Coolclub.it - Dicembre 2015

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Ogni mese un mondo di cultura in Puglia

LA CULTURA CI FA BELLI


Piazza Giorgio Baglivi 10 73100 Lecce Telefono: 0832303707 Cell: 3394313397 e-mail: redazione@coolclub.it sito: www.coolclub.it Anno XII Numero 79 Dicembre 2015 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844

Collettivo redazionale Pierpaolo Lala (Direttore responsabile), Osvaldo Piliego, Dario Goffredo Hanno collaborato Salvatore Esposito (BlogFoolk), Chiara Melendugno, Eleonora L. Moscara, Lucio Lussi, Francesca Santoro, Ennio Ciotta, Federico Plantera, Federica Nastasia, Giorgio Demetrio, Jenne Marasco, Giulia Maria Falzea, AnnaChiara Pennetta, Giuseppe Amedeo Arnesano, Lorenzo Madaro, Daniele DonPasta De Michele, Daniele De Luca, Adelmo Monachese, Mauro Marino, Mino Pica, Gabriella Morelli Chiuso in redazione nella nostra vecchia sede ma con oltre quattro anni (e un giorno) di ritardo


DOVE ERAVAMO RIMASTI? «Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche». Queste furono le prime parole di Enzo Tortora al suo rientro in televisione dopo una delle più assurde vicende giudiziarie del nostro paese. Accusato ignobilmente di essere un camorrista da alcuni pentiti, arrestato all’apice della sua carriera televisiva, condannato prima e assolto poi. Era il 1983 quando venne portato via in manette. Era il 1987 quando ricominciò con il suo Portobello. Quattro anni. Quattro anni sono tanti o sono pochi. Dipende dai punti di vista e dipende da quello che si riesce a fare. Ogni quattro anni ci sono i Mondiali di calcio o le Olimpiadi e nel frattempo si svolgono altre competizioni, ma non della stessa importanza. Quattro anni fa decidemmo di sospendere le pubblicazioni di Coolclub.it, dopo quasi 80 numeri e con un’altra (breve) pausa alle spalle. Costi di stampa troppo

alti, poco tempo da ritagliare tra le varie cose da fare, un interesse diverso da parte del pubblico nei confronti della nostra scrittura nel momento di cambiamento epocale dell’editoria con i social a fagocitare la critica e il giornalismo ridotto ad una gara al click più rapido. Dopo quattro anni siamo un po’ arrugginiti. Lo ammettiamo. Mettere in piedi il palinsesto di un giornale non è facile. Soprattutto se non è il tuo lavoro principale. Soprattutto se la redazione è fatta da volontari che si ritrovano in un gruppo Facebook e se il direttore è anche l’impaginatore pur non essendo un grafico. Questo è il primo editoriale di una nuova versione del mensile Coolclub.it. Per chi già ci conosce c’è il ricordo di ciò che siamo stati. Fanzine fotocopiata, poi bianco e nero in tipografia, poi una versione patinata, poi una versione mista a colori e b/n e infine per oltre tre anni un formato tascabile di circa 60 pagine. A Lecce eravamo gettonatis-


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simi nel bagni degli universitari. Coolclub è una cooperativa (al momento composta da cinque soci lavoratori più altri quattro collaboratori attualmente fissi) che esiste e lavora dal 2004 (più qualche anno precedente come associazione). Pensiamo, organizziamo e comunichiamo eventi culturali e musicali in particolare. In questi anni abbiamo collaborato alla realizzazione di centinaia (forse migliaia) di eventi: dal Festival La Notte della Taranta e la Focàra di Novoli sino alle nostre produzioni come il Sud Est Indipendente passando per tanti altri progetti. Alcuni di noi hanno il vizio della scrittura da sempre. Nel 2003 decidemmo di mettere in piedi un “foglietto” che nel corso degli anni è cresciuto. La nostra “idea” di editoria non si è esaurita con Coolclub.it. Abbiamo provato a curare una collana editoriale (Coolibrì per Lupo Editore), abbiamo pubblicato due edizioni dell’Annuario della Cultura Salentina, ci siamo inventati rassegne e incontri dedicati al giornalismo, alla scrittura e alla lettura a partire dal fortunato (secondo noi) format de “La poesia nei jukebox”. Quattro anni sono pochi ma possono anche essere tanti. In questi anni non abbiamo mai smesso di pensare, riflettere e auspicare un ritorno. Il mondo dell’editoria è in crisi e i dati della lettura nel nostro paese sono drammatici. Abbiamo anche curato “Il suono che vorrei. Uno studio sui consumi musicali nel Salento”, indagine realizzata dal Gruppo di ricerca di Statistica del Dipartimento di Scienze dell’Economia dell’Università del Salento per studiare i consumi culturali e musicali in provincia di Lecce. Una ricerca perfettamente in linea con i dati Istat e con la realtà che vediamo ogni giorno. “C’è la crisi” e le prime spese da tagliare sono quelle destinate alla cultura. Questo vale per le istituzioni e per le famiglie. Noi crediamo invece che la cultura possa essere vera locomotiva di una regione come la Puglia che continua ad essere depredata

e distrutta da politiche pubbliche dissennate. Pensiamo a quello che è successo a Taranto con l’Ilva o a Brindisi con Cerano e il petrolchimico e pensiamo a quello che si prospetta da queste parti (intendo nel Salento) con Tap, trivelle, crisi Xylella e altro ancora. In questi anni difficili per tutti abbiamo tenuto duro e abbiamo provato ad andare avanti cercando di fare al meglio il nostro lavoro. Ma il lavoro senza passione non può esistere così alcuni mesi fa abbiamo deciso di riprovarci e dopo una lunga pausa di riflessione abbiamo scelto una data (che non abbiamo rispettato al 100% ma siamo salentini e abbiamo il ritardo nel dna) e una formula (pdf gratuito online) e ci siamo messi al lavoro. Cosa troverete nel giornale che state sfogliando sul vostro computer, su un tablet o su un cellulare (se avete una vista particolare aguzza)? Premetto che si tratta di una versione “Beta” cioè suscettibile di modifiche e di variazioni almeno nei prossimi numeri. Chi lavora nei giornali sa che esistono i numeri zero, quelli prova, che non vanno in edicola o non vengono distribuiti. Noi abbiamo voluto bruciare le tappe e dopo tanta attesa abbiamo preferito mettere fuori un prodotto non “perfetto” ma assolutamente perfettibile. Inoltre il mondo cambia rapidamente e noi siamo cresciuti. Nel collettivo redazionale siamo tutti tra i quasi quaranta e i post quaranta quindi anche i nostri gusti, i nostri interessi si sono modificati nel tempo. Per fortuna si sono aggregati sin da subito collaboratori molto giovani. Dateci un po’ di tempo per trovare il giusto amalgama (dicevano gli allenatori tracagnotti di un tempo). Dopo molte discussioni abbiamo deciso che il focus principale sarà la Puglia. La nostra regione in questi anni è cresciuta molto, considerata laboratorio di cultura e innovazione, politiche giovanili e creatività. E infatti rispetto a pochi anni fa possiamo costruire un giornale di quasi 100 pa-


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gine basato tutto (o quasi) sulle produzioni pugliesi o su quello che viene ospitato da queste parti. Musica, libri, cinema, teatro, arte, eventi saranno le nostre sezioni che proporranno anche alcune “scelte” non pugliesi. Ma di questo avremo modo di parlare nei prossimi numeri. Come nella precedente edizione ogni mese sceglieremo un tema principale. Ripartiamo da “La cultura ci fa belli” che riprende “La lettura ci fa belli”, ultimo numero in distribuzione nell’estate 2011. Ci congediamo dal 2015 con le interviste su questo tema a due scrittori che a noi piacciono molto: Giuseppe Genna e Tommaso Pincio, fresco vincitore della prima edizione del Premio Sinbad. E a proposito di vittorie, in copertina trovate Mario Perrotta, attore, autore e regista salentino che si conferma come uno tra i migliori in Italia con la conquista del terzo Premio Ubu in quattro anni, questa volta per il suo progetto dedicato al pittore Antonio Ligabue. Con loro tre abbiamo cercato di capire qual è il ruolo (se c’è) dell’intellettuale oggi in Italia e quali speranze ci sono per il mondo editoriale e culturale nel nostro paese. E poi ci sono le rubriche fisse (si spera) con alcuni amici che sono stati coinvolti per dare un loro contributo al giornale. Abbiamo pensato ad un giornale ricco di contenuti e continueremo nell’opera di fermare e raccontare anche alcune esprienze che magari non passano nel giornalismo mainstream. Inutile poi nasconderci. Nel nostro lavoro promuoviamo alcune eccellenze pugliesi. Non negheremo loro uno spazio sul nostro giornale. Proveremo a raccontarvi, infatti, le cose che ci piacciono. Il silenzio, nel nostro caso, sarà una “bocciatura”. Per ora lasciamo gli insulti e le critiche feroci alle nostre (e alle vostre) bacheche personali sui social. Qui proveremo a raccontare le cose belle da esportazione e da imporatazione. Nella deriva iperproduttiva ci sono tante cose brutte in giro. Proveremo (per quanto possibile) a tenerle fuori da queste pagine.

Chi ci conosce e ci leggeva prima (molti conservano ancora le nostre vecchie copie) si sarà subito reso conto di un cambio del direttore responsabile. Non è più Osvaldo Piliego, che resta la nostra migliore e prestigiosa firma (tra l’altro vi segnalo il suo secondo romanzo “La città verticale” che è davvero molto denso, intenso, duro e mai banale), ma sono io. Il cambio è dovuto solo ad una mera questione burocratica e di scelta personale di Osvaldo che ha deciso di non rinnovare più la sua iscrizione all’Ordine dei giornalisti. La legge italiana impone - per le testate registrate in tribunale - un iscritto all’ordine. Poco importa. Abbiamo sempre costruito questo progetto insieme, in gruppo, e insieme continueremo a farlo. «Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche». Quella frase di Enzo Tortora continuava a ronzarmi nella mente da anni. Credo che, arrivati ad una certa età, si abbia il dovere di provare a fare alcune cose nell’interesse privato ma soprattutto nell’interesse pubblico. C’è chi fa politica, chi fa volontariato e chi, come noi, prova a fare intrattenimento e divulgazione culturale. Ovviamente con i nostri strumenti e con i nostri limiti proviamo a ricominciare da quella “Lettura ci fa belli”, da quell’invito a leggere, informarsi, scommettere sulla cultura nella nostra regione. Speriamo di proseguire ancora e chissà prima o poi di andare controcorrente e di tornare in carta e inchiostro. Non siante cattivi ma non siate neanche troppo buoni. Nel momento in cui chiudiamo e carichiamo online questo pdf conosciamo perfettamente i nostri limiti. Speriamo nei prossimi mesi di migliorare e di non scadere in una banalissima fotografia (magari sfocata) del presente. Ci imponiamo (e vi imponiamo) di non rimpiangere il passato ma di provare a costruire (insieme) un altro futuro. Pierpaolo Lala


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TOMMASO PINCIO “Panorama” e la prigionia volontaria dei social network In un momento in cui si legge male e si scrive e si pubblica troppo, tra i giornali che chiudono e medium che comprimono il senso delle parole, nasce l’esigenza di fare un po’ di ordine. Arriva un libro a indicare una via, a rendere il senso di questi tempi con una suggestione, una visione che diventa metafora. In “Panorama” (NN), nuovo romanzo di Tommaso Pincio, il protagonista è un lettore, un uomo che sceglie di non scrivere in un mondo che invece desidera mettersi in mostra, essere letto a tutti i costi. Un personaggio atipico per il sistema, che finisce per assurgere a un ruolo nuovo, unico e puro. Poi la caduta, l’incidente e tutto cambia nella descrizione di un futuribile presente. La storia diventa quasi la preconizzazione della morte della letteratura, del collasso dell’editoria, l’abbandono e la resa. È un libro sulla prigionia volontaria dei social network a cui ci concediamo quotidianamente. Ma è anche e soprattutto forse un libro sull’amore romantico, quello carnale e quello spirituale. “Panorama” il nuovo classico contemporaneo. In un mondo in cui si ha la smania di essere visti, letti, in cui si scrive male e troppo c’è poi Ottavio Tondi che sceglie di leggere e basta. Ne esce una figura simbolica, quella di un resistente, un paradosso nel sistema Italia affollato di scrittori, o presunti tali, che non leggono… Ottavio Tondi non è soltanto un lettore. Simbolicamente e in un senso più ampio, incarna la condizione più generale dello spettatore, la posizione di chi osserva in silenzio o comunque senza il bisogno di giudicare. La scarsa disposizione alla lettura è in fondo un male antico, sul quale si potrebbe anche sorvolare, se a esso non si fosse aggiunto una piaga più recente, più consona all’attuale temperie, ossia quella di sentirsi sempre in dovere di manifestare un’opinione su tutto. Che molte persone scrivano senza dedicarsi alla lettura mi interessa poco, è un loro problema, va a loro detrimento. Molesto è invece il continuo brusio di commenti, di giudizi, di pareri espressi su qualsivoglia argomento o questione, a prescindere

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dalle compentenze. Il problema non è che tutti scrivano e non leggano. Si scriva pure, si eviti anche di leggere. Sono aspetti secondari. Il tormento sono la critica diffusa, l’esercizio sterile dell’intelligenza che fatalmente discende dal bisogno di distinguere il proprio parere. Ottavio Tondi è un personaggio che vive il trapasso della carta stampata, la sua estinzione, e si arrende alla liquidità digitale, è l’incarnazione di un fenomeno… Direi piuttosto l’incarnazione di un momento di passaggio. Tondi parla per quelle persone che, come me e tanti altri, si sono trovate a cavallo tra due tempi. Non so tuttavia quanto la carta sia destinata a estinguersi né mi interessa saperlo perché decidere sulla sua sparizione spetta a chi verrà dopo di noi. Per quel che mi riguarda, la carta subirà (l’ha già subita peraltro) una contrazione, ma non si estinguerà. Pur passando la gran parte del mio tempo davanti al computer, scrivendo e leggendo in digitale, la lettura intesa come momento sacro seguito a cercarla su carta. Anzi, proprio perché le mie giornate si consumano davanti a schermi retroilluminati, la carta ha acquistato un valore aggiunto, rappresentando un momento diverso, speciale, il mio momento di meditazione. E lo stesso vale per i film, che mi rifiuto di vedere in streaming o comunque al pc o su un tablet. E poco c’entrano le ragioni solitamente sollevate in questi casi, l’odore della carta e svenevolezze simili pure importanti. È l’hortus conclusus, il problema. Il raccoglimento, la lettura intesa come meditazione in un chiostro, in uno spazio eletto. Per questo non potrei mai leggere Kafka o anche un mio contemporaneo come Siti sullo stesso dispositivo col quale scherzo su Facebook. E penso che questo mio bisogno sia universale, un bisogno di tutti cioè, e pertanto non sarò certo un grande profeta se affermo che anche le generazioni future saranno meno liquide di quanto si tende a pensare. Attraversiamo un momento in cui la funzione stessa della scrittura è messa in discussione, in cui la figura dell’intellettuale è chiamata a intervenire a essere parte attiva, in cui il fenomeno web diventa libro e i veri scrittori, la letteratura, sono al margine. Cosa ne pensi?

Che non vi trovo elementi di novità. La letteratura è sempre stata marginale, e gli scrittori l’hanno sempre vissuta a questo modo. Il web ha al più accentuato questa condizione, cambiando, questo sì, tanto il modo in cui si scrive quanto quello in cui si legge. Sulla figura dell’intellettuale non mi pronuncio, perché non mi considero tale. “Panorama” come Facebook è un luogo spietato, la nuova arena, la gente sembra accentuare qualsiasi cosa, filtra la realtà, cita ciò che non conosce. Tu sei discretamente social. Come vedi questo mondo, perché hai deciso di usarlo? Credi che leggere i post ci stia distraendo dalla vera lettura? Dipende da cosa si intende per lettura. Se si legge per distrazione, e si legge anche per questo, effettivamente i social allontanano dai libri o li rendono meno indispensabili. Ma parliamo di un problema che si è già presentato in passato. Il cinema, la radio, la televisione hanno certamente comportato morie di lettori. A sparire o leggere meno erano però le persone che cercavano nei libri principalmente una forma di intrattenimento. Chi legge per il piacere della lettura ha seguitato e seguiterà a non rinunciare ai libri. È tuttavia vero che i social e internet in generale sono dissuasori più insidiosi, perché nei social e su internet gran parte dei contenuti sono testuali. Ma proprio perché all’apparenza più simili alla fine si riveleranno salutari. Sussiste infatti la benefica possibilità che la letteratura da puro consumo, da mera distrazione, si trasferisca col tempo sui social e quel che a essi seguirà, sgombrando il campo da molti equivoci. Sarà ovviamente un campo piccolo, residuale e piagato come una riserva indiana, ma con un’aria più tersa. Quanto all’uso che io faccio dei social, assolve semplicemente alle funzioni dei vizi che non ho. È il mio surrogato della sigaretta. La letteratura è un esercizio per la memoria, la scrittura è mantenere in vita i libri attraverso nuove storie, sono letture che prendono nuove forme. La memoria secondo te ha ancora bisogno della carta? Deve abitare luoghi e riempire musei? Si fa tanta retorica inutile o almeno sbagliata sulla memoria. La mente umana non è pensata per ricordare ma per dimenticare o meglio per ricordare in modo seletti-


vo. Se ricordassimo tutto ciò che ci accade ci troveremmo nell’impossibilità di usare le informazioni importanti. Il cervello è prima di tutto uno smaltitore di ricordi inutili. La memoria ha dunque bisogno di luoghi e oggetti concreti perché la fisicità comporta una scelta. Due cose non possono occupare contemporaneamente uno stesso posto. Scegliere quale sia più meritevole di starci è compito della memoria. Ed è questo che rende stupidi i computer: la loro possibilità teorica di contenere tutto, di non obbligarci a scegliere. In altri termini, non rientro tra coloro che esaltano il proprio tablet perché quando vanno in vacanza possono portare migliaia di libri appresso. Siamo seri, migliaia di titoli significa anche tanta spazzatura. Spazzatura che sta in un tablet, questo sì, ma pur sempre spazzatura. E poi, chi legge migliaia di libri in vacanza? In vacanza bastano due libri, anzi uno, se è quello giusto, perché qualora si finisce prima del tempo si può rileggerlo e capire così che significhi davvero leggere. E quand’anche si sbagliasse libro, si sarebbe comunque scelto. Panorama è allo stesso tempo un romanzo sull’amore, un “nuovo classico” se mi concedi la definizione… Non so se userei una definizione tanto impegnativa come “nuovo classico”, ma ti ringrazio per l’azzardo. Però sì, è un romanzo sull’amore, anzi un romanzo d’amore, come lo sarebbe del resto un qualunque romanzo scritto con un’inclinazione romanzesca. Personalmente non riesco a pensare a una narrativa che non preveda una persona la cui anima viene sconvolta, esaltata, lacerata dall’incontro di un’altra persona. Il fatto che Ottavio e Ligeia si incontrino solo virtualmente non è significativo. La loro relazione attinge in fondo a una tradizione antica, agli amori epistolari dei romanzi del ‘700, dunque all’origine stessa del romanzo, un’origine che si ritrova anche nelle lettere di Kafka a Felice alle quali “Panorama” fa molto riferimento. Molti dicono che è un periodo di passaggio per l’editoria, in realtà dura da un po’ di anni, quindi potrebbe essere già questo il futuro dell’editoria. Cosa ne pensi? È un periodo di passaggio, punto. Non riguarda soltanto l’editore. Il mutamento è d’ordine generale. La differenza rispetto al cinema e soprattutto alla musica è che l’editoria ha cominciato a patirne le conseguenze qualche anno dopo e questo per una ragione molto semplice: la sua bassa esposizione all’innovazione tecnologica. Questo ritardo avrebbe potuto essere sfruttato meglio. Si sarebbe potuto trarre insegnamento da quanto era già in atto in altri campi. Non è accaduto e così gli editori hanno finito col trovarsi nella situazione patita dai discografici una decina di anni fa. Come si dice, chi è causa del suo mal. In ogni caso il destino è segnato. Non c’è più spazio per gli editori come si intendevano in passato, perlomeno non in un paese come l’Italia. Dobbiamo abituarci all’idea che il libro, qualunque tipo di libro, è un oggetto molto secondario. Possiamo dunque decidere se pensarci nei termini di un ghetto di mentecatti o di un’élite di incompresi, ma marginali resteremo. È questo il nostro futuro, e non lo vedo come un male eccessivo. Per tutto il resto, c’è l’agonia inconsapevole dei dinosauri. Osvaldo Piliego

A PINCIO, Toews e VENDEMIALE La PRIMA EDIZIONE DEL PREMIO SINBAD

Tommaso Pincio con “Panorama” (NN) e Miriam Toews con “I miei piccoli dispiaceri” (Marcos Y Marcos) sono i vincitori della prima edizione del Premio internazionale degli editori indipendenti Sinbad – Città di Bari. Il premio è nato dall’idea di alcuni editori di portare alla luce il lavoro di cura e di ricerca che svolge l’editoria indipendente, e dare visibilità alla ricchezza e alla varietà di un’offerta letteraria pressoché invisibile nell’ambito dei grandi premi nazionali. Eugenio Vendemiale con “La festa è finita” , della barese Caratteri Mobili, ha conquistato il Premio della Platea. Innovativa la formula della manifestazione - che si è tenuta a novembre tra Lecce e il capoluogo pugliese - e soprattuto della premiazione. Le due giurie hanno decretato i vincitori nelle sezioni italiana e straniera dopo un’accesa discussione, aperta al pubblico, al Teatro Margherita. Il premio ha proposto, inoltre, una mostra mercato dedicata all’editoria indipendente, incontri con gli autori, tavole rotonde e momenti di approfondimento con operatori internazionali. Panorama, si legge nella motivazione, «è un “vero” romanzo, dall’invenzione complessa e suggestiva quanto il sempre più riconoscibile stile del suo autore; ma è altresì un apologo, di rara intensità, sul senso e sui destini della lettura; nonché sulla nausea da lettura che, almeno una volta nella sua vita, ogni lettore appassionato finisce per affrontare».


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GIUSEPPE GENNA

Il futuro dell’editoria risiede in una integrazione organica di editori indipendenti, che contribuiscono a creare un paesaggio nel presente Autore prolifico e sempre illuminante, pensatore dallo sguardo attento e profondo, Giuseppe Genna è una delle penne da cui in Italia non si dovrebbe prescindere, non fosse altro che per la forza e la capacità che ha di spingere ogni nostro neurone a muoversi, a sciogliersi dal torpore e a provare a seguirlo. È quello che è successo a me con questa intervista, in cui con Genna parliamo di scrittura, lettura, web e social network ed editoria. Le sue risposte mi hanno suscitato almeno un’altra decina di domande e hanno scardinato non poche zone di comfort del mio pensiero. Attraversiamo un momento in cui la funzione stessa della scrittura è messa in discussione, in cui la figura dell’intellettuale è chiamata a intervenire a essere parte attiva, in cui il fenomeno web diventa libro (i vari blogger, youtubber e altri nomi orrendi) e i veri scrittori, la letteratura, sono al margine. Cosa ne pensi? Penso che non sia vero. Non so bene quali aspettative

si coltivino intorno alla figura suppostamente pubblica degli scrittori autentici. Ritengo che le osservazioni che avanzi, in realtà, siano figlie di una percezione di piccolissima comunità, perlopiù identificatasi nell’erede del giro intellettuale che partecipava all’industria culturale un tempo. Non ho idea di letterati che avrebbero avuto un ruolo pubblico, dopo Pasolini e Moravia: forse Eco. Comunque vorrei vedere i dati di accesso del blog Giap!, il luogo in cui si fa uno dei discorsi di Rete dei Wu Ming: secondo me risulterebbero numeri superiori a quelli di qualunque iniziativa digitale che si potrebbe considerare legata ai libri. Non credo nemmeno che la funzione della scrittura sia messa in discussione: qual era e qual è e quale sarà la funzione della scrittura? Tu sei scrittore, editor, critico, sei un intellettuale a tutto tondo ma rifiuti la parola intellettuale, hai dichiarato che la classe degli intellettuali in Italia è morta. Ci spieghi questa tua idea?


Non che rifiuti il termine “intellettuale”. Certamente non sono un critico o, se ho una funzione critica, è di ordine autoriale. Mi interessano certe categorie interpretative come a un ingegnere interessa la nanotecnologia. Intendo che mi servo di protocolli che ravvedo o apprendo nelle scritture altrui, all’unico fine di “fare”, di creazione di senso attraverso la lingua scritta e le estensioni e i silenzi che la lingua scritta produce, anche provenendo dall’oralità e tornandovi. È tuttavia molto chiaro a me, e qui sottolineo che si tratta di una visuale del tutto soggettiva, che i cosiddetti intellettuali in Italia hanno studiato poco o, se hanno studiato molto, hanno prospettive molto parziali. Il discorso culturale non c’è, il che mi dice che la classe intellettuale è indifferente alla realtà e la realtà è indifferente alla classe intellettuale. C’è gente che scrive della funzione della poesia in età contemporanea e non sa nulla di geopolitica, nemmeno immagina che la geopolitica è con tutta probabilità terminata nella sua funzione interpretativa del politico. Sullo specialismo, invece, mi pare che le conoscenze siano profonde, seppure molto molto parcellizzate, lontane da un’organicità che è implicita nel funzionamento di qualunque sistema sociale, di qualunque collettività linguistica. Facebook è un luogo spietato, una nuova arena globale, la gente sembra accentuare qualsiasi cosa, filtra la realtà, cita ciò che non conosce. Tu sei piuttosto presente in rete. Come vedi questo mondo, perché hai deciso di usarlo? Credi che leggere post e tweet ci stia distraendo dalla vera lettura? La vera lettura non è vera, nel senso che non è l’unica lettura: immagino che tu ti riferisca alla lettura di libri, per come si è appreso il metodo e il ritmo di lettura nell’ultimo quarto del novecento. È certo che aumenta a dismisura la sollecitazione nervosa attraverso questa immissione di dati nella percezione quotidiana. Si crea un certo disagio, una certa sindrome da metabolismo di un simile ammasso di dati, che sono forse spazzatura percettiva, ma che costituiscono comunque un dato del reale. Personalmente utilizzo le piattaforme web perché, per come penso sia configurata l’attività dell’intellettuale, astenermene sarebbe come se Cesare Pavese se ne fregasse dell’editoria nei Cinquanta. Non è possibile giudicare il dato di realtà, o, più correttamente, non è possibile pregiudicarlo, in entrambi i sensi di questo verbo. Ciò non significa che io utilizzi mezzi di comunicazione pubblica per ottenere chissà quale successo. Di fatto, sono un autore che vende poco. Il successo è un fatto sociale che non solleva in me una particola di interesse. Mi interessa invece il movimento conoscitivo collettivo, l’interpretazione di gruppo, l’avanguardia della conoscenza, l’apparato emotivo del corpo sociale, la dinamica della lingua che incontra e si scontra con il mondo. Mi interessa il grado di silenzio, sotto qualunque aspetto. La letteratura è un esercizio per la memoria, la scrittura è mantenere in vita i libri attraverso nuove storie, sono letture che prendono nuovo forme. La memoria secondo te ha ancora bisogno della carta? Deve abitare luoghi e riempire musei? Non credo affatto che la letteratura sia un esercizio per

la memoria, penso piuttosto che la memoria sia un esercizio per la letteratura. Per me sia il fare sia il leggere letteratura è proprio il trascendere la memoria, l’immersione che conduce a sentire concretamente la presenza, la consapevolezza. È la fine della lingua a cui la letteratura tende. Ciò, per me. Poi comprendo benissimo il bisogno di storie, una retorica che personalmente odio, perché non si capisce il motivo per cui si dà importanza alle storie piuttosto che alla versificazione, stando appunto ai protocolli di memoria. Perdere tempo è fondamentale per perdersi nel tempo. La versificazione originaria, quella epica o sacrale, è cruciale per divagare e perdere tempo, per stare fuori da qualunque atto mercantilista o efficientista. Che poi si vada in un tempo nebuloso dal punto di vista della coscienza storica, chiaramente, pone un problema di fact checking e di richiamo della verità storica, che spetta agli intellettuali intraprendere. La memoria è esterna rispetto alla consapevolezza, nel senso che è una forma postuma di consapevolezza: prima viene la consapevolezza e poi la consapevolezza si fa memoria, in quella teologia totale che è il fenomeno umano. Finché non si sente in questo modo, si perde proprio il filo rosso della ricerca conoscitiva. Un compito a cui mi sento di adempiere è quello di centrare il discorso sulla consapevolezza, mentre si sta facendo la ricostruzione storica che permette un atteggiamento morale nei confronti del mondo, delle alterità e di se stessi. Molti dicono che è un periodo di passaggio per l’editoria, la fusione tra due colossi, la chiusura di una casa editrice come Isbn, la nascita di una nuova “piccola” di qualità come NN. In realtà questo momento dura da un po’ di anni, quindi potrebbe essere già questo il futuro dell’editoria. Cosa ne

pensi? Io lavoro al Saggiatore, vedo cosa facciamo qui: un lavoro sul catalogo storico e un tentativo di creazione del catalogo della contemporaneità. Mi pare che riesca, se osservo i meri numeri. Poi, quanto alla scelta che storicizza un lavoro culturale, so bene che non si può più pensare a un’idea einaudiana (un’altra Einaudi rispetto a quella che vediamo oggi, intendo) di rapporto tra cultura e contemporaneità. Non so dove ritenga di andare l’editoria, senza un catalogo, ed è precisamente il motivo per cui non ritengo che le realtà minuscole possano costituire il futuro dell’editoria stessa. Il futuro dell’editoria, a mio parere, risiede in una integrazione organica di editori indipendenti, che contribuiscono a creare un paesaggio nel presente. In questo senso, apprezzo tantissimo il lavoro che fa la collana #QuintoTipo di Alegre, diretta da Wu Ming 1: ecco un nucleo autentico della contemporaneità, ecco un esempio di catalogo della contemporaneità. Oppure il rinnovamento di minimum fax: ha fatto un certo catalogo della contemporaneità, ha rilevato l’esaurirsi di un discorso, si è resa consapevole di un mutamento di movimento generale, si è attrezzata per affrontarlo e renderne conto. Sono certamente due esempi, ma li avverto consentanei a un discorso che sarà pure microcollettivo, ma è centrale, è storicamente un mandato a cui si deve adempiere conoscitivamente e artisticamente. Dario Goffredo

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MARIO PERROTTA

L’attore salentino, fresco vincitore del Premio Ubu per il progetto Ligabue, ci racconta il nuovo spettacolo e la sua idea di lentezza e di cultura «Sono molto felice. Per la vittoria e perchè già essere tra i finalisti significa essere considerati tra le tre cose migliori che girano in italia. Già questo è un risultato enorme», la mia telefonata arriva poche ore dopo la vittoria del terzo Premio Ubu della carriera. Mario Perrotta, autore, scrittore e regista leccese, è soprattutto considerato uno dei migliori attori italiani. «Ma non dite che mi sono abituato ai premi. Questo è il mio lavoro e provo a farlo bene». Il Premio Ubu, fondato nel 1978 da Franco Quadri, è l’Oscar del teatro italiano e ogni anno viene assegnato in una cerimonia al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Quest’anno sei arrivato in finale in due categorie: Migliore novità con “Milite ignoto-quindicidiciotto” e “Miglior progetto artistico o organizzativo” con “Pro-

getto Ligabue. Arte marginalità e follia”. Hai vinto in questa seconda categoria. Nella prima c’era un carico da novanta. “Lehman Trilogy” di Stefano Massini, ultimo spettacolo con la regia di Luca Ronconi. Tra i finalisti anche un altro pugliese come Oscar de Summa. Credo che il premio per Ligabue sia stato dato alla caparbietà di un sogno anche al di là del valore artistico. è stata premiata la voglia di sognare. In anni bui come questi tutti ti dicono che devi fare di meno, che devi tirare i remi in barca, devi sopravvivere. Invece noi ci siamo avventuturati in questa esperienza con altre 230 persone affrontando tutti i rischi connessi. è un progetto solo per sognatori. Quindi questo è un premio che ho condiviso con tutte le persone coinvolte. Inoltre, cosa unica, il premio è stato assegnato a tutta la trilogia. I giurati hanno


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voluto premiare la progettualità proprio perché era una sorpresa continua. Siamo passati dal monologo al gruppo per finire con un progetto con 230 artisti coinvolti in un percorso di circa 40 km. Come mai la scelta di dedicare una trilogia a Ligabue? è nata come spesso accade per motivazioni personali e intime. Il mio teatro è sempre frutto di una inscinbile sintesi tra vita personale e scrittura. Un giorno mi sono trovato nella piazza di Gualtieri, paese di Ligabue, in quel momento ero in piena attesa per l’adozione di un figlio e non sapevamo nulla se non che l’ente con il quale stavamo procedendo aveva solo rapporti con paesi dell’Africa centrale. Quindi sarebbe stato inequivocabilmente nero e “diverso”, una cosa che per me è un valore e per qualcuno in questo paese è un problema. Questa fragilità ha fatto cortocircuito con le diversità di Antonio Ligabue che io conoscevo come tutti quelli della mia generazione che hanno subito lo sceneggiato degli anni ‘70. Ho pensato che per buttare fuori questi miei nervi scoperti sulla diversità avrei dovuto lavorare su questa figura. Dopo due mesi mio figlio è arrivato dall’Etiopia e dopo altri due mesi era seduto in prima fila al Piccolo di Milano per il premio Ubu con “Un Bes”, primo capitolo di questa trilogia. Quindi è nato sotto una buona stella. Il suo arrivo ha fugato qualunque fragilità. Nel nuovo spettacolo “Milite Ignoto” fai ancora un salto temporale e ti lanci nella Prima Guerra Mondiale. “Milite ignoto” apre una nuova trilogia. Io rivendico il diritto alla lentezza per chi fa cultura. Siamo iperconessi, tutto va veloce, siamo sempre attaccati alla rete e se non c’è wifi ci sentiamo persi. Il teatro, invece, è un lavoro lento. Mi sono concentrato sulla grande guerra non perché mi interessasse quel periodo storico ma perché mi interessava un altro aspetto. Il dramma linguistico che si scatenò in quelle trincee. Contadini e analfabeti si ritrovarono gomito a gomito. Molti rischiavano di morire perché non capivano gli ordini. Questa costrizione linguistica oltre che di corpi, chiude un percorso sulle lingue di Italia che porto avanti da tempo. Per anni ho fatto teatro in dialetto salentino. Poi Ligabue mi ha consentito di sdoganarmi con una parlata impossibile tra l’emiliano e lo svizzero. La grande guerra mi consente di fare quello che avevo in mente da sempre ma che poteva sembrare un esercizio di stile. Mettere insieme tutti i dialetti di Italia per pensare una lingua nuova. Una lingua che non esiste. Nello spettacolo (che sarà in scena il 18 e il 19 dicembre al Db D’Essai di Lecce ndr) riecheggiano varie parlate d’Italia. Continuo a spostarmi da una latitudine all’altra per cercare di rappresentare linguisticamente il dramma di questi uomini. I dati della lettura e della fruizione della cultura in Italia sono assolutamente drammatici. Quali sono i possibili rimedi, secondo te, per una vera inversione di tendenza?

La scuola. Dovremmo ripartire sicuramente dalla scuola. Una buona parte di genitori, non tutti per fortuna, pretende che la scuola assuma il ruolo educativo che però è della famiglia. La scuola deve insegnare ai ragazzi ciò che è cultura. Ci si arrabbia perché la scuola non li educa. Stare dietro ad un bambino è una cosa complessa, ma richiede impegno, costanza. Ci sono insegnanti terrorizzati dalle rimostranze possibili dei genitori. Le scuole sono diventate aziende che più allievi hanno e più incassano. La scuola è sotto ricatto e gli insegnanti sono stati esautorati. Però un tempo erano i nostri genitori che ci spiegavano il rispetto nei confronti dei docenti. Bisognerebbe lavorare in questo senso, per rimettere le cose nel giusto ordine. La scuola da una parte che insegna e la famiglia dall’altra che educa. Servirebbe una volontà politica precisa per andare in questa direzione. Qual è oggi, secondo te, il ruolo dell’intellettuale? Personalmente non amo molto le figure di intellettuali fuori dalle cose, avulsi dal mondo perché non si sporcano le mani e i pensieri con le cose del mondo. Se pensiamo a Pierpaolo Pasolini le mani se le sporcava continuamente, spesso in controtendenza rispetto all’intellighenzia. Quindi era uno uomo davvero libero. Figure così ne vedo poche. Anzi direi che non ce ne sono. Anche Ennio Flaiano, meraviglioso per altri versi, aveva una visione delle cose profetica. Non vedo intellettuali di questo tipo perché sono asserviti a logiche diverse. Anche ad una logica devastante di sinistra. Pasolini poteva dire anche cose che apparivano di destra eppure viveva in un’epoca infarcita di schieramenti netti. Ma oggi, francamente, di quale sinistra parli? di quale destra parli? Io vorrei una destra sociale vera, sana, liberale con la quale aprire dibattiti. Quelli che fanno gli intellettuali si occupano di connotarsi in una categoria. Sono molto attenti al tipo di occhiali che comprano. Chi sentenzia dal chiuso del suo studio è come una rana: fa chiasso per aria solo per farsi sentire e fare vedere che esiste. Io, da ateo incallito, da uomo di una sinistra che non c’è, ritengo che l’intellettuale più contemporaneo sia Papa Francesco che è partito dalla strada ed è un intellettuale davvero vicino alla gente. Mentre parliamo stiamo ancora ragionando sul titolo di questo primo numero del giornale. Mi era venuta in mente la resistenza della cultura. Tu cosa ne pensi? La parola resistenza è una categoria vecchia, legata al passato. Io preferisco parlare di isole dove si immagina un futuro. Dobbiamo provare a scardinare il presente per immaginare nuovi futuri. Resistenza è un arroccamento che l’uomo di cultura non si può permettere. Dobbiamo militare non solo nella protesta ma nel nostro fare quotidiano. Ci sono tante isole di futuro sparse sul territorio nazionale ma anche in questo occidente in decadimento. Il nostro lavoro deve essere quello di costruire ponti tra un’isola e l’altra. (pila)


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Qual è l’impatto sul sistema turistico, economico e sociale della musica nel Salento? “Come suona” questo territorio? La musica è un attrattore culturale? Quanto si spende per assistere a concerti ed eventi? Quanto si viaggia per incontrare e ascoltare il proprio artista preferito? Per rispondere a queste e altre domande è nato il progetto “Il suono che vorrei. Uno studio sui consumi musicali nel Salento”, ideato e coordinato dalla nostra cooperativa, CoolClub, che da oltre dieci anni organizza e promuove eventi musicali e culturali. In questo volume - edito da UniSalentoPress - sono proposti i risultati di un’accurata indagine svolta nel 2014 dal Gruppo di ricerca di Statistica del Dipartimento di Scienze dell’Economia dell’Università del Salento, sotto la responsabilità della professoressa Sandra De Iaco e finanziata nell’ambito del Programma delle Attività Culturali per il triennio 2013/2015 della Regione Puglia. I commenti di Silvia Godelli (assessore alla cultura della Regione per 10 anni dal 2005 al 2015), Paolo Perrone e Alessandro Delli Noci (sindaco e assessore del Comune di Lecce), Vincenzo Santoro (responsabile dipartimento Cultura e turismo dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani), Massimo Bray (direttore editoriale Treccani e già ministro della cultura), Fabrizio Galassi (Giornalista, consulente comunicazione e social media marketing), Giordano Sangiorgi (patron del Mei), dei musicisti Populous e Raffaele Casarano, dell’organizzatrice Elisa Monsellato, e di Stefano Manca del SudEstStudio arricchiscono ulteriormente la discussione e propongono nuovi punti di vista e temi da affrontare in una successiva ricerca da estendere, possibilmente, a tutta la Regione. Il libro ospita anche l’intervento del nostro amico Sergio Torsello, dal 2001 direttore artistico e cuore della Notte della Taranta, con il quale abbiamo condiviso molte esperienze sul campo e che è prematuramente scomparso il 19 aprile 2015. Il ritorno di questo giornale è anche “colpa” dei risultati (non positivi) della ricerca. Forse, dopo anni di impegno collettivo per provare a formare nuovo pubblico, in molti hanno tirato i remi in barca. E nel momento di massima offerta complessiva (in dieci anni quanti luoghi, festival, etichette, case editrici sono nati da queste parti?) e di attenzione e interesse che ci hanno coinvolto (la Puglia vista come una vera e propria “isola felice” della creatività) forse troppo poco è stato fatto per arrivare al nuovo pubblico e alle giovani generazioni. «Il discorso da intraprendere è quello di migliorare ulteriormente - e integrare tra di loro - gli strumenti di comunicazione (i siti web, ma ancora di più, come evidenzia il sondaggio, i profili social) utilizzati da concerti e festival che insistono su uno stesso territorio, come il Salento, per fare emergere ancora meglio l’ampiezza dell’offerta, la sua stratificazione all’interno dei target (generi musicali, orari, location) e la sua armonizzazione con il patrimonio culturale locale», sottolinea nel volume Massimo Bray. «In questo studio dei consumi musicali nel Salento ci sono due dati che colpiscono», puntualizza Fabrizio Galassi. «Il primo è la difficoltà nel trasformare il pubblico generalista in appassionato, ossia tutto quell’audience che, rifornendosi musicalmente attraverso i mass media canonici come i grandi network radio/tv, tende a rimanere un pubblico interessato quasi esclusivamente alle grandi occasioni. Il

secondo dato sul quale riflettere è la difficoltà, da parte delle istituzioni, nel realizzare un’azione promozionale continua in linea con i linguaggi e gli strumenti utilizzati dagli intervistati (20-40 anni)». Tra gli interventi anche quello di Giordano Sangiorgi, patron (si direbbe mutuando un’espressione da Miss Italia) del Meeting degli Indipendenti di Faenza. «La ricerca mi sembra chiara. Pop, rock e reggae e dintorni, al mare e gratis per i giovani, musiche tipiche tradizionali e popolari, folk e jazz, nei centri storici di straordinaria bellezza, con ingresso a pagamento per il pubblico più adulto. La partita è tutta qua. Il resto è roba intermedia che con il turismo c’entra poco ma può avere a che fare molto con la cultura e con la musica, ma non è questo l’ambiente. È evidente che se oggi il Salento si trova al top dei gusti dei vacanzieri lo deve anche a una scelta attenta di eventi musicali di qualità che non possono in alcun modo mancare». Per allargare, completare e aggiornare il ragionamento abbiamo chiesto un ulteriore parere all’amico Vincenzo Santoro, esperto di tradizioni popolari, voce e anima critica del movimento che ruota intorno al fenomeno della Taranta e che da alcuni anni gira l’Italia come responsabile del dipartimento Cultura e turismo dell’Anci. «Per far avvicinare più italiani alla cultura, occorrerebbero più azioni contemporaneamente, naturalmente variabili a seconda del contesto. Da una parte potrebbero essere molto utili delle forme di defiscalizzazione dei consumi (ad esempio la possibilità di “scaricare” dalle tasse le spese culturali, analogamente a quanto avviene per alcune spese sportive), perché è evidente che la crisi economica ha creato difficoltà per molti», sottolinea. «Dall’altra però bisognerebbe agire per migliorare l’offerta culturale, facendola gestire da operatori competenti e appassionati (e non da svogliati burocrati, come avviene ancora troppo spesso), renderla più plurale e in alcuni casi (ad esempio i musei) anche più vicina alle sensibilità contemporanee. E centrale», prosegue, «è la questione delle infrastrutture: i dati dimostrano ad esempio che i tassi di lettura sono minori dove ci sono meno biblioteche che funzionano come dovrebbero. Centrale è anche il problema della formazione: l’ignoranza abissale di molti italiani sulla storia della musica oppure sulla storia dell’arte è veramente scandalosa, e dipende sicuramente anche da come queste materie vengono trattate a scuola (anche se forse a volte fra gli addetti ai lavori si attribuisce eccessiva importanza all’apprendimento formalizzato, mentre si tralascia l’aspetto altrettanto significativo dell’apprendimento in contesti non formali e non non “ufficiali”). Infine, c’è il dato, che purtroppo è in aggravamento, del divario territoriale. Nel Nord si va al cinema, a teatro, nei musei, ai concerti, in biblioteca, molto di più che al Sud. Quindi occorrerebbero anche delle azioni specifiche rivolte a territori che sono molto spesso poverissimi di infrastrutture e di offerta culturale». In questi giorni si discute dell’investimento in cultura e del bonus di 500 euro che il Governo Renzi vorrebbe assegnare (non si capisce bene con quale criterio) ai neo diciottenni. Servirà? Sarà uno spot elettorale o una “rivoluzione”? Vedremo e, intanto, speriamo.

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GIANLUCA DE RUBERTIS L’universo elegante del cantautore pugliese


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La materia di cui è fatta la musica di Gianluca De Rubertis è densa, lo è perché ha bisogno di essere precisa, in ogni parola scelta, nel percorrere anni luce centimetro dopo centimetro. Tempo e spazio che contemplano l’infinitamente piccolo e l’enorme al punto da diventare un universo appunto. La sua personale visione del femminino che si trasforma in altro, trascende. “L’Universo elegante” (Martelabel, promosso con il sostegno di Puglia Sounds) è un disco che esplora nuove frontiere della canzone italiana, la omaggia, la sfida, la sbeffeggia, la innalza. La prima impressione ascoltando il disco è che tu abbia concesso di più, alla tua voce, alla parola che si fa più accessibile, allo spazio (il disco è più arioso musicalmente). Cosa ne pensi? Sì, è vero. A giudicare dal poi ci si avvede di quanto ogni momento della nostra vita sia peculiare, e ci rivediamo immaturi, superficiali… Così anche questo disco probabilmente mi sembrerà immaturo tra qualche tempo, ma in questo frattempo mi pare che possieda le qualità che tu hai elencato. Tornando allo spazio, il disco contempla il cielo, la notte, il vento, mare, elementi che circondano la donna. Ci parli della cosmogonia di questo universo? Sono, mio malgrado, concentrato continuamente sul minuscolo e sul maiuscolo, sull’infinitamente piccolo e il supernamente grande. Non mi hanno mai attratto troppo le sfere intermedie, anche se con l’età ho imparato a dire un paio di cose normali quando si ciarla del quotidiano. Eppure troppo più grande è in me un sentire strenuo versato all’immenso; a volte questo sentore (spesso vicino al malore) mi commuove, il tutto è troppo, il niente non si misura. La figura femminile è carnale, ma anche materna, spirituale, metaforica… Il femminile è quanto di più vicino ci sia all’universo. Le donne riescono a sviluppare un maggiore senso pratico rispetto agli uomini, proprio perché contenitori naturali e inconsapevoli di infinite e delicatissime sfumature. Quello che si possiede non ci sorprende, così tocca agli uomini osservare con stupore questa bellezza. Ogni corpo, ogni briciola, ogni minimo granello di questa periferia spaziale in cui siamo calati, vibra di una fulgida e chiarissima energia; le donne hanno la singolare capacità di restituire all’etere una maggiore quantità di luce. È un disco più pop del precedente, è un disco cantabile, sembra che le tue orbite musicali si stiano avvicinando,

che il Genio non sia l’altro… Probabile, del resto questo è sicuramente un album più identificativo del precedente. “Autoritratti” conteneva brani molto diversi e maturati in un arco di tempo molto più lungo. “L’universo elegante” contiene brani scritti negli ultimi due anni. Ed in generale, è vero, mi sono ritrovato, senza volerlo, a dar forma ai brani seguendo quei canoni che si incontrano spesso nelle ballate pop. I dischi sono anche il frutto di incontri, che entrano nelle canzoni. In questo album hai due ospiti “d’eccezione”. Ci racconti come sono nate queste collaborazioni? Con Mauro Ermanno Giovanardi è stato abbastanza naturale, era da più di un anno che lo accompagnavo al piano nei suoi live. Con lui è nata un’amicizia assolutamente spontanea e sincera, corroborata da un gusto musicale incredibilmente affine. Invece con Amanda Lear è stato diverso; il fonico, Davide Lasala, che ha anche mixato l’album, ha avuto l’idea di mandare i miei brani a Parigi; lei si è innamorata delle mie canzoni, ed io sono, in questo momento, piacevolmente sorpreso e lusingato dal fatto che lei si sia accorta del buono che c’è nella mia musica. È stata gentile, intelligente, arguta, disponibile, simpatica. Ci stiamo riappacificando con un cantautorato che fino a qualche anno fa snobbavamo, anche la forma canzone attinge a stilemi che sembravano dimenticati… Non saprei, sicuramente gli anni ’80 hanno portato avanti dei modelli diversi, la musica doveva essere internazionale a tutti i costi e in virtù di questo falso ideale si è anche prodotta tanta spazzatura. Non è un male che oggi si accetti l’italianità, nella scrittura, nel verso, nella melodia. Non mi pare siamo ancora fortissimi a scrivere rap e hip hop. Il rischio spazzatura c’è sempre, anche per il cantautorato, ma del resto il pianeta stesso è ormai una latrina in orbita attorno al sole. Non solo un disco ma anche un film, anzi prima il film. Come nasce questo progetto? Avevo un racconto, scritto molti anni fa. Mentre scrivevo le canzoni si è fatta strada in me l’idea che forse quei brani avrebbero potuto accompagnare, per affinità o per contrasto, la storia che avevo scritto. Così è stato, mi sono fatto coraggio e mi sono messo a fare il regista. Il film è stato prodotto da Studionoesis e Artinvaders.it, realtà dietro le quali si celano Maura Bergamaschi e Stefano Ferrari, due persone assolutamente uniche, per la qualità di pensiero, per la quantità di passione, per la grandezza d’ideali, per l’ampiezza del sorriso. (O.P.)


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MAI PERSONAL MOOD L’orgoglio pop della band “made in Canosa”

I Mai Personal Mood sono un gruppo di confine. Riescono con la loro musica a conciliare la musica pop italiana e “l’indie” sancendone definitivamente il tramonto. Una definizione che oggi più di ieri perde senso. Ci basterebbe ragionare sulla buona e la cattiva musica. In questo caso siamo davanti a belle canzoni, di quelle che si lasciano cantare, che raccontano storie vicine e semplici. Musica che vuole arrivare dritta a chi la ascolta e ci riesce in pieno. Abbiamo parlato del loro disco d’esordio “Habitat” con Francesco e Andrea. Ma quante cose ci sono dentro una vostra canzone, musica densa, un collettivo di suoni e di persone. Quanti siete? Cosa portate? Cominciamo subito svelandoti che siamo sempre noi cinque, Francesco, Andrea, Matteo, Michele e Aldo. L’unica novità sta nel fatto che durante la stesura di questo disco ci siamo avvalsi di consiglieri fidati che a volte hanno addirittura partecipato alle fasi di produzione del disco diventando parte dei Mood. La densità della musica invece rimane una delle note più distintive della band, è probabilmente l’elemento che prima di ogni altra cosa permette di riconoscere il nostro stile, ma a questo giro qualcosa è cambiato perché abbiamo lavorato moltissimo sulla voce. Nel frattempo poi anche noi siamo cambiati, siamo cresciuti e questo fattore ha cambiato il nostro approccio nei confronti della stesura dei brani e nella scrittura dei testi. Dentro le canzoni di “Habitat” abbiamo portato le nostre situazioni di vita quotidiana, lontano da casa e sempre circondati dal paesaggio urbano in cui siamo immersi, i brani sono le specchio dei nostri vissuti, dei nostri sentimenti e dei nostri sogni. Un approccio alla canzone d’autore che rimanda vaga-

mente ai La Crus, reinterpreta gli Amari, ma si spinge fino a notte fonda a ballare in qualche club… Grazie per le associazioni prima di tutto, sei il primo che ha riconosciuto un rimando ai La Crus e lo diciamo perché sono stati fra gli ascolti importanti mentre eravamo in fase di produzione. Siamo contenti perché stiamo notando dalle prime recensioni e dai pareri di amici e di gente che ci segue che finalmente il fantasma associativo dei Subsonica si sta dileguando e sta lasciando spazio a paragoni che fanno riferimento a cantautori pop più o meno underground. Riconosciamo però che la presenza di spinte elettroniche vagamente clubbing portino una bella confusione nella mente di chi ha l’esigenza di collocarci nel giusto scaffale di genere. Durante la stesura dei brani non abbiamo mai ragionato per compromessi ma abbiamo dato il giusto equilibrio ad ogni nostra sfumatura, difatti nessuna canzone è nata con una chitarra e con una linea di voce, tutto è cresciuto in una complessità di idee che sono andate ad incanalarsi spontaneamente nei dieci brani di “Habitat”. L’unica regola che ci siamo dati è che ogni cosa potesse suonare nel modo più espressivo possibile. “Habitat” è il luogo in cui ci è permesso vivere, quello in cui la nostra specie si muove. A proposito di movimento la vostra idea di luogo, di casa, sembra dinamica, in viaggio. Il viaggio è sicuramente il tema che più ci appartiene, viviamo in città diverse da anni, praticamente da quando è nato il nostro progetto e abbiamo scelto di provare a fare della musica il nostro mestiere. Conosciamo tutti i low cost d’Italia per riuscire ad incontrarci, prendiamo treni, aerei, pullman lentissimi, accettiamo passaggi da-


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gli sconosciuti e da anni ormai prendiamo e perdiamo le coincidenze. Ma questo non è un limite, anzi, abbiamo imparato a convivere con questo stile di vita e crediamo sia anche positivo il fatto che ognuno di noi viva una scena “musicale” diversa a seconda della città in cui vive, da Roma a Bologna passando per Firenze e tornando sempre a casa in Puglia. Anche le registrazioni del disco rispecchiano pienamente quella che è la nostra attitudine, è stato scritto in giro per l’Italia ed è stato registrato tra il Sudest studio di Guagnano, in provincia di Lecce, il nostro studio a Canosa e gli studi Fonoprint di Bologna. Ovviamente, una grossa mano per facilitare questioni compositive ci è stata data dall’utilizzo di Dropbox dentro il quale ci scambiavamo progetti di Ableton che ci hanno permesso di lavorare nonostante la distanza. Molte volte non potendo vederci e suonare all’istante siamo riusciti a lavorare ugualmente in maniera efficiente. Certamente il software non sostituisce l’alchimia che si crea quando si è insieme ma, sì, è stata una grande svolta. La parola “pop” è ormai sdoganata, quelli che prima sembravano “innominati” della canzone italiana tornano di moda. Quali sono le vostre “canzoni e i vostri artisti nell’armadio”? Esatto, crediamo sia dovuto alla presenza massiccia del ritorno in scena dei cantautori e senza dubbio di contro negli ultimi anni in Italia ci sono state poche band alla ribalta. Comunque fra gli innominati il nostro preferito è Luca Carboni, siamo entrati nel suo mondo e ci stiamo ancora dentro, ne usciremo plasmati, in positivo. Pensandoci a fondo abbiamo iniziato ad ascoltare in modo critico tutto quello che prima snobbavamo trovando persino spunti di inte-

resse in artisti come Cremonini, Raf, l’indiessimo Tiziano Ferro e perfino Jovanotti, non ci vergogniamo, è la verità, siamo trasversali, poi magari ci sfoghiamo passando la serata in un club assieme a Four Tet o scalpitiamo aspettado il concerto dei Tv on the radio. Siamo fatti cosi noi Mood. Che cosa vi piace della musica italiana in giro? A dir la verità è un po’ più facile dire cosa non ci piace. Sorridiamo per gli indie che criticano gli indie con lunghi post su Facebook e poi li becchi a leccargli il culo alle serate. Non apprezziamo i musicisti chiusi nella loro scena, quelli che vedono con sospetto tutto il resto e criticano a priori. Ci piacciono invece tutte le band e gli artisti da cui traspare la volontà di raccontare ed esprimere qualcosa. Non siamo fra quelli che puntano il dito contro la musica italiana pensando “sì, ma tanto fanno tutti cacare, qui non c’è niente di interessante”, assolutamente, mai cazzata più assoluta, ci sono grandi artisti che cantano in italiano e altrettanti artisti capaci di fare dischi al pari di nomi grossi della scena internazionale. La vostra musica innesta su una robusta base elettronica una forma canzone abbastanza classica dal punto di vista melodico. C’è uno sguardo rivolto alla canzone d’autore classica italiana e uno sintonizzato con le nuove avanguardie… Sì, l’intenzione era di quella di concentrarsi su una forma canzone classica che potesse accogliere una dose massiccia di elettronica assieme ad una buona scrittura anche di archi e fiati (molto presenti nel disco) includendo la presenza di strumenti “alieni” come theremin e omnichord. (O.P.)


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MIMMO EPIFANI In “Mar da Lua” il mandolinista di San Vito dei Normanni incontra il portoghese Josè Barroso Incrocio di corde e di repertori tra Portogallo e Salento, “Mar da Lua” è il disco che cristallizza l’amicizia e la lunga frequentazione artistica tra José Barros e Mimmo Epifani, due straordinari strumentisti accomunati dalla forte passione per i rispettivi background musicali. Ne è nato un viaggio sonoro di grande suggestione nel quale si fondono due universi sonori solo in apparenza differenti, dando vita ad un dialogo creativo sorprendente nel quale spiccano brani originali, riletture di materiali tradizionali e qualche gustoso divertissement. Al Medimex, abbiamo intercettato il mandolinista di San Vito dei Normanni per farci raccontare questo nuovo progetto, approfondendone la fase realizzativa, e soffermandoci sui brani principali. Com’è nato il progetto “Mar da Lua”? Questo progetto nasce da una collaborazione ultradecennale con il maestro ed amico fraterno José Barros che viene da Sintra, città situata a venti chilometri da Lisbona e patrimonio mondiale dell’Unesco. José ed io suoniamo gli stessi strumenti però siamo di due paesi differenti, Portogallo e Sud Italia. Lui suona il mandolino, la chitarra fado, strumenti simili a quelli che usiamo noi nella musica popolare, ed è un cultore della musica tradizionale portoghese, come io, tra virgolette, lo sono della musica tradizionale del Sud Italia. Quindi abbiamo unito la nostra esperienza sul palco, i nostri strumenti, i brani delle rispettive tradizioni che ci piacevano di più, ed è nato “Mar da Lua”, che a mio avviso è molto bello.

Nella collaborazione ultradecennale con José Barros, come avete integrato i rispettivi strumenti? Noi abbiamo studiato un viaggio musicale, come si usa definire certi progetti attualmente, però non è una contaminazione come si può fare con la musica dei Balcani. In questo disco ci sono sostanzialmente delle rivisitazioni di brani famosi della tradizione portoghese e del Sud Italia, oltre a nostre composizioni. Io, ad esempio, ho scritto la musica di un brano dedicato a Lisbona mentre José vi ha aggiunto le parole. C’è un altro fado che Barros ha scritto la prima volta che è arrivato a Napoli, e che presenta la collaborazione con il maestro Eugenio Bennato. Tra i brani originali c’è il primo singolo estratto “Un musicista che ha perso le scarpe”. Come nasce questo brano? Questo brano nasce da un fatto realmente accaduto. Siamo andati a suonare in un posto molto bello ed elegante, un masseria vicino ad Ostuni, dove c’erano anche persone inglesi, e con noi c’era un percussionista che prendeva la vita in modo un po’ differente dal nostro, e aveva comprato delle scarpe nuove. Mentre facevamo le prove del suono venne un forte temporale, e lui si tolse le scarpe e le lasciò lì. Un tecnico del suono vide quelle scarpe e giustamente le buttò via. Ad un certo punto ci chiama un signore inglese e, in italiano con un accento un po’ strano, ci disse cosa mai ci facesse quel musicista che girava in mezzo agli sposi e agli invitati.


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Sul versante delle riletture molto particolare è la versione di “Pasta Nera” di Matteo Salvatore… Ho voluto fare con il mio amico Geppino D’Anna un omaggio a Matteo Salvatore di Apricena provincia di Foggia, con il quale ho suonato in passato. Ancora oggi resta un grande maestro per tutti noi ed in particolare per me è una importante fonte di ispirazione musicale. “La Donna Riccia” dal repertorio di Domenico Modugno ti vede collaborare con un DJ… è un brano della tradizione popolare che ha interpretato anche Modugno il quale la rilesse alla sua maniera. Io l’ho eseguita accompagnandomi con la mia mandola, e anche con Fausto Mesolella, chitarrista rock nonché leader degli Avion Travel. Al disco hanno collaborato diversi musicisti, puoi presentarceli? Con noi hanno lavorato musicisti portoghesi che sono molto conosciuti in Europa come José M. David, ma anche italiani come Giuseppino Grassi, Enrico Gallo che ci sono venuti a trovare in studio. Principalmente però gli strumenti li abbiamo suonati io e Josè Barros. Da San Vito dei Normanni a Lisbona. Un viaggio tra suggestioni musicali differenti. Come avete approcciato l’arrangiamento dei brani? Non è stata una cosa pensata, perché è difficile pianificare gli arrangiamenti. E’ come quando uno sa cucinare, e quello che trova in casa lo mette insieme e fa un piatto

buono. Se sa cucinare e gli piace mangiare, ovviamente. Così è stato anche per questo disco, quando si comincia a pensare agli arrangiamenti, a cose molto sofisticate è come la nouvelle cousine, con tutto il rispetto. Per fare una buona pasta, basta poco. Serve la pasta buona, il pomodoro buono, e la cipolla. Nel disco c’è una bella versione di “Damme Nu Ricciu”, come si è indirizzato il vostro lavoro nel rileggere questo brano tradizionale salentino? In modo molto semplice, perché José sentiva questo brano tradizionale salentino come fosse un fado, e dunque lui ha voluto riarrangiarla inserendovi gli strumenti della sua cultura, come la chitarra fado. è nato così un fado che in Portogallo canteranno a modo loro, ma la melodia è così bella che anche non capendo le parole, potrà affascinare chi la ascolta. Concludendo, durante la preparazione di questo disco, hai scoperto che anche in Portogallo ci sono i barbieri che suonano il mandolino… Ci sono molte similitudini tra il Salento e il Portogallo, e oltre al patrimonio musicale e culinario, ci sono anche i barbieri che suonano il mandolino e li costruiscono anche. è una tradizione molto antica, e ne sono stato molto felice. In ogni paese in cui vado cerco sempre musicisti che suonano dai barbieri, perché era un luogo di aggregazione, si beveva vino, si suonava, si raccontavano dei fatti. Salvatore Esposito


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“Me” è il nuovo disco di Raffaele Vasquez, prodotto da Workin’ Label. Un nuovo tassello nella caotica vita artistica del musicista salentino. Un percorso che lo ha visto prima riservare alla musica, al piano e alla musica suonata, strumentale appunto, tutto l’impegno e l’attenzione. Una strada che ha incrociato la parola a un certo punto e l’ha usata come materia di gioco, un lavoro sul senso, il suo doppio e la sua negazione. Una parola che oggi è invece strumento di confessione, atto di dolore, consapevolezza nuova del ruolo nella musica. “Me” ci restituisce un cantautore maturo, immerso musicalmente in atmosfere vintage, grazie alla sapiente produzione artistica di Mauro Tre. È un album che esamina senza troppa pietà il mondo delle relazioni personali, i suoi limiti, la sua cattiveria. È un disco dolce e per certi versi spietato. Questo disco arriva dopo esperienze molto diverse, sembra prenderne distanza, esplorare una nuova dimensione. Credi appartenga al normale processo di crescita? Credi sia la sintesi? C’è chi l’ha definito un disco adulto. Forse, direi io, un po’ più forte. Più spietato ma più lucido. Sono solo un po’ più incazzato, per primo con me stesso. Una discussione allo specchio. Una ricerca. Un invito ad una presa di coscienza.

E forse con “Me”, titolo del disco, sembri fare una dichiarazione importante, mettere la tua persona avanti a tutto e a tutti. Un lavoro autobiografico, la fotografia di questi ultimi anni… Non solo autobiografico, ma anche auto riferito. O, almeno, questo è quello che potrebbe sembrare. Il punto è che alla fine di questo racconto, in ogni canzone, c’è sempre una domanda che mi pongo anche io. È così? Questo è ciò che vedo io. Ma è vero? O è solo un mio punto di vista? Discutiamone. Ecco, titolo più azzeccato sarebbe stato “Secondo me”. È comunque un disco provocatorio. Un invito alla riflessione che ovviamente parte da un mio cammino. Ciampi era il cantante del tu e del no. Tenco declinava al futuro, ai sogni, le sue canzoni. De Andrè era il cantautore sapiente. Ogni autore ha un suo tema. Cosa ti interessa raccontare? Forse è l’ “io” il tema di questo album. Ma un “io” critico, che scinde la propria parte femminile da quella maschile. Una ricerca di equilibrio tra bene e male. Che non vede il bene come donna e che non lo riconosce nemmeno come uomo. Cerca una figura di donna inusuale, spogliata di tutte le convenzioni, con la quale ci si incontra e ci si scontra e dalla quale ci si allontana e poi e ci si lascia riconquistare. Una figura femminile “specchio” sulla quale


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RAFFAELE VASQUEZ Il cantautore salentino riparte da “Me”

si riflette non solo l’animo di un “maschio” ma quello dell’intera umanità con tutte le sue convinzioni. Quindi un invito alla riflessione per una trasformazione. Propria trasformazione. Questo disco ti vede analizzare il pianeta femminile. Lo fai però con un tono amaro. L’amore perde o sembra destinato a finire, anzi a consumarsi… È una delusione d’amore. Ma la delusione d’amore non esiste. Non si può essere delusi dall’amore. Una persona che ami non può deluderti. Perché se ti senti deluso, vuol dire che avevi delle aspettative. Aspettarsi qualcosa da qualcuno vuol dire pensare quello che tu, solo tu, pensavi che facesse. Quindi, la delusione, è egoista. L’amore che parla con l’ “io” è egoista. L’amore egoista si consuma. Io credo nell’amore. Alla fine sembra la solitudine la soluzione, l’allontanamento da tutto, dall’ipocrisia della società, dalle convenzioni, la riscoperta di se stessi, il rifugio del ricordo. Solitudine a servizio del distacco e della riflessione. Ma che vede ancora uno spiraglio di luce per il ritorno. Un ritorno pieno. Nudo. Pienamente nudo. Questo disco è fuori moda ed è un pregio, ha un suono molto vintage, pesca negli anni settanta senza scadere nel citazionismo o nel manierismo. Una scelta che si sposa con la tua voce, la tua scrittura. Questa scelta è

frutto di un incontro. Ce ne parli? È sicuramente un incontro con gli ascolti che ho sempre fatto. Non ascolto molta musica giovane. Ma la collaborazione artistica con Mauro Tre è stata una svolta. Non è stata una scelta. È venuto da sé. Ci siamo incontrati ed abbiamo suonato. Abbiamo arrangiato un brano di Ciampi ed abbiamo riconosciuto in quella linea stilistica la chiave musicale e l’età dell’intero lavoro. Sono anni in cui si favoleggia una certa rinascita della musica d’autore in Italia. Come vedi questa nuova scena, se così la possiamo chiamare? Cosa ti piace? Mi piace proprio il fatto che ci sia una rinascita. Nel giro di pochi anni, anche guardando i dati di molti festival di cantautorato che si tengono sul territorio nazionale, si evince un incremento delle iscrizioni e delle partecipazioni esponenziale. Anche io faccio parte di una scena recente. È veramente da poco che mi sono avventurato in questa modalità espressiva. Devo riconoscere che ce ne sono davvero tanti, siamo veramente tanti. Ma quantità e qualità sono due cose differenti che servono l’una all’altra. La quantità spinge alla ricerca di qualità. Mi piace chi mi emoziona. E sono in pochi. Non mi piace la rassegnazione di molte etichette discografiche che si mettono al servizio della quantità. Il ruolo più importante, poi, lo hanno le radio, le grosse radio. E su questo… (O. P.)


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CRIFIU

Il rock ha il sapore del Mediterraneo La storia dei Crifiu inizia oltre dieci anni fa. Dopo gli esordi tra musica folk e contaminazioni legate alla tradizione salentina nel 2012 arriva la svolta anche grazie al lavoro con il produttore Arcangelo “Kaba” Cavazzuti. Il singolo “Rock & Raï”, con la partecipazione di Nandu Popu dei Sud Sound System, è il manifesto di questo rock mediterraneo che conquista la critica ma soprattutto il pubblico. Nel lungo tour arrivano palchi prestigiosi. A tre anni di distanza da “Cuori e Confini” è uscito da poche settimane “A un passo da te” (prodotto da Dilinò, distribuito da Self e promosso con il sostegno di Puglia Sounds). La band salentina è adesso pronta a partire in tour, con uno spettacolo live inedito che attraverserà tutta Italia. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Luigi De Pauli, fondatore, autore e chitarrista della band. Ci racconti il lungo viaggio di questo album? Il disco è nato alternandoci tra studio e live: con il precedente album siamo partiti in lunghi tour in giro per l’Italia con delle uscite all’estero. Proprio dai concerti, dalle emozioni nate dall’incontro con un pubblico sempre più numeroso, sono scaturite le scintille che hanno germogliato gli undici brani che compongono “A un passo da te” a cui ci siamo dedicati con grande passione ed energia. L’album è stato anticipato l’anno scorso dal singolo “Al di là delle

nuvole” e prima dell’estate 2015 da “Un’estate così”. Il racconto che percorre l’album è intenso: undici canzoni che parlano di sfide quotidiane, vita contemporanea. Cos’altro? Cosa cantano i Crifiu? Il disco racchiude undici canzoni diverse tra di loro per temi e sonorità. Tutte però sono unite da un percorso comune che racconta la crisi e il suo superamento. Una crisi che non è solo economica, ma anche antropologica e che qui viene ribaltata di senso e letta come momento di creatività. La storia è il luogo della precarietà, una condizione che nel disco raccontiamo, ad esempio, in una delle sue forme più attuali, quella del lavoro che si traduce in precarietà esistenziale. Precarietà, difficoltà, smarrimento, crisi possono essere superati se vengono immessi - come un tempo le antiche tecniche popolari consentivano di fare - in un orizzonte metastorico e simbolico. In questo modo la crisi cambia di segno per tornare nella storia di tutti giorni; solo così è possibile non smarrire quella che De Martino chiamava la “Presenza”, l’esserci nel mondo, l’agire in esso. “A un passo da te” è un disco che sa che dopo ogni salita c’è la discesa, che il giorno nasce dalla notte come la creatività dall’inquietudine, che bisogna attraversare lo smarrimento del diluvio prima di stupirsi al sorriso dell’arcobaleno.


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L’amore è resistenza è un bellissimo slogan. Quando avete scritto questo brano? “L’amore è resistenza” è un brano che nasce nel corso della scrittura del disco: ci piaceva questa immagine inedita dell’Amore. Quello profondo, che ha il fiato lungo, che resiste alle sirene contemporanee che trovano eco nelle mode e nelle televisioni. Amore che continua ad essere in questi “Tempi moderni” imbastiti su legami effimeri, che hanno promosso il rapporto con le cose come modello per il rapporto tra le persone: un rapporto caduco che si getta nel cassetto dell’immondizia quando non soddisfa più, prima della sua data di scadenza. Ecco: cosa è più scandaloso e rivoluzionario dell’Amore che resiste, che corrobora i legami, che mette “l’uomo al centro del mondo” in un tempo in cui la regola è “l’usa e getta”? L’Amore universale tra gli uomini è un vero atto di resistenza di fronte alla moda dell’effimero. Oggi, poi, risuona molto attuale perché pensiamo che restare umani sia l’unica possibilità per uscire dal pantano dei nostri tempi. L’Amore come vero antidoto alla violenza perché non sono né gli attentati, né la guerra a cambiare il mondo, ma l’Amore, il disinnesco di ogni arsenale, sia letterale che metaforico. La vita sembra essere il tema centrale anche della copertina di “A un passo da te”. Cosa rappresenta esattamente la donna raffigurata? L’immagine di copertina sintetizza tutto il concept dell’album: è una goccia che germoglia colore e una madre che partorisce un figlio. Goccia che è lacrima, perché il piacere è figlio dell’affanno; goccia che è sudore perché è dalla fatica della semina che nasce la gioia del raccolto; goccia

che è acqua, fonte di vita, perché questo è un disco che canta ed esalta la vita. Il disco è musicalmente variegato, con un mix di stili che va dal pop sino al rock, passando per atmosfere elettroniche e la world music. Qual è oggi il vostro sound? Il nostro sound di oggi è questo: un suono che identifichi il progetto e che sfugga alle etichette che isteriliscono; a noi piace passeggiare sui territori della creatività, stimolarci nella ricerca di cose nuove, dei suoni e dei ritmi che vengono dal Mediterraneo, dalle attitudini e dagli approcci che vengono dal Mondo e che sintonizziamo sulle frequenze 2.0 della nostra generazione. Il nostro suono ha le coordinate che hai indicato: rock, pop, elettronica e world music per un’identità musicale e letteraria figlia degli incontri, perché cos’è l’identità se non un dialogo tra diversità? I vostri live show sono sempre energici, con grande impatto sul pubblico. L’album andrà in tour? Quali sono i vostri prossimi appuntamenti? Il live – oltre allo studio che ha sempre il suo fascino – è una delle dimensioni che più amiamo del nostro lavoro. La scaletta del nuovo spettacolo raccoglie, oltre ai nostri brani già conosciuti, tutte le undici tracce del nuovo album che ci sta dando già tante soddisfazioni e che non vediamo l’ora di portare in giro per tutta l’Italia. Per gli aggiornamenti basta seguire le nostre pagine social Facebook e Twitter (cliccando Crifiu) e il nostro sito ufficiale www.crifiuweb.com. Chiara Melendugno


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MUTANTE

L’essenza perfetta di Valentina Grande e Aldo Natali


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“Essenza Perfetta” è il titolo dell’esordio discografico del progetto Mutante. Il duo pugliese, composto dalla cantante Valentina Grande e dal musicista Aldo Natali, insieme dal 2011, è riuscito a trovare un’intesa perfetta e a equilibrare alla perfezione esperienze musicali diverse, in un progetto discografico interessante. “Essenza Perfetta” - prodotto da La Rivolta Records, distribuito da Self e promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record - è un album dall’ascolto veloce, composto da undici tracce che racchiudono “rock, elettronica, eleganza jazz, tutto in una chiave electro pop”. Valentina come hai incontrato Aldo e quando avete deciso di collaborare insieme? Mutante è il risultato di due percorsi diversi e paralleli, iniziati tanti anni fa, incontratisi per caso durante una jam session, nel 2011. Io ero alla ricerca di qualcuno che potesse comprendere e valorizzare le mie idee melodiche e di testo e ho trovato in Aldo un’immensa fonte di creatività ed originalità stilistica. Tra noi si è verificato quel “quid” che ha dato un senso concreto al nostro bagaglio di esperienza, alla nostra palestra, spingendosi verso un unico obiettivo: far sentire la propria voce, le proprie “idee che diventano”, estrapolare un proprio ed unico suono. Abbiamo creato “Mutante”, e abbiamo scelto questo nome proprio per sottolineare l’essenza di questo progetto, che risiede tutta nel concetto di trasformazione e di rinascita. Tu ed Aldo avete percorsi musicali apparentemente diversi: jazz, bossa nova VS rock. Come avete unito le vostre diverse attitudini? La fusione tra i due mondi si è costruita nel tempo, in fase di preproduzione dell’album d’esordio, in home studio, grazie alla forza di una creatività assetata di “diventare qualcosa” sin dal primo momento del nostro incontro. Abbiamo scritto e composto quest’album partendo a volte dal testo, dalla linea melodica, altre volte dall’arrangiamento. Le nostre esperienze si sono intrecciate proprio in funzione del fatto che né io né Aldo abbiamo mai avuto alcun pregiudizio stilistico ma abbiamo sempre cercato di vivere la musica in maniera eclettica, facendo dell’arrangiamento la chiave di trasformazione del vestito di un brano, della sua intenzione. Ciò è confermato dai nostri ascolti, di vecchia e odierna data, che spaziano tra più generi, mantenendo però sempre alto il livello di originalità e qualità. Il nome del vostro progetto ha a che fare con questa fusione di stili e personalità? Penso sia a quello della band “Mutante”, che a quello dell’album “Essenza Perfetta”… Mutante nasce ruotando attorno al concetto di trasfor-

mazione e di rinascita: esistere è cambiare, cambiare è maturare, maturare con intelligenza è continuare a creare se stessi senza fine. Questo processo parte per ognuno di noi da un unico incipit: un’essenza che, a priori, è perfetta ed insita in ogni individuo e che, durante il percorso, può raggiunge l’apice della sua perfezione sulla base delle nostre scelte, interagendo, collaborando con altre essenze complementari. È così che, forse, si rende straordinario e magico il dono della vita. Veniamo al disco. Tra i brani che preferisco c’è Nel Blu. Mi racconti il featuring con Carmine Tundo e, per restare in tema, “l’essenza” del brano? Carmine Tundo è l’autore del singolo Nel Blu, mentre Aldo si è occupato dell’arrangiamento. Abbiamo collaborato con Carmine perché pensiamo che la sua “essenza” sia complementare e ben coniugata a quella di Mutante. Il brano parla di un amore a “tre punte”, la necessità di possederlo anche se sporcato da un’altra visione parallela della vita. Valentina, tu ti occupi dei testi. Di cosa parla questo album? In “Essenza Perfetta” si analizzano le dinamiche create dai nostri sentimenti, le nostre emozioni e i nostri stati d’animo che entrano in conflitto. Si esplorano quelle situazioni di crisi in cui l’uomo spesso viene a trovarsi e le possibilità che effettivamente si hanno per risolvere questi momenti, accettandoli, trasformandoli costruttivamente, mutando abilmente la realtà in cui a volte si rimane intrappolati. Il mutante interpreta attivamente tutti quanti i ruoli che la vita gli propone, giocando autoironicamente con essa e risolvendo tutto, in ogni caso. Attraverso la musica, questo progetto si prefigge l’obiettivo di spronare al coraggio, all’intelligenza, di esternarle, di utilizzare tutte le armi che si hanno a disposizione e che effettivamente esistono in ognuno di noi. Ognuno di noi ha dentro di sé una scatola nera in cui è racchiusa una forza, che forse non sappiamo di avere. Se tutti provassimo a sforzarci di essere forti davvero, nel momento giusto, riusciremmo a risolvere una serie di problemi che ci sembrerebbero altrimenti insormontabili. Noi pensiamo di non avere le forze giuste per farlo, ma non è così, siamo solo un po’ pigri e questo è proprio il momento in cui invece bisogna reagire. Nei testi c’è un lavoro di ricerca e questa è stata una scelta coraggiosa, anche se inevitabile, alimentata dall’esigenza di invitare l’ascoltatore ad una riflessione introspettiva, volta a stimolare le risposte che sta cercando, che comunque risiedono in lui e stanno aspettando di essere prese in considerazione. Chiara Melendugno


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SOFIA BRUNETTA

L’incontro artistico (e non solo) con Giovanni Ottini aka Sonda e il nuovo disco “Former” Si chiama “Former” il disco con il quale Sofia Brunetta dichiara il suo amore per quelle melodie che fino ad ora ci aveva tenuto nascoste, tutta colpa di Sonda che ha prodotto ma anche arrangiato il disco portando con sé delle inflessioni molto black e funk. Il loro non è un incontro che viaggia solo su sperimentazioni musicali. è qualcosa di più. Insieme hanno prodotto un disco che va come un treno, che viaggia da un binario all’altro senza farti mai sentire un brusco atterraggio, ma solo quel salto nello stomaco che sa di rischio finito alla grande. Sofia Brunetta faceva parte della band rock Lola and the Lovers, nata nel 2008 con una formazione per tre quarti al femminile. Il loro era un sound dalla forte identità rock. Dopo

un’esperienza in Canada, Sofia decide di cimentarsi in un album da solista e sfruttare al massimo la sua voce e il suo background musicale. Sonda (a.k.a. Giovanni Ottini), cresce con l’hip-hop della vecchia scuola e la techno tamarra degli anni ‘90. Fa un po’ di radio in emittenti locali, poi anche lui imbraccia la chitarra elettrica per suonare in giro con vari gruppi rock e diventa un eclettico selezionatore di musica che spazia dall’elettronica al funk, il soul e la disco. Giovanni e Sofia studiano insieme melodie, brani tenuti in soffitta, demo scartate e così nasce “Former”, un disco che porteranno nei loro live durante dicembre e gennaio 2016 in un tour in tutta Italia. Un disco che vale la pena ascoltare.


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Cosa ha portato nella tua vita musicale l’incontro con Sofia/Giovanni? S. Un ampliamento degli orizzonti verso la musica nera, funk, soul, R&B ossia tutto ciò che lui maggiormente suona in vinile. Giovanni è riuscito a tirar fuori delle cose che erano già in me, solo un po’ assopite. G. Quella scintilla utile a riaccendere in me quella voglia di creare e sperimentare che si era forse un po’ assopita negli ultimi anni. E nella tua vita sentimentale? S. La scoperta della complicità nel voler conoscere insieme mondi nuovi, non solo musicali. G. Sorrisi, abbracci, passione, litigate, complicità, consapevolezze, nuove esperienze, passeggiate al mare, pranzi da preparare, letti da rifare e un cane da portare fuori tre volte al giorno. Cos’ hai provato la prima volta che hai ascoltato Former? S. Mi sono sentita come un atleta vincente a fine corsa, avevo chiuso qualcosa che mi aveva dato tante emozioni e tanta fatica, dopo anni di sacrifici e impegno. Former per me rappresenta l’inizio di un ciclo nuovo della mia vita, un vero slancio vitale, un percorso nuovo e inesplorato. G. è assai difficile dirlo visto che ero presente alla posa di ogni singolo tassello del disco, ma quando ho ascoltato per la prima volta i provini casalinghi di Sofia ho avuto subito l’impressione di avere davanti delle ottime canzoni, con uno spiccato senso della melodia e una scrittura matura. Delle canzoni che meritavano di uscire fuori da quel lettore mp3. Avevano solo bisogno di un “vestito” adeguato. C’è un brano che ami particolarmente nell’album? E perché? S. Sì, “Take me somewhere” che è il prossimo singolo in uscita con videoclip al seguito. Parla dello stato di prigionia sia fisico che mentale, della libertà, degli indifesi e degli innocenti. Ho scritto il testo in seguito ad un’esperienza di volontariato in un canile, è stata la miccia che ha acceso mille riflessioni in me. Il brano è un inno alla libertà. G. Più di uno in realtà: “Man” perchè ho scritto un giro di basso che mi piace molto. “Arthur and I” perchè l’ho sottoposta ad un restyling molto pesante, in confronto al demo che Sofia aveva deciso di scartare e che alla fine è piaciuto molto anche a lei. Poi “Low” che è nata mentre eravamo già insieme (in Canada) e sulla quale ho potuto dare sfogo alla mia vena sixties. Quali artisti hanno determinato la tua maturità musicale? S. Ce ne sono alcuni che negli ultimi anni mi hanno decisamente arricchito come: Tame Impala, Unknown Mortal Orchestra, King Krule, Hyatus Kayote, Erikah Badu e tan-

tissimi altri. G. Mi piace pensare che la mia maturità musicale sia iniziata quando ho capito che senza James Brown, George Clinton, Marvin Gaye, Sly Stone, l’hip-hop forse non sarebbe esistito. Quando ho realizzato che la storia del rock è stracolma di mille contaminazioni e schegge impazzite. Ma se vuoi un nome ti dico che la mia vita è cambiata quando a 20 anni ho scoperto João Gilberto. Di quali suoni non puoi fare a meno nelle tue tracce? S. Piani elettrici, organi, e poi non potrei pensare ad un brano nuovo senza i cori e le armonizzazioni vocali. G. Campanacci e clap. Dammi anche un basso e ti faccio un disco intero. Con chi sogni di collaborare? S. Direi con tutti gli artisti che ho elencato prima. G. Uff... troppi! Ieri notte ad esempio sono andato a letto con la fissa di fare un pezzo disco per la voce di Ian Astbury dei Cult. Cosa fanno gli artisti indipendenti che, secondo te, non dovrebbero fare? S. Forse, a volte, molti investono troppo nella produzione e troppo poco nella promozione, che è un aspetto fondamentale. Io ho provato a finanziare questo aspetto con un crowdfunding su Musicraiser ed è andata molto bene. G. Non credo di avere le credenziali per dare dei consigli da addetto ai lavori, parlerò quindi da semplice ascoltatore: considerare ancora i dischi del passato recente come l’unico libretto d’istruzioni per la propria musica. Cosa non faresti mai nella tua carriera? S. Mai dire mai, mai dire talent. G. Sconvolgere un pezzo solo perchè Ian Astubury dei Cult dice che non ci vuole cantare sopra (ahahaha). Presentaci “Former” come se fossi tu a recensirlo e poi... presentaci Giovanni/Sofia. S. “Former” è un caleidoscopio di colori, luci, paesaggi d’aria e d’acqua, una camminata a passo lentissimo ed una corsa frenetica, un un pot-pourri di generi e stili. Giovanni è un dolce nasone sensibile e secchione. G. “Former” è un disco garbatamente pop, un interessante patchwork di stili e sapori musicali diversi che trova il suo filo conduttore nelle melodie e nella voce di questa talentuosa cantante salentina. Sofia Brunetta non ha paura di sperimentare, è una musicista eclettica, la sua scrittura è solida e il suo senso della melodia intenso e mai stucchevole. Ma nulla sarebbero le sue canzoni senza le mani esperte e il lavoro sapiente, raffinato, grondante di stile del produttore Giovanni Ottini. Cos’è sta puzza di incenso? Eleonora L. Moscara


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ROBERTO OTTAVIANO

Un quartetto d’eccezione per il nuovo “Astrolabio” del sassofonista e compositore pugliese Il sassofonista barese Roberto Ottaviano è uno dei più importanti esponenti del jazz pugliese e italiano. Artista prolifico, da oltre 35 anni calca i palchi di festival e rassegne in giro per l’Europa collaborando con alcuni fra i più importanti musicisti americani ed europei. Dopo il fortunato omaggio a Steve Lacy, da poche settimane ha pubblicato “Astrolabio”, nuovo progetto discografico prodotto da Dodicilune e promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record, nel quale è affiancato dal clarinettista Gianluigi Trovesi, dal trombonista Glenn Ferris e dal tubista francese Michel Godard. Il tuo recente Astrolabio prende il nome da un antico strumento che misurava l’altezza apparente degli astri sull’orizzonte. Qual è stata l’ispirazione per la scrittura dei brani originali? Banalmente potrei considerare questo, come si diceva una volta, un album ‘concept’. Il filo conduttore è un soggetto astratto, un cavaliere errante, un ramingo in viaggio alla ricerca di sè stesso attraverso luoghi fisici e luoghi dell’animo. Questa ricerca lo porta, attraverso esperienze concrete, nei posti e nei personaggi incontrati, ad interrogarsi sulla natura della vita e della morte. Strumento per orientarsi in questo viatico è per l’appunto quell’Astrolabio che utilizza nel buio di una notte stellata, come poteva essere secoli fa, ma anche sulla via di antiche mura e monasteri. Quel che ne viene fuori sono piccoli codici, piccole iscrizioni, caratterizzate da un sapore fortemente spirituale.

Il cd presenta una formazione di soli fiati. Siete tutti musicisti che non è enfatico definire straordinari. Il piccolo ensemble è nato per questo progetto o arriva da lontano? La premessa è che non sono mai stato un musicista Jazz ‘tout court’, uno di quelli che per una vita tengono in piedi una idea fissa e ortodossa di formazione solista con ritmica secondo lo stereotipo tradizionale afroamericano. Da una parte invidio questo tipo e probabilmente è un mio limite, debbo invece quotidianamente fare i conti con un appetito ed una curiosità che mi spinge sempre verso tante direzioni. Diciamo che la genesi del quartetto risiede in una formazione per soli strumenti a fiato nata alla fine degli anni ‘80 e che ho tenuto in piedi per un quinquennio circa, i Six Mobiles. Ma debbo aggiungere che l’interesse per questo tipo di sonorità è anche legato alla mia collaborazione con il grande compositore e trombettista austriaco Franz Koglmann. Nel suo gruppo infatti ho avuto modo di apprezzare la combinazione tra ottoni ed ance in bilico costante tra camerismo europeo e slancio ritmico di stampo pre-jazzistico e jazz vero e proprio. Presentando il cd sottolinei che “nel rapporto con Dio, la musica diventa strumento iniziatico e dialogante con il cielo rivestendo un ruolo decisivo e coinvolgente”. Ci spieghi questa definizione? È una dimensione molto intima che però trova riscontro tanto in musicisti neroamericani come Ellington e Coltrane da una parte, così come nelle grandi menti europee da Gesualdo a Messiaen. Non sono un apostolo del materialismo dialettico nè del metodo scientifico, anche se


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riconosco un misterioso stupore nel calcolo e nel segno autosufficiente. Mi sento sempre di utilizzare questi strumenti compositivi dalle regole più o meno codificate con una guida però totalmente spirituale. Non è mia indole scrivere musica ‘di genere’ o priva di motivazione autoreferenziale e quindi quel che scrivo è sempre dettato da memorie recondite, da una presenza esoterica che apre una specie di ‘stargate’ con gli antenati e con un futuro preconizzato in cui forse anche l’essere umano, nella sua fattezza attuale, sarà solo un ricordo. In scaletta ci sono anche anche un brano del sultano ottomano Abdulaziz, il tradizionale Meu Sidi Ibrahim e due pezzi del gruppo prog Gentle Giant. Come si tengono insieme provenienze così diverse? Certo se osserviamo questo materiale con un filtro temporale di tipo orizzontale, il tutto potrebbe sembrare estremamente eclettico e scollato. Se invece immaginiamo il contenuto come una polvere che al contrario attraversa il tempo e si ristruttura in modo solo diverso, fatta di una materia riconoscibile, la grana timbrica dei quattro fiati, il modo caratteristico di ricomporsi come nel gioco di un caleidoscopio, degli attacchi, dei respiri e delle frasi, allora ci rendiamo conto che le fonti potrebbero essere davvero tante. Nello studio dei modelli motivici ed intervallari delle musiche etniche, ad esempio, scopriamo che uno stesso incipit ha viaggiato a lungo dalle regioni dell’estremo nord per poi ritrovarle a diverse latitudini e viceversa. Coltrane ha usato splendide melodie come Greensleves, India, Dhaomey Dance e Olè di provenienza assai diversa, ma tenute insieme da un trattamento che era indubitabilmente tutto suo. Nel lavoro precedente hai dedicato un intenso e articolato tributo a Steve Lacy. Quanto ha influito sul tuo modo di suonare e di comporre? Steve è stato e continua ad essere uno tra i miei maestri indiscussi. Ha influenzato tutto, dalla mia scelta di usare il sax soprano in modo pressochè esclusivo e riconoscere in esso la ‘mia’ voce interiore, alla lucida e implacabile logica del suo modo di scrivere e organizzare il pensiero musicale. Nel frattempo ho esplorato anche altri territori dai quali ho attinto stimoli, informazioni, colori e umori differenti, ad arricchire il mio bagaglio. Però debbo dire

che ancora oggi Steve è per me un gigante ecumenico nel quale riesco a trovare molte risposte ad una filosofia ‘eco-logica’ in grado di far convivere con semplice fluidità il passato arcaico dell’età d’oro del Jazz, quello dei grandi new yorkers degli anni ‘20 e ‘30, insieme a Nichols e Monk, con le aree free afroamericane ed europee, insieme al clima delle avanguardie storiche e della musica d’uso, da Kurt Weil ed Hanns Eisler a Webern. Sei uno dei jazzisti più apprezzati in Italia e nel corso degli anni hai dimostrato una grande versatilità spaziando tra progetti molto diversi. Quale credi sia lo stato della musica jazz oggi in Italia in generale e in Puglia in particolare. Ci sono musicisti, tra le nuove generazioni, con i quali ti piacerebbe collaborare? Il livello delle competenze specifiche è cresciuto enormemente in soli vent’anni. Oggi ci sono saxofonisti che sul piano tecnico e del cosidetto mainstream, non mi vedono neanche. Abbiamo delle punte di diamante se vogliamo identificarle sul piano della velocità esecutiva e muscolare, sintomatologia dei tempi odierni, e che con grande versatilità spaziano tra le atmosfere brasiliane (aimè spesso solo quelle più scontate e prevedibili), un bop da manuale ed un pop tascabile che fa fico insieme al look di cui ci si cura, insieme alle pose fotografiche. Secondo me la musica però risiede altrove, e solo in una piccola percentuale riesco a trovare quell’energia a cercare nuovi spazi, a costruire nuovi scenari, uno spirito che pure era molto vivo tra alcuni che erano giovani negli anni ‘70. Di certo mancano le autentiche figure carismatiche, come per me fu Giorgio Gaslini. A parte alcuni che oggi così giovani non sono più ed hanno mantenuto intatto comunque questo intento, ci sono alcune nuove figure, ora isolate ed ora che provano a ricostruire in forma collettiva quelle antiche vibrazioni. Penso a musicisti come Zeno De Rossi, Paolo Botti, Piero Bittolo Bon, Cristiano Calcagnile, Fabrizio Puglisi, Danilo Gallo, Gabriele Evangelista, Emanuele Parrini, Nico Gori, Enrico Morello, e perchè no i pugliesi Giorgio Vendola, Alberto Parmegiani, Fabrizio Savino, Gaetano Partipilo, Mike Rubini, Livio Minafra. Tra i giovani sarei felice di incontrarne il maggior numero possibile, proprio per capire oltre la loro indiscutibile maestria formale, quali sono le motivazioni che li sostengono oggi.


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Carolina Bubbico Una donna Workin’ Label Pop, Jazz

NEGRAMARO La rivoluzione sta arrivando Sugar Pop / Rock Tutto scorre, direbbero loro, anche il tempo passa, gli anni sono tanti, messi in fila sono più di 10. Per una band pesano di più, tenere insieme tutti e tutto non è semplice. Crescere insieme al pubblico e allo stesso tempo intercettarne di nuovo. Cambiare senza snaturarsi, essere quelli di sempre e quelli che non ti aspetti, evoluzione e rivoluzione. Esplorazione che contempla sempre un ritorno alle origini. La prima impressione che si percepisce ascoltando il disco è quella di muoversi in un universo confortevole. Negli anni la band ha evidentemente costruito un mondo sonoro, un immaginario di sentimenti, una visione poetica e sanguigna. “La rivoluzione sta arrivando” è un disco cosmopolita e ha dentro il movimento che il viaggio pretende, ha cieli e colori diversi, la tradizione

del nostro cantautorato e il suono delle metropoli dall’altra parte del mondo. I Negramaro sono oggi più di ieri la band pop italiana capace di incarnare il senso del tempo in cui viviamo. Insieme a loro la musica cresce, ogni disco è un passo avanti anche per chi ascolta. Tra la massa di epigoni i Negramaro restano l’origine di un modo di scrivere e suonare che è solo loro, riconoscibile al volo. Un disco meno ruvido di altri, rock nell’essenza, pop come pochi sanno fare. Anche per questo album l’immaginario visivo è importante, il concept grafico del disco apre un altro mondo della band e si riverbera nell’ascolto dei brani, nei visual dei live, nell’esperienza globale che è “La rivoluzione sta arrivando”.

Quante cose ci sono in una giovane donna come Carolina Bubbico. Tanti ascolti, incontri, e una ricchezza ancestrale, quella fiammella tra pancia e cuore che si traduce in canzoni. Aggiungi poi al talento musicale una voce con un colore suo e l’incalzante maturità artistica e il risultato è “Una donna”. Un disco che rimanda alla più nobile “musica leggera” quando ancora si usavano le orchestre, gli anni dei grandi arrangiatori, che corteggia il buon vecchio Stevie Wonder, gioca con i beat della nuova black music. La sezione ritmica è affidata a Luca Alemanno (contrabbasso) e Dario Congedo (batteria), suoi abituali compagni di viaggio. L’album ospita Fabrizio Bosso, Raffaele Casarano e Luca Colombo. Non solo canzoni, ma suoni, musicisti, feeling sensuale tra tutte le parti in gioco, una danza corroborante, un canto libero, piccolo inno alla vita. La nuova canzone italiana prende anche queste strade, magari sono un po’ più tortuose e lunghe di quelle che passano per i talent ma sono sicuramente quelle che portano più lontano. Carolina è pronta, ha voglia di correre, ha sete di vita.


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Alessandro Tomaselli Dove andiamo noi niente a che fare YeahJaSì! Brindisi Pop Records Cantautorato

ERICA MOU Tienimi il posto Auand/Artistfirst Cantautorato

PHIL MANZANERA Viva la Taranta Warner World

Le produzioni dal basso hanno bisogno di poco, soprattutto quando promuovono sostanza densa e piena di senso. È il caso della YeahJaSì! Brindisi Pop Records: un’associazione che si autodefinisce “autarchica di volontari”. Pratica ormai in disuso quella guidata esclusivamente dalla passione che in questo caso investe per fortuna Alessandro Tomaselli, cantautore di orgini brindisine che da alcuni anni si è traferito a Berlino. Lo avevamo già notato e apprezzato ai tempi dei “Senza rancore Fran”, band di cui era il frontman. Oggi lo ritroviamo in una versione intima, solo lui e la sua chitarra. Una dimensione ideale per valorizzare la potenza della parola, delle storie vivide e asciutte che racconta, la profondità e il tuffo della sua auscultazione interiore. Appena una manciata di brani senza alcun orpello, come una confessione intima, un’esperienza privata. Quello che resta è una boccata d’aria, l’idea di aver respirato finalmente altro, una visione nuova del mondo e del modo di metterlo in musica.

Ci sono album che sembrano segnare un solco, il passaggio tra il prima e il dopo. Dischi che esprimono il cambiamento. Questo disco di Erica Mou ha dentro questa brezza leggera, un respiro nuovo, una rinascita e allo stesso tempo un ritorno alle origini. Sdoganati i precedenti impegni discografici Erica fa tutto da sola, ritrova la libertà del tempo, della scelta. E sceglie di esporsi, come mai prima, di esplorare la separazione, il distacco. Lo fa con grazia, con “leggerezza” , con un approccio musicale e di scrittura più essenziale. Ogni nota suonata, ogni parola cantata ha il suo peso specifico, il suo posto, la sua funzione emotiva. È un disco sui sensi, sul nutrirsi, sulla capacità di lasciare andare via le cose. C’è sempre un corteggiamento tra gli elementi, l’acqua e l’aria, c’è la materia impalpabile dei ricordi, la ricorrenza delle parole “niente” e “senza”, “scelta” a rimarcare il motore emotivo del disco. Musicalmente si muove con andamento tendenzialmente lento, a sostegno di grandi voli vocali, dei respiri e le screziature emozionate. Quando sceglie di accelerare sembra evocare il trip hop (“Le macchie”), atmosfere jazzy (“Biscotti rotti”), il rock (“Non sapevo mai mentirti”).

Ne ha fatta di strada la Notte della Taranta da Copeland a Manzanera, da Ambrogio Sparagna a Luciano Ligabue. Nel 2015 il tamburello si è fatto rock e si è diffuso in mezzo a noi con uno stile brillante, che prende la tradizione e la allarga non solo ad un pubblico più ampio ma anche a declinazioni diverse del significato originario della pizzica. Alla base c’è sempre Santu Paulu ma adesso si guarda al mondo. Perché se di evoluzione vogliamo parlare, non è possibile trascurare la fusione con altri generi musicali, dall’elettronica alla world music. E per i più coraggiosi c’è anche una versione innovativa di “Certe notti”. “Viva la Taranta” propone la selezione di alcuni dei brani eseguiti a Melpignano il 22 agosto 2015 con la direzione del maestro concertatore Phil Manzanera. Dodici brani dove ritroviamo Ligabue, Paul Simonon, Tony Allen, Anna Phoebe, Raul Rodriguez e Andrea Echeverri accompagnati dall’Orchestra Popolare “La Notte della Taranta”. Ad arricchire il booklet gli scatti realizzati dal fotografo di fama internazionale Uli Weber. Assenti ingiustificate, secondo me, “Aremu rindineddhra” eseguita da Alessandra Caiulo e “Beddhra ci dormi” con il duetto tra Alessia Tondo e Luciano Ligabue. Lucio Lussi


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RAFFAELE CASARANO Medina Tuk Music Jazz

MIRKO SIGNORILE Waiting for you Auand Jazz

PINO MINAFRA MinAfrìc Sud Music Records Jazz/Afro/Improvvisazione

Potere della musica. Anche le più ardite sperimentazioni, se guidate da una forte capacità comunicativa, arrivano e conquistano le orecchie di tutti. È una teoria al principio della radio ed è quello che succede a volte anche alle orecchie arrugginite di rock come le mie. Merito del grande lavoro di sintesi che il sassofonista salentino (direttore artistico del Locomotive Jazz Festival) Raffaele Casarano è riuscito a fare in questo disco uscito per la Tuk Music di Paolo Fresu. Un disco che sa di acqua e aria, svincolato, come le precedenti esperienze, dagli schemi standard, ma fortemente ancorato in questo caso a una cornice melodica importante arricchita dall’ausilio dell’Orchestra sinfonica “Tito Schipa” di Lecce in aggiunta al sestetto di musicisti con lui. Un lavoro cinematico, un viaggio per immagini in paesi sonori lontani ma dal retrogusto familiare. E poi la sua voce: quella del sax come, per la prima volta, quella di Casarano in veste di cantante. Una sensibilità, in entrambi i casi, che trasmette il sentimento che lo approccia alla musica, un soffio carezzevole e allo stesso tempo intenso, un rapporto puramente emotivo con la materia musicale.

«Dopo anni di lavori basati su composizioni originali avevo voglia di tuffarmi nel puro piacere di suonare»: il pianista barese Mirko Signorile racconta così il suo ultimo lavoro discografico. In “Waiting for you”, uscito da poche settimane per la Auand Records e promosso con il sostegno di Puglia Sounds, Signorile - affiancato dal contrabbastista Marco Bardoscia e dal batterista Fabio Accardi, già suoi compagni di viaggio in altri progetti - rilegge alcuni standard (tra i quali “Moon River”, “You And The Night And The Music” e “Voce Abusou” di Jobim) e propone tre inediti (la title track, “Memory Of Tomorrow” e “The Secret”). Quarantunenne, Signorile nel corso degli anni si è esibito con Dave Liebman, Greg Osby, Coung Vu, Enrico Rava, Paolo Fresu, David Binney, Gianluca Petrella, Fabrizio Bosso, Gaetano Partipilo, Roberto Ottaviano, Davide Viterbo, spaziando tra il cinema, il teatro e musicando spettacoli di danza contemporanea. “Waiting for you” completa un 2015 iniziato con “Soundtrack Cinema” (sempre per Auand). Due dischi che rappresentano la maturità artistica di uno dei migliori pianisti jazz in circolazione per estro e sensibilità.

Se non conoscete Pino Minafra andate a cercare la sua biografia, i suoi video, i suoi dischi. Il trombettista e compositore (un tempo si sarebbe detto “istrionico”) è l’ideatore e il direttore artistico del Talos Festival di Ruvo di Puglia. Ma è anche il fondatore di alcuni progetti che hanno fatto e continuano a fare la storia della musica jazz (e non solo) italiana (e non solo). La MinAfrìc Orchestra è uno di questi. Si tratta di un poderoso ensemble che si muove tra jazz, improvvisazione, sonorità mediterranee, bande e ritmi africani. In questo disco (recentemente uscito per Sud Music Records, distribuito da Egea con il sostegno di Puglia Sounds) la Minafrìc incontra il quartetto vocale Faraualla composto da Gabriella Schiavone, Maristella Schiavone, Terry Vallarella e Serena Fortebraccio. Nel disco Minafra senior è affiancato da importanti protagonisti del jazz pugliese, da alcuni musicisti italiani che con Minafra condividono da tempo passioni e progetti e da Minfara junior, il figlio Livio, autore di quattro dei sette brani. Il repertorio è completato da “La danza del Grillo” di Pino Minafra, “Fabula Fabis II“ di Nicola Pisani e “Masciare” di Gabriella Schiavone con arrangiamento di Roberto Ottaviano.


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MIrabassi/Di MODUGNO/ Balducci Amori Sospesi Dodicilune Jazz

AA.VV. Hunger and love - Billie Holiday 1915 - 2015 Dodicilune Jazz Cantante fra le più grandi di tutti i tempi, Billie Holiday (Baltimora, 7 aprile 1915 – New York, 17 luglio 1959) rappresenta ancora oggi un riferimento artistico imprescindibile per tutte le voci femminili che vogliano intraprendere la via del jazz. Nel corso della sua vita, fatta di abissi inenarrabili e vette insuperate, ha saputo come poche cantare l’amore e le dure condizioni degli afroamericani giungendo ad una fama planetaria. A cento anni dalla sua nascita, le sue canzoni toccano ancora le corde dell’anima, restituendoci la sua sensibilità, attraverso il bel tributo “Hunger And Love. Billy Holiday 1915-2015”, pubblicato dall’etichetta salentina Dodicilune e nel quale ventiquattro voci del jazz italiano interpretano alcuni dei principali brani del repertorio di Lady Day, facendo emergere tutti gli aspetti della sua voce, dai toni aspri e duri a quelli morbidi e con-

fidenziali. Si tratta di un omaggio intenso, profondo e nella sua non calligraficità anche appassionato ed appassionante per la qualità eccellente di tutte le riletture. A spiccare in modo particolare sono l’elegante “Eclipse” di Tiziana Ghiglioni con Simone Daclon al pianoforte, i sapori world di “My Old Flame” di Lisa Maroni impreziosita dalla presenza di Baba Sissok (ngoni, tamani), l’impeccabile “You’ve Changed” di Serena Spedicato con la complicità di Antonio Tosques (electric guitar) e Pierluigi Balducci (electric bass), e “The Man I Love” di Rachele Andrioli e Rocco Nigro. Nell’omaggio alla grande Lady Day, “Hunger And Love” offre un eccezionale fotografia del canto jazz in Italia declinato attraverso varie formazioni dal duo al grande ensemble ed arricchita dalla partecipazione di strumentisti straordinari. Salvatore Esposito

Nato dalla collaborazione tra il clarinettista Gabriele Mirabassi, il chitarrista Nando Di Modugno e il bassista Pierluigi Balducci, “Amori Sospesi”, prodotto dalla Dodicilune e sostenuto da Puglia Sounds Record, è un disco coinvolgente ed affascinante, che attraverso i suoi dieci brani compone un suggestivo viaggio sonoro che conduce l’ascoltatore dalla Patagonia a Rio de Janeiro, spaziando attraverso jazz, world music ed echi della tradizione classica. Le trame melodiche di questo eccellente trio ci riportano alla natura reale della musica, luogo dell’anima di incontri e confronti tra popoli e culture differenti, pronta a raccogliere le storie di quanti hanno lasciato la propria terra tra distacchi, attese, ritorni e speranze. Tutto ciò si riflette nel senso di nostalgia e struggimento interiore che pervade il disco sin dalle prime note della title track. Da segnalare la presenza delle voci di Monica Salmaso - nel brano “En a Orilla del Mundo” di Pablo Milenes - e di Cristina Renzetti nell’inedito “Azul”. “Amori sospesi” è un disco tutto da ascoltare lasciandosi trascinare dal dialogo costante tra i tre musicisti. Salvatore Esposito


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ROSAPAEDA Inna Different Stylee Felmay Records World José Barros & Mimmo Epifani Mar da Lua Kurumuny World Music Il chitarrista portoghese José Barros e il mandolinista salentino Mimmo Epifani hanno spesso incrociato i rispettivi percorsi musicali, ora sul palco, ora per comporre brani a quattro mani, tuttavia nella loro lunga collaborazione artistica, le cui radici sono lontane nel tempo, mancava un disco che li vedesse protagonisti fianco a fianco. Qualche tempo fa è nata l’idea di dare forma a questa idea a lungo accarezzata, e così ha preso vita “Mar da Lua”, progetto discografico prodotto da Kurumuny e realizzato con il sostegno di Puglia Sound Record, che sugella la loro frequentazione musicale ma soprattutto pone in luce la grande passione con la quale hanno incrociato gli strumenti e i repertori di Portogallo e Sud Italia. Inciso presso Estúdio da Riberia di José Barros, il disco raccoglie tredici brani tra composizioni originali, brani tradizionali e riletture d’eccezione, che nel loro insieme

disegnano un percorso di convergenza e di incontro tra due culture musicali, quella portoghese con il fascino del fado, e quella del Salento con il ritmo della pizzica pizzica e la profondità dei canti di lavoro e quelli d’amore. Se la struttura dei vari brani si regge essenzialmente sul dialogo tra le corde degli strumenti di Barros ed Epifani, ad impreziosire gli arrangiamenti è una ricca formazione di musicisti e gli ospiti Eugenio Bennato (voce), Joe De Marco (basso acustico) e Elda Salemme (voce solista). Il risultato è un disco pregevole, nel quale si assiste ad una compenetrazione osmotica tra due tradizioni musicali, con gli strumenti a corda di Barros (viola, bragueras, cavquinhos, e voce) che rileggono le melodie del Sud Italia, e quelli di Mimmo (mandolino, mandola e voce) alle prese con la melanconia del fado. Salvatore Esposito

Pioniera del reggae in Italia agli inizi degl’anni Ottanta con i Different Stylee, Rosapaeda, dopo lo scioglimento del gruppo, ha intrapreso un personale percorso di ricerca volto ad esplorare i ritmi e le melodie del Sud Italia, ed in particolare della sua terra, la Puglia, dando vita ad un originale intreccio tra tradizione popolare, dub, e solari ritmi in levare. A distanza di sette anni dall’omaggio a Roberto Murolo “Napoli in Me” e con alle spalle cinque dischi solisti, la ritroviamo con “Inna Different Stylee”, nel quale ha raccolto dieci brani, che nel loro insieme segnano un ritorno alle origini, ai solari ritmi in levare del reggae, senza smarrire però quella matrice popolare dei dischi precedenti. Rosapaeda esplora nuovi sentieri di ricerca sonora, accompagnata da un gruppo di strumentisti eccellenti nel quale spiccano certamente Eddi “Xedrom” Romano (piano, synth) che ha composto diversi brani del disco, oltre a curare gli arrangiamenti, e Dennis Bovell, (chitarra, voce e percussioni), padre del reggae londinese, che ha curato il mixaggio. Quasi fosse un concept album, il disco ruota intorno al tema della donna, cantandone sofferenze e difficoltà, ma anche la loro forza creativa ed innovatrice. (S.E.)


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Officina Zoè Mamma Sirena Anima Mundi Tradizionale Salentina

U’PAPADIA Razza Ommu Cultural Bridge Rock/Folk/World

Nicola Pisani Cypriana Autoprodotto Jazz

“Mamma Sirena” è l’ottavo lavoro in studio dei salentini Officina Zoè. Si tratta di un concept album frutto di una intensa ed accurata ricerca sulle fonti della tradizione orale, operata da Cinzia Marzo che seguendo il tema del mare è andata alla riscoperta di quei canti che lo riguardassero, e dai quali sono emerse leggende di sirene, storie dei pescatori, amori dei marinai e degli avventurieri. Il ritorno alla luce di brani tradizionali e il raffinato lavoro di ricomposizione di frammenti diversi hanno dato vita ad una raccolta di racconti in musica alla ricerca di Afrodite, quella Mamma Sirena caduta nell’oblio e riemersa dalle acque, evocata dall’inconfondibile approccio stilistico di Officina Zoè, dove la tradizione salentina riscopre non solo il suo legame con le radici del passato, ma anche le influenze che l’hanno pervasa ed arricchita. Grande importanza in questo senso acquista anche la scelta della copertina, tratta dal “Missale gelonese” dell’VIII secolo, e delle illustrazioni medioevali del booklet nel quale i testi dei vari brani sono intercalati da citazioni tratte dal romanzo “Il canto delle sirene” di Maria Corti. (S.E.)

Talentuoso percussionista nonché eclettico cantautore, U’Papadia, vanta un lungo percorso artistico e collaborazioni con Nando Citarella, Lucilla Galeazzi, Teresa De Sio ed Ambrogio Sparagna. Dopo il suo debutto discografico come solista con il pungente “La Peronòspera” con circa duecento concerti in tutta Italia - il cantautore salentino torna con “RazzaOmmu” nel quale ha raccolto undici brani che riprendono le tematiche del disco di debutto, ampliandone il raggio d’azione. Se nel primo cd metteva alla berlina l’atteggiamento spesso di impotenza dei salentini anche di fronte alla mercificazione della loro tradizione, questo nuovo lavoro va più a fondo indagando su come il genere umano si sia via via snaturato recludendosi in gabbie ora oscure ora dorate, perdendo del tutto l’empatia. Dal punto di vista prettamente musicale il sound si è fatto senza dubbio più maturo e definito, sfociando in quello che lo stesso U’Papadia ha definito Terra Russa Rock, una originale commistione tra le moderne sonorità del rock e della world music con le trame folk tradizionali che accompagnano i testi cantati ovviamente in salentino. (S.E.)

In occasione delle celebrazioni per il Cinquantesimo anniversario della nascita della Repubblica di Cipro e per ricordare i tragici fatti che ne decretarono l’indipendenza, il sassofonista e compositore pugliese Nicola Pisani ha dato vita al progetto “Cypriana”, complessa quanto affascinante partitura, basata su temi musicali della tradizione cipriota, opportunamente ricontestualizzati in un tessuto sonoro contemporaneo con l’aggiunta di una selezione di testi di poeti greci e ciprioti elaborati in una drammaturgia vocale dall’attrice e regista Maria Luisa Bigai. L’ascolto svela un lavoro di alto spessore musicale nel quale coro, jazz ensemble e strumenti tradizionali, come oud e bouzouki, si incontrano dando vita ad architetture sonore dalla notevole forza evocativa, frutto di una cura meticolosa di ritmo, melodia ed armonia, ma soprattutto di un’alchimia tra le diverse anime artistiche e i talenti che caratterizzano l’ensemble diretto da Pisani. I cinque movimenti, nel loro insieme, mescolano spaccati cantabili, esplosive improvvisazioni e momenti riflessivi di introspezione, componendo un affresco sonoro di grande bellezza nel quale convivono la tradizione cipriota e la musica contemporanea, il jazz delle big band e la letteratura. (S.E.)


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MINISTRI Cultura generale Warner music / Godzilla Market Rock

BAUSTELLE Roma Live! Warner Rock/Pop Non sono un amante dei dischi live, vedo il disco, la sua realizzazione come un processo diverso dalla performance. Prospettive diverse sulle canzoni. Ma i dischi sentono il peso degli anni, non perdono la loro bellezza, ma non si evolvono nella loro crisalide di plastica e cartone. La musica suonata si, invece, in continuazione. Con queste poche convinzioni mi sono approcciato all’ascolto di “Roma Live!” dei Baustelle. Un’antologia dei loro brani vecchi e nuovi registrati nel corso dell’ultimo tour ma in realtà un disco a sé, un disco nuovo. Non fosse altro per la presenza di un’orchestra d’archi, di una sezione fiati, di una super band. Questo cambia tutto, abbatte i muri degli studi di registrazione in cui i dischi sono stati registrati e fa entrare luce e aria. È

interessante poi ascoltare come la band sceglie di fare sintesi di una storia lunga 15 anni, quali brani puntellano, a loro avviso, la lunga discografia. E poi il potere rivelatore di due cover (Leo Ferré e Divine Commedy) e il grande potenziale delle musiche che una canzone può essere. Questo disco è un’immersione, un’apnea con naso e occhi chiusi, solo alle orecchie è concessa la profondità e l’abisso dei Baustelle. Quello fatto di storie dal sapore pasoliniano, vita quasi in versi, immaginario metropolitano capace di esplorare i chiari scuri della nostra generazione. E nella coerenza sonora del progetto queste canzoni non hanno più un tempo, un anno di uscita, ma sembrano un’unica lunga confessione.

Ci sono cose per cui si nutrono aspettative. Cose che speri di ritrovare, cose che non cambieresti. I Ministri sono una di quelle band che ci abituato ad alcuni effetti speciali. Elementi del loro repertorio che negli anni e nei dischi hanno perfezionato e affinato. Fino a farli diventare un congegno esplosivo, un carrarmato rock direbbero i cugini maggiori del Teatro degli Orrori. Marchio di fabbrica della band è sicuramente il tiro, quella tensione fatta di riff e cassa dritta che è pura istigazione alla danza selvaggia, a quello che gli antichi chiamavano “il pogo”. Un’altra forza della band è sicuramente la scrittura che attraverso un immaginario mai didascalico confeziona slogan per una generazione incazzata, delusa e smarrita. Gioventù bruciacchiata che intorno a loro ha creato una comunità. Potere del rock e di una band che ne conserva, come poche ormai, l’attitudine. Questo album rispetto ai precedenti mantiene le aspettative senza però ripetersi. Registrato a Berlino insieme al produttore Gordon Raphael che ha lavorato con gli Strokes (ascoltate bene “Balla quello che c’è”). E poi c’è di più, c’è spazio per l’amaro lirismo “Io sono fatto di neve”. Il tutto graffia, come sempre, e lascia il segno.


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IL TEATRO DEGLI ORRORI Il teatro degli orrori La tempesta Indie Rock

DE GREGORI CANTA DYLAN Amore e furto Caravan/Sony Music Cantautorato

Dimartino Un paese ci vuole Picicca Dischi/Sony Music Cantautorato

Dopo “Dell’impero delle tenebre”, “A sangue freddo” e “Il mondo nuovo”, Il Teatro degli orrori sceglie semplicemente il suo nome per il quarto disco in studio prodotto da La Tempesta. “è il disco da cui ci sentiamo maggiormente rappresentati” sottolinea il frontman Pierpaolo Capovilla. Attualissimi i temi: dalla perdizione dei giovani d’oggi (“Disinteressati e indifferenti”) al “tradimento” di un partito politico (“Il lungo sonno”), dallo scandalo del business psicofarmacologico (“Benzodiazepina”) all’abuso di potere delle forze dell’ordine (“Genova”). Filo conduttore il lavoro, visto non più come nobilitante ma come ladro di tempo prezioso, tanto che l’uomo spera in una rara “giornata al sole”. Una menzione particolare meritano “Slint”, scritta per sostenere la Campagna per l’abolizione della contenzione meccanica promossa dal Forum Salute Mentale e “Una donna”, ispirata alla foto di una ragazza 14enne in fuga dall’Isis. Prosegue dunque la critica aspra della società odierna ma con un obiettivo: ricordare e far riflettere. Perché solo quando ci si renderà davvero conto della tragicità della situazione, si avrà il coraggio di fare qualcosa per cambiarla. Francesca Santoro

Ci sono cantautori che con il passare degli anni, degli album e dei concerti perdono la voglia di fare questo lavoro. Ci sono grandi della musica italiana che hanno abbandonato la carriera (Fossati e Guccini su tutti) sottolineando la mancanza di nuova ispirazione e il tempo ormai passato. Francesco De Gregori, dopo un lungo periodo di appannamento e qualche album poco convincente, ha ripreso il suo cammino. Tanti dischi e tanti live, macinando chilometri in lungo e in largo per la penisola, conquistando palazzetti dello sport, stadi e qualche mese fa l’Arena di Verona per festeggiare i 40 anni dall’uscita di un disco manifesto per una (e forse più) generazione come “Rimmel”. E nel 2015 il cantautore romano ha coronato un altro sogno. Quello di aprire un concerto di Bob Dylan. è successo a Lucca. Dylan il maestro, Dylan l’ispiratore del suo modo di scrivere e di cantare. Quindi non sorprende per nulla il titolo “Amore e furto” scelto per il disco nel quale semplicemente “De Gregori canta Dylan”. O meglio traduce in italiano e canta undici brani. Se tradurre è un po’ tradire, questo disco è la definitiva prova d’amore di un gigante della musica italiana che tanti anni fa inizio nel folk studio di Roma proponendo proprio le canzoni della rivoluzione dylaniana. (Pila)

“Un paese ci vuole”, diceva Pavese, titolo che suggestiona e guida l’ascolto di tutto il disco di Dimartino. Partenze e ritorni, paesaggi nuovi e antichi, un omaggio alla sua terra (la Sicilia) ma allo stesso tempo punto di fuga per declinare il senso di “paese” nelle sua accezioni più metaforiche. Un album che conferma e che mette a fuoco definitivamente una penna fulgida, che assesta la costruzione musicale elegante e cesella le orchestrazioni pop che hanno qualcosa di “classico” e che mancavano da un po’ alla nostra canzone. Un sapore “vintage” non vezzoso anima le canzoni costruite comunque con una grammatica nuova e intrigante, questa comunione funziona e conferisce una personalità immediatamente riconoscibile alla sua musica. Un nuovo romantico capace di conquistare sempre nuovi “amici”: piccole gemme sono i brani con Francesco Bianconi e Cristina Donà. Ascoltando “Un paese ci vuole” si consolida la personale convinzione che la rivoluzione del cantautorato italiana parte a sud di Roma. Intimo e onirico, piccola raccolta di affreschi campestri, poetica lettura del vivere luoghi del corpo e del cuore.


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SIMONA TOMA

Mi chiamano Ada e sono una casalinga leccese


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“Mi chiamano Ada” è il nuovo romanzo della scrittrice leccese Simona Toma uscito da qualche mese per Sperling & Kupfer. Dopo alcuni libri per “giovani/adulti” – “Da questo libro presto un film” (Mondadori), “Diario semiserio di una teenager disperata” (Mondadori – con lo pseudonimo di Carlotta Fiore) e “Un bacio dall’altra parte del mare” (Giunti) – e la partecipazione in alcune antologie, come Buon Natale rosa shocking (Giunti), l’autrice salentina propone questo romanzo incentrato sulle storie di Addolorata, meglio conosciuta da tutti come Ada, cinquantenne casalinga leccese e della sua famiglia. Come nasce l’idea di questa casalinga leccese? L’idea della casalinga leccese nasce durante la campagna elettorale per le elezioni amministrative del 2012 quando, l’allora candidato e attuale sindaco di Lecce, Paolo Perrone, uscì fuori sul Facebook e altri social network con una sorta di manifesto elettorale in cui si rivolgeva direttamente alla “casalinga leccese”, attribuendo a se stesso, dopo essersi descritto fisicamente, “virtù domestiche” di buon livello. La cosa, come al solito scatenò polemiche e chiacchiere, ma a me sembrò scortese che nessuno cogliesse l’apertura e la disponibilità del sindaco nei confronti della categoria “casalinga leccese” quindi fui, all’improvviso, posseduta dallo spirito di Ada, e cominciai, sul mio blog, un carteggio con “Paolo mio”, così lo chiama lei, in cui gli ponevo domande di natura estremamente pratica perché ad Ada non sembrava vero che qualcuno, finalmente la potesse aiutare nelle piccole cose di ogni giorno… Il sindaco, in persona poi… Il libro ha però, poi, preso tutt’altra direzione. Nel tuo romanzo, anche se a volte in chiave ironica e scanzonata, ci sono però tutti i problemi e le difficoltà di una piccola città del Sud. Compresa quella dose di religiosità che diventa bigottismo. Come mai l’idea di mettere al centro della storia una reliquia santa? La storia tra Ada e Santa Teresina è, innanzitutto, la storia di un’amicizia, poi la storia dell’atteggiamento pratico e concreto che ha Ada anche nei confronti della Chiesa e di Dio e del suo pensiero rispettosamente beffardo verso la Chiesa intesa come istituzione e incarnata nel libro da Don Gaetano. Lo spunto mi è giunto, come sempre inatteso, nel senso che nel mio vagare per la città, scoprii che in una piccola chiesa leccese di periferia sono custodite e venerate le reliquie di Santa Faustina e, quasi contemporaneamente, sulle pagine del Corriere lessi un articolo sul furto, nel milanese, della clavicola di un santo. Le due cose si sono magicamente e misteriosamente unite nella mia testa e quindi è venuta fuori la storia di Santa Teresina da Copertino. In realtà, la trama e la struttura del

libro le ho sputate fuori con grande rapidità e pensandoci davvero poco, evidentemente era qualcosa che avevo tra le dita e nel cuore da un po’ di tempo tant’è, come dicono gli scrittori veri, che questo romanzo s’è praticamente scritto da solo! Ada è una donna che ama la sua vita eppure sembra le manchi qualcosa. Adora il suo sindaco ed è felice di incontrarlo (anche se in una situazione “drammatica”). Mi pare di capire che questa intuizione nasca dalla realtà… Sì, l’unico incontro tra Ada e Paolo suo, il tamponamento dell’auto del sindaco ad opera di Ada, nasce da un fatto vero, realmente accaduto nella vita reale, che ho bellamente rubato a una nostra amica che spero continui a volermi bene nonostante il furto. Una domanda (un’altra) stupida. Tu lavori nel cinema e nel corso degli anni hai collaborato con registi e interpreti importanti. Quale sarebbe la tua Ada ideale sul grande schermo? Ti rispondo in maniera secca perché io, nei miei voli pindarici, il cast di Ada ce l’ho, praticamente quasi pronto: Angela Finocchiaro o Carla Signoris! Ti conosciamo e sappiamo che sei una donna inquieta (nel senso buono del termine). Sei già al lavoro sul prossimo libro, leggeremo nuove avventure della casalinga? Grazie per esserti limitato a dire solo inquieta… Io di me direi che, in testa, ho le scimmie che scoppiano i petardi mentre suonano i coperchi delle pentole, per intenderci… L’anno prossimo esce un mio romanzo per bambini per Giunti, come prossima cosa, e, per quanto riguarda Ada, con la casa editrice, abbiamo deciso di riprenderla nel blog e, ti assicuro, è molto strano rimetterci mano e scoprire che è ancora vivissima e con una marea di cose da dire. Nella tua città il libro è stato accolto con grande entusiasmo. C’è una grande attenzione nei tuoi confronti. Qual è il più bel complimento che ti è arrivato fino ad ora? Mi sono state dette solo cose belle, finora, ed è una cosa cui non ero pronta, nel senso che gli altri libri non sono stati accolti con lo steso calore e non hanno avuto da subito le stesse vendite di Ada. Mi piace quando mi dicono che Ada è un personaggio assolutamente familiare, già conosciuto da qualche parte, e mi piace, soprattutto, quando mi dicono che questo libro fa commuovere perché, forse, sono riuscita un po’ a buttare fuori tutte quelle emozioni che ballavano la mazurka nella mia pancia. Io ad Ada la amo proprio. (Pila)


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LUISA RUGGIO

“Notturno” e il potere profondo della scrittura Tra le righe di “Notturno”, si sale a bordo di un treno in corsa che percorre la storia di due strani amanti, un intreccio, un incontro fortuito su un blog dove leggersi, è l’unico modo per giungere a destinazione, l’unico modo per guardarsi negli occhi. Si racconta la storia di una distanza accorciata e resa lieve dalla scrittura, di una musica creata dall’alchimia tra due persone lontane geograficamente ma vicine nell’animo. Con “Notturno” Luisa Ruggio torna a far parlare di sé, mai tradendo quell’attenzione che il pubblico le ha sempre dato, meritatamente. Lei è scrittrice e giornalista e ha esordito nel 2006 con il suo primo libro “Afra” aggiudicandosi ben 5 premi

letterari, ha inoltre pubblicato diversi saggi sul cinema e la psicoanalisi e altri tre libri: “Teresa Manara” nel 2014, “La nuca” nel 2008, e la raccolta di racconti brevi “Senza storie”. Con la sua ultima opera Luisa affronta di petto delle grandi verità: il profondo potere della scrittura, quello doloroso della distanza e della separazione, la gioia dell’immaginazione e quella magica di trovarsi senza vedersi, ma leggendosi l’un l’altro e l’uno dentro l’altro. Punti di contatto che sono “Traversate oceaniche in mari di carta. Lettere” nelle quali si racchiude una realtà parallela dove, i due protagonisti, non vengono sfiorati da null’altro che sé stessi e vagano in un giardino impossibi-


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le dove sono importanti poche cose come parlare della pioggia, di canzoni, dialoghi di film, di un Notturno. Jul ha da poco superato i quaranta e durante la notte posta sul suo blog un racconto a puntate ispirato ai Cinque Notturni di Satie. Lyda, una pianista mancata che vive in una terra di frontiera, inizia a leggere il suo racconto e gli scrive. Inizia così un dialogo intenso, i Cinque Notturni di Satie scandiscono la rieducazione sentimentale ed erotica di Jul e Lyda. Insieme rimetteranno in discussione tutto ciò che credevano immutabile nelle loro vite. Durante la notte prendono corpo i pensieri e sembra sia “più agevole perseguire un folle traguardo, (...) riuscire a sentirsi come quelli che sono innamorati. Io ho sempre invidiato gli innamorati cronici: senza l’intralcio di un talento particolare, molto spesso senza alcuna sensibilità, sono improvvisamente al centro del Tempo, scollati da tutti gli altri”. Perché “Notturno”? Cosa è la notte per te? Nottetempo, senza essere compositori, né particolarmente dotati, ci consegniamo. Usciamo dal tempo, come quando ci innamoriamo. Finiamo col partecipare alla stesura infinita dell’ipotetico dialogo tra l’uomo col cappello e la donna col vestito rosso nel quadro più noto di Hopper: Nighthawks. Prima o poi capita a chiunque di chiedersi che diavolo si stanno dicendo quei due. Anche i protagonisti del mio romanzo credono che i Notturni di Satie siano tutti quei dialoghi immaginari ed impossibili messi in musica. Lyda, la protagonista di questa storia, è una pianista mancata che ama leggere e suonare principalmente di notte, finché non incontra uno sconosciuto, Jul, che la rieduca all’ascolto e inizia a comporre con lei un altro tipo di musica a quattro mani, una musica senza note. Uno sconfinamento. La notte per me è un varco, un accesso a questo sconfinamento. Da sempre, da quando ero piccola e restavo sveglia a leggere le favole illustrate. Anche Luisa Ruggio ha scritto per diverso tempo i suoi pensieri in un blog dal titolo “Dentro Luisa”. I suoi post hanno scandito la sua vita e quella delle persone che l’hanno circondata. Il blog era l’incantevole mondo di Luisa e di tutti coloro che l’hanno conosciuta, “era” il blog perché “Blogs.it” ha annunciato la chiusura della piattaforma e la conseguente cancellazione degli archivi dei blogs a Dicembre 2015. “Piccoli pianeti pronti a svanire in seguito ad un’era glaciale”. Scrive nel suo ultimo post.

Cosa rappresenta nella tua vita questo romanzo? Un tentativo di dire qualcosa di urgente, caldo di vita, usando l’ultimo gettone nell’ultima cabina telefonica del mondo. Un modo per continuare a imparare a dire addio, il mio barbarico messaggio in segreteria lasciato a chi lo troverà. Quattro anni, tanto è durata la stesura di “Notturno”. In quattro anni la vita può cambiare discorso milioni di volte. Pensa a quello che ti è accaduto negli ultimi quattro anni e dimmi se ognuno di noi non ha un mucchio di vite precedenti già vivendone una sola. L’incontro tra Jul e Lyda nasce dall’ignoto e cresce nella lettura l’uno dell’altro, e l’uno dentro l’altro. è questa la tua idea dell’amore? Lyda e Jul sono due adulti pericolosamente vivi, pur subendo le conseguenze della precarietà che caratterizza la vita contemporanea, continuano a proteggere il loro immaginario, che genera mondi molto al di sopra dei loro mezzi. Lui è un traduttore tedesco, un povero favolista che non riesce a tenere insieme il mese ed è costretto a dividere con due studentesse Erasmus, un appartamento a Firenze. Lei lavora in una redazione di provincia, in una terra di frontiera che non nomina mai. Si incontrano attraverso le parole, iniziano a scriversi, a leggersi, ponendo lentamente rimedio ad un analfabetismo di cui spesso le coppie sono affette, il loro rapporto è un processo di rivelazione. La mia idea dell’amore: uno stato di grazia che sfiora le nostre vite e di colpo ci rende vulnerabili, finalmente incarnati, assolutamente presenti. Cosa significa per te raccontare una storia? Vuol dire resistere, in quanto essere umano, al mattatoio del tempo che tutto macina e trascina. Raccontare una storia è un gesto così antico, così potente, che è la prima cosa che impariamo a chiedere dopo aver assimilato per osmosi le necessità primarie: mangiare, bere, dormire. Poi, dopo il pane, l’acqua, il sogno, chiediamo: Raccontami una storia. Riusciresti a recensire il tuo libro in poche parole? “Notturno” è... Notturno è il luogo dove finiamo tutti quanti, ogni volta che nel bel mezzo di una conversazione pensiamo a quel che sembrava sul punto di compiersi, che non è mai accaduto, e di cui abbiamo nostalgia. Eleonora L. Moscara


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FULVIO COLUCCI La zattera propone sei storie da “call center” e racconta il nostro perenne senso di precarietà Giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, vincitore del Premio Ilaria Alpi nel 1995 e di altri riconoscimenti, autore di “Invisibili. Vivere e morire all’Ilva” (Kurumuny, 2011) e di “Libertè” (Il Grillo Editore, 2012), un racconto sulla Tendopoli di Manduria illustrato dalle fotografie di Roberta Trani, il tarantino Fulvio Colucci torna alla narrativa con “La Zattera” (Il grillo editore). Sei storie di call center che l’autore sta portando in giro in tutta Italia tra incontri con il pubblico e interventi in radio e tv. Da molti anni ti occupi di lavoro e, nella tua Taranto, di Ilva. Questa volta hai deciso di dedicare un libro ai lavoratori di un call center. Come mai? Il tema dei call center è conosciuto da tempo e da tempo è ‘frequentato’ sia nell’ambito dell’inchiesta giornalistica sia in quello narrativo. Non c’era bisogno di un nuovo libro, insomma. Ma l’idea di indagare le condizioni di lavoro e di vita di sei operatori del call center Teleperformance di Taranto – cinque donne e un uomo -, il più grande con i suoi tremila addetti, è nata da un’esigenza particolare, riflettendo con la Cgil e il sindacato di categoria Slc: rivelare l’intreccio fra precarietà e ricatto occupazionale e le sue ricadute sulla persona (dalla battaglia in difesa della dignità al tecnostress). La precarietà sta nel lavoro alla cuffia e nell’assenza o nel progressivo assottigliarsi dei diritti. Il ricatto occupazionale è connaturato a Taranto, come insegna la vicenda Ilva. Teleperformance è la seconda realtà lavorativa dopo il siderurgico. Con la crisi dell’acciaio resta l’unica alternativa e, per troppi,

l’unica speranza. Ci lavorano prevalentemente mogli di operai; quando nacque si integrava perfettamente nel sistema industriale, permetteva – permette ancora – alle famiglie di buona parte delle maestranze siderurgiche di vivere con due stipendi. Erano i primi anni 2000, gli anni della “Taranto da bere” poi finiti con la dichiarazione di dissesto del Comune. E in tribunale si è finiti anche per il disastro ambientale dell’Ilva, guarda caso. Il call center di Taranto è a un passo dalla zona industriale. I luoghi diventano simboli non casualmente. Le persone sono esse stesse simbolo e formidabile punto di domanda. La notte di Natale del 1968 papa Paolo VI arriva all’Ilva e chiede agli operai: ‘Chi siete voi?’ Senza paragoni irriverenti me lo sono chiesto anch’io girando la domanda ai lavoratori del call center: chi siete voi? Chi siete voi soprattutto oggi che la tempesta della crisi vi costringe a questo drammatico beccheggiare su una ‘zattera’. La zattera è la metafora della situazione lavorativa e sociale di una generazione. Gli under 40 (ma non solo) sono davvero alla deriva in mezzo al mare? Sì, sulla ‘zattera’ ci siamo tutti in realtà. Perché, com’era inevitabile, il senso di precarietà investe ormai anche i meno giovani, quelli che dovrebbero essere ‘garantiti’. Credo, anzi, che la precarietà travolga ormai anche chi ‘garantito’ lo è davvero. Mentre si alzano sempre più le onde della crisi, non si sfugge, non si sfugge alla globalizzazione, alla trasformazione in merce del lavoro, alla perdita di dignità umana. Prima o poi tocca a tutti. Una delle storie del libro narra di una giovane dipendente del


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call center che prova pena e rabbia a veder trattata male, dal solito supervisore, una collega dell’età della madre. Sempre quella storia insegna la beffa del ‘Jobs act’, la mancata applicazione della nuova legge sulle tutele crescenti ai lavoratori assunti con contratto a progetto nei call center. Il sogno della stabilizzazione sfumato all’ultimo miglio, malgrado la propaganda del governo con i suoi furiosi cinguettii via Twitter. Il libro prova a spiegare addirittura un paradosso. Lo sottolinea il segretario generale della Cgil Susanna Camusso nella prefazione: il lavoro al call center, malgrado la precarietà, è diventata certezza sulla quale costruire famiglie o coltivare sogni. È l’altra faccia del ricatto occupazionale, quella che ti sorride e dice: ce la puoi fare. Pensare che in tanti hanno iniziato quasi per gioco, per pagare le tasse all’università, per una scommessa con gli amici. Come hai scelto le sei storie incluse nel libro? Ho cercato di indagare la condizione umana dei lavoratori, optando per storie comuni ed emblematiche. L’immigrata, la moglie dell’operaio Ilva, la precaria, perché un migliaio di lavoratori di Teleperformance è assunto a progetto; la ragazza del Sud tornata col suo bagaglio di studi e di voglia di riscatto da Roma, la madre di tre figli rimasta sola e che deve lavorare per mantenerli. Storie femminili perché, lo dicevo prima, la maggioranza dei lavoratori del call center tarantino sono donne. Storie femminili perché le donne sanno raccontarsi e raccontare meglio degli uomini, soprattutto la condizione lavorativa. Per una questione di coraggio. Solo un ragazzo narra della sua passione per il canto lirico coltivata grazie allo stipendio del call center. Ed è emozionante il suo far comprendere ai lettori come un lavoro così stressante possa produrre

una gioia così profonda. Paradosso nel paradosso. La zattera non è un’inchiesta ma ci va molto vicino. Credi che la narrativa sia più potente e incisiva della scrittura giornalistica per raccontare il “paese reale”? La narrativa è diventata scrittura più potente e incisiva per una certa latitanza del giornalismo d’inchiesta, paradossalmente ieri più di oggi. Una sorta di coscrizione obbligatoria. Potrei rispondere così, conformisticamente. Invece no. Perché l’inchiesta giornalistica c’è sempre stata pur tra mille difficoltà, carenze, buchi neri. Diciamo, però, che in Italia per dire verità devi romanzarle. È una questione di geni letterari e civili che ci portiamo dentro. L’italiano non vuol sentirsi dire la verità nuda e cruda. Abbiamo sempre bisogno di affogarla nel verosimile, mitigando l’indagine, svaligiando il negozio delle metafore, delle allegorie, delle allusioni, dei rimandi. Sarà la “sindrome del Manzoni”, non so. Quella che emerge, secondo te, è una generazione senza speranza? La speranza è una parola che lascio ai politici. Alla generazione dei call center, a chi sta sulla ‘zattera’ – anche io ci sono sia chiaro – affido il mio libro come testimonianza, racconto, il più possibile fedele, di questi anni profughi, transitori e insieme definitivi. Perché è arrivato il momento in cui non si può più rifiutare di scegliere da che parte stare, se con gli sfruttatori o con gli sfruttati. “La zattera” è quasi un sussulto ‘neoverista’. Perché la narrazione, la cultura in generale, siano arma di difesa consapevole della dignità umana e di attacco a tutto ciò che la mette in pericolo. E da questo punto di vista siamo tutti in pericolo. (pila)


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TOBIA D’ONOFRIO

Passato , presente e futuro dei rave party Qual è stata l’ultima controcultura? Come mai dopo la stagione dei rave non si è più affermata una nuova spinta creativa capace di unire migliaia di persone? Nata negli anni novanta in Gran Bretagna, con un piede nei club e l’altro nell’era cyberpunk, la scena dei rave e del movimento free tekno è stata un’avventura che ha forgiato nei suoi circuiti underground generi musicali innovativi, come hardcore, gabber, jungle, drum’n’bass, grime, dubstep. Nonostante la natura utopica, questo immaginario pirata ha avuto un impatto sulla società tutt’altro che astratto: dalle origini fino agli anni zero si è concretizzato in un crogiolo di istanze politico-esistenziali, unendo spesso trasversalmente, in una danza collettiva, sognatori di comunità liberate, sperimentazione elettronica, lotte per i diritti dei gay ed esperienze dei controvertici. Parliamo di questo e molto altro con Tobia D’Onofrio, giornalista salentino, collaboratore anche di Xl di Repubblica, che ha pubblicato da poco “Rave New World” (Agenzia X). Partiamo dall’inizio. Che cos’è un rave? A questa mi piacerebbe rispondere con le parole di Astrid Fontaine e Caroline Fontana che cito nel libro: “Il rave nella sua essenza è rottura, gioco, trascendenza. Il rave è una festa-transe, un’esperienza di sacro-selvaggio. [...] Nel cuore della festa si ricrea il legame sociale. All’interno di una folla eterogenea la festa fa rinascere un accordo, una

solidarietà, un valore comune. Essa si oppone all’indifferenza della massa, all’esperienza quotidiana della solitudine dell’uomo che si nega fino a non esistere più. [...] I raver non hanno un Dio comune, sono soli nel loro delirio, soli nella loro transe, anche se essa è collettiva. Ma le loro esperienze sono abbastanza vicine da sentirsi insieme, in accordo, da poter scambiarsi, essere presenti gli uni agli altri, senza parlare, durante la festa. […] Di fronte a un malessere sociale diffuso, la cui causa non è identificabile, il rave veicola per molti la fede in un’altra realtà possibile, spirituale o non. La festa risponde in questo senso a un eccesso di energia di cui l’uomo dispone, un eccesso di energia che lo sommerge in alcuni momenti facendo scoppiare il quadro sociale e culturale”. Come nasce l’idea di scrivere il libro? Da qualche anno mi girava in testa un articolo che raccontava l’esplosione del movimento rave a livello internazionale e l’incontro/scontro con l’universo dei centri sociali italiani. Poi ho conosciuto Marco Philopat di Agenzia X e ho capito che potevo scrivere un libro. Che ruolo ha avuto il Salento nello sviluppo del movimento dei rave? Diciamo nessuno, a parte il fatto che i Tekno Mobil Squad, una delle prime crew italiane tekno, erano per metà sa-


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La riscoperta della pizzica a metà anni ’90 si è innestata proprio su questo terreno artisticamente molto fertile, e tali dinamiche sono spiegate esaustivamente all’interno del mio libro. Raccontaci una storia degna di attenzione. Nel 1998, quando mi trasferii a Londra, all’interno di un rave illegale mi sono imbattuto in un banchetto informativo sulle droghe. C’erano volantini dettagliati per ogni sostanza in cui venivano spiegate caratteristiche, precauzioni d’uso, controindicazioni e interazioni con altre droghe e una ragazza offriva persino un test gratuito delle pasticche di ecstasy con delle strane cartine al tornasole che ne verificavano il contenuto. Mi sembrava roba da folletti. Tempo dopo capii che era prassi abbastanza ordinaria in Inghilterra, ma anche in Olanda, per non parlare della Francia, e così via. In Italia invece no. Gli unici che in tempi non sospetti (e in ambito illegale) hanno offerto un servizio di riduzione del danno sono stati i ragazzi del Lab57, al Livello57 di Bologna. Da qualche anno ormai alcune associazioni hanno iniziato a muoversi grazie alle regolamentazioni della comunità europea. Possono effettuare assistenza sanitaria, informare con volantini esplicativi, ma ancora, in Italia, non possono effettuare liberamente i test. Ti rendi conto? Sono passati vent’anni, ma qui siamo particolarmente retrogradi e ignoranti in materia: poi però inorridiamo quando accadono tragedie come quella di quest’estate al Cocoricò…

lentini. A Lecce, nel 1995, Matteo metteva dischi techno al centro sociale Stazione Ippica. Qualche anno dopo avrebbe organizzato feste al Livello 57 a Bologna. Bisognerebbe chiedere, al contrario, che ruolo ha avuto il movimento dei rave nello sviluppo del Salento. I rave e poi i teknival sono arrivati a fine anni ’90 e in realtà non hanno cambiato più di tanto la realtà salentina, perché all’epoca si organizzavano già imponenti dance-hall illegali, anche se la musica era differente. La cultura delle feste illegali, ovvero delle “occupazioni” musicali che duravano per giorni, era già ben radicata in Salento, anche se oggi sono in pochi a ricordarsene. Oltretutto lo stesso DJ War iniziò a suonare musica jungle subito dopo la fuoriuscita dai Sud Sound System, a metà anni ‘90. In Salento, come a Londra, la cultura rave ha quindi pagato il suo debito nei confronti della cultura giamaicana. Oggi invece niente più dance-hall né rave, tutto è incanalato principalmente in eventi legali. Una solida eredità sopravvive, quindi, anche se la repressione è forte. Ma il legame più profondo del nostro territorio con la scena rave fu scoperto nei primi anni ’90 da due docenti universitari, Piero Fumarola e George Lapassade, che contribuirono a sciogliere i legami più arcani tra la pizzica tradizionale salentina, il taranta-muffin autoctono dei Sud Sound System e la transe estatica dei rave. Furono proprio loro ad inventare il termine techno-pizzica e a lanciare band come i Nidi D’Arac.

Quale eredità musicale e sociale ci ha lasciato la scena dei rave? A livello musicale l’eredità è enorme: pensa a quanto la musica dance ormai influenzi il pop, l’hip-hop e tutto l’indie rock, a partire dall’underground più oscuro; e pensa a tutti i festival rock odierni, che da un certo orario in poi si trasformano praticamente in superclub. A livello sociale, invece, la cultura rave ha stravolto il modo di pensare e di agire di molti: tra le tifoserie degli hooligan inglesi, nei centri sociali italiani, tra gli attivisti di social forum internazionali; ha addirittura modificato l’assetto di quartieri e città e nel libro si racconta di Ostia. Oggi l’utenza che frequentava i rave negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 è stata comunque assorbita dai numerosi bar, club e locali sparsi un po’ per tutta l’Europa in cui si consuma liberamente il rito dionisiaco. Ma il rave illegale in senso stretto torna e ritorna ciclicamente. L’artista inglese Burial qualche anno fa parlava nostalgicamente dei rave che non aveva vissuto in prima persona per motivi anagrafici. Oggi gli italiani Aucan ammettono di essere influenzati dalla scena rave. Probabilmente ai più sfugge la percezione di quanto questo movimento sia stato e sia ancora importante. “Rave New World” racconta le ramificazioni e le implicazioni di una scena rivoluzionaria che ormai si è spinta fino in Palestina. Ennio Ciotta


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LIRIO ABBATE

Il giornalista siciliano a Lecce per raccontare e ripercorrere l’assurda storia di Mafia Capitale


Inviato de “l’Espresso”, autore di numerose inchieste giornalistiche sulle mafie e sulle collusioni dei politici con i boss, Lirio Abbate negli ultimi vent’anni si è occupato dei principali scandali italiani su criminalità organizzata, tangenti e corruzione. Nel 2012 con un’inchiesta giornalistica ha svelato, due anni prima dell’azione giudiziaria, la presenza di “Mafia Capitale”. A novembre - due giorni dopo l’apertura del processo - è stato tra gli speaker del TedxLecce e ha presentato “I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia Capitale” scritto a quattro mani con il giornalista del Fatto Quotidiano Marco Lillo e pubblicato da Chiarelettere. Partiamo da una data: 30 novembre 2014, Massimo Carminati viene arrestato due anni dopo la pubblicazione sull’Espresso dell’inchiesta giornalistica “I quattro re di Roma”. Nel dicembre 2012, in contemporanea con l’uscita dell’articolo, le intercettazioni svelano che avevi destato l’attenzione del ‘Cecato’, che ti ha insultato e minacciato parlando al telefono con un terzo interlocutore. Cosa ha rappresentato per te essere oggetto delle intimidazioni di un esponente di spicco della malavita romana ed essere costretto a vivere sotto scorta per tutto questo tempo? Una cosa in particolare mi è venuta subito in mente: quello che avevo raccontato e scritto aveva centrato in pieno le persone di cui mi ero occupato, vuol dire che sono state effettivamente colpite e che ho fatto un buon lavoro. Se un esponente come Massimo Carminati si inalbera – come si racconta nelle intercettazioni – ed è molto adirato, mi cerca, mi fa cercare (sicuramente non per parlarmi ma per fare altro), è perché ha voluto “mettermi un freno”, come si dice nelle registrazioni. Significa che siamo sulla buona strada facendo un’informazione di questo genere, e penso che anche gli altri devono continuare a fare queste cose. In questo modo si può togliere l’acqua a questi pesci che continuano a nuotare in un mare infangato e criminale. L’organizzazione internazionale Index on Censorship ti ha incluso quest’anno tra le quattro maggiori personalità su base mondiale che combattono per la libertà di espressione. Quali ostacoli incontra la libertà di raccontare la realtà quando questa è sconosciuta, poiché celata, ai cittadini? Quest’organizzazione che ha sede a Londra, guardando quel che si verificava intorno a me, si è accorta che in un Paese occidentale come l’Italia forse non si è tanto liberi di raccontare certe realtà criminali. Se il criminale ti cerca, ti minaccia o fa altro, vuol dire che c’è qualche limitazione alla libertà di espressione. Ma la libera espressione deve essere fatta anche da direttori più coraggiosi, più capaci di affrontare determinate realtà a prescindere dalla pre-

senza o no di un avviso di garanzia per le persone di cui un giornalista si occupa. Abbiamo dimostrato sull’Espresso che le storie documentate hanno un riscontro anche senza la presenza di un provvedimento giudiziario. La correità di una gran parte della società civile romana e la vicinanza anche di suoi esponenti di spicco alle trame di Mafia Capitale, attraverso sistemi di protezione del malaffare che in altre regioni d’Italia sarebbero stati velocemente identificati come “omertosi” e “collusi con la mafia”, conferisce alla tua azione una portata quasi rivoluzionaria. Il rispetto delle leggi è diventato appannaggio di pochi utopisti e non organici al “sistema”? È una questione di mentalità, di cultura, di ambiente in cui si vive. Alla presenza di una mentalità diversa, con una cultura diversa, si può avere un rispetto delle leggi che porti a diminuire la corruzione e il potere delle organizzazioni criminali. Gli strumenti principali della mafia Capitale non erano le armi, ma i soldi; non gli omicidi e i delitti, ma le tangenti e la corruzione. Una mafia che non sparge sangue, però, resta pur sempre tale. Per quali vie e in quali rami della società italiana – e romana, nella fattispecie – la mafia ha provato e prova a costruire il proprio “mondo di mezzo”? In tutti i rami. Il mondo di mezzo è quello di Carminati, che riesce ad avere collegamenti col mondo di sopra: professionisti, burocrazia, politici, persone che non vogliono incontrare il mondo di sotto. Anzi, si pretendono cose illegali per la cui realizzazione c’è bisogno di interpellare questo mondo di sotto, con cui si interfaccia solamente Carminati. Cosa è necessario fare per riprendere il controllo sul territorio della Capitale e invertire una tendenza che induce a identificare atteggiamenti mafiosi come parte della vita normale e quotidiana della città? Guardare le cose da un’ottica diversa, in maniera diversa da come è stato fatto fino ad oggi: pensare non soltanto al fattore corruzione quindi, ma anche alle cose che vanno più verso l’evidenza di una struttura criminale organizzata e che mette radici in un territorio, mette le mani nella politica, inquina l’economia legale, fa l’imprenditoria in un certo modo. Bisogna guardare tutto in maniera più unitaria. Soltanto in questo modo si può cambiare il volto di una città e ottenere di più nelle cose che ai cittadini spettano di diritto, quelle per cui non ci dovrebbe essere bisogno di chiedere. I romani non devono fare appello al favore per ottenere autorizzazioni e servizi, tutte cose che invece portavano a interpellare l’intervento del “facilitatore” Carminati. Federico Plantera

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Francesco De GiorgI I bassisti muoiono giovani Musicaos Editore Romanzo LAURA RIZZO Canzoni a manovella Arcana Saggio Ti capita tra le mani quella vecchia scatola che non aprivi da anni. Tra gli oggetti che ritrovi si accendono i ricordi: persone, luoghi. È un attimo e stai volando a ritroso nella memoria, ma appena fissi la rotta, scopri di essere entrato in un mondo ai più nascosto, sotto il fondo di quel raccoglitore. “Canzoni a manovella”, pubblicato da Arcana a 15 anni esatti dall’uscita dell’omonimo album di Vinicio Capossela, è il frutto del lavoro certosino e appassionato di Laura Rizzo, affiancata dallo stesso cantautore nella veste di curatore. Per chi ha amato il disco, questo libro è un viaggio nella genealogia e nella genialità di uno dei lavori più belli e riusciti di Vinicio. Per chi ne ha solo sentito parlare o conosce appena qualcuno dei brani è un’esplorazione carica di meraviglia e un irresistibile invito all’ascolto.Nelle prime pagine si intrecciano le strade lungo le quali Capossela ha costruito, negli anni,

la sua opera. I libri, i quadri, i viaggi e i vagabondaggi che hanno ispirato le canzoni: da Céline a Chagall, dal Baltico ai Balcani, dai vecchi strumenti meccanici conservati in un museo di Ravenna, ai tram di Milano. Poi si passa al racconto della nascita del disco: la scrittura, la registrazione, il mixaggio: parlano l’arrangiatore, i musicisti, il produttore e nei loro aneddoti sui violini volanti, la chitarra sirena o gli ottoni marini, traspare la quasi magia con cui sono riusciti a dare un suono alle visioni musicali di Capossela, vere e proprie coliche dell’immaginazione. Ma è nella descrizione delle 17 tracce dell’album che il libro fa esplodere la sua carica: pianoforti animati, marinai in bottiglia, aerostati. Ecco come tutti i tasselli raccolti hanno dato forma alle canzoni: dal colpo di cannone al sipario. Krazny

Non sparate sul pianista ma sul contrabbassista. Sparatorie a parte, questo romanzo narra della reunion di una band: i Plettrofolle. Nessun convento di suore da salvare, bensì il sogno nel cassetto del salentino Giorgio Mestrelli che, dopo aver fatto fortuna a Torino come critico musicale, per una serie di circostanze che (classico!) girano intorno ad una donna, decide di tornare nel suo paese, Matino, per incidere un disco. Appena giunto, Giorgio è investito dai cambiamenti e il sogno sembra prossimo all’aborto. Ma basta qualche birra perché la band ritrovi l’intesa. Alla storia, si accavallano i testi delle canzoni del gruppo, solo leggendole, dal sapore un po’ stoner. Un intreccio che va a fare da tappeto ai ricordi e alle sentenze di Giorgio: dai gestori dei locali, alla politica, ai “senza vergogna”, summa di tutte le frustrazioni del protagonista. Un romanzo che è quasi un concept album per De Giorgi: sfogliandolo al posto della classica suddivisione per capitoli, c’è una tracklist in cui ad ogni traccia corrisponde il verso di una canzone, dai Baustelle a Lucio Dalla. Consigliato con cuffie e birra ghiacciata. E se avete suonato in una band, sarete devastati dai ricordi. Federica Nastasia


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Massimiliano Mazzotta The King Lupo Editore Romanzo

CRISTANTE - CREMONESINI La parte cattiva dell’Italia Mimesis Saggio

VERONICA NOTARO Sogni Pizzicati YouCanPrint Romanzo

Il titolo lascia poco spazio all’immaginazione. Signore e signori, va in scena il Re! Voliamo negli Stati Uniti, precisamente a Springrace, Louisiana, dove in un bar scalcinato avviene l’incontro tra il giovane Vernon e uno strano personaggio dal nome insolito: Nora Lives. Ad accomunarli, una passione smodata per Elvis Presley che li porterà ad intraprendere insieme un viaggio. La meta? Memphis, naturalmente! Ma si sa, il piacere è tutto nella strada percorsa: i due, su una splendida Pantera gialla del ’71, si ritroveranno immersi in una serie di rocambolesche avventure, lasciando il segno su una strada che attraversa ben tre Stati. Nora e Vernon, tra una battuta e l’altra, supereranno il gap generazionale, arrivando ad affezionarsi l’uno a l’altra, spalleggiandosi anche tra risse e notti brave. Tutto il romanzo gira intorno al sospetto, palese sin dalle prime pagine, che il vecchio abbia trascorso buona parte della propria vita a nascondere un passato scomodo, un passato dalle dimensioni “leggendarie”, legato indissolubilmente alla figura di Elvis, la cui ombra sembra a tratti confondersi con quella di Nora. Consigliato in treno, da leggere tutto d’un fiato. Per grandi nostalgici. Federica Nastasia

Cos’è, per la pubblica opinione, il pezzo di Stivale che va dallo stinco all’alluce? Cos’è, per i media, il Mezzogiorno d’Italia? A queste domande risponde il volume “La parte cattiva dell’Italia – Sud, media e immaginario collettivo” (Mimesis), dei sociologi di UniSalento Valentina Cremonesini e Stefano Cristante. Le coordinate di indagine degli autori sono il trentennio che va dal 1980 al 2010, la percezione del Sud di una serie di voci dell’industria culturale meridionale, e l’osservazione dei media e dei prodotti editoriali “mainstream” (Corriere, Repubblica, Tg1, cinema, fiction tv). Il parere degli intervistati, e gli esiti dell’analisi, inducono a identificare un Sud che da portatore di “Questione meridionale” diventa espressione di un più liquido “Fattore M” (emblema di una sorta di rassegnazione all’irrisolvibilità). A condensarlo, il mix di banalizzazione, esotismo e privazione di voce che ha portato - e porta - a raccontare il Sud come un territorio accattivante ma sequestrato dalla cronaca nera alimentata dalle mafie; come uno spazio in cui accadono fenomeni “inspiegabili” (l’inchiesta ridotta a narrazione folcloristica) e dove l’unica boccata di ossigeno è nella meridionalità non ansiogena della trasposizione tv del Montalbano di Camilleri. Giorgio Demetrio

“Sulle pianure del Sud non passa un sogno”, scriveva Vittorio Bodini nella raccolta “La Luna dei Borboni”. Eravamo nel secondo dopoguerra e i sogni erano lontani. Molto lontani. Ma anche a sud è possibile sognare. E da queste parti, molto spesso, i sogni sono agitati, vicinissimi al vero. Pizzicati, appunto. Paolo è il protagonista del romanzo d’esordio di Veronica Notaro, giornalista e blogger salentina. Paolo è un ragazzo milanese con origini salentine. Orfano di madre, vive con il padre, una personalità diversa e contraria alla sua. I sogni, però, sono lì ad attenderlo e si materializzano nelle sembianze di una donna che balla la pizzica. Il ballo lo richiama presto alle sue origini salentine. Una cugina lo contatta e lo invita a recarsi a Lecce, dove i parenti lo attendono. Nel Salento succede qualcosa di inaspettato. I suoi sogni si allontanano dall’inconscio e si avvicinano al reale. Paolo scoprirà la storia di sua madre e conoscerà i lati di se stesso che ha ignorato troppo a lungo. E ad attenderlo c’è anche l’amore. “Ai sogni, indissolubili legami tra essere e volere”. è la dedica del romanzo. Ulteriore conferma per chi avesse ancora dubbi: è un errore non dare retta ai sogni. Lucio Lussi


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NIccolò Ammaniti Anna Einaudi Romanzo

MARCO MISSIROLI Atti osceni in luogho privato Feltrinelli Romanzo

Francesco Bianconi La resurrezione della carne Mondadori Romanzo

Emanciparsi da Niccolò Ammaniti è difficile. Lo seguo da sempre, ho letto quasi tutto e ogni volta, nonostante tutto, mi sorprende. Ho sempre apprezzato l’iperbole incredibile che a un certo punto inforcano le sue storie, l’umanità sbilenca che racconta, le esplosioni di romanticismo. Il suo immaginario pop permutato dal cinema, dai fumetti, dal rock è quasi bulimico, ingurgita tutto e lo riversa in pagina. E infatti fin dalle prime pagine si respirano le ambientazioni di “The walking dead”, la tensione catastrofista de “La strada” di Cormac di McCarthy, la trasposizione della società e le sue dinamiche nell’infanzia come ne “Il signore delle mosche”. Il tutto funziona e sta in piedi alla perfezione come sempre, ma non ha l’energia generatrice solita di Ammaniti, piuttosto ci si riconosce in ambienti già visitati, si rincorre nella memoria il rimando, lo spunto. Resta comunque la penna di un maestro delle storie e degli intrecci. Naturalmente il film sarà una bomba.

Copertina bellissima, titolo ammiccante, autore fico. Tutti elementi respingenti per la categoria di lettori finto snob a cui sento, purtroppo, di appartenere. Siamo quelli che contestano Baricco a priori, giusto per intenderci. Eppure non posso rinunciare alla scoperta, al fascino pop di alcuni titoli, e rimango puntualmente sorpreso. Come da “Atti osceni in luogo privato”. La penna “cangiante” di Missiroli colpisce ancora. Lo fa con un romanzo di formazione sessuale, se così lo si può definire che ha in sé però tanto altro. Il libro è anche un viaggio alla scoperta del cuore di due città, Parigi e Milano, dipinte dall’interno attraverso il subbuglio culturale che le muoveva e le animava. È ancora un omaggio all’universo femminile nelle sue varie declinazioni: la donna madre, quella amante, quella amica. È poi scrittura posata con cura, è misura, è storia e documentazione, racconto fedele di un paese, anzi due. Infine Marco Missiroli ha il dono raro di scrivere storie capaci di affascinare tutti, in un mercato che tende a frazionare il pubblico per età, sesso e generi vari, lui arriva e con ogni libro puntualmente abbatte questi confini.

In una Milano del futuro prossimo, appena post expo, la poesia più che mai è solo un ricordo, la gente è ossessionata dal cibo, la vita seguita e compiersi così come la morte. Una società distopica pericolosamente vicina a quello che potremmo diventare tra poco o che forse in fondo già siamo. In questa ambientazione si muove la storia di Ivan, aspirante scrittore, che diventa famoso scrivendo una serie sugli zombi. E qui entra in scena la prima figura simbolica del libro: il morto vivente. Su questo non essere vivo, sull’inseguire la sola funzione del cibarsi, della perdita della cognizione, della regressione verso i bisogni primari (il cibo appunto anche se spettacolarizzato). È questa l’umanità che dipinge Bianconi, un circostante che stride invece con la profonda auscultazione interiore e la complessa matassa di congetture e paure che il protagonista vive intimamente. Una tensione alla bellezza che si assapora nei rimandi alla poesia di Sereni o più semplicemente nella ricerca di una risposta che nessuna vendetta può darci. Un libro spiazzante per sincerità e visione “filosofica” del presente.


LIBRI

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GIANPIERO CHIONNA Domani Labo Fumetto Graphic Novel

DANIELE RIELLI Lascia stare la gallina Bompiani Romanzo Quando il “volatile” di Daniele Rielli ha fatto la sua comparsa in libreria qualche mese fa si è subito scatenato qualcosa fra i lettori salentini e non solo. Un bolzanino (ma con origini salentine doc) scrive un romanzo ambientato in Salento? E scrive un romanzo dalle tinte fosche, pieno di personaggi cattivi e senza scrupoli. Racconta una trama di poteri oscuri e perversioni criminali. Disegna caratteri e descrive luoghi che tutti noi conosciamo alla perfezione, ci si muove come a casa sua, ci mostra cose che noi magari non avevamo notato. Perché Daniele Rielli è uno scrittore molto particolare. È un giornalista, scrive reportage narrativi e il suo romanzo è costruito quasi come un reportage, per scriverlo si è documentato, ha fatto ricerche, interviste, ha

usato uno sguardo altro per raccontare un territorio e ciò che si muove sotto la superficie. “Lascia stare la gallina” è ambientato in estate, in un Salento in piena esplosione vacanziera e divertentistica che dietro la facciata di terra e libertà nasconde un sottosuolo di criminalità e trame segrete, nasconde l’ambizione del protagonista, Salvatore Petrachi, uomo senza scrupoli che sa sfruttare a suo vantaggio ogni situazione. Rielli ha una grande capacità narrativa e affabulatoria, riesce a plasmare la lingua in base alle sue esigenze, restituisce immagini di grande impatto e mantiene un ritmo travolgente per tutto il romanzo, che si presenta come un corpus compatto e senza sbavature. Decisamente un’ottima prima prova. Dario Goffredo

Come si racconta la morte? Come si colma l’assenza di una persona amata? Cosa resta? La risposta è semplice ma difficilissima da afferrare. Più facile abbandonarsi all’apatia e alla depressione, troncare ogni legame, abbandonarsi. Su questo tema molto delicato è costruito “Domani”, graphic novel di Giampiero Chionna, realizzata da Labofumetto (associazione culturale tarantina che si occupa di promozione della cutura fumettisitica). Con una scrittura intensa e un tratto minimalista l’autore esplora l’abisso della depressione e la rinascita. Visionario e intimista il racconto non scivola nei facili clichet, piuttosto è disarmante per sincerità. Ci si sente dentro la scena, parte di un dramma “familiare” a tutti. È l’opera di un esordiente brillante (ha vinto il premio della giuria del talent/contest ComixFactor), che ci restituisce una nuova scena di narratori e illustratori talentuosi che stanno costruendo nuove storie dal basso.


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IL SUCCESSORE Il documentario di Mattia Epifani racconta la storia dell’imprenditore Vito Alfieri Fontana. La vicenda di un uomo che ha cercato di cambiare la sua vita


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Quella di Vito Alfieri Fontana è la classica storia che potresti trovare in un film sui buoni sentimenti. Un imprenditore per anni con la sua azienda progetta e costruisce mine antiuomo e anticarro. Di quelle ben congegnate. Pensate per fare danni importanti alle cose e alle persone. Poi, ad un certo punto, la frase di un figlio o un evento scatenante - magari semplicemente il fatto di guardarsi dentro - provoca uno stravolgimento completo della propria vita. Così l’imprenditore sceglie di chiudere l’azienda (con tutto ciò che ne consegue) e decide di passare dall’altra parte della barricata. Da costruttore di mine a sminatore. Potrebbe sembrare la storia di un film e invece questa è una storia vera raccontata nel bel documentario di Mattia Epifani, scritto insieme a Francesco Lefons, prodotto grazie al sostegno di Apulia Film Commission e con la produzione esecutiva della Fluid Produzioni di Davide Barletti. Recentemente il film ha conquistato il Torino Film Festival come “Migliore Film sul mondo del lavoro”, il prestigioso riconoscimento votato dalla giuria composta da Francesco Tullio Altan, Mariamo Morace e Costanza Quatriglio. Mattia Epifani, 30 anni, leccese, lavora dal 2004 come regista, montatore e operatore. Socio della casa di produzione Muud Film , a partire dal 2010 ha diretto quattro documentari (Rockman, Ubu R1 e, The Best, Il Successore) tutti selezionati da rassegne di rilievo non solo nazionali. Come hai conosciuto la storia di Vito Alfieri Fontana e perché hai deciso di scrivere e realizzare un documentario dedicato a questa vicenda? Ho cosciuto la storia di Vito Alfieri Fontana diversi anni fa,

ma all’epoca non avevo avuto modo di approfondirla. Poi, circa un anno fa, ero alla ricerca di un soggetto per partecipare a un bando indetto da Apulia Film Commission. In questa occasione, Davide Barletti, il produttore esecutivo del film, mi ha suggerito un articolo di Alessandro Leogrande pubblicato su Pagina 99. Il pezzo parlava della storia di Fontana. Così ho deciso di provare a contattarlo. Ci siamo incontrati a Bari e già in quel primo incontro ho capito che Vito Alfieri era disponibile a raccontarsi. Da quel momento è iniziata la nostra collaborazione durata per diversi mesi. Ciò che mi ha interessato sin dall’inizio era il carattere metaforico della sua storia. Una vicenda umana che mi dava la possibilità di raccontare il dualismo della natura umana e il conflitto interiore che da esso deriva. Il tuo è un documentario che racconta e indaga la possibilità di redimersi, di tornare indietro e di scegliere una via molto diversa da quella che la “vita” aveva scelto per te. Come hai vissuto al fianco di Fontana? Quanto e se ha partecipato alla scrittura del film? Con Vito Alfieri si è creato da subito un rapporto di fiducia e intesa. Credo che lui avesse un grande bisogno di raccontarsi e per questo sin dalle prime fasi di scrittura il suo contributo è stato determinante. Inoltre Alfieri mi ha dato l’opportunità di accedere al suo universo interiore, ai suoi pensieri e alle sue memorie, anche quelle più oscure. Questo tipo di apertura è il contributo più grande che lui ha dato al film. “Il concetto di felicità completa non credo mi appartenga


ARRIVA NELLE SALE IL FILM DI BARLETTI E QUADRI CHE RACCONTA I 50 ANNI DI STORIA DELL’ODIN DI EUGENIO BARBA più”: è una frase di Fontana che mi ha colpito molto. Qual è il senso profondo di questa scelta, secondo te? Credo che a un certo punto della sua vita Alfieri non potesse far altro che mettere in atto un cambiamento radicale. La sua coscienza non era più in grado di sopportare ciò che a lui appariva eticamente inaccetabile. Certo ciò non é da tutti e richiede un grandissimo coraggio. Questo tipo di metamorfosi interiore diventa in alcuni casi necessaria per poter continuare a vivere, e permette di liberarsi da pesi insostenibili, ma al contempo può negare temporaneanente o per sempre la felicità. Partendo da una storia personale e da una scelta privata nel film riecheggia l’assurda guerra che per molti anni ha coinvolto la ex Jugoslavia. Avete viaggiato sulle due sponde dell’adriatico. è sicuramente una ferita ancora aperta. Qual è la tua impressione da giovane regista che in quegli anni era forse ancora troppo piccolo per vivere pienamente la tragedia? Quella dell’Ex Jugoslavia mi pare essere una guerra per molti aspetti dimenticata. Sono tanti i conflitti che volontariamente o meno si vogliono dimenticare. Certo é incredibile pensare che il massacro di Srebrenica, durante il quale furono uccise in pochi giorni circa 8300 persone, sia avvenuto solo nel 1995, a due passi da casa nostra e che oggi se ne parli così poco. Per quanto riguarda Sarajevo, invece, mi ha colpito molto vedere come una città che ancora oggi é divisa in tre gruppi etnici, con un governo a rotazione, riesca a vivere in pace. Forse semplicemente ne hanno avuta abbastanza di guerra o forse nessuno ha interesse a riaccendere questo conflitto. Nel film ci sono alcuni inserti di repertorio. Come li hai scelti e che ruolo hanno nella narrazione complessiva? Gli inserti di repertorio sono stati estratti da alcuni video promozionali della ‘Tecnovar’ l’azienda di mine antiuomo e anti carro della quale Vito Alfieri Fontana era propietario e all’interno della quale svolgeva anche l’attività di progettista. I materiali di repertorio sono stati inseriti nel film per raccontare la naturalezza e la candida semplicità con la quale l’azienda promuoveva i suoi armamenti, l’efficenza e l’affidabiltà del prodotto. Dal punto di vista concettuale questi materiali hanno lo scopo di rappresentare l’assurda dimensione in cui viveva Vito Alfieri prima della sua conversione. Sei già al lavoro su qualcosa di nuovo? Sono a lavoro da diverso tempo su un film che parla della dimensione carceraria, e dell’esperienza degli detenuti che tornano in libertà ma è tutto ancora all’inizio. (pila)

Dal 21 gennaio sarà nelle sale cinematografiche grazie a Wanted, piccola casa di distribuzione indipendente, “Il paese dove gli alberi volano. Eugenio Barba e i giorni dell’Odin” di Jacopo Quadri e Davide Barletti presentato in anteprima mondiale all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Il film - prodotto da Fluid e realizzato con il sostegno di MiBACT, Apulia Film Commission, Creative Europe/Programma Media in collaborazione con Sky Arte - segue nella silenziosa provincia danese i preparativi per i festeggiamenti dei cinquant’anni dell’Odin Teatret. La compagnia teatrale di ricerca, sotto la guida di Eugenio Barba, ha cambiato le coordinate dello spettacolo del secondo Novecento alimentando il proprio alfabeto attraverso le culture sceniche del mondo. Ed è dalle più diverse latitudini del pianeta - Kenia, Bali, Brasile, India, e anche Europa - che arrivano nella città di Holstebro squadre di bambini, ragazzi e artisti chiamati a dare energia con acrobazie, musiche e voci a un evento corale, sotto lo sguardo impetuoso del regista dai piedi scalzi e dai capelli bianchi. La preparazione di questa festa - che innesta ritmi tribali e classicità occidentali nella divertente ricerca di una lingua comune - invoca la possibilità del teatro di miscelare cielo e terra, tra falò rigenerativi e alberi che volano.


I RESTI DI BISANZIO

Il documentario del regista e artista Carlo Michele Schirinzi

Dopo varie partecipazioni a festival in giro per l’Italia (Pesaro, Avellino, Salerno, Festival del Cinema Europeo di Lecce) e all’estero (Lisbona) proseguono le presentazioni de “I resti di Bisanzio” di Carlo Michele Schirinzi. Giovedì 14 gennaio il documentario del regista e artista salentino sarà proiettato al Cinema Beltrade di Milano. Il film parla di tre personaggi, dall’identità non ben definita, individuati esclusivamente da alcune lettere d’alfabeto e rappresentati dalla condizione di alienazione totale delle proprie esistenze: C, non avendo più stimoli dal quotidiano, ha continue visioni incendiarie immaginate soltanto dalla sua mente e condivide questo malessere con due amici, S, bandista del paese, ed R, ex-benzinaio da cui C preleva scolature di carburante per realizzare il suo sogno: bruciare il presente che non gli appartiene. Nel frattempo tre turisti si perdono tra luoghi abbandonati e ruderi architettonici nel Capo di Leuca, mentre, tra le mura spoglie di una torre d’avvistamento, immerso in

una stanza dalle pareti scrostate, inesistenti e divorate dal tempo, un terrorista culturale, imbastisce parole su fogli sciolti. Il poeta dei ritagli di giornale è impersonato dal pittore e scultore salentino Romano Sambati, artista introspettivo di concetti spirituali dell’animo umano, come la luce e le tenebre, il dolore e la sofferenza. La stanza diventa così un luogo senza spazio e senza tempo, creando un cortocircuito logico percettivo in cui si insinua il dubbio che, nell’immagine cinematografica vista, si nasconda qualcosa di ignoto e perturbante, destabilizzando lo spettatore: quei ritagli di giornale forse non saranno mai letti da nessuno. Emblematica è la figura dell’ex-benzinaio che vive in quel che è rimasto della sua casa, il cui greve carico di storia ha ormai ceduto il passo all’incuria e all’oblio dei tempi e dell’uomo. «Il protagonista - eremita senza tempo, contemporaneamente invasore ed invasato - inala l’ossigeno che solo le immagini incendiarie riescono a donargli: è un piromane


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visionario ed impotente. Non riuscendo a creare, con occhi e mente distrugge», sottolinea Schirinzi. «Perché, se il reale è incendiario, è con il fuoco che bisogna catturarlo, con l’immagine già satura di secolare dramma. Chiudere gli occhi e non ascoltar parole è un diritto di chiunque, un diritto di critica alla galoppante globalizzazione, ai catastrofici tentativi di omogeneità ed alle, ancor più gravi, urgenze di nuove identità». L’andamento delle scene è intriso di suspence, di situazioni sospese in perenne attesa, ricreando una sorta di thriller delle coscienze, in perenne fuga da se stessi. Tra scorribande di paese, personaggi sopra le righe, atmosfere sospese nel tempo e nello spazio, l’onnipresente riproduzione di suoni registrati in presa diretta degni del miglior rumorista di professione, intervallati dagli stranianti ed accattivanti brani musicali post-punk, i protagonisti de “I resti di Bisanzio” sembrerebbero richiamare alla mente gli altrettanti casi disperati alla Cinico TV dei film di Ciprì e Maresco, i cui corpi e volti, inquadrati come oggetti, sono quelli di “pazzi che sono belli in quanto sconfitti in partenza”. Non siamo di fronte al superamento della realtà sublimata in una surrealtà, ma, al contrario, ciò che si palesa ai nostri occhi è la messa in scena di una realtà potenziata, un’iperrealtà che ci invita ad andare oltre la banale superficie delle cose. Da ciò scaturisce l’immobilità e la staticità delle immagini/luogo dall’identità fluttuante, come congelate in un attimo infinito. Si deve abbandonare il comune sentire e farsi vertigine, attraverso cui bisogna passare, per pervenire all’epifania dei sensi. “è la paura che voglio e che cerco: la paura che inaugura un vertiginoso slittamento, la paura che raggiunge l’illimitato possibile del pensiero” (Bataille). Da Indagatore pornocratico dell’immagine/luogo, quello di Schirinzi è un particolare approccio all’immagine/luogo che prevede lo scontro corporeo e carnale con la materia, un meccanismo di immersione/scontro con il mondo, indagando il reale e il quotidiano nei suoi meandri più nascosti e vitali, mostrandoci la tensione esistenziale e l’angoscia del vivere contemporaneo e facendoci entrare dentro quelle immagini. Schirinzi spiega quello che potremmo definire il suo concetto di Pensiero Anatomico. «L’approccio alla materia è carnale, non ha nulla di mentale, cerco di penetrarla

e di lasciarmi annegare nei suoi umori. Analogamente a quanto avviene durante un coito, c’è perdita d’identità, ci si attraversa voracemente senza più desiderio perchè si è nella patalogia dell’anatomia, nel morire. Questo coito visivo è un vano tentativo di arrampicarsi alla vita quando tutto intorno è maceria. Violare un corpo/luogo è pretendere amore e, nello stesso tempo, tenerlo/ci in vita, un solo frammento di secondo, in cui tutto si cancella ma reiterato per sempre con la ripresa, come un coito ininterrotto». Schirinzi in primis non si ritiene un regista e non gliene frega niente di raccontar storie, e dice «sono il primo a restar violato mentre violo la materia e con me il pubblico a cui presto gli occhi. Oltre la storia raccontata c’è il burrone del dramma reale, ed io ci sono dentro». E a proposito del Sud o di ogni altra geografia, come condizione dell’animo, Schirinzi dice: «Non basta osservarlo, bisogna sprofondare nell’immagine/luogo, annegare in esso come annegano i corpi in mare, altrimenti si è disonesti, s’imbelletta il reale per il bene altrui, si fa cinema turistico». Come ne “La storia dell’occhio”, (1928) in cui Bataille, attraverso metafore riferite all’occhio e agli organi sessuali, giungeva a fondare le regole delle immagini surrealiste, analogamente per Schirinzi, cercare di sondare il reale immergendovisi dentro con i propri occhi, per indagarne la pulsione vitale e carpirne i segreti, rappresenta l’esigenza primaria dell’occhio del regista. Come dice Schirinzi: «scaglio sassi in fondo al mare a frantumar riflessi, annego gli occhi giù sino al fondo». Il mio, dice Schirinzi, è «un viaggio senza senso, un’urgenza di vuoto - da foga iconoclasta bizantina. Iconoclastia è lotta feroce contro tutto ciò che è apparenza, inganno, miraggio, in altre parole, contro tutto ciò che è sinonimo di falsità». Come in un’operazione di vivisezione entomologica, il regista riesce a far parlare la materia, individuata, scrutata e attacca col suo occhio indagatore, presentandoci un’umanità al limite del collasso esistenziale, ma con sguardo da ricercatore, mai da inquisitore. Jenne Marasco


katĂŤr i radĂŤs. il naufragio Lo spettacolo firmato da Salvatore Tramacere con musiche di Admir Shkurtaj e testo di Alessandro Leogrande torna in scena il 18 e 19 dicembre sul palco dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce



LA STORIA

IL LIBRO

Alle 18.57 del 28 marzo 1997 una piccola motovedetta albanese stracarica di immigrati, la Kater i Rades, viene speronata da una corvetta della Marina militare italiana, la Sibilla. In pochi minuti l’imbarcazione cola a picco nel Canale d’Otranto. È la sera del Venerdì Santo. I superstiti sono solo 34, i morti 57, in gran parte donne e bambini, 24 corpi non verranno mai ritrovati. È uno dei peggiori naufragi avvenuti nel Mediterraneo negli ultimi vent’anni. Ma soprattutto è la più grande tragedia del mare prodotta dalle politiche di respingimento. Il processo ha stabilito che il comandante della Katër i Radës aveva effettuato delle manovre scorrette, non ascoltando le intimazioni, mentre la corvetta italiana cercava energicamente di impedirne il passaggio. Il relitto della nave è stato recuperato ed è diventato un monumento, realizzato dall’artista greco Costas Varotsos, che si trova oggi nel porto di Otranto.

“Il naufragio. Morte nel mediterraneo” dello scrittore e giornalista Alessandro Leogrande ripercorre la storia dell’affondamento della motovedetta e del successivo processo. Nel 1997 la guerra civile albanese, che infuria da settimane, spinge migliaia di uomini, donne e bambini a partire verso le coste italiane in cerca della salvezza. Tre giorni prima del naufragio, il governo italiano vara delle misure di controllo e pattugliamento nelle acque tra i due Stati che prevedono anche il ricorso a procedure di “harassment”, ovvero “azioni cinematiche di disturbo e di interdizione”. Le indagini vengono ostacolate e intralciate, alcune prove scompaiono o non vengono mai recuperate. Alla fine, gli unici responsabili del disastro risultano essere il comandante della Sibilla e l’uomo al timone della Kater. Intanto in Albania, i sopravvissuti e i parenti delle vittime creano un comitato per ottenere giustizia. Leogrande ha incontrato i sopravvissuti e i parenti delle vittime, i militari, gli avvocati, gli attivisti delle associazioni antirazziste e ha girato per le città e i villaggi dell’Albania da cui sono partiti i migranti.


LO SPETTACOLO

LE MUSICHE

Dopo il successo ottenuto alla Biennale di Venezia nell’ambito della 58° edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea diretta da Ivan Fedele, dove ha debuttato nel 2014, “Katër i Radës. Il naufragio”, l’opera da camera con la regia teatrale di Salvatore Tramacere e il testo di Alessandro Leogrande commissionata dalla Biennale di Venezia al compositore albanese Admir Shkurtaj torna sul palco dei Cantieri Teatrali Koreja per una doppia rappresentazione. Venerdì 18 e sabato 19 dicembre (ore 20.45) l’opera sarà in scena nell’ambito della stagione Strade Maestre. Lo spettacolo non è semplicemente un’opera della memoria. È piuttosto il tentativo, attraverso la musica, di liberare l’universo umano di chi è andato incontro a una delle tante tragedie del Mediterraneo. Nell’atto unico si affollano i sommersi e i salvati, chi è sopravvissuto e chi è scomparso, le loro voci, i loro pensieri, e soprattutto il loro viaggio verso il buio, pieno di grandi ansie e piccoli desideri, sogni e paure, digressioni, apparizioni, improvvise rammemorazioni.

Nel 2015 l’etichetta salentina Anima Mundi, con il sostegno di Puglia Sounds, pubblica le musiche e il libretto dello spettacolo. L’atto unico è pensato per un ensemble di 6 musicisti, 4 voci, 3 attori e il coro polifonico albanese Violinat e Lapardhase. Admir Shkurtaj è nato a Tirana. Inizia a studiare Fisarmonica, Composizione e Musica Elettronica. Arriva a Lecce nel 1991. Qui incontra il jazz e la musica salentina, di cui diviene raffinato interprete assieme ai Ghetonìa, e porta la musica balcanica con Opa Cupa, gli stessi Ghetonìa e i suoi Talea. Nel frattempo intensifica l’attività di composizione di musica contemporanea e improvvisata, scrivendo per l’Orchestra della Fondazione ICO di Lecce e incidendo Gestures and zoom (Slam, 2012), con il suo trio, e due album in piano solo (Mésimer, 2012 e Feksìn, 2014) prodotti dall’etichetta salentina AnimaMundi, in cui rilegge la tradizione salentina e albanese tra avant jazz e contemporanea.


ALESSANDRO LEOGRANDE La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il sentiero non lo fa perché votato al rischio o alla morte ma perché scappa da condizioni ancora peggiori.


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Tarantino, giornalista, scrittore, intellettuale, attento osservatore delle vicende italiane e internazionali, Alessandro Leogrande è il vicedirettore della rivista Lo Straniero, diretta da Goffredo Fofi, e collaboratore di numerose testate. Con i suoi reportage narrativi racconta le storie andando in profondintà, mettendo in fila i fatti e dando voce ai protagonisti. Dal suo “Il naufragio” è nato lo spettacolo “Katër i Radës”. Recentemente ha pubblicato “La frontiera” (Feltrinelli). Il 18 e 19 dicembre sarà ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce per la messa in scena dell’opera (musicata da Admir Shkurtaj e diretta da Salvatore Tramacere) e per presentare il suo nuovo libro. Partiamo dalle tragedia del 1997. Dall’affondamento della motovedetta albanese. Come nasce l’idea di dedicare un libro a questa vicenda? Perché si trattava di una vicenda depositata sul fondo della coscienza italiana in generale ma soprattutto pugliese. E perché mi interessava raccontare le dinamiche che avevano portato alla tragedia (anche se nel corso degli anni ci sono stati naufragi numericamente anche peggiori) e quelle che avevano poi caratterizzato il processo. E poi volevo raccontare le due coste dell’adriatico per un doppio livello di narrazione. Questo titanic dei poveri dal quale tirare fuori storie degli individui, delle famiglie. Raccontare il rapporto tra Italia e Albania. Dall’altra ricostruire la cronaca del processo, questo chiudersi a riccio dello stato maggiore, il non aver consegnato tutte le prove. E poi una figura come il capitano di corvetta Angelo Luca Fusco che rompe la cappa del silenzio e che va a parlare con il magistrato Leone De Castris. Dal libro, grazie all’incontro con Koreja e con Admir, arriva lo spettacolo che mantiene poco del testo originale. Il progetto nasce su commissione della Biennale di Venezia con la formula prendere un libro, far fare il libretto all’autore e lavorare con un giovane compositore. è stato chiaro fin da subito che l’opera non sarebbe stata una trasposizione del libro. Nella dimensione teatrale convivono musica, parola, corpo, immagine, scena. Si tratta di un’opera contemporanea con musiche e parole ma senza un testo drammaturgico vero e proprio. E poi c’è la presenza del coro dei morti che nel libro, per ovvi motivi, non c’è. Dalla storia di un singolo naufragio sei passato al racconto complessivo di una migrazione con “La frontiera”. Ho sentito l’esigenza di scrivere un libro che provasse a mettere insieme tutti i piccoli granelli che creano una frontiera. Cos’è la frontiera? La frontiera cambia nel corso degli anni secondo le leggi, i flussi, le guerre che scoppiano. La frontiera che racconto è una somma di frontiere. Le frontiere poi non sono solo fisiche ma temporali

perché un viaggio può durare anche due anni e in alcuni casi qualcuno in più. La frontiere ha anche una dimensione epica e utopica come messa in discussione di se stessi. Mi è venuto naturale disegnare un affresco letterario usando tutti i registri e gli strumenti possibili. Nel libro entrano storie non raccontate o poco raccontate, guardate da una prospettiva diversa da quella della cronaca. C’è stato un episodio che ti ha fatto scattare un click nella testa, un evento che ti ha fatto venire in mente questo racconto collettivo. Il naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. La domanda che mi arrovellava era: “perché sono tutti eritrei?”. Indagando e cercando le storie singole si conoscono tante persone e situazioni. Nella storia dell’Eritrea ci sono, ad esempio, i fantasmi della colonia italiana, la guerra di indipendenza e un rapporto schizofrenico tra passato e presente. In questi anni ho conosciuto alcune situazioni di violenza che sembrano davvero troppo estreme. Se la letteratura le inventasse sembrerebbero fasulle e invece sono vere. Nelle storie c’è un peso di violenza e morte. Come restituisci questa complessità? Io ho provato a scrivere un libro di storie ma non di storytelling. Nel primo capitolo tu scrivi: “La frontiera è un termometro del mondo. Chi accetta viaggi pericolissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il sentiero non lo fa perché votato al rischio o alla morte ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile”. Parole semplici e di buon senso. Possibile che in questo paese ancora si discuta di respingere e non accogliere e si giochi con la paura delle persone per un puro tornaconto elettorale? Purtroppo ci dobbiamo difendere da una semplificazione che è generalizzata. Per questo un articolo o un editoriale sul giornale non può bastare. In questi casi c’è bisogno della complessità di un libro. Portando in giro “La frontiera” bisogna dire che per fortuna mi sembra che c’è una Italia reale plurale e molto simile da Nord a Sud che su queste cose si interroga attentamente e ha anche una sapere diffuso. Un sapere diffuso che viene dal fatto che abbiamo alle spalle 25 anni di immigrazione che, in vari modi, ha coinvolto migliaia di italiani che lavorano nell’accoglienza, che hanno avuto contatti con le persone arrivate da noi. E poi ci sono i lettori forti che sentono perfettamente che c’è bisogno di approfondire questi argomenti. Io sono molto pessimista in generale sulla politica nel nostro paese ma su questo aspetto per fortuna sento una necessità di domande e di complessità in un settore largo della società (Pilala)


LICIA LANERA La beatitudine e i dieci anni di Fibre Parallele Licia Lanera sbrana il teatro da attrice e regista. Ha una fisicità dirompente e le sue parole sono ficcanti, precise come un bisturi. Premio UBU 2014 come miglior attrice under 35 per la sua “Celestina” di Luca Ronconi, cofondatrice insieme a Riccardo Spagnulo di Fibre Parallele, festeggia i dieci anni della sua compagnia in Puglia a partire dalla nuova produzione “La Beatitudine” dal 10 dicembre al teatro Abeliano di Bari. Intanto lavora all’Orgia di Pierpaolo Pasolini, crede fermamente che il teatro sia necessario e rivendica il corpo politico dell’attore Chi sono le Fibre Parallele e perché nascono? Fibre Parallele nasce dieci anni fa a Bari. Io e Riccardo Spagnulo ci incontriamo al CUT (Centro Universitario Teatrale) ma quello che c’era non ci bastava: avevamo bisogno di sperimentare. Dopo la finale al premio Scenario con Mangiami l’anima e poi sputala abbiamo fatto spettacoli, vinto premi e bandi. Ora siamo cinque attori fissi più i tecnici, abbiamo uno spazio a Bari, siamo una compagnia ministeriale e giriamo molto Cosa vuol dire festeggiare il decennale della compagnia a Bari? Il rapporto con la nostra città è delicato. Il merito artistico ci è stato riconosciuto in ritardo: dopo dieci anni siamo nella stagione del comune di Bari. Però non siamo mai emigrati: abbiamo sempre vissuto qui. Bari per noi è una fonte di nutrimento anche per gli spettacoli. Festeggiare qui ci sembrava doveroso, la nostra è una rivoluzione dal basso, abbiamo sempre cercato e trovato prima le persone. Facciamo una festa: spettacoli, alcool, qualcosa di grande per divertirci. Cos’è la provocazione e a cosa serve in teatro? La provocazione è un secondo livello perché io detesto la consolazione, mi da fastidio, siamo bombardati da immagini e messaggi consolatori, c’è poco da essere consolati. La consolazione rende immobili e l’immobilità è morte. Il teatro deve avere la funzione di far riflettere, ti lavora



dentro. Lo spettatore vede delle cose che gli sembrano anche eccessive, che lo turbano, lavoriamo molto sulla dimensione dello specchio. I nostri non eroi sono condannabili e rivoltanti, ma sono profondamente umani. Qual è la differenza tra l’attrice, la regista e la persona? Mi pongo in una condizione di grande generosità, lo faccio anche per me, è il mio estremo atto di vita e di morte. La mia vita è tutta dedicata al teatro che si mangia la vita tua stessa. Poi sono una persona con poco pudore, questa mia spudoratezza la porto in scena, mischio delle storie surreali ai miei demoni. La scrittura di Riccardo è stata al mio servizio, come se avesse scritto per me, per le donne e gli uomini che mettono al centro i drammi della società e i miei personali. Come attrice sono molto indisciplinata, chiedo agli attori delle cose disumane. La regia è più impegnativa e la amo moltissimo. Adesso ho ritrovato la voglia di stare sul palcoscenico. Non riesco a pensare al teatro solo come interprete, svincolato dalla scrittura e dalla regia Cosa vuol dire esporsi e usare il proprio corpo in scena? Il corpo è la nostra prima lingua: ogni parola genera un impulso fisico. Lavoro molto sul corpo, è un ottimo modo per iniziare a capire dove sto e dare autenticità alle mie parole. È centrale nel nostro teatro, anche nel mio ultimo studio su Pasolini, Orgia, in cui la parola è preponderante c’è un aspetto legato al corpo. Ho avuto sempre un corpo particolare: è segnato da questa grassezza, dovevo decidere se nasconderlo o fingere, ma l’ho sfruttato a livello drammaturgico ed emotivo. Ho un corpo politico. Il rapporto con il corpo, l’esibizione anche politica del corpo, la sua violenza è fondamentale, necessaria, politicamente ed emotivamente. Ultimamente sono dimagrita e ho sentito l’esigenza di esibire questa mia mutazione con il testo di Pasolini, dopo l’esperienza ronconiana, ho mutato

anche la recitazione, migliorato il rapporto con la parola. Anche Pasolini parla di passaggi e sentivo l’esigenza di mostrarmi, e dire “io sono qui con il mio corpo seminudo e sono cambiata”. Lo faccio con i miei attori, in Duramadre sono sempre nudi, ma il corpo per me è svincolato dalla dimensione erotica. È corpo umano. Uno dei miei maestri è Lucian Freud, con le sue figure imperfette e fragili Nei tuoi spettacoli si trova un forte riferimento alla fede. Qual è il tuo rapporto personale? Sono atea, anticlericale e marxista. La fede, la fiducia estrema in qualcosa, è il teatro. Non saprò mai se domani verrò dimenticata ma so che è un credo assoluto, che mi porta a modificare la mia esistenza quotidiana. Il teatro è rito, questa dimensione mi affascina. Le panche dei fedeli in alcuni posti si chiamano platea. Stando al sud, sono permeata da un certo immaginario religioso, mi piace il costume e vedere le persone che credono, questo entra nei miei spettacoli Cos’è la felicità? E la beatitudine? La felicità è una cosa che non te ne accorgi. Una canzone dice “che se ti diverti, non la metti da parte un po’ di felicità”: quando sei in un momento di felicità dovresti conservarne un pezzo. La beatitudine è una felicità assoluta, è un attimo. Nel nostro spettacolo è legata soprattutto all’orgasmo. Ma la ricerca spasmodica della felicità è deleterea: ci hanno allenato a cercarla a tutti i costi e quindi ci hanno condannato all’infelicità. A volte in nome di questa felicità ossessiva si manda all’aria tutto. Anche questa è una dimensione politica, dell’essere sempre felici, bellissimi, al top. Ce l’hanno cacciato nella testa che dobbiamo essere felici e non tranquilli. In tranquillità si costruisce ma la società non ce lo permette, ci vuole sempre alla ricerca del top. È una felicità usa e getta, come le cose cinesi, siamo nella cineseria dei sentimenti. Io la


A BARI “LA BEATITUDINE” E UNA LUNGA FESTA PER I DIECI ANNI DI FIBRE PARALLELE

felicità l’ho conosciuta e la conosco e ho visto quant’è maledettamente superficiale e vuota e che arriva e se ne va per cui adesso preferisco la parola pace: è la parola più intelligente. In pace si può costruire Qual è il futuro del teatro? E cosa manca al teatro italiano? Il teatro non morirà mai, può impoverirsi, avere meno gente che lo segue. In Italia il problema grave è la drammaturgia contemporanea: esiste ed è anche buona ma nelle stagioni continuano a imperare testi della tradizione. Ronconi parlava del committente: non vuol dire essere servi, ci deve essere qualcuno che gestisce delle economie private o pubbliche. Ci vuole coraggio e voglia da parte dei direttori artistici, ma la gente ha desiderio di teatro. In questo momento di totale alienazione c’è bisogno del teatro contemporaneo, è un’arte umana in un momento di disumanità in cui la gente è sola, e a teatro si genera una comunità, con quello con cui respiri accanto e con uno sul palco, che suda, sputa, dice e fa cose, è un atto di vitalità ma è in disuso e questo è un lavoro che dovrebbero fare i direttori artistici rivolgendosi alla comunità. Sui problemi economici la gente muore di fame anche in altri ambiti, viene tagliata la cultura ma anche la sanità, è un paese al collasso, bisogna distribuire meglio, dare le risorse con coscienza e intelligenza. Comunque se ci fosse la legge “mi lamento di meno e fatico di più” andrebbe meglio, nei teatranti il chiangiamento è continuo. In questo senso bisogna faticare. Quale epitaffio vorresti scritto sulla tua tomba? Se diventassi famosa e morissi a una certa età dovrebbe essere: “Non mi dovete rompere i coglioni”. Se morissi adesso di morte violenta vorrei ci fosse scritto “Ci abbiamo provato”. Giulia Maria Falzea

Dal 10 al 13 dicembre al Teatro Abeliano di Bari appuntamento con il nuovo spettacolo della compagnia Fibre Parallele. “La beatitudine” di Riccardo Spagnulo per la regia Licia Lanera vedrà in scena, oltre ai due autori, anche Mino Decataldo, Danilo Giuva e Lucia Zotti. Questa è una storia di una coppia che non riesce a generare e di una madre e un figlio indissolubilmente legati da una malattia. Questa è la storia di un mago pastore che illude gli uomini che la fantasia possa risolvere i problemi della realtà. Questa è la storia di un unico essere umano in tutte le fasi della sua esistenza, dal primo passaggio nell’età adulta alla vecchiaia. Questa è una giostra della vita, spazio unico e nero in cui i personaggi si muovono, si incontrano, si amano, si odiano e si ammazzano. Questa è una storia in bilico tra reale e irreale, tra tangibile e immaginato, tra materia e pensiero. Dal 12 a 24 gennaio sempre al Teatro Abeliano e al Kismet due settimane per ripercorre le produzioni di questi anni e festeggiare il decimo compleanno della compagnia. In scena all’Abeliano “Mangiami l’anima e poi sputala”, ispirato dal romanzo omonimo di Giovanna Furio (martedì 12 e mercoledì 13 - ore 21), “Due” (giovedì 14 e venerdì 15 - ore 21) e “Furie de sanghe” (sabato 16 e domenica 17 - ore 21). Martedì 19 e mercoledì 20 gennaio (ore 21) inizia la settimana al Kismet con “Have I None”, una pièce del 2000 firmata da Edward Bond, uno dei maggiori drammaturghi inglesi di questo cinquantennio. Giovedì 21 e venerdì 22 gennaio (ore 21) in scena Duramadre di Riccardo Spagnulo. Sabato 23 e domenica 24 gennaio (ore 21) infine “Lo splendore dei supplizi”. Info fibreparallele.it


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IL CONCERTO DISEGNATO Le loro strade si sono incrociate “Quando tutto diventò blu”. Oggi “La distanza” unisce due artisti italiani eclettici. Alessandro Baronciani, fumettista, musicista e art director. Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, cantautore dall’affascinante complessità. Insieme hanno ideato e realizzato il fumetto “La distanza” (edito da Bao Publishing), un viaggio on the road a spasso in alcuni dei posti più suggestivi della Sicilia nel quale, per i protagonisti e per i lettori, ogni tappa è una scoperta della bellezza, di se stessi e dello stupore che la vita regala. Alessandro e Lorenzo ci hanno raccontato la loro amicizia, la collaborazione artistica, i progetti personali e la sperimentazione espressiva che sabato 12 dicembre li vedrà sul palco dell’Arci Rubik di Guagnano, in provincia di Lecce, per “Il concerto disegnato”. Note e colori accordati in perfetta sintonia.

Baronciani

COLAPESCE

Come hai conosciuto Colapesce? Mi piaceva il suo disco, ho scoperto che aveva dedicato una sua canzone ad un mio fumetto, “Quando tutto diventò blu” intitolata come un mio libro. Poi ci siamo conosciuti durante la chiusura di una sua tournée in Sicilia, abbiamo pensato di fare un libro insieme e praticamente siamo diventati amici. Non succede sempre quando due artisti si incontrano di entrare in sintonia, la maggior parte dei dischi che sono per me dei capisaldi lo sono anche per lui, abbiamo molte cose in comune e ci siamo intesi da subito.

Lorenzo, cosa ti ha colpito di Baronciani quando hai scelto di intitolare un tuo brano come un suo fumetto e come è nata la vostra collaborazione? Ero rimasto molto colpito dal suo fumetto “Quando tutto diventò blu”, era essenziale, minimale ed era monocolore, tutto blu. La storia è molto intensa perché parla degli attacchi di panico del protagonista, aveva delle attinenze con un testo che avevo appena scritto per l’album “Un meraviglioso declino” e mi è sembrato carino omaggiare il lavoro di Alessandro. Poi ci siamo conosciuti a Milano dopo qualche mese ed è nata da subito prima un’amicizia e poi una collaborazione artistica.

Come è nata l’idea de “La distanza”? Dopo il primo viaggio in Sicilia abbiamo scritto un soggetto che è piaciuto tantissimo alla casa editrice con cui collaboro, la Bao Publishing. Poi ci hanno finanziato una breve vacanza per fare i sopralluoghi direttamente in Sicilia. Arrivando lì e fotografando in giro avevo già capito quello che sarebbe stato il libro. La storia l’abbiamo scritta insieme. I miei quattro libri li ho iniziati sempre in quattro modi differenti, perché l’ispirazione viene dall’osservazione di una cosa o di un’altra. Una collaborazione che è andata così bene da ispi-

Collaborazione che è andata avanti fino alla realizzazione de “La distanza” che oggi vi vede anche insieme sul palco con “Il concerto disegnato”. Ne “La distanza” di suo ci sono i disegni, io ho curato i dialoghi in modo particolare ma ci siamo confrontati su tutta la stesura della storia, pensata e scritta a quattro mani. è una storia in parte autobiografica, il protagonista, Nicola, mi somiglia molto non è completamente autobiografica ma ci sono tanti punti di contatto e Alessandro è stato bravissimo a sintetizzare con i suoi disegni la storia.

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Baronciani limitato, del road trip? Dobbiamo farlo a colori, mi sono detto, perché in bianco e nero la Sicilia sembrerebbe una novella di Verga. In realtà la Sicilia è un po’ come la Puglia è impossibile immaginarla se non a colori e se non andandoci. Ne “La distanza” ci sono molti elementi che richiamano ad una vostra formazione artistica e musicale ben definita, quasi generazionale direi: il negozio di vinili, le citazioni letterarie, musicali e cinematografiche, il festival Indie rock, il viaggio. Quanto c’è di autobiografico in questo? Ne La distanza c’è più di un livello di lettura, il viaggio un po’ iniziatico non fa solo da sfondo ma in un certo senso i personaggi sono soffocati dal panorama stesso. Il protagonista, Nicola, è Lorenzo nei suoi ricordi e nella sua giovinezza siciliana. Una delle poche discussioni che abbiamo avuto durante la stesura è stata quando ad un certo punto nella storia Nicola scopre che la sua fidanzata sta con un altro. Lorenzo insisteva che il personaggio dovesse essere arrabbiato. Ma io gli dicevo: “Ha fatto sesso con la francese la sera prima, dovrebbe avere minimo dei sensi di colpa”. Per Lorenzo era assolutamente ovvio che si arrabbiasse, non so quale gelosia poteva smuovere questa rabbia. è il bello di una storia scritta a quattro mani. Un siciliano che sbotta al telefono e se la prende con tutti è molto più divertente. Ci sono poi delle analogie tra i personaggi e un colpo di scena finale che non svelo. rare uno spettacolo live che fonde musica e arte visiva con il tour del “concerto disegnato”. Come è strutturato? Una volta deciso di fare il libro insieme sembrava bellissimo continuare a fare la presentazione anche in inverno e da lì è partita l’idea del concerto disegnato. è nato come un gioco perché io avevo già disegnato durante live performance con il sistema di proiezione, lo avevo fatto con un gruppo di Pesaro, al Lugano Buskers festival, con i Diaframma. All’inizio abbiamo provato per gioco ma accumulando un po’ di esperienza in giro abbiamo perfezionato l’interazione. La sfida più grande è che lui suona in acustico e anche io disegno in acustico, senza Photoshop. La cosa più divertente e la sfida vera tra me e lui è quella di riuscire a finire il disegno contemporaneamente al brano. è una cosa per cui la gente si diverte. Probabilmente è anche la ragione per cui il graphic novel sta vivendo una fase di rinascimento, il mondo è divorato dalle immagini siamo sovraeccitati dagli input e siamo abituati a guardare, ascoltare e fare più cose contemporaneamente. Così sul palco si sperimenta un livello espressivo dinamico. è la musica di Colapesce a fare da colonna sonora ai tuoi disegni oppure sono i tuoi disegni che raccontano le storie di Colapesce? In altre parole cosa alimenta la tua fantasia durante il live? I disegni parlano sottilmente della canzone ma la cosa più divertente è che io sono in platea tra la gente, il pubblico lavora di fantasia con me, non sono passivi. è quello che in teatro si chiama la rottura del quarto muro, quando la gente inizia ad interagire. Rimangono sempre affascinati, e lo dico senza peccare di modestia. “La distanza” è graficamente solare, luminosa, un po’ diversa dai tuoi precedenti lavori. è stato merito dell’estate siciliana, che ospita l’ambientazione del graphic novel, degli amori fugaci che abbagliano anche se per un tempo

Dopo il fumetto e il concerto, dobbiamo aspettarci anche un film d’animazione? No assolutamente, il disegno animato è una cosa tortuosissima e di lunga lavorazione, lo facevo quando studiavo alla Scuola d’arte di Urbino. Qual è la prossima storia che ci racconterai, a cosa stai lavorando? Finito il tour, lavorerò al mio prossimo libro. Sarà “un prima o mai”, chiederò di acquistarlo prima della pubblicazione e poi non ci sarà più la tiratura. Un fumetto contenuto in una scatola, saranno tanti racconti che apparterranno ad un’unica storia. Qual è invece l’opera, artistica in senso lato, già pubblicata da qualcun altro e che avresti voluto firmare tu? “Davil Man” di Go Nagai. Mi piace tantissimo. Conosci la Puglia? Il suo fermento artistico degli ultimi anni? In Puglia ci sono stato tante volte, anche per suonare con il mio gruppo, (gli Altro, ndr), Casarano, Veglie, Palagiano, Foggia e sono stato benissimo. Il Salento l’ho girato quasi tutto, Bari mi mancava e sono stato anche lì. Quando vent’anni fa salì Berlusconi al potere, in Puglia non c’era neanche un posto dove andare a suonare, adesso a livello musicale da dieci anni a questa parte è venuto fuori un fermento sorprendente. L’unico modo per uscire da qualsiasi crisi è la cultura, intesa nel senso di fare le cose, non semplicemente per consumare cultura ma per aprire la mente. In questo modo riesci a capire più in fretta di altri che ci sono delle possibilità nuove. Se tieni il cervello impegnato su più livelli, anche se un’esperienza di lavoro dovesse finire, sei in grado di reinventarti. Cultura è reinventarsi. AnnaChiara Pennetta


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Viene fuori un personaggio ironico, un po’ cinico ma simpatico, al quale ci si affeziona. Ci sono tanti riferimenti alla tua formazione artistica e culturale. E tante citazioni cinematografiche e letterarie, oltre che musicali, che raccontano pezzi di Sicilia oltre che di te. C’è gran parte del mio background, la stesura iniziale era molto più lunga, poi con l’ottimo lavoro dell’editor siamo riusciti a sintetizzare il libro in duecento pagine. Le citazioni sono state scelte perché ognuna di esse ha a che fare con la Sicilia, da Bufalino, a Goethe, da Antonioni a Sgalambro, e si legano anche all’evoluzione della storia e alle emozioni dei personaggi. Pare che uno dei pochissimi momenti in cui avete discusso, tu e Alessandro, sia stato quando Nicola scopre che la sua fidanzata che vive a Londra sta con un altro. Alessandro era più accomodante mentre tu volevi che se la prendesse con il mondo intero. Merito del tuo temperamento siciliano? C’è tanto della mia personalità, io ci faccio i conti tutti i giorni, abbiamo avuto qualche discussione ma in maniera costruttiva. Poi “La distanza” è diventato uno spettacolo live, come interagite sul palco? Sono più i suoi disegni che si legano alle canzoni, lui tratteggia i personaggi dei mie brani. è uno spettacolo suggestivo. C’è un canovaccio ma spesso andiamo anche con dei fuori programma lasciando spazio all’improvvisazione, che è un valore aggiunto, un punto di forza dello spettacolo. Nicola abbiamo detto che ti somiglia molto, hai provato a raccontare un’altra parte di te. Parlando di Egomostro, il tuo ultimo album uscito nel febbraio 2015, hai dichiarato di aver messo in piedi “un’invettiva contro te stesso”. Non hai paura di metterti a nudo, di togliere la corazza che a volte si indossa per difendersi dai disastri del nostro tempo? In questo periodo storico è fondamentale mettersi a nudo, c’è bisogno di verità e invece oggi è tutto visto attraverso dei filtri. Egomostro è stato una sorta di disco di

autoanalisi su alcune cose che dovevo risolvere in primis con me stesso ma anche con l’ambiente circostante. è frutto di una lunga ricerca di due anni per finire le musiche e i testi ed è stato abbastanza terapeutico. Io la vedo come un’opera unica, inizia con il brano “Entra pure” che introduce un discorso e si chiude con “Vai pure” che lascia una speranza legata in particolare all’ultima frase del disco “con un certo malessere riconquistiamo la bellezza”. è un lavoro complesso che va contro le regole del nostro tempo che tendono verso la brevità, il tutto e subito. Conosci la Puglia? Il suo fermento artistico degli ultimi anni? La Puglia mi piace moltissimo, è tra le mie preferite. Il mio primo disco l’ho registrato nello studio di un mio amico, Roy Paci, vicino Lecce. Quando posso vengo a trovare i miei amici sparsi qua e là, è sempre bello venire a suonare. Artisticamente è vivace. Uno dei progetti che reputo più interessanti attualmente è quello di Populous, siamo anche amici io e lui, e con l’elettronica al momento è uno dei migliori in Italia. Non escludo in futuro di poter fare qualcosa con lui, avevamo pensato ad una collaborazione tempo fa ma per vari impegni e per la distanza non sempre si riesce a fare tutto quello che vorremmo. Che progetti hai per il futuro? Voglio finire il tour con Baronciani. Poi sto curando la produzione artistica di un artista a cui tengo parecchio che è Alfio Antico, un percussionista siciliano che ha collaborato con mezzo mondo in Italia da Albertazzi a Dalla, ne ho curato personalmente la produzione artistica e il disco uscirà a gennaio. Infine c’è un album al quale sei particolarmente legato che avresti voluto portasse il tuo nome? In Italia ci sono parecchi dischi che ho ascoltato e macinato, forse “Don Giovanni” di Lucio Battisti. AnnaChiara Pennetta


QUARTANT’ANNI CON IL CANZONIERE GRECANICO SALENTINO Dama - Danze e musiche del Salento dal 27 dicembre al 5 gennaio promuove una fitta serie di appuntamenti per chiudere il primo anno del progetto e aprire il 2016. In programma anche il concerto del gruppo gudiato da Mauro Durante


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Durante le vacanze natalizie prosegue a Lecce l’articolata programmazione di Dama - Danze e musiche dal Salento, progetto dell’associazione Tarantarte, in collaborazione con Coolclub, con il sostegno del Comune di Lecce e con il patrocinio di Istituto Diego Carpitella e Puglia Sounds, finanziato nell’ambito del Piano Azione Coesione “Giovani no profit”. Dal 27 dicembre al 5 gennaio la manifestazione promuove, infatti, una fitta serie di appuntamenti per chiudere il primo anno del progetto e aprire il 2016. Dal 28 al 30 dicembre al Castello Carlo V spazio al Laboratorio sul tamburello a cornice con Giovanni Amati e all’ultima lezione del corso di Pizzica pizzica e danze popolari del sud Italia con Laura De Ronzo. Dal 1 al 5 gennaio si terrà invece la residenza “Danzare la terra”, cinque giorni di danza, musica, incontri con esperti con la direzione artistica di Maristella Martella e Tarantarte. Il 3 gennaio appuntamento con La strina, rappresentazione itinerante per le strade di Lecce del rituale del canto natalizio più diffuso della tradizione popolare salentina. La residenza si concluderà martedì 5 gennaio dalle 20 alla Fondazione Palmieri con Sradicamento che coinvolgerà la Compagnia Tarantarte, gli allievi della residenza, Enza Pagliara & il Coro della Regina Paza, Massimiliano Morabito e Salenduo. La breve rassegna di “Capodanno” si aprirà domenica 27 alle Officine Cantelmo con una festa per i 40 anni del Canzoniere Grecanico Salentino. Dalle 20.30, dopo la presentazione e la proiezione del documentario “La festa, la farina e la forca” di Sergio Spina, realizzato nel 1980 a Zollino, spazio alla musica del gruppo guidato da Mauro Durante che, in questa breve intervista, ci racconta “Quaranta” (Ponderosa Music & Arts – promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record).

na. Cosa ispira le vostre nuove canzoni? Non esistono ricette, ma sicuramente è fondamentale amare la musica popolare, ascoltarla fino allo sfinimento, studiarla, analizzarla, cercare di comprenderne gli aspetti fondamentali. Farsi sempre tante domande, sui testi, sulle musiche, sui contesti, perché nulla veniva cantato per caso. La musica popolare è per definizione collegata ad una funzione. Senza questa comprensione, senza capire il contesto e il significato simbolico di alcuni canti, secondo me non ha senso riproporre materiali tradizionali. Noi cerchiamo di fare nostri alcuni stili e alcune caratteristiche, quelle che costituiscono la base di un linguaggio, per poi creare il nostro. Per noi non deve esserci differenza oggi tra il materiale tradizionale che scegliamo di riproporre e le nuove composizioni, è tutto parte dello stesso racconto. Le nostre canzoni sono ispirate da quello che viviamo ogni giorno, parlano di noi, e della nostra contemporaneità. Per farlo ci serviamo di nuovi testi e musiche, nuovi arrangiamenti, o di canzoni antiche che hanno saputo trasmettere certe emozioni per secoli, e che noi riteniamo possano farlo ancora oggi con grande forza.

Da quasi dieci anni hai sostituito tuo padre alla guida del Canzoniere Grecanico Salentino. Dopo alcuni cambi di formazione mi pare abbiate trovate un equilibrio che è stato apprezzato in Italia e all’estero. Il Canzoniere è sempre stato un laboratorio, da cui sono passati tanti artisti, alcuni dei quali hanno scritto la storia della riproposta della musica popolare salentina. La guida è passata da Rina Durante a mio padre Daniele, poi a me. Sono orgoglioso di poter portare avanti questa bellissima storia. La formazione attuale del CGS è composta da quelli che secondo me sono i migliori interpreti di questa musica, in grado di coniugare la conoscenza dei linguaggi ad una sensibilità creativa imprescindibile per il gruppo: Giulio Bianco, Emanuele Licci, Massimiliano Morabito, Giancarlo Paglialunga, Silvia Perrone e Alessia Tondo.

Un pensiero finale per Erri De Luca con il quale avete collaborato. Com’è stato il vostro incontro? Quanto ha influenzato il vostro modo di scrivere? Quello con Erri rispetto alla canzone “Solo Andata” è il racconto di tanti incontri. Da Gabriella Della Monaca ad Erri a mio padre, poi ad Alessandro Gassmann e ad Amnesty International. La dimostrazione del potere reale che hanno la musica e la danza di unire, di annullare le distanze. La collaborazione con Erri De Luca è come unita da un filo rosso che parte da Rina e passa da mio padre, fino a lui ed a noi. Erri è senza dubbio uno dei più grandi scrittori italiani della nostra epoca. Il processo che ha subito è una delle pagine più vergognose della recente storia d’Italia, e il silenzio assenso di molti politici, giornalisti ed intellettuali è lo specchio della nostra realtà attuale. Erri De Luca per noi è uno stimolo inesauribile, “un’istigazione” a vivere.

Quante è difficile, domanda annosa, riscrivere una tradizione radicata come quella della musica popolare salenti-

Quaranta celebre i 40 anni, appunto, della nascita dello storico gruppo. Tra i fondatori c’era, oltre tuo padre, anche Rina Durante. Qual è il lascito di una intellettuale come lei? Ci lascia l’eredità di una poetica e di una brillantezza che sono ancora le nostre fondamenta. Non facciamo operazioni nostalgia, ma provando a comprendere le nostre radici cantiamo e danziamo il nostro presente. Rina ci ha insegnato questo, incitando il ritorno alla ricerca etnografica sul campo e allo stesso tempo fondando il CGS come simbolo di una rinnovata consapevolezza culturale.


10 dicembre - Lecce MASSIMO ZAMBONI Nell’ambito dell’articolata programmazione di Officine della Musica, progetto dell’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Lecce, realizzato in collaborazione con CoolClub, Officine Cantelmo e Sum e sostenuto da Puglia Sounds, giovedì 10 dicembre (ore 21 - ingresso gratuito) nella sede di ShotALive in Via Paisiello 26 a Lecce, appuntamento con Massimo Zamboni. Lo storico chitarrista e fondatore di CCCP Fedeli alla linea e CSI, accompagnato da Daniele De Luca (docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’università del Salento) ripercorrerà la sua storia musicale, tra Berlino e Reggio Emilia, dalla guerra fredda alla caduta del muro fino alla nascita dei CSI dalle ceneri dei CCCP. Il tutto con l’ausilio di contributi audio/video nella collaudata formula degli incontri firmati Rockalive. La serata sarà accompagnata da un live painting di Massimo Pasca aka PapaMassi e da una mostra delle nostre foto realizzate in occasione dell’ultima esibizione degli Ex-CSI a Melpignano. Info officinedellamusica.org


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6/7 dicembre - Novoli (Le) LA BISBETICA DOMATA

6/26 dicembre - Salento TAMTAM

Lo spettacolo della compagnia Factory apre la nuova stagione del Teatro Comunale di Novoli, in provincia di Lecce. “La Bisbetica domata” di William Shakespeare per la regia di Tonio De Nitto è il terzo allestimento shakespeariano dopo “Sogno di una notte di mezza estate” e “Romeo e Giulietta”, il secondo con un’originale traduzione e adattamento di Francesco Niccolini. Per info sulla tournèe compagniafactory.com

Dal 6 all’8 dicembre alla Masseria Ospitale (sulla Lecce/Torre Chianca) si apre “TamTam”, un festival pensato per valorizzare lo strumento principe della tradizione Salentina “Lu Tamburreddhu” attraverso momenti di festa, studio e riflessione. Per l’edizione 2015 si inizia con una residenza artistica chiamata “Tamburi del Sud Italia Unitevi”, tre giorni d’incontri, musica e sapori con i ritmi da ballo delle regioni del sud Italia (Calabria, Campania, Puglia). Il festival continuerà con il local tour di Dje Baleti (9-13 dicembre) e Ballati de Jernu il 26 dicembre. Ulteriori info qui

12 dicembre - Novoli (Le) MASSIMO DONNO

12 dicembre - Lecce SCENDE GIù per TOLEDO

Il cantautore salentino propone uno spettacolo di canzoni a metà tra il primo album (Amore e Marchette) ed il secondo lavoro (Partenze). Progetto che nasce dalla collaborazione con Giorgio Distante (elettronica e tromba) e Stefano Rielli (contrabbasso) che hanno dato una veste nuova ai brani, rivisitando lo swing dei primi brani e la musica mediterranea del nuovo album con un mood decisamente più frizzante, moderno, difficilmente categorizzabile. Sul palco anche un quartetto d’archi composto da contrabbasso, viola, violino e violoncello. Info www.massimodonno.it

Sabato 12 dicembre la rassegna Strade Maestre ospita ai Cantieri Koreja di Lecce, “Scende giù per Toledo” scritto, diretto e interpretato da Arturo Cirillo (Marche Teatro). Nello spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Patroni Griffi del 1975, tra straniamento ed immedesimazione si disegna la figura di Rosalinda Sprint, “una figura maldestramente ritagliata nella carta, le forbici si sono mangiate parte del bordo intorno intorno, n’è scappata fuori una silhouette in scala ridotta” come dice l’autore. Info teatrokoreja.it


28 dicembre / 5 gennaio - Lecce KIDS Dal 28 dicembre al 6 gennaio appuntamento con la seconda edizione di Kids. Festival del Teatro e arte per le nuove generazioni organizzato da Factory compagnia transadriatica e Principio Attivo Teatro e sostenuto da Comune di Lecce, Lecce 2015 e Teatro Pubblico Pugliese. Un programma articolato con quaranta recite per le famiglie distribuite in più spazi della città (Teatro Paisiello, Officine Cantelmo, Castello Carlo V, Manifatture Knos, Ammirato culture House, piazzale Porta Rudiae), tredici compagnie nazionali, tre compagnie straniere, un focus su uno dei maestri più apprezzati del teatro ragazzi italiano (Maurizio Bercini), il circo contemporaneo con Stefan Sing, il TeatroBus, Un concerto festa finale “When we were kids”, un’esposizione delle opere di uno degli illustratori più amati della rivista UnduetreStella, Philip Giordano, allestita negli spazi delle Manifatture Knos e corredata da diverse attività destinate ai bambini. Info teatropubblicopugliese.it


EVENTI

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12 dicembre - BARI GIANMARIA TESTA “Torno, se il tempo è galantuomo, torno”. Così Gianmaria Testa salutava il suo pubblico ritirandosi dalle scene per combattere la malattia che da quasi un anno lo attanaglia. E il cantautore tornerà, come promesso, il 12 dicembre al Teatro Forma di Bari, nella Puglia che tanto ama. Sarà una serata molto particolare, a metà tra la musica e la chiacchiera, con Paolo Verri (direttore Matera Capitale 2019) a interagire con lui e il giovane cantautore pugliese Pietro Verna a cantare le sue canzoni. La voce recitante è affidata a Ettore Bassi. Info 3669547894

26 dicembre - Maglie BOOMDABASH Alle nuove Industrie Musicali approda il Radio Revolution Tour dei Boom Da Bash. Radio Revolution è un disco reggae/dancehall contaminato nelle sonorità con un po’ di ottimo pop. Al suo interno si alternano pezzi impegnati, cifra stilistica della produzione del gruppo, a brani “da festa”. Il disco potrebbe essere riassunto in queste tre parole: festa, impegno, amore. La band è composta da Blazon (Angelo Cisternino) DJ e produceer, Biggie Bash (Angelo Rogoli) cantante, Payà (Paolo Pagano) cantante, Mr. Ketra (Fabio Clemente) Beatmaker.

26 dicembre - Lecce MDPO Dalle 22 (ingresso 7 euro) alle Officine Cantelmo appuntamento con l’atteso live del Management del dolore post-operatorio. La band presenterà - tra gli altri - i brani dell’ultimo cd “I love you”, uscito in primavera per La Tempesta Dischi con la produzione artistica di Giulio Ragno Favero (Teatro degli Orrori). In apertura La13 e Noon, due ban iscritte al portale officinedellamusica.org.


ARTE

“Forme e pensieri dinamici” è il titolo della quarta edizione di Comd’Arte, un evento che anno dopo anno suscita sempre grande interesse. L’inaugurazione è fissata per venerdì 11 dicembre (dalle 18) nell’open space della sede leccese di Comdata in via Demura a Lecce. Questa volta il team di Comd’Arte, composto da Matteo Favaro (direttore artistico), Roberta Cipriani, Luisa Carlà, Federica Calabriso, Valentina Toscano, Valentina Calvani, Laura Fabiani, Cinzia Protopapa e Annalisa Melacarne (organizzazione e comunicazione) presenta alcune novità strutturali e logistiche, a cominciare dalle nuove sedi situate nei pressi dell’azienda che si aggiungono al principale plesso espositivo di Comdata. Accanto alle consolidate sezioni di Pittura, Fotografia, Scultura e Performance in questa edizione si aggiunge anche la categoria della Scrittura, dunque la grande famiglia di Comd’Arte si allarga e si prepara per accogliere non solo brani inediti, ma anche opere di creativi provenienti da altre sedi di Comdata. Tra le altre novità ci sarà anche una zona dedicata all’artigianato creativo e una ludoteca per i più piccoli con in mostra i disegni realizzati dai giovanissimi artisti. Le opere saranno valutate da una giuria di esperti e divise in due categorie: Arti visive e Scrittura. Nel programma della giornata inaugurale consigliamo di non perdere i live di Gianleonardo Lametà, NeeaBros, Ida Collabolletta e Dalila Scarlino (entrambe make up artist) e le incursioni degli attori del bardonaggio teatrale di Ippolito Chiarello.Nel capoluogo salentino l’azienda di Business Process Outsorcing dimostra di essere una realtà che guarda decisamente oltre, Comdata non è solo un luogo di lavoro che per l’occasione chiama a raccolta i propri dipendenti, creativi e artisti, ma apre le porte anche ad altre personalità artistiche esterne all’azienda. Comd’Arte è senza dubbio un progetto unico nel suo genere, un luogo anticonvenzionale per l’arte contemporanea dove le differenti esperienze artistiche s’incontrano, dialogano e creano interessanti sinergie, non solo tra chi è stato selezionato per esporre nella grande call, ma anche tra i curiosi, gli appassionati, gli artisti e gli addetti ai lavori. Con una adesione di oltre 100 partecipanti Comd’Arte è un’operazione che ricorda alla lontana le dinamiche più stimolanti che si possono ritrovare all’interno di una vera e propria fiera d’arte contemporanea, ma applicando con rispetto le giuste e dovute differenze tra ciò che è arte e ciò che non lo è, tra creatività ed esperienze artistiche. Comd’Arte resterà aperta per oltre un mese, ma sarà possibile visitare la mostra solo su prenotazione scrivendo all’indirizzo comdarte@gmail.com oppure tramite la pagina Facebook di Comdarte. Giuseppe Amedeo Arnesano


sino al 9 gennaio - Bari

RIFTS

19 e 20 dicembre - Lecce

POP UP

Sino al 9 gennaio alla Galleria Artcore di Bari prosegue Rifts, una mostra collettiva a cura di Christian Caliandro. Tra le opere esposte, lavori di Paola Angelini, Giuseppe Abate e Szabolcs Veres, per un progetto fatto di sovrapposizioni, condivisioni, accumuli ossessivi e costruzioni precarie. Tra recuperi del passato e spunti dalla contemporaneità, attraverso una commistioni di tecniche, pittura, grafica, scultura, installazione gli artisti cercano ispirazioni e rimandi spesso scollegati tra loro ma capaci di suggerire nuove soluzioni, quasi come fessure attraverso le quali si intravedono possibilità alternative. Info: www.artcore.it

Il 19 e 20 dicembre alle Officine Cantelmo appuntamento con “Pop. Mercato temporaneo della creatività pugliese” un progetto di Factory Compagnia e Big Sur. Pop Up è una finestra aperta sul mondo delle produzioni artistiche, artigianali, del design e dell’imprenditoria creativa, attente alla dimensione etica, ma anche delle produzioni musicali, teatrali, editoriali e gastronomiche, espressioni e reinterpretazioni originali del nostro territorio. È una festa a sorpresa, uno spettacolo dell’immaginario legato alle produzioni creative del territorio che ha come protagonisti gli stessi creatori-banditori.

sino al 10 gennaio- Lecce

TORTURE MEDIEVALI

sino al 10 gennaio - Gallipoli

PRESEPI D’AUTORE

Dopo il grande successo, con oltre trentacinquemila visitatori, della personale di Michelangelo Pistoletto, da sabato 5 dicembre a domenica 10 gennaio (dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 17) le sale del Castello di Gallipoli, in provincia di Lecce, ospitano la seconda edizione della mostra “Presepi d’autore” con una ventina di opere provenienti del Museo della Ceramica di Grottaglie. Si rinnova l’incontro tra culture e tradizioni attraverso l’esposizione delle opere premiate nell’ambito della “Mostra del Presepe”, rassegna trentennale dedicata all’arte del presepe in ceramica. Info castellogallipoli.it

Il Castello Carlo V di Lecce ospita la “Mostra Internazionale sulle Torture Medievali”. Attraverso fedeli ricostruzioni di strumenti di tortura, utilizzati nell’epoca medievale ed anche nei processi Inquisitori, si esaminano i motivi ed i mezzi con i quali per secoli l’uomo ha inflitto torture ad altri uomini. In mostra oltre cinquanta strumenti di dolore e morte, dalla sedia inquisitoria alla garrota, dalla “Veglia” o culla di Giuda, alla botte chiodata usata per uccidere Attilio Regolo, per arrivare a strumenti meno conosciuti.


DIARIO CRITICO #1

Daniele D’Acquisto Ripescare tra appunti, testi critici e interviste già pubblicate. Ma anche da dialoghi inediti e privati. E rimescolare il tutto ex novo. Il filo conduttore è la militanza, la “critica d’arte come fraternità”, come direbbe Christian Caliandro. Diario critico è un ciclo di interventi a cura di Lorenzo Madaro su artisti contemporanei indagati da un compagno di strada. “Qualsiasi gesto che muta fisicamente un contesto si può considerare scultura. Un respiro si può considerare scultura perché modifica l’aria che lo circonda. Un contatto è un’azione di scultura, ma non so se la scultura è il prodotto del contatto o se è la mutazione della mano che ha prodotto la forma. A questo punto si apre un quesito: dove sta la scultura? Nell’oggetto colpito dal martello? Nel martello che si è deformato colpendo l’oggetto? O nel braccio che è si modificato per colpire? Sono domande che non trovano risposta. Restano aperte”. A sostenerlo è Giuseppe Penone, in un’intervista con Angela Madesani su Artribune. Questa riflessione del maestro dell’Arte Povera è da considerare un punto cardinale del fare scultura, quasi un manifesto programmatico vero e proprio che si addice a molte pratiche e a infinite esperienze. Ma non sempre la scultura riesce a relazionarsi con gli spazi, spesso quello della dichiarazione di un rapporto tra spazio e contesto è solo un facile e pleonastico slogan. Non è il caso del percorso di Daniele D’Acquisto (Taranto, 1978; vive e lavora a Fiorenzuola d’Arda), che invece ha concepito la maggior parte delle sue opere partendo da questo assunto, spaziando poi verso una pratica che riflette proprio sulle modalità e le connessioni tra elementi, materiali, luoghi e funzioni. Una scultura, la sua, che ha inteso agire in un territorio di costruzione, con un metodo di analisi meticolosa di determinati fenomeni della realtà attraverso registri e risultati di diversa natura. Adottando gli strumenti della tecnologia, della progetta-

zione minuziosa supportata dall’informatica, D’Acquisto – in particolar modo negli ultimi anni ha strutturato un complesso discorso che non riguarda solo i modi e le voci della scultura, ma anche le modalità di visione e percezione degli spazi in cui viene ospitata. Nonostante l’uso disinvolto di supporti della tecnologia, non ha rinunciato, soprattutto nelle installazioni di un certo impegno, a utilizzare materiali feriali: truciolati, tessuti, addirittura mobili che richiamano la sua memoria famigliare. Forming, l’ultimo suo ciclo di opere, si sviluppa su fronti distinti, autonomi ma chiaramente congiunti, tra stampe fotografiche su alluminio, installazioni site-specific e interventi precari. Il recente trasferimento di D’Acquisto nel nord dell’Italia ha costituito un momento rivoluzionario nella sua quotidianità, oltre ad aver comportato il trasloco di ciò che conservava nel suo studio di Taranto, città a sud che negli ultimi anni vive un costante dramma dovuto all’inquinamento e alla cattiva politica. L’artista aveva accumulato da tempo un disordinato repertorio di oggetti più o meno comuni, attratto dalla loro forma o dalla loro storia anonima e forsanche banale: il suo nuovo studio si è così popolato di una serie di oggetti e materiali, che nel caos generale sono stati individuati e collocati su una grande parete. Uno pneumatico, un’accetta, una ramazza, un libro aperto ed altro ancora: le dinamiche attraverso cui sono stati posizionati sulla superficie precedentemente ridipinta sono diverse, ma in tutti i casi rispettano una studiata nomenclatura che tiene conto non certo di


rapporti di parentela funzionale, ma formale. In ogni caso sulla parete del suo studio, e quindi sulle stampe su alluminio, c’è un oggetto che assume una centralità o comunque un punto di partenza spaziale; da qui si dipana poi un sistema di nuove coordinate, autonome e al contempo connesse all’oggetto originario. E anche in questo risiede la studiata nomenclatura del processo generativo nelle opere di D’Acquisto, vere e proprie forme articolate di conoscenza e pensiero, che da autobiografico può diventare comune, collettivo e quindi “politico”. L’esperienza individuale è una metafora di ciò che può accadere agli altri, alle persone che vivono attorno a noi, ma anche un invito a ripensare l’esistenza attraverso una rimodulazione perpetua di ciò che ci circonda, anche un oggetto apparentemente insignificante. Ma perché Forming? “Il titolo si riferisce al fatto che l’opera coincide con il suo processo di formazione”, suggerisce l’artista, facendo poi anche riferimento a un vecchio album dei Germs, gruppo punk rock statunitense. Secondo D’Acquisto in quel disco “la band propone per due volte un pezzo, Forming. La prima traccia suonata nel momento in cui, per la prima volta, la band imbraccia gli strumenti senza averne padronanza, la seconda registrata a distanza di qualche tempo, quando la consapevolezza tecnica si era mescolata all’urgenza espressiva”. Questa dualità si verifica in qualche modo anche nell’opera di D’Acquisto: l’installazione site-specific nel suo studio è solo il primo momento della sua nuova indagine.

Ad essa sono strettamente collegate le riproduzioni fotografiche di porzioni di parete, poi stampate su superfici metalliche che evidenziano taluni aloni di colore sulla superficie, quasi delle screziature. Questo secondo momento della ricerca non è un’immagine meramente documentale, ma il prosieguo dell’opera stessa, che in questa fase assume i connotati di un oggetto mobile, un quadro. L’artista ha realizzato in galleria due installazioni site-specific, riproponendo il medesimo processo di costruzione avvenuto nel suo studio. D’Acquisto costruisce pertanto questo nuovo ciclo attraverso un processo, in qualche modo ecologico, di riutilizzo dell’esistente. E questo aspetto chiaramente lo accomuna, anche se per ragioni differenti, a molti artisti attivi dai primi anni Zero, in qualche modo legati a un carattere sperimentale ma anche di recupero di formule e materiali che appartengono alla storia. Forming è pertanto un progetto, una mostra, in via di definizione, proprio perché rappresenta il punto di partenza per nuove prospettive, dedite a un’osservazione ravvicinata della realtà e di ciò che paradossalmente gli si contrappone. [Il testo è estratto da L. Madaro, Forming, catalogo della mostra (Parigi, 22,48 m2), Edizioni Galleria 22,48 m2, Parigi; L. Madaro, Daniele D’Acquisto. SssSF, Gagliardi e Domke, Torino 2015]. [Foto - Studio di Daniele D’Acquisto, Fiorenzuola d’Arda (Piacenza). Installazioni del progetto Forming, 2015]



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La Città Verticale Osvaldo Piliego

Requiem for a dream brother È un tempo, questo, di pensieri rivolti al passato, anni di nostalgia per chi e cosa non c’è più. E si celebrano i compleanni dei non più vivi ma comunque eterni. Oggi Jeff Buckley avrebbe compiuto 49 anni, e invece no. Esce comunque un suo disco, archeologia musicale, ritrovamenti, resti. Preferisco il ricordo, chiudere questa storia nel 1997 e nutrirmi di mancanza. Incasellare nella mia libreria dei sentimenti “Grace” come l’attimo di respiro concesso alla mia adolescenza claustrofobica, come l’emancipazione dal rumore, perdita dell’innocenza e addio all’infanzia. Recentemente ho visto le vite di Kurt Cobain e Amy Winehouse raccontate in video e ho provato la tristezza del bimbo che non crede più al Natale. Scrostare la patina del tempo svela stanze dove non si dovrebbe entrare neanche in punta di piedi. Sapere troppo rovina inevitabilmente il fascino, svela il mito e lo rende umano, a volte troppo. Meglio mantenere il fascino della distanza, quell’erotismo del vedo e non vedo. E invece queste camere indugiano con l’accuratezza di un entomologo. Fanno della persona uno scarafaggio, dello straordinario la più squallida deriva di un’esistenza. Meglio conservare la musica, solo quella, ragione e rovina di vite spezzate. In questi tempi sovraesposti, anche l’intimo e il privato sono in pasto all’utente. Siamo fruitori di vite altrui ed espositori della nostra. Abbiamo messo filtri alla realtà e girato l’obiettivo, come dice Roberto Cotroneo, verso di noi. Se prima il nostro sguardo era rivolto all’altro e alla scoperta oggi la prospettiva vede se stessi in primo piano e il resto sullo sfondo. Ritorno dell’io, non dell’uomo,

un cambio di prospettiva pericoloso che sovverte alcune regole e sconfina spesso nel troppo. Troppe immagini, video, commenti, parole, informazioni. Ciò che prima era episodico, fermarsi per scrivere, scattare una foto, parlare, adesso è flusso, fa parte del tempo, è possibile in ogni istante. Questo svuota tutti questi gesti di senso, gli toglie peso. Preferirei sapere di meno, vedere di meno di chi ho amato e di te che non mi interessi da sempre. Leggiamo ancora, e tanto, ma cose prive di importanza. Come nel “Panorama” raccontato da Tommaso Pincio, ci dimentichiamo dei libri. Come di quello veggente di Houellebeque, quello che aveva immaginato la “sottomissione” di una generazione, falcidiata poi al Bataclan. Alla bulimia preferisco il digiuno e la misura della scelta. Come i morti viventi della serie tv ormai famosa, o quelli de “La Resurrezione della carne” di Francesco Bianconi si rischia di diventare funzione, mossi da fame semplice e non dal gusto. E allora riesumiamo pratiche antiche, per riprendere il possesso, recuperare il senso della materia. Compriamo vinili, sfogliamo libri, spegniamo i dispositivi, tocchiamo le nostre donne, smettiamo di fotografare l’impiattamento e invitiamo la gente a cena. Riscopriamo gli appetiti prima dell’arrivo de “la nausée”. Oggi più che mai ho bisogno di avere, mentre tutti vogliono solo esserci, io voglio qualcosa che sia solo mia. Il senso di queste poche righe è l’invito ad abbracciare una quaresima laica, un ritorno al silenzio e alla pausa. A fare preghiere con le canzoni: l’Hallelujah di Cohen e la voce di Jeff.


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FOOD SOUND SYSTEM Donpasta

IL JAZZ è UNO STILE DI VITA Marco Bardoscia è uno dei migliori jazzisti in circolazione in Europa. Lo dico senza perplessità, perché Marco ha, nei suoni come nella vita, conservato il senso più intimo del jazz delle origini, che è quello della festa, del divertimento. Il suo ultimo album, “Tutti solo” (Off - Record label), ne è la riprova tra suite eleganti, rumori da paperino e un’attitudine da jazzista puro che gli garantisce di poter fare qualsiasi cosa con quello strumento. Il jazz è spesso di una noia mortale, fattelo dire. Si è passati dalle feste nelle bettole piene di musicisti grandiosi felicemente ubriachi e sboccati a concerti freddi in luoghi asettici per un pubblico distante. Mi dai una definizione di jazz meno pedante? Più che un preciso stile musicale, è più un atteggiamento e uno stile di vita. Proviamo a dire cosa non è il Jazz: il Jazz non è “elitario” essendo nato e cresciuto tra gli ultimi e per gli ultimi; Il Jazz non è “monotono”, se esiste una musica che offre diversità, beh quella è proprio il Jazz; Il Jazz non è “scolastico”, nonostante la grande diffusione di libri, video didattici e scuole di tutti i tipi e livelli alla fine suona sempre chi trova la sua strada, quello che in gergo chiamiamo “Il suo suono”; e infine il Jazz non è con i paraocchi, una delle caratteristiche, a mio avviso, del vero Jazzista è la capacità di tenere la mente aperta evitando di cadere nella trappola del: “questo non è Jazz” che non vuol dire niente. Insomma il Jazz secondo me è libertà, prima di tutto intellettuale e di conseguenza stilistica. Sei uomo dalla festa facile, come ho potuto costatare nelle nostre frequenti bisbocce comuni prima e dopo i nostri spettacoli. Cosa è per te la festa e la cucina e come le legheresti mentalmente alla musica? E come al tuo Salento?

Nella mia mente ho impresso il ricordo delle feste nell’aia d’estate quando ero bambino, mi ricordo che ognuno portava qualcosa, chi la pitta di patate, chi “lu sarginiscu”, chi il vino fatto in casa. Le serate in campagna a casa dei miei cominciavano presto e finivano a notte inoltrata, non si accendeva la TV e non c’era neanche l’Hi-fi, la musica si faceva con la chitarra, le posate, i bicchieri e la voce, repertorio misto di Folk e stornelli. Sul tardi mio padre metteva l’acqua a bollire e preparava gli spaghetti aglio, olio e peperoncino per tutti. I bambini giocavano a nascondino, ma in campagna di sera era buio pesto e io avevo paura del buio, così restavo con i grandi a cantare e a suonare, è stato così che è iniziato tutto, il mio primo ricordo musicale è legato proprio alla festa. Gioco sporco: tre canzoni o autori e tre ricette e perché Io cucino raramente per me, mi piace farlo per gli altri e quindi sceglierò delle ricette legate alle persone alle quali le associo e nelle quali il cibo si trasforma in amore commestibile. “All the world is green” di Tom Waits e le polpette di Giacomo e Tina (mio padre e mia madre). Per me hanno un sapore diverso da tutte le altre. Quando tra un concerto e l’altro passo a casa da loro le trovo sempre appena fritte, la cosa bella è che ultimamente hanno cominciato a cucinare insieme quindi mia madre “ncocula” e mio padre frigge. “Silencio” di Ibrahim Ferrer e Omara Portuondo e la torta pasticciotto che la Zia Marilena, mi prepara per il mio compleanno. “Henna” di Lucio Dalla perché parla di Pace, una specie di cantico delle creature moderno e laico, con la mia pasta con salsiccia funghi e pomodorini di collina. è la mia “specialità”, mi viene quasi sempre buonissima soprattutto se la cucino per chi amo.


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VAFFANCOOL Daniele De Luca

IL TITOLO DI AMBASCIATORE Cosa si diceva qualche anno fa? Ah, sì, “la rete vi renderà liberi!” ... cazzate! Al massimo, ci ha resi più analfabeti e presuntuosi. Un attimo, facciamo un passo indietro, in caso contrario non ci si può capire. Allora, 13 novembre 2015, un drappello di terroristi, sotto la miserrima bandiera nera dell’Isis, colpisce indiscriminatamente alcuni luoghi pubblici di Parigi, uccidendo più di 130 persone. Luoghi non particolarmente simbolici, no, solo il terrore per il terrore. Risposta quasi immediata della Francia: bombardamenti su obiettivi di daesh in Siria. Intanto, già da qualche settimana, Putin aveva ordinato sistematici attacchi contro il falso califfato e in supporto dell’alleato di sempre Bashar al-Assad. E allora, mi dirai tu mio semplice e forse unico lettore, cosa c’entra la rete in tutto questo? C’entra... c’entra... un po’ di pazienza. Le crisi internazionali sono strutture complicatissime nella loro semplicità: uno Stato – o una organizzazione internazionale (legittima o meno) – ne provoca una, altri rispondono. La risposta è data da considerazioni di opportunità politica, economica, strategica o, banalmente, tattica. Tutto qui. Facile, no? Ma proprio per niente, se no il conflitto israelo-palestinese sarebbe finito da tempo o i curdi avrebbero già uno Stato autonomo. E invece, nelle ultime settimane, in rete abbiamo trovato una marea infinita di Premi Nobel per la pace, o nuovi capo di Stato Maggiore del Pentagono. Oppure, peggio, estensori e divulgatori dei più assurdi e miserevoli complotti in cui Mossad, CIA, KGB... Topo Gigio e Darth Vader si appropriano della Forza per intrappolare e fottere noi semplici mortali. Eppure il principio è elementare nella sua umile banalità, e Nanni Moretti lo ha reso al meglio in una semplice frase: “Io non parlo di cose che non conosco!” (Sogni d’oro). Se

partiamo da qui, miei cari esperti di politica internazionale, strategia nucleare, storia delle diplomazia, teoria dei giochi applicata alla guerra fredda... uncinetto, tombolo, samba e cha cha cha, il mondo sarebbe migliore, molto migliore perché sarebbe quasi – e sottolineo quasi – esente dalle vostre stronzate e dissenteria verbale! E, poi, abbiamo un altro problema: vedo una numero sempre più cospicuo di grandi e assennati lettori di titoli. Ripeto: Ti-to-li. è troppo faticoso leggere gli articoli per intero, magari non ci sono nemmeno foto da scaricare e taggare, quindi ci si ferma al titolo, lo si pubblica, lo si condivide e lo si trasforma nella Notizia. Già, la notizia. Probabilmente per deformazione professionale, prima della lettura di una qualsiasi informazione ne controllo la fonte, l’onestà del sito. E invece, voi, che tutto sapete, che tutto potete, che tutto analizzate, pubblicate impunemente link dal nome spudoratamente bastardo, nemmeno fosse il “Washington Post” nei giorni del Watergate. Insomma, basterebbe solo ricordare che “occorre essere attenti per essere padroni di sé stessi” (Linea Gotica) . Lasciate che vi dica una cosa, “con calma, dignità e classe” (Frankenstein Jr.): mi avete rotto il cazzo! Sì, è inutile ve lo nasconda. Non sapete neanche cosa sia un’ambasciata, una presentazione di credenziali diplomatiche e vi permettete di indicare la via maestra nella risoluzione dei conflitti con post che nemmeno mia nipote di 11 anni (che qui saluto... ciao Sofia, bella dello zio) avrebbe il coraggio di pensare. Insomma, lasciate che vi dica una sola, semplice, innegabile, cristallina parola, essa già trasvola ed accende gli animi delle persone consapevoli della loro ignoranza settaria... una sola parola... MavaffanCool!!!


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BRODO DI FRUTTA Adelmo Monachese

Stato di incolumità naturale Prima dell’attuale clima di terrore che ci è ormai più familiare del caldo di dicembre, a vivacizzare le cose ci aveva pensato Fabio Perrone, ergastolano ora latitante con una pericolosità sociale maggiore di quella di un videopoker con l’Aids, il Daspo, leghista e con un tatuaggio raffigurante il volto di Pasquale Bruno. è riuscito a scappare mentre stava andando a farsi una gastroscopia sotto il controllo di due agenti di custodia. Un evento annunciato: le cose che si perdono di più sono proprio quelle con la custodia, ed è stato subito panico. Non abbiamo fatto in tempo a goderci un po’ di terrore Made in Puglia che sono arrivati gli attentati di Parigi. Stadio, ristorante, teatro, blitz, arresti, perquisizioni. Finanche in Italia sono stati arrestati dei militanti dell’Isis. Uno degli aspiranti kamikaze di stanza in Italia, aveva proposto per farsi saltare in aria in una libreria ma dopo ripetuti sopralluoghi e documentazione sullo stato delle librerie italiane si è reso conto che sarebbe morto solo lui e il libraio che, tanto, è già morto dentro. La cosa più disumana al riguardo sono stati i politici a dirla: “Non abbandonate il vostro stile di vita”. Col cazzo! Sono una persona normale, non sono e spero tanto di non diventare un eroe. Vogliamo cose come tranquillità, comodità e sicurezza perché siamo esseri umani e quello che ci ha permesso di non estinguerci (idea comunque da rivalutare se presa per scelta condivisa e non per detonazione altrui) è stata la capacità di adattarci alle condizioni ostili: all’epoca abbiamo capito che rimanere nudi quando faceva freddo non andava bene, abbiamo capito che mangiare animali e piante era meglio che ingerire pietre e che gli animali più facili da catturare erano quelli

più docili e non quelli che ci facevano rizzare i peli dalla paura, appunto. Quindi, non mi dicano di non abbandonare il mio stile di vita. Volete sapere qual è il mio stile di vita preferito? Incolume, e spero di poterlo mantenere a lungo. Cambiare per un po’ abitudini non significa essere sconfitti ma solo prevenire in attesa di tempi migliori. Quando c’è stata la peste a Milano pensate che quel tizio che, vincendo le proteste della moglie, ha esclamato: “Un virus straniero non modificherà in modo alcuno il mio stile di vita. Ti saluto moglie, vado a rinvigorir lo spirito in osteria!” abbia avuto modo di narrare del suo coraggio ai discendenti? Se ci troviamo in tempi difficili permettetemi di cagarmi addosso fino a quando, e anche questo è nella natura umana, ritornerà la tranquillità e riprenderemo a fare ciò che preferiamo ma per ora un viaggio aereo in Medio Oriente non è tra le cento cose che vorrei fare prima della fine dell’anno. Prima i posti più ambiti nei ristoranti erano quelli vicino al camino o quelli vista panorama, ora il primo tavolo occupato è quello vicino alle uscite antipanico. Vi pare normale? Di questi tempi indicare che un’uscita sia contro il panico è il modo migliore per fartelo venire, ti fa pensare: “Dovrei provare panico? Perché non lo sto provando? Sto sottovalutando il pericolo?”. Magari i terroristi avranno momentaneamente vinto, ma almeno organizziamoci con qualche accortezza se proprio vogliamo andare al ristorante: evitiamo la carne di maiale, o almeno facciamocela fare impanata così non darà nell’occhio, camerieri armati e invece di prenotare facciamo il check-in così, invece delle uscite, saranno le entrate ad essere antipanico.


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AFFRESCHI&RINFRESCHI Mauro Marino

alchimie in bianco e nero L’artista di strada sfida il tempo, quello meteorologico e quello “storico” del fare, nel confronto con i ritmi quotidiani della città. Lo fanno i mimi sui loro sgabelli, immobili, col viso bianco, pronti a mutar postura appena una moneta suona; lo fanno i musicisti e lo fanno anche i pittori: un laboratorio en plain air, una palestra per l’affinamento dello stile che si offre allo sguardo “distratto” dei passanti, tentandoli all’attenzione. Ogni atto creativo diviene poetico quando il pensiero trasmigra nelle cose e l’atto creativo si compie. L’operare artistico - che è pensiero e azione – costruisce, offre all’immaginario la materia di visioni che nell’intenzione dell’artefice sono testo, forma, “terra” per la semina del “senso”. Nuovo, il senso, ogni volta che l’invito allo sguardo si rinnova. Le opere di Alessandra Chiffi - che ha atelier per strada, a Lecce, lungo Corso Libertini con Giancarlo Mustich – somigliano ad alchimie. Costruzioni complesse, volumi descritti da verticali nere tengono corpi. Pitturazioni, le sue, figlie di trasmigrazioni intellettuali. Profonde meditazioni filosofiche mischiano i segreti della sua ricerca visuale con le immagini. L’assenza di segni nel bianco diventa campo per l’attesa, riflessione per il guardare dell’altro. Scrive in una nota Alessandra Chiffi presentando una sua recente mostra titolata “E=mc²” (l’equazione che ha cambiato il mondo enunciata da Albert Einstein nel 1905, che stabilisce l’equivalenza e il fattore di conversione tra l’energia e la massa di un sistema fisico): “Il vuoto cerca la sua forma e nel suo concretizzarsi genera ancora se stesso, non come contenitore inerme, ma come oggetto attivo e creativo. Esso si presenta come fonte di infinite

possibilità, in tal senso il vuoto è in realtà il “massimamente pieno”. Nel suo divenire si scontra con il suo opposto e con esso si riconcilia. Ogni aspetto del Tutto nasce da questo dinamico e continuo relazionarsi dei contrari, un ritmo a due tempi che nel suo stato di equilibrio raggiunge la massima armonia per poi allontanarsene e cominciare un nuovo ciclo. Questo si ripete su infiniti livelli e infinite scale, nel micro come nel macrocosmo, seguendo un modello frattale. Tale struttura è in parte dominata dal caso; la natura, priva di volontà, agisce per spontanea emanazione, non è pensiero, ma puro Atto. Queste opere non sono rappresentazioni, non illustrano il Tutto ma ne fanno parte e imitandone i meccanismi diventano esse stesse il Tutto”. Potente eh! L’ordine e il non ordine; l’archetipo e il presente, il passato e ciò che è trovano nella superficie compositiva lo spazio del respiro. La superficie dipinta chiama l’altro all’esserci dell’arte, l’artefice muove le sue “forme del probabile”, la materia di una scrittura sempre densa in ciò che non dice. In ciò che sospeso rimane nascosto tra i bianchi e i neri. Per vedere, serve lucidare gli occhi. Scavare oltre l’ordinario e l’abitudine. Forarseli gli occhi, se è il caso, per trovare pace, abbandono e guardare dove mai s’è guardato. A questo serve l’esercizio dell’autore, del pittore, dell’artista: a questo continuo sollecitare. Alessandra Chiffi è nata a Taranto nel 1986. Dopo essersi formata nel Liceo Artistico Lisippo della sua città, ha conseguito il diploma di secondo livello nell’Accademia di Belle Arti di Lecce.


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STANZA 105 Mino Pica

CULTURAL TREND, USATO SICURO Ho l’impressione sempre più pressante di assistere alla nascita di nuove definizioni ed alla contemporanea scomparsa dei relativi significati. Le piazze - direbbe Vasco Brondi - sono vuote ed i social media manager occupano invece gli spazi dei nostri curriculum. Siamo passati dallo square and share (definizione ora priva di significato) agli inviti riservati per occuparci dei nostri spazi (significato privo di definizione). Non molto tempo fa non mancava certo chi organizzava concerti, mostre e rassegne senza lira alcuna, e lo poteva fare anche senza creare un evento su facebook, perdersi nei tag o nello sponsorizzare un post. Oggi mi sento circondato da innovatori sociali, di solito over 30/40 che, bando alle ciance, cercano affannosamente fondi per non raggiungerlo. Co working rivolti ad esperti disoccupati, share, food, sharing, lab, share, e book, share, like. Nel 2015 pensiamo, ad esempio, sia ancora una novità l’house concert, senza sapere che arrivò in Italia già nel 2007, sulla scia di un cultural trend concepito ancora prima negli Stati Uniti a cui seguì la nascita a Londra, nel 2009, anche dell’home secret. Nel mio terridorio (Brindisi) - ma non ne sono ancora certo - soltanto in quest’ultimo anno si è forse capita la sua vera essenza. Certo, non è mancato chi, nella mia città, ha annunciato la data invitando, come uno spam impazzito, mezza popolazione; a questo non poteva neanche man-

care l’indicazione del posto geniale: non un salotto, non una casa privata, non un garage, non un capannone ma un locale noto, aperto al pubblico, dove in realtà si suona abitualmente. Questo è successo solo qualche mese fa, con il Gigi La Trottola che è in me caduto più volte sul fondo del pavimento. Fortunatamente mi è capitato anche di assistere a fantastici house concert, in campagna sopratutto, in provincia in particolare, alla luce naturale, per esser chiari, con il numero giusto di invitati, per riuscire a parlarci. Non citerò gli autori, mi tengo il segreto, come un Poeta maLeDetto prIma di varcare il Confine. In realtà questa tendenza a svuotare le piazze e a popolare i salotti non mi dispiace affatto. Anzi. La verità è che non ho mai amato le definizioni, figuriamoci quelle prive di significato. Vorrei essere invitato dalle novità, dallo spirito digitalter/nativo, da chi sia sul pezzo, da chi sia in grado di anticipare i tempi, e non da chi non ci arriva a stento otto anni dopo. Dove sono i nuovi Andrea Verardi, Osvaldo Piliego, i nuovi Cioppino, i nuovi Franz Lenti, i nuovi Daniele Rini e Marco Profilo, dove diamine sono! Sorrido a scriverlo. Forse sono in piazza ma ormai non la frequento più. Temo che siano in stazione ma preferisco immaginarli nei loro soggiorni a creare momenti a cui un giorno saremo invitati.


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STORIE DA TED Gabriella Morelli

IMMAGINARE LE DITA SUI PISTONI Le sue mani non si vedono mai. Tenete bene a mente questo particolare quando arriverete alla fine di questa storia. Quello che colpisce di Vincenzo Deluci è la fame di vita che innanzitutto è sinonimo di musica. Ripete sempre che suonare è più importante di qualunque azione quotidiana. E se a dirlo è un tetraplegico queste parole non sanno nè di retorica, nè di un eccesso di emotività. Ma di grande verità.

che che sopravvivere e tornare a suonare sarà la sua rivincita. A tre mesi dall’incidente cerca un software per poter scrivere la sua musica. Trova un programma di scrittura. Ma non funziona. È un metodo lento, freddo, automatico che riduce tutto ad una schermo con i comandi freccetta sù, freccetta giù. Capisce che così non può funzionare, che questo non è scrivere musica su un pentagramma, notine su e giù...

Ottobre 2004. Vincenzo è un trombettista affermato, in Italia e all’estero, e molto talentuoso. Ama la musica sopra ogni cosa. Ha trent’anni, sono le due di notte e sta rientrando a casa dopo aver tenuto un ennesimo concerto, con il suo trio, in un teatro di Maglie. All’improvviso un pirata della strada sulla statale gli va addosso. Un boato tremendo. Esce, senza colpa, vivo da lì per miracolo, ma la diagnosi è di quelle che non perdonano: alta lesione del midollo. Da quel momento la sua vita, dicono, sarà in assenza di movimento, senza ritmo. Una condanna per uno che si ciba di musica. Attaccato ad un respiratore artificiale, confinato in un letto e totalmente dipendente dalle vite degli altri. Vincenzo attraversa il buio. Ma si ribella, non è mai rimasto a letto e dice a se stesso, ok o vivo o muoio. Sceglie di vivere consapevole che la vita è una partita. La sua, dice a stesso, al momento l’ha persa, ma pensa an-

E poi deve fare i conti con la sua condizione. Da tetraplegico è diventato lento come una lumaca. Dopo infinite vicissitudini ospedaliere di ogni tipo, Vincenzo ha dalla sua una cosa preziosissima: i movimenti residui del suo fisico, cioè avambraccio sinistro, collo e testa. Lavora sodo e duro, il ritmo della sua giornata è scandito da cure, visite, esercizi faticosissimi che deve fare ogni giorno da solo e con la fisioterapista. E continua a scrivere, comporre, ascoltare. Sempre meglio, finché non arriva una prima grande svolta. Un computer come spartito comandato attraverso un puntatore ottico che funge da mouse e un bollino adesivo applicato sul naso, che aziona con semplici movimenti della testa. 2006. Giuliano Di Cesare, amico di Vincenzo, costruisce per lui la sua prima tromba “Slide Trumpet” di questa nuova vita. Una roba complicatissima, una tromba par-


ticolare, con la coulisse. Lui ha il guizzo geniale tipico di chi pratica l’innovazione nella sua forma più alta ovvero migliorare il domani di tutti. Si ingegna a costruire, modificare, spacchettare. La sua specialità sono gli strumenti musicali di ogni genere. Li modifica e crea nuove opportunità sensoriali: i suoni diventano inedite esperienze emotive. Giuliano entra in casa di Vincenzo con un borsone pieno di pezzi di strumenti musicali. Vorrei costruire una tromba proviamo? Provare e riprovare, all’inizio e per lungo tempo senza nessun risultato positivo. Quattro prototipi, un unico errore ripetuto. Il calcolo della potenza della forza che Vincenzo poteva scaricare sui pistoni non era mai abbastanza. Mesi di fatiche e morale a terra, fino al lampo di genio: una specie di trombone che potesse sfruttare il movimento recuperato dell’avambraccio. Che tradotto più o meno voleva dire uno strumento fatto con una struttura di legno su cui si poneva la carrozzina di Vincenzo. Era tutto legato e connesso, in qualche modo, al movimento della carrozzina. Difficile per me qui da spiegare. Vincenzo ci sta. Non avrebbe fatto tantissima musica, ma poteva tornare a suonare nonostante tutte le immense difficoltà dovute alla sua condizione. Cosa che gli riesce sempre grazie all’amore della sua famiglia e alla musica. Ed è proprio suo padre che ad un certo punto subentra in questa storia d’amore per la vita. Vincenzo lo chiama Mc Gyver. Per tre notti di seguito lavora freneticamente sul nuovo prototipo musicale. Vincenzo sempre immobile sul letto, guarda il lavoro frenetico attorno. Buio iperattivo. Il quarto giorno si ritrova tutta la struttura smontata con la tromba appoggiata su un lato. Madò mò che succede? Suo padre aveva avuto un’illuminazione sul prototipo. Un tubo d’acciaio, cuscinetti a sfera vicino al guanto legato alla coulisse... e si ricomincia. Giugno 2010. Ricominciare proprio da lì, dove tutto do-

veva accadere, le Grotte di Castellana, con lo spettacolo “VianDante. Paradiso-Inferno, andata e ritorno” una metafora della sua storia, ispirata alla Divina Commedia di Dante, da cui ha estrapolato alcuni passi recitati da Beppe Servillo, per ripercorrere in musica la sua esperienza. Il significato del concerto del 2010 è fondamentale perché quel concerto Vincenzo non lo ha più fatto proprio a causa di quel maledetto incidente. Il suo pensiero era ricominciare da lì. Proprio in quel luogo in cui il riverbero è unico, scandito da secondi precisi. E il suono della tromba è naturalmente elettrificato. Diventa sempre più limpido fino ad essere pulitissimo. Limpido. Senza effetti. Vincenzo è felice, contento del risultato. Ma qualcosa resta ancora rotto. Quella non era la sua tromba. Il pensiero costante torna sempre lì: suonare una tromba a pistoni! Non con la coulisse. Dicembre 2011. Una delle sensazioni più comuni che ci portiamo dietro è che le cose non possono cambiare. Invece le cose cambiano, con fatica. E a volte, contro ogni previsione cambiano in meglio. Vincenzo viene contattato da un ragazzo che in realtà lo seguiva da anni. Un genio informatico. Da questo incontro nasce l’Associazione “AccordiAbili”, un sodalizio nato a Fasano, con l’obiettivo di promuovere la ricerca e lo sviluppo di tecnologie in grado di avvicinare i disabili, con facoltà cognitive integre, all’utilizzo di uno strumento musicale. Ad oggi l’associazione lavora su tutti gli strumenti musicali e in piedi ci sono numerosi progetti per aiutare altri musicisti disabili. A questo punto della storia entra dirompente l’innovazione che porta con sè la sua grande spinta fatta principalmente di entusiasmo e voglia di fare. A torto o a ragione, diventa una forma di lotta. Arriva arduino e tutto cambia. Vincenzo davanti alla TV si imbatte in un video di una celebre marca di automobili che ha come protagonista un tizio che guida una macchina solo con l’ausilio di un


caschetto neurale capace di registrare l’attività elettrica del cervello. La mente vola, corre via più veloce di quella macchina e il traguardo è una certezza: per scrivere la musica serve che il caschetto registri solo 6 combinazioni per i sei pistoni della tromba. Compra in rete un caschetto, taglia tutti i capelli. Inizia a sperimentare. Sullo schermo del pc viene visualizzata una pallina gialla, e poi una freccia che va giù e una che va su. Funziona così: pensi una parola e viene scritta sullo schermo. Pensi di stare con la tromba ed ecco la nota e il pistone corrispondente. Ora, per un sistema così complesso la concentrazione deve essere massima. Nessuna distrazione altrimenti il meccanismo si inceppa. Ogni singola parola richiede un grandissimo sforzo. Bisogna esercitare un controllo totale del cervello. Alla fine è una pratica che sfianca, un sistema troppo difficile che costringe anche una “capa tosta” come Vincenzo a desistere. Ma a non mollare. Questa è una cosa da tenere ben presente. Come le intuizioni che in questa storia contano moltissimo. Scusa ma se con la struttura che mi ha fatto papà creiamo qualcosa per governare le combinazioni con il joystick visto che io la mano la muovo benissimo? Presto fatto. Vengono messi dei sensori con un joistick dedicato. Oggi Vincenzo si dice contento a metà perché non può fare ancora molte delle cose che vorrebbe. Ma è solo questione di tempo. Ripete, mi verrà qualche altra idea perché la soluzione c’è l’ho nella testa. Come ad esempio il Prototipo pensato per chi ha subito amputazioni. Ma la sua lesione è midollare. E sa che questo paragone è quasi impossibile. Dopo l’incidente i medici furono netti. Non si sarebbe potuto staccare né dal letto, né dal respiratore artificiale, a causa dell’alta lesione del midollo. E chiarisce spesso in pubblico che è sì, su una carrozzina, ma è vivo e suona. E questo per lui ciò che conta. A tal punto che ha pensato anche di farsi mettere un chip in testa qualora servisse perché la musica è il suo mondo. Lo fa stare bene, male, gli dà speranza,

felicità, tristezza. Arrivati fino a qui mi dico che noi normodotati pensiamo di essere quelli buoni a fare le cose. Non pensiamo che per noi è solo tutto più facile. Il quotidiano di Vincenzo è fatto di lotta, ostinazione, disciplina, di quella volontà che la vita non ha piegato. Non c’è traccia di rabbia o di cinismo. O meglio non lascia trasparire nessun segno di incrinatura nella sua grande forza. Forse perchè la decisione di come restare al mondo l’ha presa in quei dieci minuti di buio quando ha capito che la vita quella di prima non ci sarebbe più stata. Tutto quello che non sarebbe servito a vincere questa battaglia l’ha lasciato in quel buio. Nel momento in cui ho preso gli appunti per scrivere questo pezzo tempo fa a Ginevra, (perdonatemi se trovate qualche imprecisione nel mettere insieme tutti i pezzi di questa storia) Vincenzo stava suonando. Con lui altri musicisti invitati in Svizzera dal contrabbasista leccese Massimo Pinca. Il suono della tromba era nitido. Pulito, ma arrivava forte. Un suono pieno che sa di quella rivincita con la vita, di quella partita lasciata a metà. Sulle note struggenti di Summertime pensavo: la palla è ancora al centro. Perchè è una sfida. Una sfida che io oggi rimbalzo su tutta la comunità dei maker, degli hacker, del mondo dell’internet of things. Cercate Vincenzo, mettetevi in contatto con lui. Facciamolo. Perché questa è una sfida con la vita. È come tutte le sfide per la vita non la vince solo uno. Se Vincenzo torna a suonare. Abbiamo vinto tutti. Vi ho detto all’inizio di tenere d’occhio questa storia delle mani. “Ogni nota che suono la penso e muovo le dita. Così ho suonato per 30 anni. Adesso è difficilissimo non pensare al movimento delle mani. Immagino le dita sui pistoni. Il ponte è tra il cervello e le dita che sono ferme”, questo è Vincenzo Deluci.



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