalzo io. Lui cessa di scrivere, credo d’aver attirato la sua attenzione. “Vedi, quello che sto cercando di dirti, è che non sono io, il tuo amico “Pascal”, ad aver ordinato la pizza, ma è stata l’altra parte di me ad averlo fatto, si impossessa di mente e corpo senza che possa farci nulla. Quest’entità sa che lavoro fa Julie, così ha bagnato la strada sotto casa mia, ha ordinato una pizza ore dopo, ha sperato che Mario cadesse in scooter e si rompesse un osso (era Lui il suo cliente), in modo che dall’ospedale chiamassero Julie, così da poter rapire il figlio in sua assenza. Lui vuole insegnargli una volta per tutte a scrivere con la mano destra! Lui odia i mancini!”. 213


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Noir a scuola Maurizio Rusconi

Il campus USI brulicava di persone. Una leggera nebbia ramata aleggiava, dipingendo l’aria e riempiendo il naso del suo odore. Dopo la contesa fra Lugano e Bellinzona era deciso, ora la facoltà di medicina aveva un campus e una sede. Mancava qualche ora alla prossima lezione e ne approfittasti per correre lungo il parco. In quel momento incrociasti il suo sguardo. Rapito, il fiato corto, con parole mute rimase a osservarti con i suoi occhi verdi. Stava camminando piano, il susseguirsi armonico dei passi legato ai suoi pensieri. Una sciarpa gli cingeva il collo, riparandolo dal vento, non ancora mordente come nei mesi a venire. Stava quasi per non accorgersene, ti avvertì distrattamente. Un breve istante ed eccoti, bella, bellissima, travolgente come una tempesta. In un momento diventò avido di esperienze di vita non ancora accadute con pensieri pulsanti, impetuosi. Aveva visto in te quella luce in fondo agli occhi, che riscalda come una giornata estiva e quell’umile dolcezza che ti contraddistingue. Se gli avessi lasciato il tempo, ti avrebbe mentito, avrebbe cercato di conquistarti con falsità che si sarebbero tramutate in verità non appena affermate, poiché lo avresti cambiato, sarebbe diventato migliore. Ma continuasti a correre. Quando arrivasti al laboratorio di anatomia, ti giunse un brusio indistinto. Tutti quei ragazzi e ragazze pieni di sogni e speranze aspettavano te, le tue lezioni, le tue 214


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spiegazioni, per formare i mattoni del loro futuro. Siccome eri l’assistente del professore, non rimasero sorpresi di vederti, però tu sì. Eccolo lì, proprio lui che qualche ora prima ti guardava correre. Ma certo! Era il genio intervistato la settimana scorsa, adesso con gli occhiali lo avevi riconosciuto. Un po’ lo invidiavi, un po’ lo compativi, così famoso già al secondo anno. Avrebbe sopportato quella pressione? Gli avevano chiesto se avesse un motto e citò Svevo: “Bisogna avere il tempo per essere malati”. Si presentava come una giornata abituale, infatti, verso sera la luce del monitor incominciava a darti fastidio agli occhi. Avresti voluto chiuderli ed essere già a casa a farti coccolare dall’acqua calda della vasca, rapita dal mondo sconfinato della tua mente. La voce di un poliziotto ti riportò alla realtà. Ti chiese di seguirlo in centrale. Senza alcuna domanda e un po’ intimorita andasti con lui. Le domande te le posero loro: era sparito un cadavere dal laboratorio e, dai primi controlli sul posto, erano risultate tracce di droga. Come mai non eri stata avvisata? Un attimo prima stavi preparando una lezione e ora eri lì catapultata in un incubo, dove ti dicono che l’unica registrazione d’accesso è stata fatta con la tua chiave magnetica, la stessa che hai in tasca. Non vorresti rendertene conto, la giornata ti è sfuggita di mano, ti stanno accusando di furto di cadavere e spaccio di droga! Tre interrogatori, stesse domande, uguali risposte. Non vuoi l’avvocato, sai di essere innocente e lo vuoi dimostrare anche così. Fino a quel giorno le indagini le avevi viste sola215


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mente in Tv, non facevano sicuramente parte dei frammenti scontati della tua vita. La tua prigione è quella stanza, l’armadio, il tavolo, le sedie; l’atmosfera triste, spezzata, claustrofobica; non la cella, lì ti puoi rilassare, gli occhi non ti scrutano, puoi guardare dalla piccola finestrella, dove nuvole disegnano favole nel cielo. Sei abituata, dopo anni di lavoro, alla vista dei cadaveri ma ora la foto del corpo, nel frattempo ritrovato, vìola la tua sfera personale. La morte aveva addentato la sua anima, nessuna fortificazione l’aveva messo al riparo dallo scempio che qualcuno aveva commesso su di lui. Parlano di perquisire casa tua. Se un’eventualità non l’hai presa in considerazione, non ci pensi e non t’intimorisce, però nel momento in cui bussa alla tua porta, senti un fremito pervaderti e non puoi farne a meno. La parte più intima dell’anima, quella dove sei nuda, ti attende. Il tuo primo pensiero è al disordine, ma scuoti la testa, non sono amici invitati per cena con cui vuoi fare bella figura. Esangue, perdi la nozione del tempo, ormai mutevole e pressoché dominato dalla tua condizione. Stava per iniziare il quarto interrogatorio, quando arrivò un personaggio mai visto prima. Uscirono tutti qualche minuto e al ritorno ti spiegarono che uno studente aveva visto tutto: un teppista di loro conoscenza era stato notato dal ragazzo mentre maneggiava una pistola come se fosse uno strumento divino, che gli permetteva di decidere il destino degli altri. Erano in due; l’altro aveva una piattina scanalata in metallo, costruita appositamente per aprire la finestra del laboratorio. 216


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Senza lasciar traccia hanno trafugato il cadavere, il quale era stato usato come “involucro” per contenere la droga e dovevano farlo sparire prima che qualcuno se ne accorgesse. “Lei è libera”, ecco le parole che aspettavi con ansia, violenta arrivò quella frase sussurrata. In corridoio incontrasti di nuovo quegli occhioni verdi. Sì era lui, lui che ha visto tutto, il tuo salvatore. È contento perché ti ha salvato, ha scoperto il più bel fiore e l’ha protetto dal vento e dalla tempesta. Ti dà una lettera, chiedendoti di aprirla dopo. Fuori i colori della mattina ormai sopraggiunta sono più accesi, vivaci. Speri di ricordare questo momento inalterato; ogni variazione gli farebbe perdere quella forza dirompente, la sua perfezione. Qualche minuto e le parole della lettera ti sono svelate. Impaziente, non aspetti, il tempo ricomincia a scorrere normalmente. Hai ripreso in mano la tua vita e qualsiasi preoccupazione sfuma sotto l’influenza di questa forza. Il foglio contiene un’unica frase, scritta in corsivo con una bella grafia: “Vorrei inventare uno specchio deformante per farti vedere la mia vera essenza e percorrere con te il sentiero di un lungo viaggio”. Con titolo: “Un albero rinchiuso in un bonsai”. La sera parlerà di te con sua madre e lei sorriderà; suo figlio si è innamorato della “maestra”. Anche i bambini prodigio di 13 anni lo fanno.

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Sam Elena Giacometti

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to camminando. Il mio cuore batte forte e sento mancarmi il respiro. È il primo di maggio. Una notte d’estate, l’aria è mite. In sottofondo il frinio dei grilli. In cielo splendono alcune stelle, c’è calma, il villaggio è addormentato. Percorro i vicoli bui senza inciampare, ormai li conosco a memoria. Da piccolo giocavo sempre tra queste viuzze. Mi sento come una mosca che sta per cadere nella trappola del ragno. Sono consapevole del rischio che sto per correre. Vorrei tornare indietro, ma il mio corpo procede da solo, come se il mio cervello non riuscisse più a padroneggiarlo. All’improvviso mi ritrovo lì, davanti alla porta. L’insegna è sbiadita, riporta a lettere cubitali “Scuola municipale”. La porta è socchiusa, sento il mio fiato affannoso, la spingo lentamente e mi faccio spazio nel buio del corridoio. C’è odore di muffa e di colori acrilici, un odore rimasto impresso nella mia memoria e nell’intonaco dell’edificio. Il messaggio parla chiaro: “Troviamoci venerdì alle 22:00 al terzo piano della scuola”. Devo soltanto salire le scale e varcare la soglia dell’aula abbandonata. Mi faccio coraggio e mi aggrappo alla ringhiera. Mentre salgo i gradini, uno dopo l’altro riaffiorano lentamente i ricordi di un’infanzia lontana, fatta di giochi spensierati e corse all’aria aperta; pensieri immediatamente rabbuiati da un episodio tragico sepolto da tempo. 218


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Sam era un bambino diverso dagli altri, era piccolo, magro, il volto pallido e gli occhi scavati, le maniche delle sue camicie di seconda mano erano sempre troppo lunghe. Sem aveva un segreto. Gli adulti cercavano di avvolgere la sua vita in un alone di mistero, noi riuscivamo a carpire soltanto poche parole e mezze verità. Non ne parlavamo con lui, eravamo ancora piccoli. Forse non riuscivamo nemmeno a comprendere. Poi Sam è scomparso senza lasciare traccia. Ricordo la polizia, le divise, tante domande. Il tempo passava e Sam non tornava. Nessuno seppe dirci dove e perchè se n’era andato, così all’improvviso. Sentivamo la sua mancanza, ma poi con il tempo ci scordammo di lui. Anche la polizia sembrò dimenticarsene. Poi a distanza di anni e dopo una laurea in giornalismo la questione tornò a galla e decisi di aprire un’inchiesta partendo con degli articoli sul giornale locale. In seguito alle mie dichiarazioni ricevetti un messaggio in segreteria: “Troviamoci venerdì alle 22:00 al terzo piano della scuola”. Chi avrebbe potuto lasciare un messaggio del genere? Non lo so ma tra pochi secondi lo scoprirò. Davanti alla porta dell’aula mi sembra di essere l’alunno che trenta anni prima aspettava impaziente l’orario della lezione con la cartella sulle spalle, la mano che aggrappava la maniglia e bussava timidamente alla porta. Mi tremano le mani. Istintivamente mi appoggio alla porta come il guerriero che si protegge con il suo scudo. All’interno appaiono immediatamente alla finestra i profili e le ombre degli animali impagliati che accompagnavano le nostre lezioni di biologia. Premo 219


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l’interruttore ma le luci non si accendono. Mi prende una forte ansia da bambino che ha paura del buio. Frugo nelle tasche dei jeans, estraggo il cellulare e attivo la torcia. Davanti a me si presentano banchi di scuola coperti da lenzuola, mappe arrotolate, cartolari e scatoloni, cartelloni e disegni appesi alla parete, la nostra vecchia lavagna. All’improvviso le luci si accendono. Davanti a me c’è un uomo dai tratti famigliari. – E tu chi sei? – chiedo – Non mi riconosci? – risponde lui con tono pacato Nella mia mente condizionata dai romanzi polizieschi già fantasticavo l’incontro con qualche ricattatore senza scrupoli, invece mi sento sollevato nel riconoscere Roman, il vecchio bidello della scuola. – Sei stato tu a lasciarmi il messaggio? – Sì Stefano, sono stato io. Voglio parlarti di una cosa – si alza dalla sedia e avanza verso la lavagna. Si schiarisce la voce e mi guarda negli occhi. – L’ho trovato tanti anni fa – dice – pochi giorni prima che la scuola chiudesse i battenti. All’epoca non gli diedi molta importanza ma ora credo che potrebbe aiutarti a risolvere il caso. Me lo ricordo Sam, era un ragazzo tranquillo e tanto sfortunato. Suo padre aveva problemi con la giustizia. Dicono sia tornato in Croazia dopo la scomparsa del figlio. Roman solleva il perno che unisce la piattaforma anteriore a quella posteriore della lavagna. Dietro la lavagna compare in un angolo un testo poco appariscente dalla calligrafia infantile. Recita la seguente frase: “Cercate Goran Mesic a Zagabria” 220


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– Zagabria è in Croazia, probabilmente ha a che fare con questa storia. Non so chi sia questo Goran Mesic ma credo che tu riuscirai a scoprirlo. – Puoi contarci! Roman era il nostro bidello ai tempi delle elementari, un ragazzo stralunato e non particolarmente amante del proprio lavoro. Sognava di diventare famoso ma finì per fare il bidello fino alla chiusura della scuola. Poi si mise ad allevare pecore. Una stretta di mano e la promessa di risolvere il caso. Sto frugando tra gli elenchi telefonici croati ma nessuna traccia di questo nome, Goran Mesic, non riesco a togliermelo dalla testa. Qualcosa dentro di me mi dice di contattare il padre di Sam, ma nemmeno questa sarà un’impresa facile, considerando il fatto che quest’ultimo ha scelto di lasciare il paese. La madre di Sam vive ancora qui, ma dicono sia depressa e ormai dipendente da psicofarmaci. Decido di farle visita e comunicarle la scoperta di Roman. Carmen vive relegata in casa in compagnia di una decina di gatti. Appena varcata la soglia, l’odore è acre, l’appartamento caotico e disordinato. Carmen è seduta sul divano avvolta in uno scialle di lana, lo sguardo fisso nel vuoto. – Sei tu Stefano? – Buonasera Carmen – Avanti, siediti! Prendo uno sgabello e mi avvicino lentamente alla donna. Il suo volto solcato dalle rughe, i capelli, un tempo neri, ora sono diventati grigi. 221


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– Sei qui per parlare di mio figlio, non è vero? – un gatto si avvicina amichevolmente e si struscia contro le mie gambe. Lo accarezzo in mezzo alle orecchie e sorrido a Carmen. – Sì signora, sono qui per parlare di Sam. Se io le dico Goran Mesic le viene in mente qualcosa? Carmen mi fissa, la sua reazione è difficile da interpretare. Dopo qualche istante inizia a parlare. – Goran Mesic, è il marito di mia cognata, la sorella di mio marito. Perchè mi parli di lui? – Roman il bidello ha trovato questo nome sulla lavagna della scuola. “Cercate Goran Mesic a Zagabria”. Crede sia stato Sam a scriverlo. Carmen trasale, sembra scossa. – Non ne ho idea Stefano, io ho provato in tutti i modi a contattare mio marito in Croazia ma sembra scomparso nel nulla, i suoi parenti non li ho mai più sentiti. Ho sempre avuto la sensazione che avessero a che fare con questa storia, ma la polizia non era del mio parere... – Secondo lei suo marito potrebbe avere a che fare con questa storia? – Non so che dire, a questo punto dobbiamo assolutamente cercare di contattare mio marito o sua sorella Nikica! Carmen si alza e inizia a camminare avanti e indietro, le dita appoggiate sulla bocca, la fronte corrugata. – Dobbiamo trovarlo Stefano! Decido di contattare l’Ufficio federale di polizia. Purtroppo il caso di Sam non adempie i criteri della 222


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Convenzione dell’Aia sul rapimento dei minori. Assumo un investigatore privato che conosce il croato per rintracciare la famiglia Mesic in Croazia. Herman si presenta a casa mia il 12 luglio. È un uomo sulla cinquantina, basso e grassoccio, il doppiomento e un paio di occhialini. Sotto il braccio una mappa di pelle. Dopo aver discusso il caso, decidiamo di provare a rintracciare i parenti croati e se necessario raggiungerli a Zagabria. Dopo qualche settimana arriva la telefonata che aspettavo da tempo. – Li ho trovati Stefano! Li ho trovati! Non posso crederci. Chiedo a Herman di raggiungermi e decidiamo di eseguire insieme la chiamata con il vivavoce, sperando che qualcuno risponda. Il telefono suona a lungo. Alla fine, quando Herman sta per riattaccare, all’improvviso risponde una voce maschile. – Da? – Herman esita qualche secondo, poi chiede in croato informazioni su un uomo di 37 anni nato e cresciuto in Svizzera. La persona dall’altra parte della cornetta sembra indugiare. Alla fine dopo un lungo sospiro dice a Herman in croato: – Signore, credo che l’uomo che lei sta cercando sono io. Non appena Herman mi riferisce la frase pronunciata dall’interlocutore, non riesco a resistere e inizio a chiamarlo per nome: – Sam, sei tu Sam? – Sì, così mi chiamavo. Ma tu chi sei? – Sono Stefano Sam, mi riconosci? Dopo una lunga conversazione emerge finalmente la verità, la risposta a tutte le domande. 223


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Il padre di Sam in conflitto con la moglie e soprattutto nei guai con la giustizia, aveva deciso di tornare in Croazia. Non voleva rinunciare al figlio Sam ma sapeva che nessuno gli avrebbe permesso di portarlo con sé. Allora con i parenti di Zagabria organizzò tutto tramite dei passaporti falsi ottenuti chissà dove. Sam il giorno in cui fu prelevato intuì da una telefonata del padre che sarebbe andato a vivere dagli zii di Zagabria, a insaputa della madre. Dopo l’ultima lezione lo zio Goran lo avrebbe aspettato all’ingresso e lo avrebbe portato con lui in Croazia. A questo punto Sam prima di lasciare l’aula scrisse sulla lavagna la fatidica frase: “Cercate Goran Mesic a Zagabria”.

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Noir a scuola Naïma Wanshe

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rmai era troppo tardi... Quando la porta si aprì sapevo che nessuno avrebbe creduto alla mia versione. Avrei potuto dire quello che volevo ma non sarebbe servito a niente. Però c’era una cosa che non capivo. Perché io? Perché proprio io? –“Ciao Ben!”, mi disse Nelly all’uscita della scuola venerdì pomeriggio. “Domani vado al lago con Tara e Cedric, vieni con noi?” Mi sarebbe talmente piaciuto ma a causa di quella stupida Carla sapevo che non avrei potuto. –Ciao! No mi dispiace ma domani non posso. –E come mai? Hai un appuntamento con una bella ragazza? –Eh ormai no, sarebbe bello se fosse così. La vera ragione è che ho ancora litigato con Carla in classe. Non so che cos’ha contro di me ma mi sa che vuole proprio farmi perdere i nervi. –Si, beh tutti sanno che Carla è proprio una scema. Ma non capisco cosa ti impedisce di venire con noi domani? –C’era la signora Filippini in classe e dunque per punizione mi ha dato quattro ore supplementari domani mattina. E conoscendo i miei genitori mi sa che non potrò uscire per un bel po’... –Uffa! Questa Filippini è proprio una str... una stupida. Peccato per il lago! E buona fortuna per domani! –Grazie... 225


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Come previsto quando tornai a casa mio padre mi chiese il mio quaderno e vedendo il commento che aveva messo la Filippini mi sgridò e mi privò di uscire per n mese. Quando mi svegliai, guardando il bel tempo non avevo proprio voglia di andare a rinchiudermi in una sala per quattro ore... Malgrado ciò feci la mia colazione, una doccia e mi preparai per andare a scuola. Una volta arrivato a destinazione andai verso la biblioteca. C’erano già due allievi, uno si chiamava Valentino ed era un abbonato alle punizioni del sabato mattina. Era grande, un po’ grassottello ed era il bullo della scuola. Tutti lo conoscevano e vi assicuro che era meglio non avere problemi con lui. La seconda era una ragazza. Si chiamava Vick ed era il suo primo anno in questa scuola. Non la conoscevo veramente ma sapevo che era un po’ strana. Era alta con i capelli neri lunghi e ondulati, aveva un total look nero, anche il suo rossetto era scuro. Quando ebbi finito di esaminare i miei due “colleghi” ne arrivarono altri tre. Due ragazze e un ragazzo. Una delle ragazze era completamente l’opposto dell’altra, una era alta e l’altra piccola, una era bionda e l’altra rossa, una sembrava un po’ smaliziata e l’altra era la perfetta allieva modello, insomma aveano una sola cosa in comune, le loro madri erano tutte e due famose. La madre di Livia, la bionda, era una grande agente per le star e la mamma di Alessia la rossa, era una grande avvocatessa che si era occupata di alcuni casi famosi. Il ragazzo, lui era alto, con un corpo atletico e aveva una gamba ingessata. Si chiamava Nick e non mi piaceva tanto. Era il genere di tipo che 226


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aveva tutte le ragazze che voleva e aveva un’aria proprio snob. Finalmente arrivò il Signor Walter con la sua solita tazza di caffè. –Okay ragazzi! Oggi trascorrerete quattro ore della vostra bellissima giornata nella biblioteca perché mi sono reso conto che è da tanto che non faccio ordine. Mi raccomando, niente guai o ci rivediamo sabato prossimo! Walter aprì la grande porta e ci fece segno di entrare. La sala era immensa e il disordine era tale che anche se fossimo stati in trenta non avremmo potuto sistemare tutto in sole quattro ore. –Ah! E stavo per dimenticare, disse partendo, niente telefonini! Appena chiuse la porta a chiave tutti cominciarono a discutere, ridere o fare gli stupidi lanciando libri dappertutto. –Ehi ragazzi! Che ne dite se facciamo una piccola seduta spiritica? Chiese Vick. –Che dice ancora quella la? Piantala non vedi che nessuno ti ascolta?? Le rispose Livia. –E che c’è? Hai paura Livietta? –Piantala!! Se ti sento ancora una volta parlare di me cosi ti... –A me va bene! La interroppe Valentino. –Grazie! Gli disse Vick. Vedendo che Vick non avrebbe cambiato idea finché non si fosse fatta questa seduta, Alessia andò a spegnere la luce e ci sedemmo tutti attorno ad un tavolo nell’oscu227


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rità completa. Vick ci fece segno di darci la mano e di chiudere gli occhi. –Spiriti, spiriti, dove siete nascosti? Se mi sentite, fatemi un segno! Livia e Alessia cominciarono a ridere e Nick non tardò a raggiungerle. –State zitti! Gridai. Vick ricominciò ma questa volta qualcosa di strano successe, come un soffio, il respiro di qualcuno. Ad un tratto sentii qualcuno gridare vicino a me e la mano di Vick lasciò la mia. Non capivo proprio cosa stava succedendo, tutto era cosi strano, eravamo tutti impauriti, Livia e Alessia gridavano e Nick e Valentino tentavano di restare calmi ma sentivo che avevano paura quanto me. Poi, tutto andò molto svelto. Sentii un rumore di vetro rotto e poi qualcuno strillare, e un altro, e un altro, e ancora un altro! Ad un tratto la luce si accese e una visione di orrore apparse davanti ai miei occhi: C’era sangue dappertutto ma non c’era piu nessuno. Non vedevo l’ombra di nessuno. Ero terrorizzato. Questa visione di sangue rosso mi dava i brividi. In mezzo alla sala, c’era un martello. Un martello pieno di sangue. In quel momento non so cosa mi passò per la testa. Avvanzai verso il martello e lo raccolsi. Subito dopo sentii la porta aprirsi sotto lo choc di un grande colpo. Ormai era troppo tardi... Quando la porta si aprì sapevo che nessuno avrebbe creduto alla mia versione. Avrei potuto dire quello che volevo ma non sarebbe servito. Però c’era una cosa che non capivo. Perché me? Perché proprio me? Nella sala, tutto quello che la polizia 228


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vide era un ragazzo, in piedi in mezzo ad un bagno di sangue, con un martello nella mano. Nessuna inchiesta era necessaria. Il colpevole ero io...

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Misterioso omicidio al collegio Papio Estelle Jelmoni

«A

hhh!» Si sentì un urlo proveniente dalla chiesa del collegio Papio, era la docente di italiano Vanessa Ferrari, aveva trovato il cadavere del rettore, Don patrizio Foletti. Drinn! «Pronto!» «Buongiorno investigatrice Bentley, purtroppo abbiamo trovato il rettore in fin di vita, pensiamo sia stato assassinato, può venire a dare un’occhiata?» «Sì arrivo subito!» Terminai la telefonata, chiamai il medico legale, e mi recai al Collegio. Quanto arrivai al Collegio c’era già ad aspettarmi la dottoressa Elisa Bianchi, entrammo nella chiesa, Elisa andò a esaminare il cadavere, mentre io andai a interrogare una certa professoressa Ferrari, che aveva trovato il corpo del rettore. È una persona molto gentile, disposta a collaborare, non molto alta, sulla trentina, capelli neri, occhi marroni. Quel giorno indossava degli abiti scuri, prevalentemente neri, una collana rossa, degli occhiali arancioni e ai piedi portava delle scarpe rosse. «A che ora trovò il cadavere?» «Circa alle nove!» «Per quale motivo si trovava in chiesa?» 230


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«Stavo cercando Don Stefano, l’ho cercato dappertutto, non lo trovavo allora bussai alla porta della sacrestia della chiesa. Sentii qualcuno scappare, aprii di scatto la porta e trovai solo il cadavere del nostro rettore sul pavimento. Gridai fortissimo. Arrivò la segretaria a vedere e poi chiamò subito la polizia e lei.» «Ha per caso trovato un’arma?» «No, niente!» «Grazie per l’aiuto. Arrivederci!» «Arrivederci!» Andai in sacrestia, per chiedere a che punto era Elisa. Mi raccontò un po’ di dettagli: era un prete, non è molto alto, ha i capelli marroni, gli occhi marroni, non era malato, aveva circa sessant’anni, non è morto di infarto, ma a causa di avvelenamento e aveva anche una frattura al cranio causata da una forte botta in testa. Elisa analizzò un piccolo campione di saliva del rettore, con apparecchio apposta e scoprì che aveva ingerito un prodotto per oliare le rotaie dei modellini. Elisa e i poliziotti portarono il corpo nello studio patologico per altri esami. Uscii dalla chiesa, andai in segreteria, bussai alla porta ed entrai. «Buongiorno, saprebbe dirmi chi potrebbe usare un prodotto per oliare i modellini con rotaie?» «Potrebbe usarlo il vicerettore Don Giacomo poiché ha un modellino nel suo studio!» «In questo momento Don Giacomo ha lezione?» «Sì, nell’aula di 3°A, la numero 131.» Ringraziai la segretaria e andai a cercare l’aula nu231


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mero 131. Siccome nell’aula c’era una lezione aspettai fuori e ragionai con i pochi indizi che avevo. Mentre aspettavo fuori si aprì la porta è uscì una ragazzina, si chiamava Alessia, gli chiesi se in classe c’era Don Giacomo, lei mi rispose di sì, allora le feci alcune domande. Scoprii che adorava i misteri e che stava indagando sull’omicidio del rettore, aveva origliato in chiesa e sapeva anche del veleno, il suo sospettato principale era Don Giacomo, che usava lo Spinatex per oliare le rotaie del suo modellino. Era abbastanza grande, era un modellino con treni, la sua passione, Alessia c’era già stata e aveva già visto lo Spinatex. Alessia era uscita per andare a chiedere una lista dei ragazzi di 3°A, allora la accompagnai. Ci siamo anche fissate appuntamento nella pausa pranzo. Suonò la campanella, allora feci alcune domande a Don Donato. Riuscii solo ricavare che dalle 8:00 alle 9.35 era a manovrare il suo modellino, che usa lo Spinatex poi squillò il telefono e suonò anche la campanella. Non avevo niente da fare allora cercai su internet lo Spinatex, era velenoso. Don Giacomo è abbastanza alto e severo, ha i capelli corti, marroni e gli occhi marroni, porta un paio di occhiali. Allora chiamai Elisa: «Ciao hai novità? Io ho scoperto che l’arma è lo Spi232


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natex.» «Si hai ragione Eve, io ho scoperto che la ferita in testa che fratturò il cranio del rettore era stata fatta con un tappo curvo di metallo, come quello dello Spinatex.» «Oggi ho incontrato una ragazza di nome Alessia, sa diverse cose che potrebbero servirci, allora ho deciso di collaborare con lei; pranzeremo assieme. Fammi sapere se scopri qualcos’altro.» «Ok ti farò sapere. Ciao!» «Ciao!» Passai a prendere Alessia e andammo a mangiare alla Manor di Ascona. Mangiammo e parlammo molto dei possibili indiziati. Nella Lista dei sospettati di Alessia c’erano tre persone: Don Giacomo perché aveva lo Spinatex, nessuno può confermare il suo alibi e sapeva che se il rettore sarebbe morto lui avrebbe preso il suo posto, la professoressa Ferrari perché aveva chiesto un aumento dello stipendio che il rettore non gli aveva concesso e infine il più improbabile, Alberto Rossi perché il rettore aveva minacciato di licenziarlo se non avrebbe imparato a comportarsi bene con gli allievi. Chiesi ad Alessia di descrivermi il professor Rossi: abbastanza alto, capelli grigi, si sa poco di lui, è molto riservato, urla spesso e accusa gli allievi. Tornammo a scuola, salutai Alessia e quando iniziarono le lezioni andai a curiosare per la scuola, mi fermai davanti alla porta dello studio di Don Giacomo, la porta era socchiusa e si sentivano litigare due persone, registrai 233


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tutto. Stavano per uscire e feci appena in tempo nascondermi vicino alle scale, dall’ ufficio vidi uscire la professoressa Ferrari e Don Giacomo, entrambi arrabbiati. Andai in biblioteca, riascoltai la registrazione, La prof. Ferrari accusava Don Giacomo di averle fatto uccidere il rettore che volevano solo stordire, lui ribatté che è stato costretto visto che lo Spinatex che le aveva dato lei non era abbastanza. Feci convocare i docenti e gli allievi in aula magna, grazie all’aiuto di Alessia e di un registratore avevo risolto il caso. Quando arrivarono gli allievi feci partire la registrazione, tutti rimasero a bocca aperta. Arrestai la professoressa Ferrari e Don Giacomo. Mentre la polizia li portava via io ringraziai Alessia e ci scambiammo i numeri di telefono, così potremo collaborare in futuro con un qualche caso. FINE!

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Penombra lunare Leonardo Boffini

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e mie dita esili erano pervase da un tremore implacabile mentre stringevano una gelida penna poggiata su un foglio che risplendeva di un candore abbacinante alla luce tenue della luna. Osservai quel disco perfetto attraverso le sbarre del carcere minorile in cui ero segregato e constatai che stava per essere lentamente inghiottito oltre la sottile linea dell’orizzonte. Avevo ben poco tempo prima che i secondini mi venissero a ritirare per condurmi nel cortile a spaccar pietre, ma prima di allora dovevo assolutamente riuscire a descrivere la tremenda vicenda che mi aveva catapultato qui, fra queste tetre mura di mattoni grigiastri, altrimenti l’indomani il martello che utilizzavo per frantumare i massi sarebbe diventato l’indiscusso artefice del mio suicidio. Dovevo almeno tentare. Dopodiché mi sarebbe bastato farlo leggere a qualcuno prima del mio processo e sarei stato libero come una volta, per spiccare il volo e lasciarmi trasportare dal vento tiepido e rassicurante della pura letizia, planando al di sopra di immensi campi ricoperti da stuoli di fiori dalle tinte sgargianti. Presi un respiro profondo e mi preparai a narrare l’ineluttabile evento di cui ero stato protagonista. Era una giornata come molte altre e la frenesia monotona delle forme indistinte, che si muovevano rapide ai margini dei miei occhi, non mi sfiorava minimamente mentre mi apprestavo a giungere in prossimità del mio armadietto. Quest’ultimo necessitava di un’immediata ri235


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verniciatura, per via del rosso smunto che andava via via sbiadendo rivelando il grigio metallico originale, o piuttosto di essere sostituito, riempito com’era di minuscole conche laddove i bulli della scuola mi ci avevano scaraventato contro. E, sebbene credessi fino a quel momento che la mia vita fosse stata un susseguirsi di catastrofi e delusioni angoscianti, di lì a poco la mia esistenza avrebbe subito un declino ancor più devastante e radicale. Inserii la chiave del lucchetto arrugginito e roso dal tempo e feci per aprire l’armadietto, ma qualcosa mi bloccò . Una strana sensazione ancestrale mi pervase e mi raggelò le ossa e non seppi spiegarmi il motivo. Spalancai con un gesto secco l’anta e quello che vi trovai all’interno fece affiorare sul mio viso un muto urlo di terrore. Una testa, con miriadi di rigagnoli di sangue rappreso che le attraversavano il volto e colavano sopra le orbite vuote e biancastre, mi sorrideva beffardamente con le sue labbra sghembe, quasi mi ridesse in faccia per via della mia espressione allibita e orripilata al tempo stesso. In quel momentaneo attimo di smarrimento, l’istinto ebbe il sopravvento sulla ragione e, senza quasi rendermene conto, mi ritrovai lanciato a velocità esorbitante lungo il corridoio caotico. Corsi concitatamente, la realtà che sfumava e perdeva senso man mano procedevo alla ceca, investendo ragazzi e ragazze ignari dell’atroce delitto compiutosi quel giorno. Mi arrestai unicamente quando, dinanzi a me, potei scorgere una folla di persone riunita intorno ad un cadavere decapitato. Tutti quanti, 236


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attirati dal mio arrivo, si voltarono verso di me e vidi chiaramente che uno dei presenti teneva in mano un oggetto dalla foggia assai familiare e mi fissava con gli occhi sbarrati e increduli. L’arnese in questione era un coltellino svizzero, sul quale si stagliavano nitidi i caratteri dorati che componevano il mio nome. Quell’utensile tramandatomi da mio nonno, che avevo mostrato e di cui mi ero pavoneggiato in più d’una occasione, mi avrebbe catapultato dritto dritto sulle assi marce e consunte del patibolo. Mi voltai e feci per sgattaiolare via il più lontano possibile, ma mi ritrovai la strada sbarrata da alcuni ragazzi particolarmente robusti che, senza alcun indugio, mi immobilizzarono in una morsa ferrea e mi stordirono con un colpo in testa. * * * Posai la penna mentre un crampo improvviso mi attanagliava la mano. Ero incredibilmente riuscito a descrivere la mia rocambolesca vicenda, ma era ora di tirare le conclusioni. Perché ad una conclusione ero giunto, benché non avessi la più pallida idea di quale movente avesse potuto spingere quell’uomo a farlo, a compiere una follia di quel calibro… Un improvviso rumore di passi mi riportò alla realtà. Stavano arrivando, ma io necessitavo di più tempo per terminare e nascondere il mio scritto. Mi gettai con foga sul foglio, con i passi dei secondini che gravavano sempre più sopra al mio cuore impazzito, calpestandolo senza pietà alcuna. Il colpevole di quell’atrocità immonda era una per237


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sona che, seppur non essendo un allievo era onnipresente nella sede scolastica. Voci concitate proferivano da oltre la soglia, sottili lame fredde e gelide come la morte stessa… Un adulto sì, e tra le tante cose l’unico a possedere una copia completa delle chiavi degli armadietti degli scolari. Le voci si trasformavano in grida, potevo sentire il mio nome citato a gran voce ma non me ne curavo... Colui che si occupava di ripulire il parco della scuola e di redarguire i soliti monelli di turno. La porta della cella sbatté e le guardie irruppero all’interno. Mi presero per le braccia e mi trascinarono via di peso, mentre vedevo il frutto delle mie elucubrazioni andare totalmente in fumo… Qualcuno che veniva spesso deriso per il suo aspetto a tratti ripugnante. Perché mi hai fatto questo? Perché hai deciso di sbriciolarmi l’esistenza, dannato bidello?

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Incendio a Cadenazzo Francesco Zappa

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ono le 18.15 del 13 marzo 2014, a casa Rossetti scatta l’ allarme! Valentina non è ancora rientrata. E pensare che la casa dista 20 metri dalla scuola elementare di Cadenazzo: Valentina deve solo traversare la strada per salire al secondo piano della palazzina di fronte. Ma sarà rientrata in classe dopo il pranzo con Lilla, la mamma? Al telefono è percettibile il disagio del Professor Visbini, il docente di classe. Balbetta un “non ricordo esattamente…”, quando la mamma di Valentina lo chiama a casa. “Ma come non ricorda !?! Mi sta dicendo che non ricorda se mia figlia oggi pomeriggio era in classe? Ma a che razza di professori sono affidati i nostri bambini !?!”. La disperazione di Lilla aumenta, e con questa l’angoscia che qualcosa di grave possa essere capitato. “Chiamo la polizia? Che faccio? Ma sì! Vittoria, la migliore amica di Valentina! Vittoria deve sicuramente sapere…”. Chiama, non risponde nessuno a casa Trapetti... Si ricordasse un solo altro nome, uno solo! Lei e Valentina si sono trasferiti da pochi mesi a Cadenazzo, e non c’è stato un gran che ti tempo per fare conoscenze...La mamma di Valentina esce di corsa di casa. Lì di fronte la scuola, dove la luce è ancora accesa. Corre sulla gradinata ed entra senza neanche accertarsi se la porta è aperta. E’ aperta. Entra. ” Valentina! Valentina!...”. Niente. Silenzio. Corre verso la sua aula: chiusa. Corre di sopra, di sotto, chiama ancora. “Ma non c’è nessuno? ”. Sto sudando freddo–pensa– devo control239


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larmi altrimenti perdo i sensi. Non sarebbe la prima volta, le è capitato spesso per molto, molto meno, di perdere i sensi....molti non si sono mai chiesti perché suo marito un bel giorno l’aveva lasciata. “Sei un’isterica, isterica, isterica !!!!...”. Queste parole le aveva sentite tante volte da suo marito. E non solo lei. I vicini, quei pochi amici…non poteva più continuare così… E ora Valentina se n’è andata anche lei –pensa–ma certo, avrà raggiunto suo papà. Come ho fatto a non pensarci prima. Quell’imbecille dal sorrisetto complice e dal regalino facile. Ma adesso mi sente, poteva almeno chiamarmi. Lo chiama lei:“ Paolo, è con te Valentina?”. Paolo abita a Contone. Parlando al cellulare Lilla si è già infilata lungo la strada di campagna che porta a casa di Paolo, e già si immagina la scena. Primo: un bel scapaccione a Valentina! “La spiga va raddrizzata finché è giovane”, diceva il nonno. E poi si dedicherà a Paolo, alla sua infantile incoscienza e superficialità. Mi dia ancora dell’isterica– pensa– se solo osa!. “ Pronto Lilla, che c’è ?”. “ Cosa che c’è?!? Dì a Valentina di prepararsi che sto arrivando a prenderla! E poi parliamo, noi due! Ho traslocato per non averti più tra i piedi, Paolo, ma così non mi aiuti proprio!” . “ Ma Lilla, calmati, cosa succede, Valentina non è con me…”. Il sangue le si raggela nelle vene. E’ come se all’improvviso fosse diventata un cubetto di ghiaccio. Non riesce più ad andare ne avanti ne indietro. È paralizzata. La voce di Paolo sembra arrivare da infinitamente lontano.... “Devo tornare a casa. Devo sedermi un attimo e poi chiamare la polizia. Non posso farcela 240


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da sola”. Si gira per tornare sui suoi passi. Dopo pochi metri vede dei bagliori che attirano la sua attenzione verso la palazzina dove abita. Fiamme? Del fumo sta uscendo proprio dalla finestra della sua terrazza al secondo piano. Comincia a correre. Un incendio–pensa– in casa sua, e se nel frattempo Valentina fosse rientrata? Oh mio Dio!…E io, la mamma, non c’ero, non ero li!. Col cuore che le martella nel cervello sale le scale a due a due, arriva al secondo piano, da sotto la porta esce del fumo. Grida: “Valentina!!!!! Valentina!!!!!!” Entra in casa, attraverso il fumo identifica subito la fonte delle fiamme: un cestino pieno di carta straccia sta bruciando. “Ma cos’è questo rumore?...”. Si avvicina di più, tirandosi su la maglietta per coprirsi bocca e naso. E’ preoccupata per il divano che si trova proprio dietro al cestino, è in materiale sintetico, se prende fuoco è finita. E ancora questo rumore... Ma cos’è !?! Inciampa. Un filo. Un cavo elettrico. Cosa ci fa un cavo elettrico in mezzo alla sala? Panico. Non cade per un pelo. Il rumore è cessato. Il cavo elettrico si è staccato dalla spina. Lo tira, e da sotto il divano, tra il fumo, compare...l’asciugacapelli! I battiti del cuore aumentano vertiginosamente. Se le fiamme avessero raggiunto l’asciugacapelli, pensa, chissà cosa poteva succedere. Una esplosione. Un black–out su tutta Cadenazzo. “Valentina! C’è qualcuno?!?! Vi prego, non fatemi del male! Prendete quello che volete!”. Il fumo adagio adagio comincia a diradarsi. Il fuoco, non più alimentato dall’asciugacapelli, si spegne da solo. Dei pochi fogli nel cestino resta solo cenere. Un rumore! ... C’è qualcosa che si muove! Viene da sotto il divano. C’è 241


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qualcuno. Paura. Indietreggia. Deve lasciare l’appartamento. Deve fuggire. Si gira verso la porta quando all’improvviso qualcosa si avventa su di lei. Grida con tutto il fiato che ancora le esce dalla gola. “Aiuto!!!!!! Aiuto!!!!!! “. “Mammina, sono io. Oggi a scuola ci hanno insegnato a giocare col fuoco. E’ stato bello sai?”. Sono le 19.10. Pochi minuti dopo, ore 19.15, al Quotidiano RSI1: “Sono le 15.30 del 13 marzo 2014 quando un incendio divampa nel locale tecnico delle scuole elementari di Cadenazzo. 120 allievi sono evacuati. Tutto si svolge senza problemi. Nei mesi precedenti i professori avevano più volte affrontato il tema del fuoco e della sicurezza: non aver panico, non spingere i compagni...ecco alcuni degli insegnamenti impartiti. Ma anche che non bisogna mai giocare con il fuoco e che col fuoco non si scherza. Ma niente paura: l’allarme si rivela una esercitazione. Ben riuscita, secondo i primi accertamenti.”

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Noir a scuola Katia Danelon

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ell’istituto scolastico di Bodio, dove nulla accade, ma tutto è possibile, il bidello sembrava in totale delirio. “Chiamate la polizia, hanno ucciso la direttrice! Mary è morta!” questo è quanto andava urlando per i corridoi. Con le mani tremanti compose il 117 e, nel giro di pochi minuti, gli agenti giunsero sul posto. Al loro arrivo trovarono gli alunni in evidente stato di eccitazione. Si spintonavano nell’intento di vedere uno squarcio della drammatica scenetta che si parava davanti ai loro occhi increduli. Chi l’aveva uccisa? “Non toccate niente!” disse l’ispettore Roniter, “Allontanatevi!” Mary si trovava seduta sulla sedia nel suo ufficio. La testa riversa all’indietro in forma sgraziata, lasciava presagire che la morte fosse avvenuta per mano di un assassino spietato, che non le aveva lasciato granché libertà di scelta, se non quella di morire in maniera indignitosa. Sulle sue gambe giaceva un libro. Roniter lo prese e rimase stupito nel vedere che si trattava di un diario. Apparteneva alla vittima? Bisognava controllare, perché, se così era, molte risposte si sarebbero potute trovate là dentro. “Fate il confronto grafologico” ordinò agli agenti, “Voglio un riscontro immediato”. Accertato che il manoscritto appartenesse a Mary, 243


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Roniter lo sfogliò. Lesse alcune pagine e si lasciò trasportare da quella vita non sua, fatta di segreti, tradimenti e inganni. Mary era una donna colta e intenzionata a fare carriera. Sposata giovanissima per volere dei suoi genitori, si trovò a dover convivere con un uomo che non amava. Antonio era spesso lontano per lavoro, così lei ne approfittava per uscire con le amiche. Si avvicinò a Marc, direttore della scuola dove anche Mary insegnava. Si frequentarono di nascosto per lungo tempo, perché entrambi sposati. Erano felici, finché un tragico incidente le portò via il suo amore clandestino. Per combattere il dolore si candidò per il posto vacante come direttrice e venne assunta. Tutto l’ufficio le ricordava Marc. Quelle quattro mura scialbe erano permeate del suo odore. Lo maledì, perché l’aveva abbandonata nel momento in cui aveva maggiormente bisogno di lui. Non aveva fatto in tempo a rivelargli che il frutto del loro amore stava crescendo dentro di lei. Si trovò quindi a doversela sbrigare da sola. Non poteva assolutamente confidarsi con Antonio, ne sarebbe conseguito un enorme scandalo. Per sua fortuna il marito era spesso assente, cosicché non doveva preoccuparsi di nascondere il ventre ormai rigonfio. Quando lui rincasava, lei trovava una scusa per uscire. Non avevano più una vita di coppia da lungo tempo. Come copertura per il parto inventò un meeting di lavoro. Nacque Damian, figlio dell’adulterio. Aveva pianificato tutto: l’avrebbe nascosto nel deposito sul retro della scuola e, per la sua buona crescita, assunto i migliori docenti, pagandoli profumatamente per svol244


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gere il loro lavoro e non fare domande. Il figlio crebbe, e così anche la strepitosa somiglianza con il padre: capelli rossi ricci e occhi verdi. Guai se qualcuno lo avesse visto. Nessuno doveva sapere, vedere, ma soprattutto alludere. Roniter venne richiamato alla realtà da urla assordanti provenienti dall’aula accanto. “Che cavolo… Andate a vedere cosa succede!” “Ispettore corra!” gridò un agente. Roniter entrò spedito nell’aula. Rannicchiato a terra c’era un ragazzo pallido dai capelli rossi ricci che urlava cercando di infliggersi dolore mediante un tagliacarte. Non ebbe alcun dubbio. “Ciao Damian, sono l’ispettore Roniter. Io e te dobbiamo fare una chiacchierata”. L’adolescente non oppose resistenza e gli raccontò che Mary lo aveva rinchiuso in uno sgabuzzino fin dalla nascita, facendogli credere che era affetto da una rara malattia. Che un giorno, assieme ai libri di testo e per sbadataggine della madre, ricevette un manoscritto. Riconobbe la calligrafia e, incuriosito, si mise a leggerlo di nascosto. Cominciò gradatamente a dare senso e corpo al suo personaggio. Menzogne e tradimenti facevano di sua madre, che tanto aveva amato, una squallida donnaccia, che per difendere l’immagine ed evitare scandali, non si era fatta scrupoli nel posteggiarlo in un lerciume e farlo crescere con false verità, pur di apparire ai suoi occhi una buona mamma. Rinchiuso e imprigionato come un ratto di fogna per tutti quegli anni per colpa di due bastardi che si erano divertiti senza prendere pre245


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cauzioni! La rabbia verso quella donna crebbe giorno dopo giorno in maniera esponenziale. Aveva fatto parvenza di niente fino a oggi, momento in cui era riuscito a fuggire ed era andato alla ricerca della madre. Barcollante per la poca struttura muscolare, percorse in lungo e in largo l’edificio scolastico a gran fatica, finché la trovò nel suo ufficio. “Mia madre era dapprima sorpresa nel vedermi e in seguito spaventata per l’espressione di odio che leggeva sul mio viso. Cercò di farmi ragionare sdrammatizzando l’accaduto, ma la situazione le stava sfuggendo di mano. Era abituata ad avere il controllo su tutti, tuttavia in quel momento si sentì impotente! Avemmo un’accesa discussione e io, accecato dalla rabbia, le presi la testa fra le mani e gliela girai violentemente dicendole: grazie, mammina cara!” Nell’istante in cui confessava il suo reato, un rivolo umido gli scivolò lungo la guancia. Lacrime apparentemente piccole, ma dal peso emotivo troppo enorme da reggere. “Poi, schifato, le scaraventai addosso il diario e andai a nascondermi nell’aula accanto. Mi creda ispettore, ero in panico! Conscio della mia brutalità, cominciai a infliggermi dolore, perché il gesto che avevo compiuto non era giustificato. Ho ucciso mia madre! “Va bene, Damian. Apprezzo la tua sincerità. Ora alzati! ” gli porse una penna stilografica e gli fece firmare la confessione. Lo ammanettarono e, sotto gli occhi sbalorditi degli alunni, lo accompagnarono fuori dall’edificio scolastico. 246


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Roniter si appartò per ripensare a questa storia assurda e immaginò il povero Damian in viaggio verso la prigione…La sua nuova prigione!

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Noir a scuola Prisca Reali

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onsieur Gorsch. Per tutti “Il Maestro”. All’apparenza un tipetto nervoso. Forse a causa del suo continuo scrutare gli alunni, gli inverosimili battiti di palpebre e il tamburellare della matita sulla cattedra. Ogni mattina, in perfetto orario, lo vedono svoltare nella via principale della scuola e tutti lo riconoscono. Movenza lenta ma ben coordinata. Da qualche tempo non è più lo stesso Monsieur Gorsch. Da qualche tempo sempre più stanco Monsieur Gorsch. Con rispetto, lo osservano, cenni di saluto, un movimento della testa ma niente più. Gli ultimi scalini prima di arrivare nell’immenso ingresso vittoriano e finalmente entra in quello che lui definisce il suo santuario. Da quel momento le cose cambiano. I ragazzi si aggirano per i corridoi allegri. Li sente chiacchierare, ridere e discutere delle loro ‘faccende da adolescenti ’, a volte con imbarazzo, a volte con la tipica irriverenza della loro giovane età. Questa volta è lui ad osservare mentre piano si dirige verso la sua aula. Li ascolta, li scruta. Gira a destra ed oltrepassa la porta. Si avvicina alla cattedra, toglie i libri, le penne, i quaderni. Ordinatamente li pone sulla scrivania e si siede ad aspettare. Il suono della campanella. Chi correndo, chi trascinandosi svogliatamente, chi ancora assonnato e, ad uno ad uno, prendono i loro posti. 248


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Monsieur Gorsch. “Il Maestro” da più di trent’anni. I ragazzi, da tutte le passate generazioni, lo adorano e lui contraccambia. Quel giorno sembra esserci qualcosa di diverso. Egli apre il libro di scienze davanti a lui a cui, poi, faranno seguito quelli di matematica e letteratura. Beve un sorso d’acqua... Si ferma. E’ stanco. Prima nei cassetti, poi nella cartella. Non trova quello che cerca. Lentamente alza il viso e guarda i suoi alunni, a loro volta incuriositi da questa nuova attitudine. Li guarda, non parla. Vorrebbe farlo ma non vi riesce. Li conosce ad uno ad uno. Ne conosce i genitori precedentemente nei loro stessi banchi. Con gli stessi timori, sogni e ambizioni. Ripensa, Monsieur Gorsch, agli anni felici dedicati, vissuti, voluti. Gli occhi incavati, solcati da un alone nero. La pelle sempre più bianca. Ancora un ultimo sguardo, un accenno di un sorriso, ed il suo ultimo canto si disperde in silenzio. Attoniti, impietriti. Non sanno cosa fare. Sguardi preoccupati. S’incrociano, si cercano. I primi sussurri a rompere quel momento surreale. Qualcuno corre, inciampa, si scaraventa fuori dalla porta per poi scomparire nel suo stesso eco. Nessuno osa fiatare. Nessuno vuole farlo, perché forse, questo potrebbe cambiare le cose. E’ lì, Monsieur Gorsch, chino sui suoi amati tesori di conoscenza, cultura, arte, scienza. Forse ora rialzerà il capo. Forse ora riprenderà a picchiettare. Forse ora tornerà a regalarci la sua infinita sapienza. Forse ora… Non lo farà, Monsieur Gorsch. Non lo farà più. Gli echi nel corridoio riprendono. Si avvicinano. Ar249


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rivano il preside, il medico, i primi suoi colleghi… ora è cosa da adulti. Hanno saputo. Qualcuno ha parlato… E’ passato un giorno, un altro ancora e Monsieur Gorsch non è tornato. Ancora lo aspettano ma non è avvenuto. Un anonimo supplente ne ha preso il posto ed ora, per i suoi amati discenti, temporaneamente traslocati in un’ala ovest dell’edificio, non vi è pace. Dov’è “Lui”. Cosa gli è successo. Perché… Omicidio! Assassinio! Parole che riecheggiano come frustate. Com’è possibile. Chi. Perché. Nei giorni a seguire una lunga serie di indagini. Un via vai di agenti della scientifica, ispettori, giornalisti. L’intero corpo insegnanti impotente ed incredulo. Il loro amico, esempio di dedizione, mentore di tecniche d’insegnamento sperimentali, spesso sempre più spesso lontano dagli stereotipi e dai cliché standard della sua materia. Vennero eseguite analisi chimiche del bicchiere utilizzato, il liquido in esso contenuto. Misero a sigillo l’intera sezione per perdersi in mille controlli, ispezioni, verifiche, congetture. Mentre tutti si affaccendavano a cercare, analizzare, trovare le cause dell’incomprensibile accaduto gli allievi, i suoi allievi, iniziarono a porsi delle domande. Si ritrovarono tutti nel giardino secolare all’ombra di una sbalorditiva camelia. Era primavera. Il sole troneggiava splendente. La temperatura oramai mite aveva iniziato a tappezzare il prato nei suoi più inverosimili colori. Eppure, tra loro, l’umore sfumato di grigio. Non capivano e non se ne davano una ragione. Osservavano l’impazzito andirivieni e non lo comprendevano. Perché cercare 250


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lì. Perché persistere in esami insensati. Tutti lo amavano. Tutti lo ammiravano. Chi mai lo avrebbe voluto vedere morto… e allora: perché. Un agente portò all’attenzione dell’ispettore capo una lettera trovata seminascosta tra gli scaffali della segreteria di Madame Montière. Persona di fiducia, cresciuta nella scuola e parte integrante di essa. Una dichiarazione d’amore, chissà se mai spedita e forse, per questo, sempre quell’aria sommessa, infelice, un’ombra di sé stessa. Nuove rivelazioni. Frenesia! Le indagini cambiano di direzione. Forse un delitto passionale. Una nuvola informe di tutori della legge si ammassa attorno a lei fagocitandola in un’ interminabile testa a testa di domande, inquisizioni e lei piange. Il capo abbassato. Incapace di sostenere gli opprimenti interrogatori. Troppo fragile. Già da tempo, ormai, abbattuta dai suoi sogni, quelli più puri, primari. La sua colpa? L’aver desiderato, voluto essere amata e non aver mai avuto il coraggio di confessarlo a colui che ormai più le avrebbe, seppur platonicamente, gratificata di un leggero sorriso ad accarezzarle il cuore. Ma allora chi? La tensione è palpabile, cresce il nervosismo per l’incapacità di denudare la verità. All’esterno, nel frattempo, i ragazzi continuano a pensare. Gli occhi stanchi contornati d’opaco. Quegli occhi! Gli stessi, che loro già videro nel giorno “Del Maestro”… ed allora compresero! Monsieur Gorsch. “Il Maestro”. La sua ultima crea251


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zione. Tra tutte le dottrine negli anni utilizzate, all’unico scopo di eternare la sua cultura, il suo patrimonio di conoscenza, questa la più audace, la più temeraria. Come ancora lo poteva fare…? Sbalorditi, esterrefatti spalancarono gli occhi. Il suo ultimo capolavoro. Quando null’altro più a cui attingere sembrava potesse esistere. La sua ultima risorsa… se stesso… e nel rinunciare alla sua esistenza tutto il suo sapere fu regalato…

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Il perdono Anda Claudia Dutescu

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a direttrice del liceo cantonale aveva appena telefonato alla polizia giudiziaria per annunciare il ritrovamento del corpo senza vita di un loro studente . Un quarto d’ora più tardi, il commissario Nardi incaricato di questo caso si trovava nell’ufficio della direttrice del liceo. Il medico legale affermò che la morte era avvenuta in seguito ad un trauma alla testa dovuta alla caduta di un peso della palestra e che l’autopsia potrà fornire indicazioni più dettagliate. Il peso sembra essersi staccato mentre il ragazzo si allenava. Non si tratta però di una caduta accidentale; il peso è stato staccato apposta. “Mi racconti tutto quello che sa di questo ragazzo” disse Nardi alla signora Weber, la direttrice. “Leo si era trasferito da poco nel nostro liceo. Non aveva molti amici, era un ragazzo introverso che non ha mai creato problemi. Non saprei chi poteva odiarlo cosi tanto da ucciderlo.” “Vorrei vedere la classe di Leo, con ogni studente seduto al suo posto” chiese Nardi alla fine del colloquio. Qualche minuto più tardi il giovane commissario entrò nell’aula dove venti studenti della terza lo fissavano con curiosità. Non si aspettavano di vedere un commissario che sembrava avere quasi la loro età e qualche secondo più tardi l’aula si animò e Nardi difficilmente riuscì a mantenere il silenzio. Chiese loro quale era il posto di Leo. Guardò con in253


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teresse ogni studente, fece domande a caso ed in seguito scelse qualcuno per parlarne separatamente. Da questo primo interrogatorio scoprì che Leo fu vittima di bullismo e che furono pubblicate delle foto compromettenti su Facebook. Il bullo era Max, un compagno di classe che infastidiva tutti, ma soprattutto il nuovo arrivato. Max confessò che in passato aveva preso in giro la vittima, ma negò di averlo ucciso. Disse che non aveva nessun motivo di ucciderlo e che i suoi scherzi sono sempre stati innocui. Negò anche di aver litigato con la vittima. In seguito il commissario Nardi interrogò Lara, la fidanzata di Max. La discussione con la ragazza non rivelò niente di insolito tranne che i due stavano insieme tanto per non annoiarsi. Ma nonostante questo, Max era geloso anche se lei diceva che non ne aveva motivo. Insomma una coppia di quelle che stanno insieme perché non hanno niente di meglio da fare. Seguì Ivan che disse di aver sentito una lite fra Leo e Max subito dopo la lezione di ginnastica. In seguito anche altri studenti confermarono di aver sentito i due litigando nella palestra. Leo era vestito ancora in tuta, quindi si presume che la morte sia avvenuta subito dopo la lezione di ginnastica. Dopo c’era il pranzo e in effetti nessuno l’aveva visto pranzare in mensa. Ma solamente alla lezione di italiano che era la prima ora di pomeriggio, notarono la sua mancanza e nello stesso momento un’altra classe che doveva fare ginnastica si trovò davanti alla macabra scoperta del corpo con il cranio fracassato. 254


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Nardi si mise al lavoro, ma nessuno agevolava i suoi compiti: dalla direttrice che sembrava rendersi conto improvvisamente di quanto fosse giovane e presumibilmente inesperto il commissario, dai docenti che anche loro lo guardavano perplessi, dai studenti che ridevano dietro e dai genitori appostati per vedere chi e come si occupa delle indagini. Al secondo interrogatorio Max non negò più di aver litigato con Leo, ma affermò con veemenza di essere andato via mentre Leo si allenava coi pesi. Ma le prove contro di lui erano incomputabili. Il caso era risolto ed il ragazzo fu portato nel carcere in attesa del processo. La tranquillità tornò nelle aule del liceo cantonale, ma il commissario Nardi ogni tanto tornava e spiava le sagome dietro la siepe. Lara era seduta su una panchina e accanto a lei c’era Ivan. Lei guardava le sue mani. “Cosa ti sei fatto qui ?” chiese Lara scoprendo le cicatrici sui polsi di Ivan. “Niente, preferisco non parlare” disse Ivan coprendo i polsi. Il ricordo di quel tentativo di suicidio incombeva su di lui ogni volta che guardava quelle cicatrici e ogni volta sentiva la sua solitudine davanti al mondo intero: lui, da solo con i suoi polsi sanguinanti. Lo avevano trovato agonizzante, ma ancora con un filo di vita nel corpo stanco. La famiglia ha fatto in modo che non si sapesse e quando era tornato a scuola tutti sapevano che aveva avuto una brutta polmonite. 255


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Ma adesso aveva paura e voleva sapere. Doveva andare in carcere e parlare con Max. Il bullo rimase sorpreso quando lo vide. Non riusciva proprio a capire perché questo ragazzo che per tanto tempo ha preso in giro veniva a trovarlo in carcere. “ E allora cosa sei venuto a fare? Non sarai mica venuto per prendermi in giro ? “chiese Max. “No. Volevo dirti solamente che mi dispiace.” “Adesso che l’hai detto te ne puoi anche andare!” “E volevo dirti che ti ho perdonato” aggiunse Ivan. “E per che cosa mi hai perdonato ?” chiese stupito Max. “Per questo !” disse Ivan mostrando i polsi. “E’ stato un momento in cui volevo morire. Per colpa tua, per tutto quello che mi hai fatto. Ma ora ti perdono” aggiunse Ivan andando via. Max rimase in silenzio. Solo quando rimase da solo commentò con rabbia: “Guarda questo stupido per che cosa è venuto. Me ne frego del tuo perdono, povero scemo ! “ disse Max mentre veniva accompagnato in cella. Adesso Ivan aveva saputo quello che voleva sapere e non aveva più paura. Max non sospettava niente. Non sapeva che Ivan aveva nascosto lo spago che Leo aveva usato per suicidarsi, pur sapendo che in questo modo il suicidio di Leo sarebbe sembrato un omicidio e che Max sarebbe stato il primo sospettato. L’aveva fatto perché in realtà non aveva mai perdonato Max per averlo portato sull’orlo del suicidio. E per256


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ché già allora era innamorato di Lara. Il commissario Nardi guardava Ivan mentre si allontanava. Aveva richiesto la registrazione della conversazione dei due ragazzi appena aveva saputo che Ivan aveva fatto la domanda per visitare Max. C’era qualcosa che non lo convinceva ed era certo che presto l’avrebbe scoperto.

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Noir a scuola Anna Maspoli

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cco, arriva, sento i passi avvicinarsi, è a pochi scalini dalla porta; trattengo il respiro, lo tratteniamo tutti sperando che questa volta… Scricchiola come d’abitudine il penultimo scalino, quello che ci salva spesso avvertendoci del pericolo imminente, l’abbiamo chiamato Bennett come la prima signora del faro. Noi bambini della scuola abbiamo la fortuna di sottrarci una volta l’anno alle sgrinfie delle bacchettone, di “beneficiare per qualche ora della balsamica aria salmastra e di preziosi insegnamenti”, come definiscono loro il pomeriggio alla baia. Fesserie. Libertà, mascalzonate e, sopra ogni cosa, racconti fantastici e misteriosi di quei lupi di mare che le suore, nostre istruttrici e carceriere, chiamano gentiluomini. Pozzi di incredibili storie di paura e magia, che poi ci raccontiamo a vicenda per tenerle vive e spaventare i più piccoli. Circolava da tempo anche la vicenda di Mary Jane Bennett, figlia di emigrati Gallesi giunti in Nuova Zelanda l’anno 1841. La bella Mary, innamoratasi di un giovane marinaio del posto, lo pianse in mare dopo soli due anni di matrimonio; col dolore nel cuore ma una forza ereditata dalle possenti coste del suo paese d’origine, divenne nel 1858 guardiana del primo faro del nostro paese, eretto sulle falesie meridionali dell’Isola del Nord. È analoga la funzione del già citato gradino Bennett, che sempre segnala l’arrivo di una delle converse e ci permette di rassettarci rapidamente e sfoderare i sorrisi. 258


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Evitare che ci scoprano a leggere fumetti di contrabbando, a giocare a carte o intenti in altre simili attività peccaminose è la nostra unica preoccupazione e col tempo la nostra astuzia si è affinata parecchio. Da qualche tempo c’era un altro motivo per cui ella veniva messa alla prova: era una notte di temporale estivo, di quelli dove la natura pare vendicarsi di anni di silenziosa sopportazione e reagisce con una forza tale che il cielo sembra esplodere. Notti così capitano una o due volte a stagione ed è uno spettacolo di tale bellezza ed energia che non manco mai di godermi interamente, appoggiata al bordo della finestra, con uno spiraglio aperto per respirare la pioggia. Nella nostra piccola scuola, al limitare di una fitta foresta di abeti, siamo una cinquantina di ragazzi e la mansarda – rigorosamente divisa, maschi da una parte e femmine dall’altra – funge da dormitorio. Il giardino è dominato da un vecchio, enorme acero, i quali rami si estendono fino quasi a toccare la casa. Era proprio su uno di quei rami che quella notte vidi un qualcosa di nero che cercava malamente di restare aggrappato, mentre vento e pioggia lo sbatacchiavano di qua e di là, come uno straccio impolverato. Quando all’improvviso i suoi occhi, gialli come lampi, incontrarono i miei non esprimevano terrore come mi sarei aspettata; parevano quasi divertiti, come se non ci fosse niente di più interessante che starsene in balia della tempesta. Un attimo dopo una violenta raffica di vento spalancò la finestra e in un istante il gatto spiccò un balzo e mi atterrò addosso. Riaperti gli occhi dopo lo spavento, incontrai il suo sguardo 259


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serafico. Dopo una bella tempesta, niente di meglio che un caldo abbraccio umano di cui servirsi. Nei giorni seguenti il micio divenne l’attrazione principale, a lezione non vedevamo l’ora di tornare in camera dove appariva per giocare, farsi coccolare e partecipare alle nostre marachelle. Era il più scaltro di tutti e pareva divertirsi quanto noi a far prendere spaventi alle suore o a rubare cibo dalla cucina, da dove poi tornava con quel suo sguardo divertito e maligno che lo contraddistingueva. Sembrava sempre tramare qualcosa e quando lo vedevamo sgusciar fuori ci eravamo abituati a non preoccuparci che venisse scoperto, era infatti più intelligente di tutti noi messi assieme. Lo adoravamo, ma non nella maniera in cui un bambino vuole bene al suo cucciolo e gli è affezionato, bensì ammirandone l’ombroso carisma, con rispetto e lealtà. Successe soltanto una volta, un giorno, che la serva lo vide mentre sgattaiolava fuori dalla cucina; lei cacciò un urlo, che per fortuna le suore non sentirono essendo uscite al mercato, e da come lui arrivò a siluro correndo a nascondersi in un angolo intuimmo il malfatto. Ricordo che mi avvicinai al nascondiglio dove si era raggomitolato. Sentendomi vicina si voltò – e il mio cuore ebbe un sussulto: il pelo era ritto e i suoi occhi, prima giallo–dorati, parevano due braci ardenti, pieni di turbamento e ira. Fu selvatico il giorno seguente, e quelli dopo ancora; si faceva vedere raramente, aveva preso l’abitudine di soffiare a qualunque rumore improvviso. Non soltanto il vederlo così ci intristiva, aveva preso infatti a tutti uno strano malessere interiore come se noi tutti fos260


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simo stati tremendamente ingiuriati e il vivere in quel posto ci fosse diventato un insulto. Non potevamo più sopportare la vista della serva. Neanche la prospettiva della gita alla baia riuscì a toglierci dall’animo quel buio maligno, quella rabbia; partimmo il mattino di buon’ora, con l’umore spento e gelido come le nuvole gonfie d’acqua sopra la nostra testa. – Mi raccomando, non allontanatevi dal paese. E date retta a Josephine, sappiate che mi riferirà ogni comportamento non adeguato e provvederò… Tornammo a casa che era quasi buio, i racconti dei pescatori ancora nelle orecchie e i vestiti inzuppati della pioggia che da metà pomeriggio cadeva fitta. Le suore ci aspettavano sulla soglia con sguardi gravi, alle loro spalle due agenti della polizia cittadina. Suor Margareth, la superiora, si fece avanti pallida in volto e indebolita tutt’un tratto, lei che solitamente era il terrore della casa: – La serva… Josephine… in fondo agli scogli. Povero dolce viso, povera anima. Ricordo che i nostri volti non mutarono espressione, immagino sembrassimo tutti sotto shock… anche quando, alzato lo sguardo alla finestra della mansarda e incontrato due occhi gialli nel buio ci sentimmo tutti rassicurare. Sembravano dire “ben fatto”.

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Alle 18 nel piazzale del liceo Marica Iannuzzi

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a no! Ti ho detto che non puoi usare quella proprietà dei logaritmi!– dissi io. –Vuoi stare zitto, Simo? Ho ragione io!– gridò in risposta Arianna. –Volete un mio parere? Non credo che il venerdì sera sia il momento migliore per mettersi a fare la serie di mate…– –Guarda che ho fatto giusto io!– sbraitò lei convinta, senza badare a quello che Luca aveva appena detto. –Ciao ragazzi…– Una voce femminile interruppe la discussione matematica. Quelle parole erano state sufficienti per far capire ai tre amici che cosa dovessero fare in quel momento. Erano già arrivate le 17.30: l’orario in cui le donne di pulizie arrivavano agli armadietti che dovevano essere lasciati liberi per le pulizie. –Mi spiace farvi traslocare…– disse la donna, sfilandosi una cuffietta dalle orecchie. Ormai eravamo abituati a doverci trasferire in un altro posto del liceo quando arrivava un certo orario. Così, mentre Luca ammassava disordinatamente i fogli, Sandra era intenta a svuotare la sua borsa sbarazzandosi dei libri inutili. –Sempre la solita storia!– borbottai io. –Cosa hai da lamentarti sempre?– chiese Arianna mentre cercava di far ingoiare all’armadietto il manuale di storia. –Come al solito il mio armadietto non si chiude!– sbruf-

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fai io. E mentre litigavo con la serratura, dal fondo del corridoio, il rumore metallico provocato dalle rotelle dei carrelli si faceva sempre più nitido. –Va beh, vorrà dire che mi porterò a casa le cose di mate anche se non mi servono…– dissi in modo rammaricato. Senza che me ne fossi accorto, Luca e Arianna erano pronti ad andare: mancavo solo io. A farmi accorgere di questo fu una voce maschile che mi era familiare: –Ragazzi, potete andare in buvette? Noi dobbiamo pulire.– comunicò il bidello con tono seccato. –Sì, ci scusi…– acconsentì subito Arianna. In fretta e furia ce ne andammo, lasciandoci alle spalle non solo gli armadietti, ma pure il frastuono delle aspirapolvere. Mentre ci stavamo dirigendo al pianterreno, nessuno di noi tre aprì bocca, come se avessimo paura di respirare quel tanfo acre di chi disinfetta anche gli angoli più impensabili . –Ma io mi chiedo che senso abbia lavare le scale se poi dopo puzzano più di prima!– disapprovò Luca, gesticolando nell’intento di tapparsi il naso. –Ma io invece mi chiedo perché fanno lavorare qui quello lì…– si lamentò Arianna riferendosi al bidello. – Come se di gente antipatica in questo liceo non ce ne fosse già abbastanza.– continuò, facendo riferimento questa volta ad alcuni professori. Come d’abitudine io acconsentii a quello che i miei due amici stavano dicendo, senza però averli ascoltati veramente. –Tu invece perché non dici niente?– domandò Luca, mentre era intento a sbriciolare giù per le scale un pezzo 263


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di Balisto per fare un dispetto alle donne delle pulizie. –Ehm… veramente io…– mi bloccai, perché non volevo che i miei amici si accorgessero che realmente non li stavo ascoltando. –Veramente io… cosa?– chiese un po’innervosita Arianna, mentre controllava sul display del suo telefono se le fosse colato il mascara. –No… è che non mi ricordo dove ho lasciato il mio formulario di mate…– farfugliai io. –Non dirai sul serio, Simo!– dissentirono in coro Luca e Arianna. –Ma…– tentai invano di proseguire io. –Guarda, tu sei davvero un caso perso…– lo compatì Arianna. –Poi Luca, hai quasi finito tu con quel Balisto?– lo rimproverò lei. –Se vuoi fare una cosa falla bene almeno!– e con un sorrisetto tirò fuori una monoporzione di cereali integrali che aveva in borsa. Sulle labbra di Luca si disegnò un sorrisetto: –Sei ge– nia–le, Ari!– scandì Luca mentre stava già cospargendo per le scale i cereali come un contadino intento a seminare. Io li guardavo fare, disapprovando tutto quello che stavano facendo. Detto francamente, avevo altro cui pensare e altro con cui divertirmi. Nonostante questo erano miei amici e non riuscii a reprimere l’intenzione di dire loro: –Se vi becca una donna delle pulizie…– non feci nemmeno in tempo a finire la frase che i miei due amici la ripeterono come pappagalli. –Piantala dai, Simo! In testa tu hai solo la matematica!– 264


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mi derise Luca. E quando raggiungemmo l’atrio della scuola, Luca e Arianna andarono in direzione dell’uscita, mentre io svoltai in direzione della buvette. –E ora che fai?– chiese sbigottita Arianna –non vieni con noi a prendere il bus?– –Ehm… no, passo prima a prendermi un caffè e poi...– –E poi finisco la serie di mate da bravo bambino.– lo anticipò Luca scotendo la testa. –Forza dai, andiamo… Io ho di meglio da fare. Non voglio mica perdere il bus. – disse Arianna tirando la manica del giubbotto di Luca. –Ci si vede. Buon divertimento con i tuoi logaritmi.– Arianna nemmeno mi salutò e li vidi allontanarsi nel cortile. Nella buvette regnava il silenzio. L’unico rumore che sentivo era il ronzio del distributore che era in penombra; infatti, era accesa una fila sola di neon. Tutti i tavoli erano vuoti. Ero da solo. Guardai di sfuggita dalla finestra a forma di oblò che aveva la vista sul piazzale del liceo. Luca e Arianna non c’erano più. Il cielo era diventato un manto nero e a illuminare quella sera alle 17.45 c’era solo la luce artificiale del lampione vicino al posteggio per le biciclette. Le mie scarpe Adidas facevano rumore ad ogni passo. Prima di sedermi, mi presi un caffè. Tirai fuori la calcolatrice e la serie di esercizi e mi rituffai nel mondo della matematica. D’un tratto sentii dei passi e poco dopo vidi un’ombra disegnarsi sulle mura. Rimasi come pietrificato a fissare il fumo che usciva dal mio cappuccino. 265


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–È tuo questo?– mi voltai di scatto. Era il bidello con in mano il mio formulario di matematica. –Sì… grazie…– furono le uniche parole che riuscii a dire. Lo afferrai e un brivido mi attraversò la schiena: sul retro c’erano dei cereali incrostati di… sangue. Impallidii. E la risposta del bidello mi arrivò con l’eco della sua voce: –Da lunedì niente più briciole.–

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Noir a scuola Andrea Panichi

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er il professor Marco Ghisi insegnante di educazione fisica al liceo, la morte del figlio Alberto per overdose, era stato un colpo terribile da cui non era riuscito a riprendersi. Separato dalla moglie, pochi contatti col figlio che era rimasto a vivere con la madre, non si era accorto che il ragazzo si drogava e quindi non aveva mai fatto nulla. E questa consapevolezza lo faceva sentire colpevole e non riusciva a darsi pace. Dopo alcuni mesi si era pure ammalato. Aveva cominciato a tossire, era andato a farsi visitare e il medico gli aveva diagnosticato un cancro al polmone sinistro: gli restava un anno di vita. C’è chi collega l’insorgere di una malattia grave a un fatto doloroso della vita. Il professore si era convinto che così fosse capitato anche a lui. Ora l’unico scopo del resto della sua esistenza era quello di scoprire chi aveva fornito la droga a suo figlio per fargliela pagare. Riteneva che anche certi ragazzi a scuola si drogavano. Aveva notato che un paio di allievi nelle lezioni di nuoto dimostravano una resistenza in acqua davvero impressionante e nuotavano a un ritmo insostenibile per tutti gli altri. Certamente assumevano quanto meno degli stimolanti se non droghe vere e proprie. Anche altri ragazzi talvolta avevano atteggiamenti strani, passavano da fasi di grande euforia ad altri di depressione senza motivo apparente: manifestazioni tipiche di chi assume stimolanti. Prendevano forse cocaina? 267


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C’era qualcuno che la smerciava anche a scuola? I suoi sospetti si erano appuntati su Ivan, un ragazzo che veniva a scuola in Porsche. Come poteva permettersi un’auto così costosa, lui che era di famiglia modesta? I suoi genitori avevano un negozietto di frutta e verdura! Si era ripromesso di tenere d’occhio il ragazzo soprattutto nei rapporti con gli altri nella speranza di cogliere qualche indizio rivelatore. Giorno dopo giorno la sua malattia, che non aveva ancora rivelato a nessuno, si aggravava, la sua tosse diventava sempre più insistente e dolorosa. E lui continuava a lavorare. I suoi colleghi lo avevano più volte consigliato di restare a casa e di curarsi. Ma lui si era data una missione e voleva portarla a termine. E poi curarsi, fare la chemio per avere qualche settimana in più di agonia? Tanto la sua fine ormai era segnata! Finalmente una sera ebbe la prova che cercava. Mentre gli allievi sguazzavano nella vasca in piscina, si era intrufolato nello spogliatoio a rovistare tra gli indumenti di Ivan. Era quasi buio – l’oscurità là sotto arriva presto d’inverno – ma per precauzione non aveva acceso la luce. Frugando fra gli indumenti del ragazzo aveva trovato in una tasca nascosta all’interno dei suoi pantaloni, chiusa da una lampo, tre bustine che al tatto sembrava contenessero una polvere fine: “cocaina” pensò il professore mettendole in una tasca della sua tuta da ginnastica. Ritornò in piscina, si avvicinò a Ivan dicendogli che doveva parlargli e gli chiese di aspettarlo nello spogliatoio. 268


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Dopo aver verificato che tutti gli allievi fossero usciti, il professore entrò silenziosamente nello spogliatoio. Il ragazzo indossava ancora solo gli slip e la canottiera, teneva in mano i pantaloni e frugava nelle tasche. Il professore, mentre estraeva le bustine dalla tasca della sua tuta non riuscì a trattenere uno di quegli improvvisi attacchi di tosse che lo scuotevano tutto. Il ragazzo si girò di scatto verso di lui, sorpreso. – Cerchi queste? – riuscì comunque a dire il professore mostrando le bustine che teneva nella mano destra. – Sei tu che vendi questa merda, vero? – Io, io… sono loro che me la chiedono. Io non impongo niente a nessuno – cercò di giustificarsi il ragazzo. – L’hai venduta anche ad Alberto, vero? – Non mi ricordo, non lo so. – Non negare con me, voglio sapere la verità. Gliel’hai venduta tu quella merda che l’ha ucciso? – Il professore si era avvicinato minaccioso al ragazzo e aveva passato dalla mano destra alla sinistra le tre bustine. – Forse… ma è stata colpa sua, è lui che se la iniettava invece di sniffare come fanno… Non riuscì a terminare la frase: il professore lo colpì rabbiosamente con un corto gancio destro alla bocca dello stomaco. Lui che da giovane aveva praticato anche la boxe sapeva che quello era un colpo da k.o. perché ti toglie il fiato. Infatti il ragazzo si piegò su e stesso, poi, a bocca aperta, scivolò lentamente a terra sbattendo la faccia contro il pavimento. 269


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Verso le otto di sera il custode del liceo ricevette una telefonata dal papà di Ivan che diceva di essere preoccupato perché il ragazzo non era ancora rincasato. Il suo iphone suonava ma lui non rispondeva. Poteva, per favore, andare a vedere a scuola? Forse era successo qualcosa, magari si era fatto male… poteva essere rimasto chiuso dentro… Nell’ultima ora aveva avuto una lezione di ginnastica… Il custode cercò di tranquillizzare il genitore e lo assicurò che sarebbe andato a controllare immediatamente. Infatti si recò subito a scuola. Vide che l’auto del ragazzo era ancora parcheggiata al solito posto, ma dentro non c’era nessuno. Entrò nell’edificio, accese le luci del corridoio, domandò a voce alta: – C’è qualcuno? Ivan, sei qui? C’è qualcuno? – ripeté. Nessuno rispose. Scese rapidamente le scale che conducevano nel seminterrato, entrò in palestra, accese le luci e lo vide immediatamente. Il ragazzo era vicino alla parete destra, penzoloni, tra il quadrato svedese e le pertiche, con il collo avvolto stretto da una delle funi e i piedi a pochi centimetri da terra. Praticamente impiccato. In bocca aveva tre bustine. Il medico legale stabilì che si trattava di un chiaro caso di omicidio. Il ragazzo era morto per strangolamento, ma prima era stato pure picchiato. Nessuno aveva visto nulla. Solo la donna delle pulizie si ricordò che verso le cinque, mentre passava uno straccio sul pavimento di un’aula a pianterreno, aveva udito qualcuno che saliva al buio le scale della palestra. E tossiva…tossiva… 270


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La Sciarpa Silvana Candeloro

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i devo affrettare” penso mentre attraverso l’ultimo passaggio pedonale che mi porta alle Scuole Superiori. Il ritardo potrebbe costarmi anche il portone d’ingresso sbarrato, visto che l’attuale custode è burbero e screanzato. Torno un attimo ai tempi passati quando da altro ingresso frequentavo le medie, sempre in quel caos di complesso scolastico. Tra due ali di nuovi edifici e facciate dei vecchi che richiamavano l’originale di tante aule frequentate anche da mia madre. Ci si scusava del ritardo con motivi vari ed il custode li accettava, anche se con un sorriso ambiguo e sguardi che ti spogliavano. Lui un tipo diverso da quello presente. Capelli neri ricci, portamento dignitoso più da professore che semplice bidello. Forse era poi passato ad altre mansioni vista la sua improvvisa sparizione. Noi ragazzine lo guardavamo con un certo interesse dedicandogli sottovoce degli attributi. Ogni anno scolastico comportava nuovi impegni, accompagnati parimenti da risvegli di sentimenti che portano a prediligere e scegliere un compagno di classe col quale scambiare particolari conversazioni, per poi finire a contatti e confidenze amorose. Così per timidezza prima, ma soprattutto per sfug271


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gire a pettegolezzi e giudizi maliziosi (le colleghe si saziano di questo) CARLO mi convince un giorno a seguirlo mano nella mano, fino alle rampe dei uno dei vecchi edifici ormai in disuso. I pochi gradini ci portano ad un atrio buio. Solo il sole entrato a strisce tra le fessure di bocchette di ventilazione, illumina la massiccia porta di entrata del rifugio antiaereo. Un grosso manufatto in cemento armato con larga cornice in ferro color rosso sbiadito e lunga stanga di acciaio quale maniglia d’apertura. Carlo mi abbraccia forte e a lungo, tanto che mi ritrovo con il viso appiccicato alla sua spalla. Ed è proprio allora che noto in basso a quell’agglomerato una lista di stoffa decorata da una ramatura, ma anche di macchie scure. Può succedere che a distanza di qualche anno un ricordo ti si rinfacci come realtà da vivere in quel momento?? Si, perché improvviso e nitido io ritrovo davanti a me una sciarpa con fondo bianco e nella lunghezza ramatura di fiori di pesco, che era stata motivo di discussione tra noi allieve sia per il motivo del disegno, ma anche per la suddivisione della quota di partecipazione alle spese d’acquisto. Ritenuto dovuto questo omaggio alla professoressa di lettere, signorina Maestro, che ci aveva seguito ed anche affascinato con un programma letterario, con testi anche di sua inventiva che parlavano di drammi amorosi. 272


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Il fatto di essere precaria l’aveva poi decisa ad accettare un posto fisso altrove per cui molto sentito il commiato, con la consegna dell’oggetto da lei gradito. Pensavamo rivederla nel futuro, ma invece nessun ritorno. Oblio o forti impegni magari anche familiari, visto che era una bellissima ragazza acqua e sapone, ammirata e riverita ai passaggi nei corridoi da colleghi, personale e maliziosamente pure da qualche allievo. Con uno strattone mi divincolo dal mio ragazzo, inginocchiandomi all’angolo di quell’ammasso di cemento svergolato ai lati, visto che la chiusura non è certo ermetica. Allungo la mano per prendere un lembo della stoffa e la stessa si allunga mostrando altre macchie scure. Sangue??? Mi sento offesa pensando alla venerazione da noi data a quell’oggetto al momento dell’acquisto. Nessun dubbio trattarsi dell’originale, poiché come garanzia di motivo unico era pure stato dato un marchio di certificazione. Poi però subito raccapriccio per la realtà di quella presenza in quel luogo. Supposizioni infinite si accavallano anche in Carlo, che alla fine decide di chiamare sul cellulare un numero della Polizia. Dapprima tentennamenti, obiezioni, ma quando alla fine gli incaricati addetti si decidono ad intervenire ed aprire anche con certa facilità l’ingresso ormai deformato, all’interno del rifugio (a quei tempi obbligatorio e 273


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munito di attrezzature atti a protezione in eventuali ipotetici casi di guerra), l’unica impensata e sconcertante presenza: il corpo mummificato di una persona. Controlli, ipotesi, verifiche da parte dei vari reparti operanti. Analisi che lasciano adito a tante supposizioni ed interrogativi, ma niente di fatto. Ci si muove ora tra personaggi sbiaditi, altri riemergenti nella fissa della tua mente. Prendi ad esempio quel baldo giovane, semplice bidello, così riverente verso i soggetti femminili. Pronto tante volte ad offrirsi per il trasporto di cartelle e pile di libri fino all’appartamento dell’insegnante, limitrofo alle scuole. L’invito che egli stesso offriva alle ragazze per un giretto con la sua moto, un veicolo Giapponese tra i primi in Europa. Proprio dai dati dell’immatricolazione di quell’automezzo le ricerche arrivano sino a lui che vive in Germania, ma ora sarà sottoposto a rogatoria e poi tradotto per prelievi ematici, ecc. Si riparte pure dai dati in possesso della direzione scolastica. La professoressa quale indirizzo ha lasciato quello della sua residenza di origine: un paesello della Toscana in cui risulta proprietaria di una semplice casetta. Le autorità del posto la ritengono irraggiungibile anche per situazioni debitorie che un immobile comporta. Ma di lei nessun ulteriore domicilio. 274


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Resta ora il percorso d’identificazione del corpo scoperto. Per me tutto lavoro inutile. La certezza si tratti di Miriam Maestro che ha dato tanto in parole ed esempi, ma anche con amore ai propri allievi. Verrà smascherato il colpevole? ….come e quando non si sa. Fossimo entrati allora a fondo nell’intricato delle sue composizioni amorose, ma anche drammatiche i cui testi sono andati persi. Tranne il contenuto di quello posteggiato nitido da anni nella mia mente e testimonianza certa di accusa. Ma chi mi crederebbe? Avremmo potuto collaborare senza interventi giuridici, per deviare un percorso che lei stava “vivendo” prima di un’atroce finale.

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Il ritratto Emanuela Crivelli–Selcioni

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l corso d’arte volgeva al termine. Dopo decine e decine di ritratti a manichini in pose ed espressioni diverse, con parrucche e abiti di ogni foggia, era giunto il momento di cimentarsi con un modello in carne ed ossa. La prof. Rivi lavorava con passione. L’ambiente era piacevole, spesso divertente. Alcuni ritratti suscitavano l’ilarità collettiva, senza che nessuno si offendesse! Anzi, motivo in più per affinare la tecnica, ricevere consigli, informazioni e dettagli che avrebbero dato più o meno risalto. La vigilia della prova finale, gli allievi arrivarono in cortile tutti in contemporanea, piuttosto agitati. Non sapevano chi fosse la o il modella/o da ritrarre. Conoscevano il tema: “un personaggio storico”. La prof. Rivi entrò in aula, salutò gli alunni, aprì il tendone del piccolo palco e disse: “Ecco qui il personaggio che dovrete ritrarre. La modella si chiama Elena, una mia ex compagna di liceo e carissima amica. Ho scelto lei per non creare gelosie fra di voi. Avrete modo di conoscervi alla fine della prova. Buon lavoro” Il volto degli allievi rivelò un’espressione di piacevole sorpresa. Fra tutti i possibili personaggi storici che avevano elencato, tale idea non li aveva nemmeno sfiorati. Sul palco videro Nefertiti, la regina egiziana dotata di una bellezza stupenda, un fascino irresistibile, regale e minaccioso al tempo stesso. Il suo nome significava “la bella che giunge”. Appositamente per lei era stata di276


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segnata la corona alta e stretta, con al centro un aspide. La portava con fierezza, incutendo timore e riverenza servile ai sudditi. La truccatrice – scelta dall’esperto – aveva realizzato un capolavoro. Sembrava davvero che la sposa del faraone Akhenaton, si fosse materializzata dall’antichità! Dopo essersi scambiati qualche commento e gli auguri di rito, si misero all’opera di buona lena, accompagnati da un sottofondo musicale di chitarra acustica, adatto a rilassare la mente, acuendo la concentrazione. Essendo chiusa la mensa dell’istituto, pranzarono al sacco sul prato adiacente. L’aria mite ed i raggi di sole che occhieggiavano dai rami resero la pausa molto gradevole. Nel pomeriggio ripresero a lavorare con rinnovato vigore. Sofia Rivi era molto soddisfatta. Raccomandò a tutti di riposare bene. L’indomani avrebbero ricevuto i risultati. Attesero che Nefertiti lasciasse di nuovo il posto ad Elena ed uscirono tutti assieme. Romana si fece portavoce di tutti invitando la prof e la modella, alla cena che avevano organizzato per il giorno dopo. Accettarono con evidente piacere, si accomiatarono ed ognuno prese la strada di casa. Quando al mattino dopo la prof. Rivi varcò la soglia dell’aula non credette ai suoi occhi! Nascose il viso fra le mani e pianse a dirotto. Tutte le tele degli alunni erano state imbrattate di pittura nera, i cavalletti ridotti a pezzi sparsi sul pavimento, i pennelli tagliuzzati. Ma chi poteva essere l’autore del disastro? Sofia percorse il lungo cor277


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ridoio chiamando a gran voce il prof. Pastori, esperto d’esame, il quale– assieme al direttore della scuola – salì di corsa i tre piani di scale, preoccupato dalle grida. La prof era seduta sullo scalino, pallida come un cencio e tremante di rabbia. Senza proferir parola fece segno al prof. Pastori ed al direttore di avanzare fino all’aula preposta per l’esame del corso d’arte. Intanto nelle scale risuonavano le voci ed i passi affrettati degli allievi che salivano. La Rivi non si era mossa. Vedendola così si scambiarono occhiate interrogative. “Ragazzi – disse Sofia facendosi forza – i vostri lavori sono stati irrimediabilmente distrutti Non capisco il perché. Non ho nessun’idea di chi possa aver compiuto un tale scempio. Sono costernata!” Si levò un “Noo” disperato all’unisono. Si trascinarono verso l’aula. Entrarono. Il direttore espresse loro il dispiacere unitamente al sostegno, rassicurandoli che avrebbero potuto ricuperare l’esame. Importante ora, era scovare il colpevole. Mark domandò come mai Elena non era presente. Già! Nel trambusto nessuno aveva pensato alla modella. Inoltre aggiunse: “Ma quando è successo tutto questo? Nell’istituto c’eravamo noi, la sezione del corso di teatro e lei direttore. Siamo usciti praticamente tutti assieme. È sicuro di aver chiuso il portone del palazzo ieri sera?” Il direttore rispose affermativamente; averto aperto lui stesso ed era sicuro di non aver notato nessun segno d’effrazione. 278


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Paola si avvicinò al palco e scostò il tendone. Un urlo acuto fece girare tutti di scatto. Legata al trono, Elena–Nefertiti era inerme. Il capo chino sul petto. La corona caduta in grembo. A terra una tazza frantumata nei resti di un liquido giallastro. “Non toccate nulla – ordinò sconvolto il direttore – andate in sala mensa. Sofia avvisi il prof. Zuri di raggiungervi. Chiamo la polizia.” La scientifica salì al terzo piano. L’ispettore in sala mensa per gli interrogatori. Lo psicologo assisteva. Un agente camminava in lungo ed in largo osservando attentamente ognuno, esperto nel cogliere espressioni del viso, dello sguardo, movimenti del corpo. Un ispettore stava interrogando. L’agente lo interruppe facendo cenno di avvicinarsi. Gli comunicò qualcosa a bassa voce. Entrò l’ uomo della scientifica con una provetta ed uno scritto che mostrò loro. L’ispettore disse: “La vittima è stata avvelenata. L’agente ha un sospetto…” Non finì la frase. Una ragazza si alzò di scatto gridando come un’ossessa: “Sì sono stata io! Dovevo essere io la modella. Ne avevo pieno diritto. Sofia assisteva spesso alle lezioni di teatro dicendo che ero la migliore. Bugiarda! Diceva che mi calavo alla perfezione nel personaggio storico. Ipocrita! Cosa c’entrava Elena? Più bella vero? Elena che ha già avuto tutto. Io no! Io ho sudato per avere un ruolo. Lei no. Per lei è sempre stato facile! Bella, ricca, famosa. Sarà lei ad avere rimorso prof! È tutta colpa sua . Ora conosce il mio valore!” La delirante confessione si concluse con una risata isterica, mentre l’agente arrestava Lucrezia Borgia. 279


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Mistery of Cambridge School Mariam Soliman e Giorgia Sulmoni

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n una serata fredda e piovosa Marilyn, una bellissima ragazza dai capelli rosso fuoco, aspettava pazientemente il bus delle 18:30. I suoi occhi verdi brillavano alla luce dei lampioni, che in quella serata erano stati accesi anticipatamente. L’orologio del Big–Ben segnava le 18:25 sebbene la luce naturale era già scomparsa dietro l’orizzonte. Il bus si fermò bruscamente davanti a lei e qualche schizzo d’acqua si posò sul suo cappotto espandendosi lentamente lungo il bordo ricamato. Accanto al suo sedile il giornale “The Times” aspettava di essere sfogliato. Era un po’ sciupato dalla pioggia, infatti i caratteri erano un po’ sbiaditi ed era difficile riuscire a distinguere certe parole. Nell’angolo destro della pagina compariva la scritta:– Giornate da paura nell’università di Cambridge, ragazza vent’enne uccisa a coltellate, la polizia indaga ma senza alcun risultato–. Marilyn era sempre stata brava nel trovare indizi ma non aveva mai colto l’occasione per risolvere un caso, scese alla fermata vicino a casa sua e percorrendo un breve tratto di strada si fermò davanti alla sua abitazione. Il giorno seguente Marilyn ricevette una chiamata che la lasciò senza fiato, era stata appena assunta come “aiutante investigatrice” dopo aver messo l’annuncio sul giornale e aver spiegato le sue abilità deduttive. Non vedeva l’ora di iniziare la sua nuova professione quindi il suo primo compito fu quello di aiutare 280


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l’investigatrice Taylor nel crimine della scuola. Secondo i primi indizi la ragazza faceva parte della squadra di cheerleader e ne era il capo perché attorno al collo teneva un fischietto d’argento mentre le altre ne erano sprovviste. Nella tasca destra dell’uniforme era comparso un bigliettino scritto con l’indelebile nero che diceva:–La mia vendetta è caduta su di te e non mi pento di averti uccisa, anzi, così capirai il dolore e la tristezza che quel giorno mi hai fatto provare–. Era una calligrafia infantile mai vista prima e quindi non le potè far capire chi era stato ad ucciderla. Il preside aveva già contattato tutte le famiglie della squadra di cheerleader tranne una, la famiglia Collins, la loro figlia Eleonor, era stata assente durante le ore dell’allenamento e non si era fatta viva fino al giorno seguente. Il bidello aveva avvisato il preside che la ragazza si aggirava furtivamente lungo il corridoio durante un’ora di lezione. Alicia Powell (la vittima) provava un grande odio nei confronti di Eleonor perché lei aveva tentato più volte di rubarle Rydian (il suo ragazzo) dopo i loro vari litigi, il rapporto tra le due ragazze non era mai stato dei migliori. Intanto nello spogliatoio Marilyn, era in cerca di indizi quando l’occhio le si posò su un breve testo che risultava essere stato scritto proprio il giorno prima e sembrava non essersi ancora asciugato. Non era ben chiaro quello che voleva dire però Marilyn si accorse che la scritta era esattamente la stessa che c’era sul bigliettino trovato nella tasca dell’uniforme. A quanto pareva quello era l’unico indizio, così decisero di interpellare Sally Smith una delle cheerleader. La ragazza si presentò nell’ufficio del preside e 281


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Marilyn le diede la parola:–Dimmi cara, sai per caso chi ha scritto questo?–. le mostrò il fogliettino e una foto scattata che rappresentava la stessa scritta, però sulla porta. Lei rispose timidamente:–Non ne sono sicura ma ho visto la mia compagna Eleonor che scriveva su un foglio appoggiata ad una porta e oltretutto scriveva con un indelebile nero–. Marilyn rispose scattante:–Ma certo, come ho fatto a non pensarci prima, l’indelebile doveva essere talmente forte da oltrepassare il fogliettino e quello che c’era scritto doveva essersi stampato sulla porta, però Eleonor non se n’è accorta–. Il preside intervenne dicendo:–Penso sia il caso di contattarla per chiederle conferma, in questo caso sappiamo chi è il colpevole–. Marilyn disse:–Ma perché dovrebbe averla uccisa?–.L’ispettrice Taylor rispose:–Per gelosia, suppongo–. In quel momento si sentirono delle urla nel corridoio e tutti si precipitarono a vedere cosa fosse accaduto. Eleonor era distesa a terra e il sangue colava ininterrottamente dalla mano e dalla gamba, l’unico movimento che fece fu quello di indicare il suo armadietto e dopo svenne. Mentre l’ambulanza la portava via, Sally aprì l’armadietto e trovò un altro bigliettino che diceva:–Ciao Eleonor, ci vediamo alla terza ora nell’atrio per vedere cosa faremo del cadavere, se mi lasci solo, farai la sua stessa fine–. Dopo che il preside ebbe letto attentamente il biglietto, tutti decisero di riunirsi nell’aula docenti per discutere della situazione, tranne Marilyn che voleva cogliere di sorpresa il criminale. Era sicura che l’omicida avrebbe fatto di tutto per eliminare le prove che avrebbero potuto incastrarlo. 282


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Fece in tempo a nascondersi sotto la scrivania quando un’ombra si avvicinò all’ingresso della direzione e spalancò la porta, il rumore di una lama riecheggiò nella stanza e una goccia di sangue cadde lentamente sul suolo. L’individuo si avvicinò alla scrivania e aprì un cassetto per cercare il fogliettino che aveva accuratamente depositato nell’armadietto di Eleonor. Marilyn a quel gesto fece partire l’allarme situato dietro la scrivania e in un attimo la polizia bloccò le uscite della stanza. Il criminale venne catturato da Marilyn che con grande abilità gli bloccò le mani. La polizia accorse velocemente per aiutarla e il criminale non ebbe via di scampo. Quando Sally lo vide urlò il suo nome con disprezzo:– Rydian, come hai potuto!–. Lui girando il capo rispose con una voce fioca:–Mi ha lasciato…–. Egli si lasciò portare nell’atrio e quando il suo sguardo truce intercettò quello di Sally fu come una scossa, si fece cadere con le ginocchia a terra e con un grido soffocato rimpianse il suo dolore.

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Noir a scuola Karyn Giovannini

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sa aveva da poco compiuto 30 anni, era una donna bella e affascinante. Piaceva agli uomini anche perché sapeva come sedurli e poi non sentiva la necessità di legarsi con qualcuno e questo intrigava molto le persone che frequentava. Un solo incontro le rimase in mente; faceva parte del suo vissuto più romantico. Cinque anni prima, durante un viaggio di lavoro a Bruxelles, conobbe Jake, un ragazzo che all’epoca aveva trent’anni. Il ragazzo in se non era particolarmente attraente sebbene fosse alto e slanciato, ma Isa rimase affascinata dai suoi modi eleganti, dal suo sguardo intelligente e dalla gentilezza con cui si rivolse a lei. I due giovani, si incontrarono casualmente al bar dell’hotel dove si raccontarono e trascorsero dei momenti pieni di emozioni. Alla fine della serata, si salutarono senza scambiarsi i numeri di telefono. Passarono diversi mesi e Isa lesse, su un noto quotidiano inglese, un insolito annuncio accompagnato da una foto di un casale immenso in stile georgiano al nord dell’Inghilterra, nello Yorkshire. Il proprietario di quel possedimento, cercava una donna di bella presenza, sulla trentina, intraprendente, con esperienza nel settore delle pubbliche relazioni per svolgere alcuni compiti di rappresentanza. Oltre ad un lauto stipendio, offrivano anche l’allog284


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gio in una parte indipendente del castello e un corso di “society etiquette”. Infatti, parte dell’immensa proprietà era la sede di una rinomata scuola fondata nel 1769 da John Debrett dove, come tradizione, molti giovani aristocratici, prima di andare al college frequentavano i suoi corsi per imparare il bon ton dell’alta società. L’attività consisteva nel gestire eventi mondani con notabili di alto rango. Isa, da tempo cercava un altro lavoro e decise di contattare la persona che scrisse l’annuncio. Era proprio lui! Jake la assunse subito. Fu bellissimo il primo istante in cui i loro sguardi si incrociarono. La magia dei momenti trascorsi insieme a Bruxelles era ancora presente nei ricordi di Isa. Iniziò a frequentare i corsi del Professor Murphy, specializzato sullo stile di vita della nobiltà e sull’etichetta britannica. Era una persona di mondo che frequentava i salotti dell’alta società inglese. A lui, il padre di Jake, dopo la morte improvvisa della madre, affidò l’educazione dei gemelli Jake e Barnaby. Isa chiese notizie del padre e del fratello gemello a Jake e lui le raccontò che la madre morì molto giovane ed il padre si ricostruì una nuova vita e non fece più ritorno. Poi, parlò anche del Professor Murphy e disse che era un ficcanaso e lo irritava poiché si sentiva osservato. Infatti, anche Isa aveva notato quanto il Professore fosse accorto e premuroso nei suoi confronti. E Jake non lo sopportava. Quel giorno Isa notò una foto su un bel mobile 285


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d’epoca nella biblioteca della residenza. L’immagine rappresentava la madre con i figli piccoli che giocavano a badminton insieme al Professor Murphy…i due adulti avevano l’aria spensierata e felice come i bambini. Sembravano una vera famiglia! Ma perché proprio quella foto incorniciata e non una che rappresentasse l’intera famiglia con il padre? Il tempo trascorse piacevolmente, anche se Isa notò degli stati d’animo contrastanti in Jake. Intercalava attimi di felicità estrema con momenti di violenza e aggressività. Per contro, il corso di cultura e protocollo inglese l’affascinava. Il professor Murphy aveva già una veneranda età e conosceva molto bene la famiglia di Jake. Infatti, le disse che Jake era particolarmente attento al benessere di Barnaby e lo rendeva partecipe dei suoi racconti e della sua vita privata. Una mattina come le altre, Isa si recò a scuola e una volta spalancata la porta dell’aula, vide il Professor Murphy disteso al suolo, esanime, con la testa sanguinante, gli occhi rovesciati indietro e semi aperti. Presa dal panico, gridò con tutta l’aria che aveva nei polmoni il nome di Jake e sentì una voce flebile che proveniva dal solaio. Notò che c’era una vecchia chiave nella toppa, si fece forza ed aprì. Vide Jake, Jake?, legato che era riuscito a togliersi un bavaglio dalla bocca. Sbigottita, ci mise un po’ a capire poiché l’altro Jake le aveva detto che si sarebbe assentato per tutta la settimana per lavoro. Solo dopo i racconti di Jake, Isa capì che uno dei gemelli, ebbe un’adolescenza problematica e difficile, con 286


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seri problemi comportamentali; si trattava di Barnaby! Era, con molta probabilità, affetto dagli stessi sintomi di schizofrenia della madre, ma mai, ufficialmente, si ebbero conferme al riguardo. Barnaby non accettò mai che il fratello fosse più intelligente di lui e mai avrebbe tollerato che sarebbe anche stato il più felice grazie a Isa. I suoi pensieri sconnessi e disordinati lo indussero a nascondere il fratello nella soffitta della scuola, legarlo ed imbavagliarlo. Solo a fine giornata andava a portargli un po’ di cibo e acqua. L’amore che provava per il proprio fratello, gli impedì di ucciderlo, ma l’idea era quella di isolarlo dal mondo ed imprigionarlo. E l’unica soluzione era fingere di essere Jake. Purtroppo, il Professor Murphy, iniziò ad insospettirsi e decise di affrontare Barnaby. Capì il suo stato d’animo e pensò fosse arrivato il momento di raccontargli la verità. Dirgli che era il suo vero padre. La madre, per non perdere i benefici della ricchezza del marito, non volle mai si sapesse e questo creò a lei e di conseguenza anche a Barnaby, bambino molto sensibile agli atteggiamenti di frustrazione della madre, un grande malessere psicotico. Purtroppo, il Professor Murphy, non fece in tempo a spiegargli e in uno scatto d’ira improvviso, Barnaby lo colpì con un pesante candelabro. Quando Barnaby vide dalla finestra il sopraggiungere di Isa non poté far altro che far perdere le proprie tracce. Il più grande rammarico di Barnaby, quando venne 287


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a conoscenza della vera identità del buono e amorevole tutore, fu quello di non aver mai intuito che fosse l’agognato e premuroso padre che pensava lo avesse abbandonato da piccolo.

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I corsi notturni di Red Hollow Filippo Cesana

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l piazzale della scuola era un cielo di cemento costellato da macchie di sangue. Al centro del piazzale c’era il corpo di un ragazzo. Lo sguardo assente era indirizzato verso la notte. Le gambe divaricate e le braccia aperte erano come quelle di un bambino che con il corpo disegna un angelo nella neve. Ma non era un angelo quello che il ragazzo disegnava con il sangue fuoriuscito dal ventre squarciato, era una creatura scura, deforme, proveniente da un posto buio e lontano. Non c’era luna o stella quella notte, solo le luci dei lampioni e dei palazzi in lontananza colmavano il buio. “C’è troppo sangue in questo piazzale” disse Nemobi e scattò una foto a una grossa macchia di sangue distante un passo dalla testa del cadavere. “La vittima non è stata l’unica ad averne perso”. Guardando le scalinate occupate da bottiglie di vino vuote e mozziconi di sigaretta, Borioli disse: “Una festa andata a male, forse hanno squarciato il corpo della vittima con una bottiglia di vetro rotta.” Le scalinate conducevano a un portone in legno, l’entrata della scuola. Qualcuno si era seduto su quelle scale e forse aveva banchettato allegramente mentre uno degli invitati veniva squarciato da una parte all’altra del ventre. Ai lati del portone in legno si estendevano file di finestre che nell’oscurità sembravano i numerosi occhi di un mostro di cemento. La scuola. Quegli occhi scru289


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tavano il corpo senza vita, impassibili, riflettendo le sagome sbiadite e surreali dei due agenti. Tredici anni prima anche Nemobi aveva frequentato quella scuola. Alcuni ragazzi nelle pause si radunavano sulle gradinate del piazzale e bisbigliavano di una festa chiamata Red Hollow. “Andavi a molte feste quando frequentavi il liceo?” chiese Nemobi. C’era un volantino che circolava tra gli studenti sulla festa di Red Hollow. Le lettere erano ritagliate dai giornali e incollate su carta reciclata. Nemobi non aveva mai scordato quelle parole. ‘Venite a Red Hollow, la scuola abbandonata nei bassifondi della nostra metropoli. Un luogo dove il marcio e lo schifo che ci sono dentro di voi non saranno fonte di vergogna, ma di unione. Venite ai nostri corsi notturni’. “Eccome se ci andavo, alle feste” disse Borioli. “Ho cominciato a uscire alla sera proprio al liceo”. Disse: “Quando diavolo arrivano quelli della scientifica?”. “Anch’io” disse Nemobi e senza calpestare le macchie di sangue più grosse si avvicinò al cadavere e scattò una foto immortalando sulla pellicola il ventre squarciato e le budella. “Ricordo le feste dei maggiorenni, a quelle si beveva di più per sembrare più grandi. E ogni tanto qualche figlio di papà della scuola privata organizzava una festa e noi della pubblica provavamo a imbucarci”. Borioli guardò il corpo privo di vita al centro del piazzale e poi cercò lo sguardo di Nemobi, che aveva terminato di scattare fotografie e si avvicinava a lui. “A nessuna festa a cui sono andato è scappato un morto, 290


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però. Qualche coma etilico e qualche rissa, ma nessun maledetto morto”. Da lontano il suono delle sirene sovrastò il brusio del traffico notturno. “Finalmente arriva la cavalleria” disse Borioli e si accese una sigaretta. Il fumo aleggiò verso la notte, come l’anima informe del corpo disteso al centro della piazza. Un’anima intenta ad abbondonare lo squallore di quella scuola. Un viaggio di sola andata che portasse sufficientemente lontano da sfuggire a tutti i luoghi bui della metropoli. “Tra non molto gli andremo incontro” disse Nemobi e le parole del volantino risuonarono nei suoi pensieri come una dolce cantilena. ‘Venite a Red Hollow, la scuola creata dall’ex capo della polizia. Il nostro fondatore. Il nostro finanziatore. E per i suoi soldi non scordate di ringraziare la moglie. Era lei quella ricca prima di crepare per un’overdose. Ogni tanto qualcuno muore in questo giro. Ma per le nottate a Red Hollow ci prendiamo tutti il rischio. Tutte le persone schifose e marce se lo prendono, questo rischio’. “Avremo una settimana ricca d’interrogatori” disse Borioli. “Qualche ragazzo della scuola crollerà e ci racconterà l’accaduto. Forse lo stesso che ha chiamato in centrale”. ‘Giungete in pochi a Red Hollow. Seguite le orme del serial killer quando vagabondate nelle fogne. Ascoltate il bisbiglio graffiante dei ratti e annusate la puzza di feci. Venite a trovarci, studenti schifosi. Venite ai nostri corsi notturni’. 291


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“Cosa ti fa pensare che ci fossero ragazzi di questa scuola?” chiese Nemobi. “Magari è gente che arriva da fuori, qualcuno può essersi ritrovato qui per sbaglio, qualcuno forse non era mai stato qui”. La sirena aveva interrotto le sue grida. Quelli della scientifica erano arrivati. Il vento accarezzò gelido il viso di Nemobi e spazzò via l’anima dannata che abbandonava la sigaretta del collega. “Se c’è stata una festa, qualcuno della scuola deve averne sentito parlare. Perché non dovrebbe essere così?” disse Borioli. ‘Venite a Red Hollow, sghignazzate nella notte come iene di una savana di cemento e ululate allo splendore del teatro notturno di una festa senza fine. Guardate il serial killer che sceglie la sua vittima e la pone al centro del palco. Guardate come la trasforma in un angelo della morte vestito di sangue’. “Lo sai?“ disse Nemobi, con lo sguardo puntato sul cadavere. “Da ragazzo non sono mai riuscito a imbucarmi alle feste dei figli di papà”. Borioli sorrise. “Nemmeno io”. E avviandosi ad accogliere quelli della scientifica, i due agenti erano avvolti dalle tenebre della notte. I pensieri di Nemobi erano ombre fuggenti. Da ragazzo sognava una festa diversa dalle altre. Una festa speciale. Quel volantino su Red Hollow... Sorrise. Era servito un intero pomeriggio immerso nei giornali per ritagliare quelle piccole lettere. 292


UN’OMBRA «NOIR» SULLA SCUOLA 4 ne Edizio

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La raccolta dei racconti del concorso «Cooperazione Noir 2014»


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