Coolclub.it n.21 (Dicembre 2005, gennaio 2006)

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Per questi motivi da credenti, praticanti e ferventi del rock abbiamo accolto a braccia aperte la proposta del nostro collaboratore Gianpaolo Chiriacò. L’idea di un Coolclub.it dedicato al fenomeno delle bande ci è piaciuta subito. Innanzitutto per lo spirito che anima la rinascita di questo movimento, per il suo essere spontaneo e gioviale, per il suo modo di essere genere al di là dei generi perché da tutti prende un po’: rock in un certo senso. Con questo spirito trasversale si ripropone un patrimonio antico come quello delle bande. Ci piaceva, poi, l’idea di poter parlare in modo diverso, nuovo, di tradizione senza abbracciare il tamburello, ma alla testa di una fanfara. E abbiamo scoperto che parlare di bande è parlare del mondo, di mescolanze e contaminazioni (quelle vere). Il 31 dicembre a Otranto l’alba del nuovo anno avrà il suono dei popoli, quelli del mediterraneo che si incontrano in un grande concerto. Ci saranno Cesare Dell’Anna e tutto il suo Albania Hotel ( di cui parliamo a pag. 34) Admir Shkurtaj con i suoi Talea, Elio e le storie Tese con il coro delle voci Bulgare, i Magnifico e Turbolentza, la fanfara di Tirana e la banda di Lecce. Quale migliore occasione (fortuita tra l’altro) per parlare di bande. Nella prima parte del giornale troverete un’introduzione al fenomeno con uno sguardo al passato e al presente e un piccolo censimento di bande e fanfare italiane ( gli esclusi non si sentano offesi). All’interno, poi, un’intervista a Livio Minafra, direttore della Municipale Balcanica, e quella a Don Pasta che con il suo progetto Food sound system è riuscito a unire cucina salentina, musica rock e bande. Questo numero di Coolclub.it dura di più, dicembre e gennaio, una piccola pausa per tirare il fiato. Vi lasciamo alle nostre recensioni, consigliandovi il bellissimo ultimo album degli Arab strap e il nuovo grande romanzo di Bret Easton Ellis. Usate questo numero di Coolclub.it, se vi va, come una guida all’acquisto alternativo per un natale rock and roll. Sfogliando queste pagine troverete le nostre interviste, le recensioni e tutti gli appuntamenti delle prossime settimane. Tutto il collettivo redazionale vi augura buona fine e buon principio e vi da appuntamento a febbraio. Osvaldo Piliego

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 2 Numero 21 dicembre 2005 - gennaio 2006 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Collaboratori: Giancarlo Susanna, Valentina Cataldo, Sergio Chiari, Davide Castrignanò, Patrizio Longo, Antonio Iovane, Rossano Astremo, Rita Miglietta, Daniele Lala, Fulvio Totaro, Federico Vaglio, Lorenzo Coppola, Nicola Pace, Giacomo Rosato, Nino D’Attis, Luca Greco, Luisa Cotardo, Emanuele Carrafa, Francesco Lefons, Camillo Fasulo, Federico Baglivi, Lorenzo Donvito, Gianpaolo Chiriacò, Livio Polini, Bob Sinisi, Eugenio Levi, Nise No, Giancarlo Bruno, Davide Ruffini, Loris Romano, Dario Quarta, Carlo Chicco, Patrizio Longo, Anna Puricella, Giancarlo Greco, Stefania Azzollini, Silvia Visconti

BANDA, NO BAND 4-5 Bande Rock 8 Alba dei popoli 9 Keep Cool

12 Mark Eitzel 14 Bruce Springsteen 22 John Lennon

23 Coolibrì 28 Dario Flaccovio Editore 29 Be Cool

32 Franco Galluzzi Livera 34 Food Sound System

Ringraziamo la redazione di Blackmailmag.com e Alice Pedroletti Foto di copertina Andrea Mosso Progetto grafico dario Impaginazione Roberto “Demon” Pasanisi

36 Appuntamenti

Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso in redazione prima del previsto ma dopo il prevedibile (5 dicembre 2005) Per inserzioni pubblicitarie: Cesare Liaci T 3404649571 cesare@coolclub.it

38 Fumetti Nella foto Rachid Sannane

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Il rock incontra altre culture. Fin qui, niente di nuovo: da ché mondo è mondo, le culture di origine popolare si sono trasformate, adeguate, imbastardite per mezzo di riletture, fusioni, contaminazioni e rimescolamenti. Ed è ancor più vero quando si parla di rock perché, per primo, ha dato voce alle realtà giovanili, da sempre in continua trasformazione. Passando dalla liberazione del bacino alla liberazione della mente, dal rifiuto del sistema alla liberazione dai confini, il popolo giovanile ha trovato volta per volta il suono più aderente alle sue evoluzioni, e a questo suono ha dato il nome di rock. Per tale motivo abbiamo deciso di classificare come rock un fenomeno attuale ma allo stesso tempo antico:

LE BANDE MODERNE Benché quasi invisibile e (per ora) sconosciuto ai più, esiste da qualche anno un fermento, uno scambio di idee, collaborazioni e condivisioni. Ricorda, per struttura e dinamiche, il movimento italiano dei primi anni Novanta, ma riporta il tutto in una dimensione più solare, conviviale, festaiola e terzomondista. Ne fanno parte decine di ensemble di strumenti a fiato, nati nei luoghi più diversi: centri sociali metropolitani, associazioni, scuole di musica, come esercizio d’assieme o come rifiuto verso gli studi di conservatorio. Un magma effervescente, i cui esponenti hanno nomi bizzarri e polivalenti: Titubanda, Fiati Sprecati, Ottoni a Scoppio, Contrabbanda (rispettivamente da Roma, Firenze, Milano e Napoli) fino ai più “comuni” Banda Ionica e Municipale Balcanica. Sono gruppi ampi: arrivano a contenere venti o anche trenta elementi, ognuno con un ruolo preciso, assegnato democraticamente, utile ma non indispensabile. Fanfare, quindi, nel vero senso della parola, che hanno abbandonato gli spartiti classici e hanno fatto della pluralità del repertorio la regola comune. Al punto che ci si può aspettare di tutto, dall’immancabile ritmo balcanico ai tanghi di Piazzolla, da Watermelon Man di Herbie Hancock ai canti partigiani. È una storia recente, con meno di dieci anni di vita, eppure affonda le radici in un terreno di due secoli fa. Un movimento contemporaneo e, per ora, underground (o di nicchia, ma fa differenza nel mondo del rock?). Deve ancora trovare un suo spazio nel mainstream odierno, e non è detto che sia destinato a emergere com’è successo per le posse, però è già “un genere”: coinvolge centinaia di persone, e una quantità di compagini, collegate in una rete attiva e solidale. Si domanderà a questo punto il lettore in pieno stile Celentano: ma tutto questo è rock? La risposta è disagevole: il fatto è che il linguaggio del rock ha smesso da tempo di concentrarsi su chitarra distorta e batteria fragorosa. Come si è detto, il rock ha rotto gli argini del suo mondo di appartenenza e, allargandosi a trecentosessanta gradi, ha abbracciato tradizioni diverse. Il predominio del chitarrista, bello e dannato, è venuto meno; al suo posto, teen-agers e ventenni hanno iniziato a cimentarsi nell’apprendimento di altri strumenti, tra cui anche qualche faticoso e (im)popolare strumento a fiato. Clarinetti, sassofoni, tromboni, tube, inoltre, a differenza della chitarra, hanno conservato un certo fascino itinerante, vagabondo, non conformista, che il rock glorioso possedeva a quintali - e

BANDE che ora, impettito, ha perso. Se a tutto ciò si aggiunge un intento politico e decisamente new global, si può capire come siano nate queste formazioni, libere di girovagare per festival o per assolati paesini di provincia, trasmettendo la gioia del far musica e un sentimento di totale partecipazione sonora.

LA STORIA Il termine banda, tra i vari significati, fa riferimento a quei complessi di strumenti a fiato e percussioni che hanno caratterizzato un’esperienza antica e fantastica, meridionale e contadina. Dedite alla riproposizione del repertorio classico, e operistico in particolare, le bande «di paese» hanno avuto il merito di portare in tutti i villaggi i fasti della musica italiana dell’ottocento. In occasione delle feste patronali, dei riti della settimana santa, o anche solo laddove qualche morto si poteva permettere un corteo funebre - per non parlare di figure romantiche quali poveracci avidi che risparmiavano una vita solo per avere la banda al proprio funerale - ci si imbatteva facilmente in personaggi con divise stravaganti, dal modo di suonare unico ed emozionante. Intorno alle bande, poi, nel corso di un secolo e mezzo, si è addensato un alone di serietà un po’ cialtrona, un concentrato di aristocrazia e teatralità, un simbolo di riscatto abborracciato e grossolano. La banda è anche diventata un’istituzione dell’Italia unita, e un’icona: compositori importanti hanno scritto per bande, e maestri di banda sono diventati compositori famosi (Pietro Mascagni, ad esempio, era maestro di banda a Cerignola in provincia di Foggia). Né si tratta di una particolarità nostrana: orchestre di fiati sono diffuse in tutto il mondo, nelle culture


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ROCK

popolari. Ed è una esperienza che, ovunque, profuma di esotismo, di stregoneria, di quel fascino irresistibile dovuto alla capacità di soffiare musica dentro aggeggi luccicanti - del resto, secondo la leggenda, il numero di bandisti colpevoli di fuitine è stato altissimo, secondo solo a quello dei circensi. Nel mondo delle fanfare era in gioco la capacità delle popolazioni più povere e disadattate di rielaborare il complesso di canoni e valori della cultura dominante, per integrarli con i propri e creare qualcosa di completamente nuovo, sporco e multiforme. FANFARE D’OGGI Nonostante la distanza temporale, le nuove bande si innestano nel filone storico. Tra giovani esaltati (forse anche spaventati) dalla complessità del mondo musicale moderno, dalle mille correnti eterogenee, e dal fascino di questo costume ancora esistente, si è fatta strada la voglia di suonare insieme. Cosicché il bisogno di essere cosmopoliti, di abbandonarsi al nomadismo per qualche mese l’anno, ha portato all’accrescimento e alla diffusione del fenomeno. Le bande popolari e giovanili si sono allora confrontate e riconosciute nel corso delle manifestazioni, dei social forum, dei festival degli artisti di strada. Da lì alla realizzazione di iniziative autonome il passo è stato breve. Un esempio ne è “la Sbandata”, appuntamento annuale delle «bande di strada», che nell’edizione di quest’anno ha portato a Roma una dozzina di gruppi europei (oltre agli italiani, c’erano la francese Fanfare Des Kadors, la Express Brass Band da Monaco di Baviera, e la Slavina Balcanica). Le bande in campo contribuiscono a ridisegnare

una nuova geografia musicale, localizzata e globale a un tempo. Il primo passo talvolta è la riscoperta di un costume popolare, come è successo per la Banda Ionica con i riti della settimana santa in Sicilia; in altre occasioni invece è il contrario: l’amore per una musica di origine lontana innesca un desiderio di emulazione che finisce per confondersi con un lontano retaggio, un inspiegabile senso di appartenenza, a cui si dà voce. Ma se la partenza è in qualche modo confinata, le fanfare d’oggi possono arrivare ovunque: il repertorio si allarga, abbraccia tutti gli universi musicali, e le collaborazioni internazionali si infittiscono, quasi ad affermare la migrazione (da sud a nord e da nord a sud) come un bisogno per la stessa sopravvivenza - emblematico, in questo senso, il caso dei salentini Opa Cupa. Eppoi l’interesse verso organici ampi, e più in generale verso gli strumenti a fiato, si è ampliato negli ultimi anni ed è stato condiviso all’interno di svariati campi musicali. A smuovere il terreno è arrivata per prima la valanga balcanica. Grazie al successone di “Underground”, si è diffusa una passione per quella musica presentata nei film di Kusturica (vedi art. a pag. 31). Un suono scoppiettante, rapido, incalzante eppure chiaro, diretto e malinconico a un tempo. Senza attendere troppo, nacquero le prime contaminazioni: il famoso Live in Volvo di Capossela, in cui spicca la presenza della Kočani Orkestar, o la Bella Ciao suonata il Capodanno del 2000 dai Modena City Ramblers e dall’orchestra di Goran Bregovic (l’intellettuale simbolo della riscoperta della musica balcanica). Inoltre, esistevano già contesti in cui ottoni e ance non erano affatto sconosciuti, anzi. Gruppi reggae come gli Africa Unite e i Pitura Freska, superata la fase “posse”, avvicinarono le masse al quel particolare sound, e ancor di più ha fatto negli ultimi anni Roy Paci, con la sua esuberanza e il suo virtuosismo di trombettista. Nel frattempo, c’ha messo del suo la musica cubana, capace di conquistare ampi strati sociali, dall’intellettualoide cinefilo irretito da “Buena Vista Social Club” al playboy coatto che vede nel latinoamericano la chiave del suo successo. E quanti esempi ci sarebbero in tempi di world-music! Alla fine del racconto, però, val la pena di notare come questi stimoli sonori disparati si siano incontrati con la tradizione italiana della banda, come ognuno di questi abbia lasciato semi nel fertile terreno giovanile. Semi che sono poi cresciuti all’interno di bande giovanili e popolari e nei loro repertori sfaccettati, eterodossi, meticci. Espressione colorata, vivace, estemporanea, com’è sempre stato il rock. Gianpaolo Chiriacò


Band contest Cortei, rassegne, raduni, fusioni e confusioni assortite hanno portato le fanfare a incontrarsi e crescere. Vi presentiamo qui alcune di queste bande italiane e una parte dei loro lavori discografici. È un piccolo spaccato di un quadro ampio e variegato; un’indicazione minima per incominciare ad appassionarsi a questa moderna tradizione. Un contest amichevole, che accoglie formazioni diverse per strumentazione, repertorio e orientamento artistico, ma simili per entusiasmo e passione. IL PAPÀ IDEALE Banda Città Ruvo Di Puglia La Banda Enja

Pino Minafra, uno dei principali animatori della scena culturale italiana, trombettista d’avanguardia e docente di conservatorio, è il cuore e la mente di questo progetto. La sua opera di rivalutazione del ruolo delle bande è iniziata circa un ventennio fa, insieme alla Banda Città Ruvo di Puglia, e il frutto del lavoro svolto è stato trasferito in questo cd doppio, pubblicato nel 1997. Disc One è una registrazione del “repertorio classico” (da La donna è mobile a Nessun dorma); il Two, invece, contiene composizioni originali per un’orchestra di fiati e una squadra di importanti solisti – tra cui Lucilla Galeazzi, Gianluigi Trovesi e Michel Godard. Il suono è straodinariamente moderno, ricchissimo ma mai affettato. Un

CoolClub.it prodotto consigliabile a chiunque si trovi alla ricerca di timbri inauditi nell’universo attuale saturo e intasato. LA PRIMA SBANDATA Ottoni a Scoppio La storia della prima banda di strada inizia nel 1986. Armati di strumenti e voglia di “muoversi”, i militanti-musicisti degli Ottoni a Scoppio si sono ritrovati ad affrontare momenti difficili ma significativi. A Sarajevo avviano cortei improvvisati per le vie della città. Si recano in Palestina, negli stessi giorni in cui le truppe israeliane assediano la sede dell’autorità palestinese, si rifugiano a Ramallah per poi entrare a Betlemme suonando. Nelle loro esecuzioni itineranti prediligono canzoni di lotta e di resistenza provenienti da tutte le parti del mondo. I VIRTUOSI Kočani Orkestar Meets Paolo Fresu & Antonello Salis Live Il Manifesto Un incontro fra All Stars. La Kočani compendia il meglio delle fanfare macedoni (spessore ritmico, abilità dei solisti, dolore e rabbia), mentre gli astri di Paolo Fresu e Antonello Salis brillano tra le stelle più luminose del jazz europeo. Un tale ensemble si può abbandonare così a viaggi aperti e liberi. Non solo irruenti, ma anche belli e lirici come Papigo, un tema lento su cui Salis cuce un assolo preziosissimo. Variazioni Sul Ballo chiude un cerchio ideale: un brano popolare sardo riscritto da un jazzista e interpretato da una banda macedone. Contaminazione allo stato puro, il senso più autentico delle orchestre popolari del nuovo millennio. LO SPETTACOLO BANDISTICO La Banda Improvvisa Lesamoré Materiali Sonori Ogni traccia di questo disco

è stata registrata dal vivo in contesti differenti, tra il marzo del 2003 al settembre 2004. La Banda Improvvisa sarebbe la filarmonica Giuseppe Verdi di Loro Ciuffenna (Arezzo) e un manipolo di esperti musicisti - ci sono anche Daniele Sepe e Auli Kokko. La potenza sonora degli arrangiamenti è impressionante, con una quantità di variazioni e sfumature tale da far venire in mente le orchestre “serie”. È un po’ come ascoltare la banda che dalla cassarmonica suona Serenata Alla Carpinese, Padrone Mio di Matteo Salvatore o una delle inarrivabili creazioni di Brassens: Les Amoreux Des Bancs Publics. L’IMPEGNO POLITICO Titubanda Sette Propria Nata negli ambienti dei centri sociali romani, la Titubanda lancia una sfida culturale e politica in antitesi al mercato: imbracciare gli strumenti per riappropriarsi della musica e di quel senso di condivisione che ne è il corollario. Abituata a suonare in ogni situazione e in ogni circostanza, la Titubanda trova dal vivo la sua dimensione più felice, una sorta di professionismo di strada coinvolgente e fascinoso. Il suono del disco è poco brillante, ma propone un viaggio ideologico attraverso brani di autori e compositori diversi, esempi, tutti in qualche modo rappresentativi, di culture e personalità coraggiose. Da Bregovic a Domenico Modugno, dai King Crimson a Roberto De Simone, da Charles Mingus a Khaled.

LA BANDA MEDICA Banda Roncati A partire dal 1992 ci sono bande perfino nelle cliniche. L’occupazione di strutture sanitarie ha anche battezzato la formazione: Banda Roncati, dal nome dell’ospedale psichiatrico bolognese in cui il gruppo di strumentisti si è fatto strada con fiati, percussioni, melodiche e fisarmoniche. Da lì sono poi arrivate numerose partecipazioni a festival e compilation (Transmigrazioni del Manifesto, tra le altre), e si è fatto strada una scaletta articolata, contaminata da jazz e sigle tv. LA FRANGIA NOMADE Acquaragia Drom Mister Romanò Finisterre

È uno degli esempi più fulgidi della corrente “zingara” della musica italiana. Violino, organetto, clarino e tamburello riscrivono in chiave gitana motivi storici come Recerche la Titina. L’approccio è certamente meno orchestrale rispetto alle altre formazioni segnalate, ma l’attitudine nomade del gruppo rende bene l’idea di banda di strada. La voglia di far festa, di arrivare al mattino con la musica, porta a mescolare allegria alla voce del clarinetto basso, l’improvvisazione alla malinconia dei Rom, senza tetto ovunque malvoluti. Alla jam-session partecipano alcuni protagonisti silenziosi della musica italiana, semisconosciuti ma decisivi: Nando Citarella, Paolo


CoolClub.it Modugno, Aldo De Scalzi. IL CIRCOLO MEDITERRANEO Opa Cupa Hotel Albania 11-8 Records Dopo l’immediatezza di Live in Contrada Tangano, arriva il nuovo disco della compagine di Cesare Dell’Anna. Un lavoro ancora più studiato, aperto e intenso del precedente. Dalle finestre dell’Hotel Albania ci si affaccia su tutto il mediterraneo, dal Magreb ai Balcani, e il panorama complessivo diventa qualcosa di originale, ibrido al 100%. Per riuscire a mettere insieme così tante culture e mentalità ci vuole un leader deciso e ingegnoso come il trombettista salentino. Se poi ognuno dei componenti (uno per tutti: Riccardo Pittau) possiede qualità eccellenti, il gioco è fatto e si aprano le danze. Si inizia con le dirompenti Ligenziana e Karavia, si passa per l’affresco composito e suggestivo di Stelle Salenti e si finisce, sudati e contenti, con Balkan Games e Yaske in Albania Hotel. GLI INSULARI La Banda Ionica

Una collaborazione tra Fabio Barovero (Mau Mau) e Roy Paci, un’idea portata avanti con l’aiuto di musicisti altamente qualificati. Nel corso della sua esistenza, la Banda Ionica ha avuto come fine la riscoperta delle composizioni legate ai riti della settimana santa - nel primo

cd, Passione; l’elaborazione di un corpus di brani originali e di tradizionali siciliani rivisitati - nel secondo disco, Matri Mia, con la partecipazione di Vinicio Capossela, Cristina Zavalloni e altri ancora -; ed è infine sfociato in un progetto parallelo, la Banda di Avola, che nel frizzante ‘A Banna! riporta alla luce marce gioiose e allegre risalenti al periodo tra le due guerre mondiali. NOTE TRAMANDATE Ambrogio Sparagna e la Bosio Big Band Vorrei ballare Finisterre Non è il sound tipico delle fanfare,

fondato sul fragore dei fiati appena mitigato dalla nasalità dei clarinetti, tuttavia il maestro di Maranola mette in atto una riappropriazione culturale simile a quella delle bande moderne. E il materiale di partenza diventa, quindi, soltanto una scusa per restituire un’atmosfera e uno strumento (l’organetto) alle nostre orecchie. Lo stile è quello che abbiamo imparato a riconoscere nel corso delle ultime due edizioni della Notte della Taranta: melodie semplici, leggere ma dalla grande forza evocativa. Il ruolo di condottiero, poi, non è mai invasivo, e mira piuttosto a mantenere vivo il fuoco dell’interpretazione. Ambrogio Sparagna è anche cantante, e intona, sul fondale creato dell’organico, versi dalla consistenza impalpabile, quasi fiabesca. FANFARA & FRACASSO Contrabbanda

Contrabbanda Polosud Poteva mancare l’ala napoletana nel fenomeno vecchio e nuovo delle bande giovanili? Certamente no. L’espressione partenopea fatta di ance e ottoni si chiama Contrabbanda: musicisti giovanissimi che, nonostante l’accentuata e genetica attitudine allo schiamazzo, si muovono precisi e molto ben inquadrati. Il merito è di Luciano Russo (ideatore, fondatore, direttore e guida dei contrabbandieri), e delle sortite di famigerati banditi quali Daniele Sepe, Auli Kokko e Roberto Del Gaudio. Il clima di quest’opera prima oscilla tra popolare e popolaresco - due categorie ben poco distinte nella città di San Gennaro - ma accarezza anche il pop con i colorati arrangiamenti di Is This Love e Ob-la-di Ob-ladà, e la svolazzante Azzurro. Del resto la Contrabbanda è una fanfara con tutti i crismi, che può permettersi di eseguire con finezza anche pagine “impegnative” del novecento musicale come 8 e 1/2 di Nino Rota. WASTING GANG I Fiati Sprecati Caciarona e libertaria, un’organizzazione vivace benché raffazzonata e un suono spesso confuso ma vigoroso. Questa la formazione fiorentina dei Fiati Sprecati, sul sito fiatisprecati. it si possono assaggiare alcune realizzazioni, ma, affermano, dal vivo sono un’altra cosa. (Nella foto di sfondo) GLI APPRENDISTI Stradabanda Più che altro…mica tanto! Propria Tra i vari meriti che la Scuola Popolare di musica del Testaccio ha collezionato nel corso di circa trent’anni d’attività, c’è anche quello di aver dato i natali a questa banda. Sorta nel 1998

come un esperimento didattico, si è sviluppata attraverso numerose partecipazioni a festival fino alla realizzazione, nel marzo di quest’anno, di Più che altro…mica tanto! L’amalgama manca ancora di robustezza, ma compensa con una gran dose d’ironia. Inoltre, è evidente una piacevole attenzione verso la salvaguardia del sapore originale delle tessiture bandistiche, riportato in pezzi d’ogni tipo, da Basin Street Blues a una gustosa riproposizione del classico dance I Will Survive, fino ad arrivare a Branduardi e Battiato. IL FUTURO Municipale Balcanica Foua Ethnoworld Records La breve carrellata chiude dove era iniziata: all’interno della famiglia Minafra. Livio (veedi intervista a pag. 33), il figlio di Pino, infatti, con la sua Municipale Balcanica rappresenta il futuro del fenomeno bandistico, e non solo perché i componenti sono tutti giovani ancorché abilissimi, ma anche perché la tensione a inserire elementi sempre nuovi e diversi è massima. Le tracce più interessanti, peraltro, sono proprio quelle originali, frutto della fantasia di Livio, un Daniele Sepe pugliese, in cui tutto si condensa in qualcosa di assolutamente innovativo. Gianpaolo Chiriacò


CoolClub .it 31 Dicembre 2005 - Otranto La lunga alba dei popoli

Sono passati dieci anni dagli accordi di Dayton che, il 21 novembre 1995, posero fine alla guerra in Bosnia Erzegovina, anche se un percorso di pace reale, soprattutto riguardo all’esperienza interculturale della ex-Jugoslavia non appare ancora compiuto. La Provincia di Lecce, l’Istituto di Culture Mediterranee, il Comune di Otranto e numerosi partner nazionali ed internazionali quali la Fondazione

Mediterraneo, la Maison de la Mediterranée e la Fondazione Le Tre Culture di Siviglia costruiscono insieme un contenitore che ospita una rassegna delle tradizioni, della cultura popolare, delle espressioni artistiche dei popoli del Mediterraneo senza alcuna esclusione o preclusione. L’Alba dei Popoli - Otranto Festival ha preso il via il 25 e 26 novembre con il convegno La Prossima Europa: Mediterraneo Adriatico Balcani 1995-2005 a cura di Gianguido Palumbo e proseguirà sino al 10 gennaio con incontri, convegni,

Magnifico & Turbolentza, nella foto in alto Modena City Ramblers

cinema, musica. Una serie di rassegne musicali, improntate all’insegna del dialogo tra i paesi transfrontalieri dell’Adriatico, faranno incontrare le brass band della ex-Jugoslavia e dell’Albania con le tradizionali bande musicali del Salento. Il progetto Banda Larga metterà a confronto diverse realtà. La Fanfara di Tirana, una esaltante novità nella compagine delle fanfare balcaniche che si distingue rispetto alle fanfare slave per il linguaggio musicale ben articolato su un percorso melodico trascinante e incalzante, incontrerà la Banda di Squinzano; la Boban Markovic Orkestar, tra gli ensemble più popolari della Serbia e uno dei più conosciuti ed apprezzati in Europa, suonerà con la Banda di Galatina; la Ljiljana Petrovic Buttler & Mostar Sevdah Reunion si esibiranno con la Banda di Lecce. Lilijana Petrovic Buttler è una delle più popolari cantanti gitane in attività, al punto che nessuno ha messo in discussione il titolo di Madre dell’Anima Gypsy rivendicato nell’album Mother Of Gypsy Soul. La notte di San Silvestro andrà in scena il grande Concerto Euromediterraneo per il dialogo tra le culture. Sul palco un confronto tra musicisti delle due sponde del mediterraneo: il trombettista Cesare Dell’Anna, che da una decina di anni a questa parte guarda ad est ed

è diventato il più balcanico dei salentini, presenterà i suoi progetti, racchiusi nell’etichetta Albania Hotel, Zina e Opa Cupa (vedi art. a pag. 34); il compositore e fisarmonicista albanese ma da anni residente nel Salento Admir Shkurtaj si esibirà con i suoi Talea; i Nidi D’Arac e Yasmin Sannino, i Modena City Ramblers e i Magnifico & Turbolentza. La band slovena, nota nell’ultimo anno in Italia per aver firmato la sigla delle Iene, duetterà con la Banda di Lecce. Prima del concerto si terrà una “Fiaccolata in mare” con un grosso peschereccio, di quelli che da Mola di Bari vengono a pescare nel Canale d’Otranto per ricordare tutte le storie di uomini, donne, anziani e bambini che hanno attraversato il canale d’Otranto alla ricerca di un sogno. Per tutti i migranti che sono stati inghiottiti dal mare verrà simbolicamente accesa una fiammella galleggiante. Una lunga scia di luce accompagnata dalla musica della Fanfara di Tirana. Al termine del concerto, invece, ci sarà lo spettacolo pirotecnico. Ulteriori informazioni su www. provincia.le.it


Keep Cool

Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge, Italiana, Indie

Arab Strap The Last Romance Chemikal Underground di Osvaldo Piliego La Scozia si presenta con svariate atmosfere, è la patria di colori musicali diversi, di gruppi come i Belle and Sebastian, i Mogwai, ma anche Delgados, Bis, i grandi Urusei Yatsura. Glasgow, in particolare, è la culla di questa scena variegata che ha invaso e pervaso il mondo con le sue atmosfere autunnali, le sue scanzonate ballate e le aperture più rock. Ai margini di questa scena, lontani dai grossi centri, precisamente da Falkirk, arrivano gli Arab Strap. Dal 1995 sono uno di quei gruppi capaci di lasciare il segno ogni volta che mette in musica qualcosa, lo hanno fatto nel corso di questi anni con sei album che non sono fatti di semplici canzoni ma di vita, di letteratura, nichilismo. La speciale sinergia che scorre tra Aidan Moffat e Malcom Middleton produce qualcosa di semplicemente speciale, immediato, a suo modo unico. Le chitarre di Middleton cesellano con una chiarezza e misura i testi clinici, cinici, romantici e malinconici di Aidan, l’utilizzo di una timida elettronica in alcuni precedenti episodi era come una tela bianca su cui dipingere emozioni. La formazione a due, con alterni ospiti a com-

pletare le opere, rende gli Arab Strap il gruppo dell’intimità, quella tradita, nascosta violata e offesa. Con questo nuovo The Last Romance riescono ad andare oltre: oltre le aspettative, oltre se stessi. Questo album è diverso, più rock, conciso (dura poco più di 35 minuti), suonato ( alcune batterie sono state registrate dallo stesso Aidan Moffat) lancinante ma più positivo allo stesso tempo. La voce di Moffat è sempre in bilico, tra melodie accennate e recitati, Middleton si muove tra arpeggi, feedback, schitarrate. La cura di alcuni arrangiamenti quasi orchestrali li rende più accessibili e per questo non necessariamente pop ma semplicemente più godibili. Dopo le esperienze soliste, dopo il ritorno a Chemikal Underground, gli Arab Strap tornano insieme, con questo “ultimo romanzo”. Avvincente, avvolgente, maturo (Confessions of a Big Brother), romantico (Come around and love me), timido (Don’t ask me to dance) The Last Romance è bello come l’innamoramento, una folgorante manciata di momenti indimenticabili destinati a consumarsi presto e per questo da godere al massimo secondo dopo secondo.

la musica secondo coolcub


KeepCool

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The Subways Young For Eternity City Pavement/Warner I londinesi The Subways!, formati da Billy Lunn (voce e chitarra), Mary-Charlotte Cooper (voce e basso ma anche ammirata sex symbol dell’ultima generazione) e Josh Morgan (batteria) si sono fatti le ossa come supporter di artisti della scena musicale alternativa quali Graham Coxon (ex chitarra dei Blur), The Von Bondies, The Datsuns e The (International) Noise Conspiracy, conquistando l’attenzione di fans e addetti ai lavori. Young For Eternity è il loro album d’esordio, un riuscito mix di rock sporco, macchiato di pop e colorato da un’irrequieta attitudine punk, come anche di sfrontatezza e genuina grinta post-adolescenziale. In altre parole: rumorose ed intriganti canzoni che sanno stregare immediatamente, che bruciano in una spirale di invenzioni vulcaniche, che deragliano fra colonne di amplificatori in ebollizione, marchiate a fuoco da chitarre metalespanse. La pressione ultrasonica sale rapidamente verso la vetta della scala metrica del garage-punk contemporaneo con The Subways! “Young For Eternity” è in prima linea nella competizione “album dell’anno”! Niente male per dei ragazzi più o meno diciottenni provenienti dalla periferia della capitale inglese. Certamente gli Oasis e, perché no, anche i Nirvana sono da annoverare tra le influenze del terzetto, assieme ai soliti Beatles e Stones, nomi che, a distanza di anni, continuano a contraddistinguere il rock inglese. Energia pura, non trattenuta, condensata in 12 canzoni per appena 35 minuti di brucianti assalti sonici. Se non si perdono per strada risentiremo sicuramente parlare molto presto dei The Subways!. (Camillo Fasulo) Appaloosa Non posso stare senza di te Urtovox Gli Appaloosa sono tornati! E hanno chiamato rinforzi. Dopo l’esordio travolgente fatto di ritmiche tra il math e il post, divagazioni con due bassi in stile primi Tortoise, l’ironia e il gioco anni 70, il portento tecnico e sonoro dei live gli Appaloosa diventano quattro, cambiano etichetta e tornano con un nuovo album da titolo “Non posso stare senza te”. Restando fedeli ad alcuni punti forti del loro sound si lasciano affascinare dalla tecnologia. Tra sinth, campioni, drum machine la loro musica decolla

Devendra Banhart Cripple Crow XL/Self di Camillo Fasulo

Il vagabondo menestrello Banhart sta illuminando questo triste mondo malato. Cripple Crow, va detto subito, è senza dubbio la sua opera migliore e, considerato il notevole spessore delle tre che l’hanno preceduta, significa che adesso siamo ad un passo dal capolavoro. Per Banhart fare dischi è come un’esperienza culinaria. Si inserisce una melodia indiana qui o degli elementi latino-americani là, allo stesso modo in cui si aggiungono spezie e odori in un piatto esotico. E se i suoi primi lavori costituiscono un personale ricettario, Cripple Crow è sicuramente la sua prima cena. Raccolti un po’ di amici in una casa a Bearsville, Woodstock, (Antony e CocoRosie tra gli altri ) mr Banhart serve la sua “sperimentazione acustica” aggiungendo, al suo apprezzato folk in bassa fedeltà, accenti psichedelici, impressioni blues, aperture ad oriente, radici latine, riflessi country-rock, cori suggestivi e ispirazioni beatlesiane, il tutto condito con delle personalissime riflessioni che tradiscono una visione del mondo forse un po’ ingenua ma anche piuttosto maliziosa. Assaggiare per credere! Da restare a bocca aperta se pensiamo per un istante a chi abbiamo di fronte: un ventiquattrenne protagonista di una carriera sbalorditiva e non solo un indiscusso leader dell’alternative-folk newyorkese.

The Fiery Furnaces Rehearsing My Choir Rough Trade di Livio Polini I fratelli Eleanor e Matthew Friedberger, in arte Fiery Furnaces, in quest’ultimo album hanno pensato di coinvolgere, pensate un po’, la loro nonna, l’ottantenne Olga Sarantos, direttrice di coro di chiesa. Fermi come sempre nell’obbiettivo di spiazzare l’ascoltatore, il talentuoso duo indie-rock di Chicago ci propone un particolarissimo reading musicale fatto di aneddoti di vita personale e familiare, una lunga e articolata narrazione autobiografica recitata e cantata da Olga, intervallata dalla splendida ed emozionante performance vocale della nipote Eleanor e da tappeti sonori di altissima qualità dalle contaminazioni più imprevedibili. Uno scontro incontro generazionale: suoni di loop elettronici e strumenti classici, strumenti elettrici, drum,… I Fiery Furnaces partirono qualche anno fa con esordio sfolgorante (alcuni singoli molto creativi, un bel Lp di debutto dal titolo Gallowsbird’s Bark) e proseguirono con una produzione molto allettante (come Blueberry Boat) fino ad un raccolta di singoli, b-side e rarità pubblicata nei primi mesi del 2005 , intitolata Ep. Adesso ci propongono una doppia uscita, distanziata di qualche mese, che comincia con questo loro terzo lp, indubbiamente originale.

Father Murphy Six musicians getting unknow Madcap Collective di Federico Baglivi Six Musicians Getting Unknow è il secondo album dei Father Murphy, trio formato dal tuttofare della Madcap Collective e anima del gruppo, Federico Zanatta, con la collaborazione di Vittorio Demarin e Chiara Lee. Non esistono parole normali per descrivere il loro incedere notturno e le loro languide sospensioni di suoni, inafferrabili e frammentati. Tredici tracce sghembe e deviate che navigano nelle acque floride del lato più oscuro del folk rock, tra drones e innesti di psichedelia ricchi di fascino, tracciando un desueto paesaggio sonoro. A volte visionari, essenziali, lasciano intuire la grande intesa tra di loro in uno snodarsi e incrociarsi di generi. Police , I was in coma then I woke up and I asked for a milkshake, Millhouse e Indie Labels le migliori del lotto, senza dimenticare la splendida e assurda ghost track. In generale forse potrebbe sembrare un ascolto più facile del disco precedente, nonostante questo non sfociano mai nella banalità e sanno essere un’altra innovazione in un panorama indie italiano fortunatamente ricco di “fantastici elementi immaturi che usano strumenti”. Che tutta questo rigoglioso paesaggio possa portarci da qualche parte un giorno.

Nine Horses Snow Borne Sorrow Samadhisound di Livio Polini Nine Horse è il nuovo interessatissimo progetto di David Sylvian. In questa occasione troviamo coinvolto anche l’ex Japan nonché fratello Steve Jansen, il compositore elettronico e remixer Burnt Friedman ed illustri ospiti come il maestro Ryuichi Sakamoto (al piano), il trombettista norvegese Arve Henriksen (dei Supersilent) e la sensazionale voce della svedese Stina Nordenstam. Le nove canzoni, tutte composizioni di lunga durata (solo una sotto i cinque minuti), hanno il dono di far viaggiare l’ascoltatore in vari e vasti territori. Varie anche le influenze e i generi, dalla musica world-etno al jazz per finire anche nel pop e nell’avanguardia elettronica, il tutto con una facilità incredibile, con un equilibrio ed una coordinazione esemplare. Questo disco, è interessante sapere, risulta cosmopolita in tutto. Sono accadute infatti delle strane vicissitudini legate alla produzione: registrato negli studi americani di David Sylvian (Samadhisound, stesso nome dell’etichetta per cui esce l’album), il demo per evolversi e completarsi ha viaggiato in lungo ed in largo per il globo (Philadelphia, Sidney, Copenhagen, Tokyo, Berlino, Londra, ecc.) ritardando così la sua uscita. Snow Borne Sorrow risulta davvero un lavoro ben fatto, risulterà piacevole soprattutto agli ascoltatori attenti.

definitivamente. Centrifuga tutto e ci restituisce un disco pieno di rimandi, un puzzle di rock, surf, funky, psichedelia, krautrock e chi più ne ha più ne metta. La colonna sonora ideale dei nuovi tempi moderni (ascoltate Jeff sembra accompagnare un poliziesco ambientato su marte) disco da avere ma anche e soprattutto da vedere. Non perdete assolutamente un loro live. Milaus JJJ Black candy L’attacco sembra far eco agli ultimi Karate, ritmo cadenzato quasi funky, poi le atmosfere si assestano sui binari dell’indie e tutto scivola via che è una bellezza. Con questo JJJ i Milaus si riconfermano una delle realtà più interessanti del panorama underground italiano. Quel piglio pop che mi ricorda un po’ gli Hefner misto a fascinazioni dal retrogusto noise fanno pensare a molte cose, tante che alla fine finisci per arrenderti alla loro musica piena di intuizioni. C’è l’ecletticità dei Deus, gruppo a cui sono affiancati dai più, lo zampino ai controlli di Fabio Magistrali ai controlli (Marta sui tubi, Bugo), ritmo e dolcezza, rabbia e maturità. Come se i Motorpsycho giocassero a fare i Pavement. John Parish Once upon a little time Mescal Quando si parla di John Parish si pensa all’uomo che ha fatto suonare molti dei nostri dischi preferiti. Lo leggiamo nei libretti degli album dei Giant Sand, di Sparklehorse, Eels in qualità di produttore, musicista a seconda dei casi. Non nuova la sua fascinazione per l’Italia e la collaborazione con il nostro Cesare Basile e gli Afterhours. Ed è proprio con l’etichetta di questi ultimì che esce Once upon a little time. Come se le sue esperienze lo avessero marchiato, come se la sua impronta artistica sia parte determinante dei dischi in cui ha collaborato. Questo sembra il percorso solista di John Parish, una sintesi, intima e personale, di ciò che le sue orecchie hanno assorbito e le sue mani prodotto. Lo stile di Parish è la risultante di ciò che ci piace e non può che essere bellissimo. Le atmosfere rilassate e dilatate del suo album lasciano trasparire a chiare lettere la caratura del personaggio che confeziona una serie di canzoni che hanno la saggezza di Tom Waits e dei Giant e la leggerezza di un Beck acustico e degli Eels. Uno di quei dischi che può creare dipendenza ma che consiglio a tutti, prima e dopo l’amore.


KeepCool The Mars Volta Scabdates Gsl/ Universal Chi li ha visti dal vivo sostiene di aver assistito a un’esperienza mistica. Nella versione in studio sono già una sfida ai confini della musica, un viaggio che non tiene conto dei minuti, dell’anno in corso, delle normali battute in battere. I deliri e le impennate psichedeliche, le lunghe scivolate anni 70 a far visita ai Led Zeppelin nel live non fanno altro che prendere maggior respiro, lievitare. Può piacere agli appassionati, annoiare altri. Marcho’s Marcho’s Macaco Records Electro- pop scanzonato ma non stupido, come i Soerba prima che si sputtanassero, un piede negli anni 80, la mano ben salda a una bottiglia di rosso Marcho’s confeziona un tormentone che mi girerà in tesa per i prossimi tre giorni. Il nuovo inno degli alcolisti pentiti è mal di testa, ascoltare per credere. Uzzolo Chi è Neruda? La Piattaforma Vengono dal mantovano gli Uzzolo è come attitudine sembrano subito inserirsi nei territori del post. Come i Marlene non hanno potuto non restare folgorati dal noise dei Sonic Youth così gli Uzzolo non possono nascondere la loro passione per Slint, Mogway e compagnia bella. scegliere di cantare in italiano non è mai una scelta facile ed è forse l’unico neo in alcuni frangenti. Ma ci sono momenti in cui tutto sembra calibrato e misurato, in cui gli andamenti sghembi circolano ipnotici, in cui il fluire è piacevolmente irregolare e spezzato. Ci sono idee e di questi tempi non è facile. L’ennesima conferma di una scena in crescita anche in Italia. The Wetfinger operation The Wetfinger operation Autoprodotto Una piacevole scoperta, poi vedi che sono già stati demo del mese su Rumore, che vantano un’ottima rassegna stampa e capisci che è piuttosto una mancanza. The Wetfinger Operation si fanno avanti senza fronzoli e per questo conquistano subito. Affascinati dagli anni 80 come dai 90, dai Joy Division come dai Sonic Youth, riescono a conciliare melodia e grinta in album fuori dalle mode. Chitarre rotanti orbitano intorno a ritmiche serrate, cantato asciutto, incursioni più dissonanti. Veramente un bel lavoro.

11 Babyshambles Down in Albion Rough trade di Osvaldo Piliego

Ma cosa rimane una volta messi da parte Pete Doherty, Kate Moss, la droga, le copertine? I Babyshambles. La band capitanata dal nuovo martire del rock esce con questo Down in Albion ed è veramente difficile approcciarsi al disco senza preconcetti. Difficile ma non impossibile. Messa da parte Kate che si fa un pippotto, Pete che se la fa, il clamore di chi vuole fare di lui la nuova voce di una generazione rimane la musica. E per chi si intende di viaggi da fermi non è un bel trip. Un disco inconsistente in cui il tentativo di scimmiottare i Clash si perde dietro una manciata di buone idee spese male. Pete è più fuori che mai in tutti i sensi. I cori da stadio o da sbronza con amici nel pub dietro casa, alla lunga sanno di presa in giro. Musicalmente Pete ruba a se stesso, a suoi ex Libertines, ai già citati Clash (ci sono anche le incursioni nel reggae), cita Smiths, Blur, il punk ?!?, ma senza colpire mai il bersaglio (vista annebbiata?). Non è un disco brutto, alla fine dei conti, ma non merita un quarto dell’attenzione che ha ricevuto. Onestamente credo che il rock and roll sia altrove, lontano dai flash, e che il punk non sia solo autolesionismo.

Soulwax Nite versions Pias di Giacomo Rosato I Soulwax compiono un ulteriore passo in direzione del loro personalissimo percorso di contaminazione tra rock ed elettronica. Tassello dopo tassello i fratelli Dewaele si divertono a rimescolare le carte e a costruire nuovi intrecci tra i due progetti paralleli che li vedono protagonisti, al punto che Nite Versions appare come un disco dei Soulwax reinterpretato e mixato da 2 Many Dj’s. L’artwork della copertina e del booklet riprende con una variante cromatica il gioco di linee, ombre e vortici dall’effetto stupefacente (soprattutto nella versione in vinile) del precedente Any Minute Now, album da cui sono tratte queste “versioni notturne”, ad eccezione dell’omaggio ai Daft Punk di Teachers (pur con sensibili variazioni nel testo e nelle citazioni) in apertura del disco. Il suono è ricercato, elegante, ricco di soluzioni e ulteriormente impreziosito dalla voce di Nancy Whang. Due le versioni del singolo NY Excuse; la prima è una geniale traccia bastard pop in perfetto stile 2Many Dj’s “sporcata” dal sample di Funky Town dei Lipps,inc., la seconda è affidata alle mani sapienti del clan DFA, che si diverte a giocare tra ritmi tribali, frequenze disturbate e sonorità da club.

The Fall Heads roll Slogan/ Sanctuary di Giacomo Rosato

La carriera dei Fall rappresenta ad oggi una delle più fulgide testimonianze di longevità ed ispirazione artistica; una produzione vastissima, sempre all’insegna di una ricerca sonora geniale e poco avvezza a compromessi. L’estro creativo di Mark E. Smith sembra non conoscere pause e cadute di stile. Appena il tempo di assaporare e metabolizzare The Real New Fall Lp, disco ispiratissimo che celebrava degnamente i venticinque anni di storia, ed ecco pronta una nuova perla da incastonare nella discografia della band di Manchester. Head Rolls si apre con una batteria sincopata e minimale in cui si inserisce dapprima una voce scarna e visionaria e in seguito gli strumenti, ad ampliare e definire il suono. Midnight in Aspen ha un sapore quasi esotico con la base ritmica in primo piano, Early Days of Channel Fuhrer è una ballata struggente e sanguigna, mentre il singolo Clasp Hands fa il verso all’Iggy Pop di Lust for Life. La voce di Smith domina la scena muovendosi con disinvoltura tra calde melodie, rabbia delirante e intensi recitativi in quattordici episodi che vanno ulteriormente ad arricchire un repertorio già ricco di capolavori.

Sleater- Kinney The Woods Sub Pop/Audioglobe di Camillo Fasulo Tre ragazzacce visionarie, temerarie e furibonde ma anche liriche, intricate ed impegnative. Questo sono le Sleater-Kinney. Sguardo sul passato e mani sul presente per sognare il futuro. Con The Woods hanno realizzato quel che si può serenamente definire “il capolavoro della maturità”. Sono trascorsi poco più di dieci anni da quando le ragazze battezzarono il loro progetto, per loro la band voleva essere via di fuga da qualsiasi facile etichetta e, allo stesso tempo, un’ipotesi di lavoro verso il futuro del rock indipendente. Non sono stati anni spesi invano, perché le SleaterKinney sono ancora qui, in splendida forma e forti di un settimo album che non può passare inascoltato. Dieci brani per cinquanta minuti che esaltano la magnifica attitudine di queste tre simpatiche ribelli. Bastano pochi secondi per far capire a chiunque che le SleaterKinney non rinunceranno mai al loro rumoroso e visionario punk e che, assolutamente, non rientra nelle loro intenzioni abbandonare gli accidentati sentieri indie per varcare il casello di una veloce autostrada per l’alta classifica. Migliorarsi e crescere senza rinnegare spontaneità e voglia di divertirsi: questo è il loro credo. Non occorre scollegare il cervello per raggiungere lo scopo.

Why? Elephant Eyelash (Anticon) di Livio Polini Yoni Wolf aka Why?, ex-componente dei cLOUDDEAD, dopo la scissione del glorioso trio di Cincinnati, decide di lanciarsi come i suoi ex compagni in una nuova carriera solista (a quanto sembra di tutto rispetto). Una proposta spiazzante quella di Why?, che si propone come cantautore in quest’opera. Le influenze delle esperienze precedenti in questo modo risultano quasi abbandonate. Il musicista di Oakland non si allontana in nessun istante dalla forma canzone, sceglie di usare ampiamente chitarra e pianoforte, mescola fresca e raffinata elettronica, ricevendo un buon aiuto in studio da parte di un gruppo di musicisti tra cui il fratello Josiah. Attenzione! L’ascolto di Elephant Eyelash potrebbe essere interpretato come uno schiaffo violento da chi ha amato i cLOUDDEAD, come ho già detto parliamo in questo caso di tutt’altro genere. Non post hip-hop, ma un mix di influenze in stile indiepop che lasciano vedere somiglianze verso Beck dei tempi migliori, i magnifici Pavement, il cantautorato sconosciuto ai molti ma di gran valore di Daniel Johnston. Un buon disco, scorrevole e piacevole, di leggerezza, ma anche di qualità, una compattezza ed una solidità melodica che abbaglia e sorprende. Madonna Confessions on the dance floor Warner Bros di Davide Castrignanò Un nuovo taglio di capelli, un bel corpetto nuovo tra il glitter ed i ’70s, qualche passo di danza facilmente apprendibile da parte dei fans; riappare così sua eminenza Madonna, la signora indiscussa della popmusic, nonché mio guru personale nella promozione discografica. Ogni lancio discografico con lei si trasforma in una meticolosa e celebrale pianificazione di marketing al punto tale da imporsi una serie di ancheggiamenti da far invidia anche a più di qualche giovane trentenne (all’anagrafe le ne ha 47!!!). Miss Ciccone questa volta, in poco meno di 60 minuti di musica, fa le sue “confessioni” sul dance floor con l’obiettivo ben preciso di mietere proseliti fra i locali trendy-chic di mezzo mondo. Un album che probabilmente non passerà alla storia, ma dai botteghini dei negozi di dischi si; e questo basta alla nostra icona della comunicazione mediatica. 12 i pezzi che


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compongono Confessions on the dance floor e che di fatto remiscelano tutto ciò che è passato sui pavimenti dei club negli ultimi decenni, dall’house music ai trend più gettonati della musica elettronica mondiale. C’è la sveglia di Gwen Stefani (What you waiting for?), qualche passaggio che richiama gli Underworld, alcune reminescenze dei DaftPunk, sfumature electroclash, innumerevoli rimandi agli anni ’80, il pop di Kylie Minogue e così via. Il disco passa fluido, nel suo popular chic non fa una grinza: anonimo, tranquillizzante e comprensibile quanto basta da poter essere piacente a tutti. E’ inevitabile, ascoltando l’album, in molti troveranno almeno un pezzo che gli farà muovere un arto, canticchiare il ritornello o fargli ammettere a denti stretti “beh, però questo pezzo è carino!”. Perciò non resta che prostrarci alla dea del selfmadewoman e del discobusiness e sorbirci tutti i passaggi radio previsti nei prossimi mesi. Non ci resta che ballare. Incognito Eleven Dome Album numero undici per gli Incognito e a questo punto ci chiediamo se usciranno mai con un disco, se non brutto, quantomeno mediocre; la risposta sembra proprio scontata! Ad un solo anno dal bellissimo Adventures in black sunshine pochi si aspettavano un bis così a breve termine (l’album è stato pubblicizzato davvero poco ed è nato come lancio del tour). Le atmosfere di questo disco si adeguano ai tempi con un utilizzo garbato di drum machine e synth che, però, continuano sempre a tenere presente la strada maestra dell’acid jazz e del funk più soffice. In canzoni come Come away with me o We got the music gli Incognito sembrano fare l’occhiolino e tirare una gomitata di approvazione e complicità ai Jamiroquai più houseggianti; uno di questi pezzi in discoteca? Move your ass! Ascoltare Baby it’s all right o Will i ever learn è come immergersi nella colonna sonora del più bel film mai visto e la voce di Maysa Leak (ritornata a pieno titolo nella band) continua a sorprendere per potenza e dolcezza; come sempre intensa, precisa ed espressiva la sezione fiati; definitivamente superato, quindi, il periodo in cui si potevano incontrare all’interno dell’album alcuni odiati “riempi disco”. Il gruppo (in principio nato come Light Of The World) continua ad essere guidato

Mark Eitzel La forza della poesia di Giancarlo Susanna

Dire che Mark Eitzel - da solo o con i suoi leggendari American Music Club - è uno dei più grandi cantautori americani contemporanei è quasi scontato. Non lo avevamo mai visto in concerto e l’appuntamento al Jailbreak, locale emergente nel pur vivace circuito romano, era assolutamente imperdibile. Cantante e chitarrista eccellente, oltre che autore dalla poetica originale ed emozionante, Mark ha tenuto un concerto bellissimo e intenso. Esattamente quello (se non di più) che potevamo aspettarci da lui. Quella che segue è la trascrizione fedele della conversazione che abbiamo avuto con lui un paio d’ore prima che salisse sul palco. Pensi che in Europa ci sia più attenzione per i tuoi dischi e per la tua musica che negli Stati Uniti? Credo che in Europa ci sia più attenzione per l’arte in generale da parte della gente normale. In questo senso sì, c’è più attenzione per la mia musica. Qual è il paese europeo che ti piace di più? L’Italia, ovviamente. (ride) Tornando alla musica... Qual è la situazione della musica indipendente negli Stati Uniti? Non dev’essere facile fare dischi e farli passare alla radio. No. Non ci sono più radio. Dipende anche da quello che fai. In questo momento in America piacciono delle cose mediocri e molti artisti, pur di avere successo, fanno delle cose molto semplici. È dura. E d’altra parte per le etichette indipendenti è ancora più difficile perché quelli che una volta avrebbero comprato i dischi ora li scaricano da Internet. Questo finirà per uccidere le piccole etichette. Succede anche in Europa, non solo in America. E non bisogna dimenticare che da noi quello che funziona di più dal punto di vista commerciale è l’hip-hop. Se fai altre cose incontri maggiori difficoltà. E per i concerti? È più facile. Per andare da San Francisco a Seattle ci vogliono quindici ore di macchina. Diciamo che la distanza media è intorno alle dodici ore. Candy Ass è l’album che stavi registrando prima della reunion degli America Music Club? In parte sì. È un disco strano. Ci sono delle classiche canzoni di Mark Eitzel e degli strumentali. L’ho fatto un po’ in fretta e ne ha senza dubbio risentito dal punto di vista del suono. Ma mi piace. Io sono cresciuto ascoltando Low di David Bowie e Brian Eno e mi sono sempre piaciuti quei suoni. Non ci avevo proprio pensato... Io sì! Mi piacciono le cose un po’... strane. È un bel disco, completamente diverso da quello che fai con gli American Music Club. La tua attitudine nel modo di scrivere cambia a seconda della destinazione delle canzoni, immagino. Quando hai un computer e ci lavori per comporre, è completamente

diverso da quando usi una chitarra acustica. Questo vuol dire che tu porti i tuoi brani al gruppo e glieli fai ascoltare con la chitarra acustica? Se gli portassi una di questa canzoni (indica la copia di Candy Ass che è sul tavolo), il gruppo non avrebbe molto da fare. Sono due procedimenti differenti e io penso comunque di essere un autore migliore con la chitarra acustica. Per me è una cosa più naturale. Il computer è uno strumento che usi da poco tempo. Dopo Candy Ass ho registrato un album di soli strumentali, ma nessuno l’ha voluto ascoltare! Mi sono divertito a farlo. È un peccato, perché gli strumentali di Candy Ass hanno un loro fascino. Penso per esempio a A Loving Tribute To My City, con la voce campionata di una bambina. La voce l’ho presa dalla radio. Era una storia perfetta per San Francisco, perché la bambina ha un tumore, muore, va in paradiso e da lì vede il Golden Gate. Ti è capitato di usare il computer durante i concerti? No. Non mi piace il suono. E trovo anche noioso schiacciare un bottone e lasciare che il computer faccia tutto da solo. So che Aphex Twin si sdraia vicino alle sue macchine... (ride) Qual è la tua canzone preferita di Candy Ass? Ho avuto un sacco di recensioni negative per questo disco... Credo sia Make Sure They Hear, perché volevo scrivere qualcosa per delle persone che si sono rovinate, con la droga o altre cose. Volevo mandare loro un messaggio di comprensione... Don’t let them ask you what you believe (Non far loro chiedere in cosa credi). È un modo per dire “credete in qualcosa”. Gli American Music Club sono in pausa? No. Abbiamo appena finito un tour in America con un’altra band, gli Spoon. E abbiamo già registrato cinque canzoni per il prossimo disco.

dal vulcanico Jean Paul “Bluey” Maunick sin dal 1981 (anno dell’uscita del primo album JazzFunk) e nonostante il pericoloso passare degli anni, continua a sfornare prelibatezze musicali senza pari. (Giancarlo Bruno) Vive la Fête Grand Prix Surprise 2005 Deve essere per la lingua francese che insomma, si sa… ma le “canzoncine” di questo duo belga ci appaiono essere estremamente sensuali. Scavano nell’eredità elettronica degli anni ’80 e senza prendersi troppo sul serio Danny Mommens, ex bassista dei dEUS, e la sua ragazza Els Pynoo danno vita quasi per gioco ad un electro-pop che sa molto di Stereo Total e che scivola via leggero senza troppe complicazioni. In questo disco, come nei precedenti, i Vive la Fête sembrano contenere e miscelare caratteristiche ed interessi dei due musicisti ed unire l’amore per la musica wave anni ottanta dell’uno e la fissazione per Serge Gainsbourg/Jane Birkin dell’altra. Il risultato sono dei lavori orecchiabili e senza troppo senso, gradevoli riffs di chitarra e un synthpop che va ascoltato da lontano. Gli stessi titoli delle tracce suggeriscono una scelta di argomenti non propriamente intellettuale e loro stessi si definiscono sul sito la “Formula 1 del kitschpop”. Alla fine, un gruppo che ha creato un’immagine estremamente trendy. Non a caso -veniamo a saperesono spesso invitati a suonare durante le sfilate di moda parigine da stilisti quali Luis Vuitton e via dicendo. Altamente stilosi. (Valentina Cataldo)


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Fuori tempo, fuori dai canoni, il nuovo ritmo di Pleo. Il salentino Pierpaolo Leo, inizia la sua attività di “musicista elettronico” nel ‘97 con il gruppo di rock-avanguardia L’ Enfance Rouge (band di Francois Cambuzat, vedi intervista a pag. 16) creando sonorità granulari e aritmiche per i loro concerti. Nell’anno successivo concretizza il primo lavoro solista, Dyn-Aphonic, ispirato alle esperienze canadesi sulle mappature sonore. Dopo una serie fitta di collaborazioni realizza nel 2001 l’album Before Breakin’ pubblicato dalla fiorentina Audioglobe Records. Sempre con l’Enfance Rouge registra nello stesso periodo il loro nuovo disco Rostock-Namur, curando in particolare le tracce di musica concreta. Ha partecipato a numerosi festival di musica elettronica. Si occupa attualmente anche di installazioni sonore. È uscito Unclocked’ il suo ultimo album. Com’è nato il progetto di questo cd? Era da almeno due anni che desideravo dar vita ad un progetto simile. Durante i live hanno iniziato a prender vita questi 36 minuti. Sgretoli le strutture musicali

per ricostruirle. È una tua visione, un tuo concetto di intendere la musica stessa? Diciamo che è un rifiuto ad intendere la musica nel solito modo, scandito da un metronomo. Ecco il perché dello stacco dal tempo. Voglio allontanarmi da qualsiasi stereotipo per un’esigenza di libertà da qualsiasi canone musicale. Tutto quello che sembra scontato non lo è, così come ad esempio l’uso quasi obbligato della batteria standard o di un qualsiasi strumento omologato che cerco deliberatamente di evitare. Quali sono i tuoi prossimi impegni? Netmage a Bologna per un progetto audio-visivo con il videomaker Claudio Sinatti. Ma per il futuro è in dirittura d’arrivo anche una collaborazione con Populous. Abbiamo quasi finito un disco che avrà il nome di una neoformazione vera e propria. Che impressioni ti ha dato lavorare con Populous? Populous mi piace per la sua semplicità della melodia; cosa che a me spesso manca; è bravissimo nella ricerca raffinata di suoni semplici, ma capaci di dare emozioni. Ci unisce la passione comune per la psichedelia e l’immaginario trasognato, oltre a voler fare ‘musica elettronica’ con strumenti assolutamente analogici

quali chitarra, basso, fisarmonica, per poi filtrarli al computer. Il lavoro che stiamo portando avanti, procede in concomitanza con la mia ricerca di strumenti musicali elettronici ma dall’approccio puramente analogico. Una tua passione è realizzare strumenti musicali, come l’Ondes Martenot che stai costruendo... Si, mi appassiona molto costruire strumenti. Anche questo progetto rientra nel fine di creare sonorità nuove e nuovi approcci all’elettronica. L’Ondes Martenot mi sta a cuore perché mi pare che vada verso una probabile estinzione pur essendo lo strumento elettronico dalle capacità espressive nettamente superiore a tutti gli altri della sua categoria. Credo che al momento attuale sia necessario autocostruire strumenti nuovi. Il mercato offre ancora poco rispetto alle potenzialità che possono offrire gli strumenti musicali elettronici in termini di “suonabilità”. Pierpaolo Leo Unclocked’ Autonomen Records Lo spartito digitale si avvia in punta di piedi, come per risvegliarsi da una fase di letargo ormai terminata. Con un lento intercedere tra il battere e levare, la matrice stessa dello spartito musicale viene destrutturata e, tra tempo e ritmo, viene scomposta in particelle piccolissime da riutilizzare come tanti mattoncini ‘Lego’ con i quali dar vita a nuove forme. Questo è ‘Unclocked’, il nuovo lavoro di Pierpaolo Leo, prodotto per la Autonomen Records e distribuito

da justlikeheaven; un lavoro che segue a distanza di due anni il precedente ‘Before Breakin’. “Unclocked vuole discostarsi dalla rigidità del tempo” – si legge nella presentazione dell’album – “al confine tra disordine e serialità, in un limbo sonoro che spazia tra l’uno e l’altra”. Dodici tracce per 36 minuti di musica concettuale, intellettuale in cui Pierpaolo gioca con attrezzi e strumenti elettronici, sintetizzatori, campionamenti, programmi digitali in grado di riprodurre e costruire musica e strutture musicali e dove nel bel mezzo di un programma digitale si possono rintracciare il rintocco di una penna che sbatte su un tavolo o il rumore di una cardine di una porta o altri suoni analogici. Ci si imbatte in un lavoro dove il compositore diventa acrobata tra spazi musicali e sfasamenti temporali in continuo bilico tra l’improvvisazione sonora e la ripetizione (ricercata paradossalmente come una fonte di sicurezza) ritmicotemporale del suono stesso che si dilata su sagome futuriste. Un disco che ascolto dopo ascolto si presenta sempre con qualche novità, tutto da scoprire, ma sicuramente di ricerca e adatto ad un pubblico di nicchia. (D.C.)


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A working class hero is something to be Trent’anni di Born To Run

Correva l’agosto del 1975 quando un giovane Bruce Springsteen, supportato dalla sua E-Street band, dava alle stampe un terzo disco destinato ad avere un peso innegabile nella musica degli anni ’70 e a spiegare su tutto il rock a venire una forma di condizionamento palese e a più livelli. Un disco che consacrerà Springsteen come una delle più potenti icone rock dello scorso secolo e al contempo una delle più vivide e chiare voci dell’altra America. Per festeggiare l’ importante anniversario l’industria ha fatto arrivare nei negozi del globo degli oggetti preziosi ai quali difficilmente i fan di Bruce potranno resistere. Il primo è il classico box commemorativo, con due dvd più il cd di Born To Run completamente rimasterizzato, con un libretto di 48 pagine di foto inedite. Il primo dvd immortala lo storico concerto che la band tenne all’Hammersmith Odeon di Londra nel ’75,

con una scaletta da far paura e una qualità audio e video più che buona; il secondo dvd è un documentario dal titolo Wings for wheels: the making of ‘Born to run’. L’altro prodotto che farà la gioia degli aficionados è Real world. Sulle strade di Bruce Springsteen, un bel libro fotografico targato Arcana con foto di Giovanni Canitano e testi di Ermanno La bianca. Born to Run è da molti indicato come il disco più importante di Bruce, e le canzoni che lo compongono realizzano una frattura profonda nel song writing americano. Meno biblico di The River, meno oscuro di Darkness on the Edge of Town, Born To Run è il ritorno ad un rock autoriale vero e sanguigno in un momento di sbornie prog, con il punk ancora troppo lontano a venire. Con Born to Run Springsteen trasforma il rock in melodramma. Ciononostante, gli eccessi che avrebbero potuto inficiare il lavoro globale sono tenuti a bada da una band al suo apice e da un autore che comincia a scrivere storie profondamente calate nella mitologia americana, piene di eticità e magia. Il sogno americano ne esce rinnovato grazie ad una rilettura di quei temi cari ai grandi scrittori stelle e strisce, attualizzati e messi al servizio di un veicolo potente e diretto come il

rock di matrice ‘automobilistica’ suonato dalla band. Il tema della fuga resta il perno centrale per queste storie di alienazione urbana, dove seguire la retta via costa fatica e sacrifici. Lavorare duro per poi correre nelle strade di notte, in cerca di riscatto: pur senza le implicazioni sociali alle quali Springsteen ci abituerà in seguito, il protagonista delle canzoni è un working class hero, l’ultimo credibile che ci ha regalato la musica americana. L’iniziale Thunder Road chiarisce alcuni aspetti della nuova poetica springsteeniana, toccando vertici di realismo difficilmente raggiunti dalla canzone rock: ‘non sei una bellezza ma mi stai bene’ canta Bruce, rompendo con la tradizione che vuole che nelle canzoni tutto sia perfetto, idilliaco. E ancora, ‘aspetti invano che da queste strade si levi un redentore/ bene, io non sono un eroe, è risaputo/ ma tutta la redenzione che ti posso offrire è sotto il cofano di questa macchina’. Fino all’epica chiusura: ‘questa è una città di perdenti e io me ne sto andando per vincere’. Difficile adesso riuscire ad immaginare che effetto potessero avere queste parole su un adolescente americano di 30 anni fa. Racconta Martin Scorsese “ci fu un momento nel 1975 in cui si sentivano certe canzoni di Springsteen sparate dalla radio di qualche macchina o attraverso le finestre degli appartamenti e non importa quante volte tu le avessi ascoltate prima, non perdevano mai quell’effetto tagliente”. L’impatto fu talmente devastante a livello di immaginario collettivo

che la Fender moltiplicò le vendite della sua Telecaster, che campeggiava fiera tra le braccia di Bruce nella celebre cover. La ritmica profondamente urbana, il sax di Clarence Clemons, le chitarre e le tastiere creano un suono certamente debitore al Wall of Sound di Phil Spector, ma originale nell’impasto e negli arrangiamenti, eccessivi, pomposi, traboccanti di funky e soul e la titletrack è un manifesto del melodramma rock recitato da Springsteen, il cui refrain ancora riecheggia nelle strade, per una generazione di cuori affamati di riscatto. Backstreets è il più bell’omaggio mai scritto alle ore piccole, con lui e lei che ballano sulla spiaggia di Stockton Wing con le luci della città a fare da sfondo. Jungleland è invece un opera nell’opera, per dirla come Mike Scott dei Waterboys: gli archi concorrono a dipingere un quadretto sottoproletario in cui, illuminate dai neon delle stazioni di benzina, gang di rock’n’roll si affrontano nei parcheggi mentre Night, Meeting Across the River, She’s the One e Tenth Avenue Freeze-Out contribuiranno ad ingigantire il mito. Leggendarie performance dal vivo faranno il resto. Ilario Galati


KeepCool Extrema Set the world on fire Ammonia/V2 Quinto album per gli Extrema, la band simbolo del metal made in Italy. E dopo solo un minuto di intro è una colata di chitarre e violenza. Disco che ci restituisce da un lato gli Extrema delle origini, più metal che mai, e dall’altro un nuovo lato della band, quasi stoner in certi frangenti. Quattordici nuove tracce tra cui spiccano una cover dei Motorhead e una ballad in stile southern (forse la prima ad opera della band). Il resto è coerenza, tecnica eccelsa, grandi aperture, riff granitici, velocità supersoniche stop and go da togliere il fiato. Il vagone è sempre quello del trash metal, anche se gli Extrema non sembrano disdegnare incursioni nel death. Insieme dal lontano 88 gli Extrema sembrano non sentire gli anni che passano e riescono pur restando fedeli alle origini a confezionare un disco che si impone sulla scena con la dignità e l’importanza dei colleghi stranieri. Il 6 Gennaio in concerto al Candle di Lecce. The mistery hall The Voyager through the Void Lion Music Spazio ai virtuosismi chitarristici, un piede nel prog, nel power, per questa band che sembra aver fatto tesoro delle lezioni di Satriani e Dream Teather. Il primo album di una band che sembra aver nel caricatore dei buoni colpi ma che deve ancora rodare l’ingranaggio prima del confronto con i grandi. Gospels For The Sick Scum Dogjob/Audioglobe Un disco molto atteso come un po’ tutte le fusioni di formazioni pre-esistenti. In questa formazione compiono ex componenti degli Emperor, Turbonegro, Amen e Mindgrinder. Il risultato è un’esplosiva fusione tra black metal e rock and roll. tutto sommato un po’ anni ottanta ma un gioilellino retrò di ottima fattura.

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Klimt 1918 Dopoguerra Prophecy/Audioglobe di Nicola Pace Noti alla fine degli anni’90 come Another Day, dopo un periodo di stallo la band risorge con il nome di Klimt1918, con lo scopo di portare avanti il discorso iniziato, unendo alle precedenti influenze la componente death-doom scandinava. I risultati di questa fusione si concretizzarono in un demo tape e nel debutto Undressed Moment , ottenendo ottimi consensi da stampa e pubblico. Fin qui tutto sembra essere una storia normale, di un gruppo di ragazzi che crescono ed evolvono artisticamente, mai i Klimt1918 con il presente Dopo guerra sono una band completamente diversa dal vicino passato. La componente metal è messa da parte per dare spazio a composizioni che risentono dell’influenza di band come: U2, Cure, Police. Inoltre non vi sono elementi di forte contrasto per cui ci troviamo di fronte brani piatti e dal canto totalmente monocorde. I brani sono costruiti benino con arrangiamenti al di sopra della media, ma sinceramente non mi trasmettono alcuna emozione. Ed Infine pongo un quesito, come mai una etichetta che ritengo seria come la Prophecy spacci questa band, ormai artisticamente profondamente mutata, come gruppo dalla forte componente metal, facendo così pubblicità illusoria? Consiglio comunque l’ascolto di Dopo Guerra agli amanti del semplice rock o addirittura del brit-pop.

Steve Hackett Metamorpheus Inside Out/Audioglobe Ed ecco a voi il ritorno di Steve Hacket, leggendario chitarrista dei compianti Genesis. Il nuovo capitolo della sua avventura solista è dedicata a tutti gli ascoltatori di buona musica, non è infatti ed oserei dire purtroppo, un ritorno ai fasti progressivi ormai messi da parte. Dopo essersi cimentato in lavori elettrici ed acustici, questa volta per esprimere il suo sconfinato talento artistico, molto comune ai musicisti dell’era progressiva, Steve ha scelto la chitarra classica accompagnandosi con la sola Underword Orchestra, in cui milita anche il fratello John. Siamo al cospetto di un lavoro dove la chitarra oscura e malinconica si intreccia con l’organico orchestrale senza che questa possa prendere il sopravvento. Ascoltiamo echi di musica che alle correnti eurocolte mescola ritmi e sensazioni esotiche, ma che è priva di qualsiasi accenno al barocco, elemento che in realtà ci saremmo aspettati. In realtà le quattordici tracce costituiscono i movimenti di una grande composizione classica con forte carattere declamatorio da colonna sonora. E la tristezza e la malinconia di questa opera, che ti conquista e che personalmente con il suo incedere virtuosistico, senza mai abusare della tecnica, compensa una scena ormai priva di artisti con la A maiuscola. (Nicola Pace)

SKW Alter Ego Vacation House Gli SKW si formano a Milano nel 1989 con il nome di Sky Walker , cambiato successivamente in SKW, fra il 1992-95 registrano tre demo-tape con i quali ottengono ottime recensioni da parte della stampa specializzata. Intanto la band suona in tutta la penisola; viene finalmente notata e nel 1999 arriva il debut-cd Techno-logical, seguito da Connection del 2000. I consensi aumentano tanto da permettere loro di suonare da spalla a grandi gruppi come Soufly ed Amorphis. Nel 2005 arriva finalmente il terzo capitolo della loro carriera: Alter Ego. Il disco è il risultato dell’esperienza fatta suonando nei maggiori locali d’Italia e delle importanti conoscenze professionali , ma soprattutto di una ricerca continua della propria formula musicale. Tutto questo ha concretizzato un lavoro sintesi di potenza, aggressività, voglia di evoluzione tecnica, senza mai mettere da parte la vena melodica, basta pensare agli orecchiabili e allo stesso tempo potenti ritornelli, memorizzabili sin dal primo ascolto. Le coordinate musicali vertono quindi verso un postthrash-metal dalle influenze crossover e nu-metal, in sintesi modern-metal (percorso già fatto da altre band come gli italiani Extrema, il chitarrista T. Massara è presente in una delle tracce in qualità di guest). (Nicola Pace)

Shadow Gallery Room V Inside Out di Camillo Fasulo L’attesa è finita! Ci sono voluti quattro anni per dare un seguito a Legacy, ma alla fine eccoli qua gli Shadow Gallery, immancabilmente pronti a deliziarci con le loro magnifiche esposizioni musicali, figlie del prog più classicamente rock come del metal più elaborato. Certo, cinque dischi in studio e zero album dal vivo in tredici anni di carriera sono davvero pochi e ciò potrebbe far pensare a una band povera di idee. Ma così non è, dal momento che questi signori, finora, non hanno mai perso occasione per dimostrare tutto il proprio valore. Sono grandi musicisti, capaci di trasmettere emozioni e di impressionare per la grande creatività che sono in grado di esprimere. Grazie ad un marchio di fabbrica ben definito e ad un songwriting ricco di soluzioni melodiche accattivanti come di un’invidiabile tecnica sugli strumenti gli Shadow Gallery sono sempre riusciti a distinguersi pur muovendosi sulle tracce di storici nomi come Yes, Rush e Kansas. Room V nasce come la continuazione ideale di quello che fino ad oggi rimane il loro capolavoro assoluto, Tyranny (terzo album, 1998). Quel concept li portò in cima alle preferenze di tutti i progsters del pianeta. Oggi Room V, riprendendone l’idea, li porta ancora più in alto riuscendo perfino a far brillare di luce propria le loro composizioni. Lasciatevi incantare, ne rimarrete folgorati!

Musica indipendente liberamente scaricabile da internet di Matteo Serra mat@pazlab.net Molto spesso le zone periferiche del nostro bel paese sono quelle che più di tutte riescono a promuovere iniziative davvero innovative. In un’ottica di condivisione e promozione, noi di RadioPAZ in collaborazione con CoolClub, stiamo portando avanti un progetto dedicato ad una nuova forma di promozione delle idee e della creatività. Sul nostro sito (http://www.radiopaz.it) è possibile ascoltare o scaricare liberamente brani musicali di gruppi emergenti pugliesi e non; con un semplice sistema di “commento” viene data la possibilità agli utenti-ascoltatori di recensire, commentare o criticare liberamente (e senza censure) ciò che si è ascoltato. Tutti i gruppi emergenti saranno poi introdotti a una licenza Creative Commons al fine di far conoscere da subito alle band che esistono possibilità diverse di produrre contenuti e soprattutto di condividerli. Sicuramente non si tratta di un’iniziativa rivoluzionaria o in grado di risolvere i tanti problemi legati alle major della musica o alle leggi italiane in materia, ma è un piccolo tentativo che dimostra quanto sia importante il tema della libera circolazione dei contenuti e quanto sia fondamentale sostenere un approccio indipendente alla creatività. Il requisito fondamentale per poter partecipare è uno solo: il lavoro non deve essere coperto da diritto d’autore né registrato presso la SIAE. Una volta ricevuto il vostro CD, demo, o mini album, la redazione di RadioPAZ provvederà a metterlo on-line liberamente scaricabile o ascoltabile sul sito della radio e sarà aperta la fase della “Condivisione dei pareri”: attraverso un sistema di commento automatico, come già detto, potrete recensire, criticare e commentare liberamente quanto scaricato o ascoltato. Per maggiori info www.radiopaz.it


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“L’enfance rouge è un gruppo di cosi detto avant-rock, una definizione che non vuol dire altro che uno spiccato piacere per la sperimentazione, dalla composizione all’improvvisazione. Volevamo che questo nuovo album rispecchiasse i nostri concerti, fisici e rischiosi, composti come selvaggi”. Il chitarrista-cantante Francois Cambuzat presenta così Krško-Valencia ultimo cd nato dalla creatività del suo gruppo del quale fanno parte anche Chiara Locardi (voce, basso) e Jacopo Andreini (batteria, ottoni). Un lavoro registrato alla Masseria Torcito di Cannole in provincia di Lecce e pubblicato in Francia, Spagna e Italia dalla Wallace Records (www.wallacerecords. com). È sempre molto interessante discutere di musica e cultura con Cambuzat. Purtroppo però abbiamo dovuto “tagliare” qualcosa per motivi di spazio. L’intervista integrale è sul sito www.coolclub.it. Partiamo dal nuovo lavoro. Ci spieghi il titolo e il suo contenuto? Dall’inizio, L’enfance rouge ha sempre scelto i nomi di due città attraversate come titolo per i suoi album. “Krško” è in Slovenia, “Valencia” è nella Catalunya spagnola. Facciamo una media di 80 concerti all’anno, per lo più fuori Italia. Da dieci anni, registriamo e pubblichiamo anche pochi dischi, per scelta. Allora sai, il titolo di un nuovo album ci aiuta a marcare il nostro tempo e la nostra geografia. Erano tre anni che non usciva un nuovo lavoro. Da Rostock-Namur abbiamo registrato ben quattro album che abbiamo infine buttato via. Siamo quel che si dice in francese “des enculeurs de mouches”, e non abbiamo bisogno di pubblicare qualsiasi cosa per organizzare le nostre tournée o soddisfare il nostro ego. In copertina c’è il Mediterraneo. Quale pensi possa essere il ruolo di questa zona nello sviluppo dell’Europa culturale e musicale? Il Mediterraneo è sempre stato una zona che ci ha attratti, per questa formidabile mescolanza e questo largo scambio di idee ma non penso che le culture del Mediterraneo influenzeranno l’Occidente. Le cosiddette culture mediterranee di questo lato del Mare Nostrum sono pressappoco morte o definitivamente travolte (vedi quest’orrore che è la pizzica, checché ne dica l’Istituto Diego Carpitella) e l’Occidente europeo è troppo arrogante, ignorante e pigro per potere soltanto riflettere oltre il Budha Bar o Khaled, più lontano da questa visione edonistico-turistico della cultura mediterranea. Per quello che ci riguarda, devo dirti che non compriamo più dischi rock da almeno sette

KeepCool Da Krško a Valencia. Viaggio intorno all’enfance rouge

Intervista a Francois Cambuzat di Pierpaolo Lala

anni, anzi l’ultimo è forse stato Spiderland dei Slint. E questo per vari motivi: o i nostri vari amici europei ci masterizzanno tutto quello che può interessarci, o da musicisti siamo diventati veramente troppo blasé, analizzando immediatamente ogni nota, riconoscendone tutti clichè ed influenze, e non godendone più l’immediatezza. Per farti capire, ascoltare ora i Sonic Youth è per me come essere fan dei Beatles negli anni 80, ovvero vent’anni dopo. Posso esserne affezionato, ma non gli riconosco più né freschezza né modernità. Gli unici dischi che compriamo sono quelli difficilmente reperibili, soprattutto in Italia. Hamza el Din, Munir Bachir, Abd el Wahab, Mokhtar al Saïd, Abd el Gadir Salim, Sheikh Ahmad al-Tûni, come la Rembetika o l’incredibile serie “Les Ethiopiques”. Come vedi, la musica che personalmente ascolto è quasi esclusivamente di provenienza dall’altra sponda del Mediterraneo. E veramente non si può dire che si senta nella nostra musica. Tu sei francese. Cosa pensi di quello che sta accadendo nelle periferie? Penso che ogni rivolta popolare è comunque un buon segno di vitalità civile, sopratutto se confronti quest’avvenimento all’Italia dove difficilmente si è mai organizzato, se

non una rivoluzione, un vero sciopero generale per piegare il governo. Me lo spiego dalla mancanza di senso civile (res publica) e di cognizione e volontà di vita in comunità. Guarda il Salento: un paese magnifico, dove all’interno delle case tutto è meravigliosamente pulito ed ordinato, ma dove fuori casa tutti se ne fregano altamente. Spiagge sporchissime, rifiuti ovunque lungo delle strade mal messe, discariche abusive in ogni uliveto, scarsa attenzione all’infanzia, promozione veloce di cultura facile e volontà politica di non rischiare, etc… Dei nostri amici greci, spagnoli e croati ultimamente in visita hanno avuto l’impressione che i salentini cagassero nel proprio salotto, erano esterrefatti. Poi devo dirti che ne so veramente troppo poco di questa rivolta “periferica” francese, come si compiace la stampa di chiamarla.. Ed ho imparato a diffidare di questi media, per potere affermare qualsiasi cosa. Saremo in tour tutto marzo ed aprile in Francia. Te ne potrò dire di più al nostro ritorno. Non si può, ne ci si deve fidare dei media. François tu sei anche il direttore artistico del festival Trasporti Marittimi, “festival itinerante invernale di musiche trasversali”

(www.trasportimarittimi.net). Ci racconti l’idea di base e le sue evoluzioni? Malgrado la creazione della comunità europea, i diversi pubblici dell’Unione rimangono pressappoco ignoranti delle realtà culturali dei loro vicini. Il Festival Trasporti Marittimi, oltre al puro intrattenimento, ha l’ambizione di stimolare una crescita artistica e culturale, avvicinando, mediante la musica, il pubblico ad altri modi di pensare e fare cultura. L’obiettivo è anche di impostare un festival invernale europeo su scala larga, con una programmazione e direzione artistica culturalmente valida ed anomala, senza il richiamo facile di stelle nazionali o internazionali, ma fondata sulla comunicatività e la ricerca di artisti di livello elevato. Inoltre il Festival Trasporti Marittimi è l’unico festival italiano che investe su una vera comunicazione europea (30 mila euro in agenzie e pagine intere di pubblicità sulla stampa internazionale). Il primo anno nel Salento abbiamo registrato 12.000 visitatori, più di 200 prenotazioni alberghiere straniere per una settimana di dicembre, e la visita di 3 direttori artisti dei più grossi festival europei estivi. Ma dal secondo anno abbiamo riscontrato dei problemi con la Provincia di Lecce, problemi che pudicamente chiamerò “malintesi”. Per questa terza edizione, malgrado un protocollo d’intesa, non abbiamo ancora ricevuto una risposta. Non penso affatto che un Ente pubblico debba finanziare tutto, a vanvera, ma io pretendo una risposta civile, negativa o positiva che sia. Fortunatamente, grazie alla Regione Puglia il festival farà tre tappe a Copertino, Taranto e Bari, i 23, 24 e 25 dicembre. Ma la grossa parte del festival – quella che chiamiamo “la vetrina” - si farà durante sei serate a Pescara, dove la Regione Abruzzo ha capito la valenza culturale e promozionale di questo progetto. Poi, come ogni hanno, il festival sarà allora itinerante in tutta Europa, quest’anno in più di 30 città durante il mese di aprile 2006. Un commento sull’Italia odierna? Il paese dove l’arte non conta. Figuriamoci la musica. Fare il musicista non è mai stato considerato un mestiere serio, dalla tua nonna come dal governo. La maggioranza dei locali/club non sono pensati per la musica, con un’acustica ed un equipaggiamento quasi sempre pessimi e al di sotto dello standard europeo.


KeepCool Titta e le fecce tricolori Rollerball New Lm records Seppur in ritardo rispetto alla sua uscita segnaliamo il nuovo album di Titta e le fecce tricolori. Rollerball contiene dieci brani del gruppo bolognese che si muove sulla scena rock demenziale da più di dieci anni (nel 1992 uscì il loro primo demo The cerebrolesi). Testi graffianti e ironici su tematiche varie dalla televisione ai Superboy, dagli artisti del cazzo ai problemi d’amore. Da segnalare anche il sito con una rassegna stampa tutta particolare. Per le produzioni di questo tipo valgono le stesse avvertenze usate per i Compagni di Merengue. La camera migliore Cari Miei Due parole-Edel Senza paura e senza l’assillo della critica musona La camera migliore, gruppo fiorentino scoperto e prodotto da Carmen Consoli e dalla sua Due Parole, propone un secondo cd decisamente pop-rock. La voce di Georgia Costanzo convince come sono apprezzabili per fantasia e varietà i testi. Le quattordici tracce di Cari Miei, che si chiudono con la breve title track che funge da ringraziamenti, alternano sonorità elettroniche a poderose chitarre elettriche. Da ascoltare. Tiromancino 95-05 Warner Un doppio cd antologico non si nega a nessuno. Figuriamoci a una delle band più fortunate degli ultimi anni. Federico Zampaglione ripercorre la storia dei suoi Tiromancino dagli esordi con la y (in principio fu Tyromancino) sino ai recenti successi passando per i cambi di formazione e la rottura del sodalizio con Riccardo Sinigallia. Tra i brani anche due inediti (Della stessa materia dei sogni e Tornerà l’estate) e due vecchie tracce risuonate e riarrangiate (Conchiglia e Amore amaro). Il primo singolo Un tempo piccolo, rielaborazione di una canzone di Franco Califano, è anche il primo video firmato alla regia da Zampaglione che l’anno prossimo dovrebbe esordire dietro la cinepresa per il film Nero bifamiliare. Libra Il viaggio di zebra Macaco records Una bella scoperta i Libra, che arrivano dolci a raccontarci il loro viaggio. Ed arrivano lenti, tra riverberi e tappeti di moog, canzoni che sembrano nipoti dei Mercury Rev più sognanti e cugine

17 Offinalchemike Ho le mie buone ragioni Maninalto di Francesco Lefons

Dopo l’autoprodotto Piccola riflessione su dieci personaggi reali, gli Officinalchemike tornano con Ho le mie buone ragioni. Disco fresco e dinamico, originalissimo per arrangiamenti e testi. Gli Officinalchemike sembrano giocare con la musica, riuscendo a svincolarsi da un ben catalogabile genere musicale e dalla stessa formula canzone. Tecnicamente impeccabili, le canzoni presentano una solidissima sezione ritmica sulla quale l’ecletticità delle chitarre e della voce (non virtuosa ma decisamente originale) rimandano il sound del gruppo ad isteriche ed imprevedibili soluzioni, che ricordano vagamente le bizzarrie di Quntorighiana memoria. Ma, nel caso degli Officinalchemike, ridurre il discorso ad una questione musicale sarebbe limitante e forse inutile. La musica del gruppo di Mantova è fortemente legata ad un interessantissimo e atipico lavoro concettuale, che poi è l’aspetto più caratterizzante del disco. Ho le mie buone ragioni è un concept-album bizzarro e totalmente libero da qualsiasi clichè musicale e discografico in senso stretto. I sessanta minuti del disco sono suddivisi in campi semantici e all’ascoltatore viene proposto un duplice livello di ascolto, uno organico ed uno disorganico: il percorso metereopoatico a settori colorati (dall’inizio alla fine secondo un ordine prestabilito) o l’ascolto dei singoli settori in ordine sparso. En roco Occhi Chiusi GreenFogRecords

Mi è piaciuto molto il loro esordio Prima di volare via, penso tra me e me, sicuramente apprezzerò anche il nuovo cd. E infatti Occhi chiusi è la piacevole conferma della vena compositiva degli EnRoco. Approdati dalla Fosbury Records alla GreenFogRecords, il quintetto genovese torna con testi accurati, arrangiamenti molto semplici, chitarre acustiche, violino in evidenza e un timbro tutto personale che ti fa pensare a molti ma a nessuno in particolare. Il lavoro parte già bene con l’arpeggio e le chitarre decise de La notte si avvicina e prosegue con Non dormo mai, Mi risparmio, il ritmo più veloce de L’odiato, il quasi leopardiano (con quel titolo da Operetta morale) Dialogo tra Galileo e un libero pensatore, Un mercoledì, Giorni senza fretta (con un inizio quasi branduardiano), Le promesse facili (con il suo incedere lento). Tredici brani brevi e diretti, per 36 minuti circa, che si chiudono con le sonorità più rock di Non di questa età. Gli EnRoco sono una buona notizia per la musica italiana.

La Crus Infinite possibilità Warner di Osvaldo Piliego

Quando si parla di la Crus la citazione è dietro l’angolo. A partire dal titolo preso in prestito da un’opera teatrale di Oscar Milosz, questo nuovo album è un rincorrersi di riferimenti letterari, tributi, saluti, fatti con la grazia delle parole e quella della musica, che mai come in questo progetto sembrano convivere in armonia. Non sono mai stati solo musica i La Crus, sono stati un ponte tra la tradizione dei cantautori e la nuova musica, lo sdoganamento di una cultura alta ben vestita di pop, poesia, letteratura, teatro. Per molti ma non per tutti, direbbe qualcuno. In questo nuovo album hanno scelto di dare forma a tutte le “possibilità” di una canzone ed ecco che oltre ai brani questo disco contiene anche un dvd in cui ad ogni canzone è associato un video e un racconto di Leonardo Colombati che scorre nelle pagine del libretto e ripercorre i testi delle canzoni. Una veste originale e affascinante per queste nuovo album dei La Crus. Musicalmente il disco rappresenta la naturale evoluzione di un progetto che ha la capacità di sapersi sempre rinnovare, attento ai nuovi suoni ma allo stesso tempo classico. La voce di Joe, una delle voci italiane più suggestive sfiora nuove tonalità restando calda ed emozionante come sempre. Storie di un quotidiano visto con gli occhi della poesia.

Marquez L’incredibile storia del malinteso tra il Dottor Poto e la banda dell’acqua minerale Bluscuro Leggi il titolo e pensi immediatamente a un nuovo romanzo dello scrittore sudamerico (tipo La incredibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata) o all’ultimo film di Lina Wertmuller (a chiudere la trilogia dopo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica). Invece questa storia è il primo capitolo della nuova avventura musicale dei Marquez nati dalla fusione delle esperienze di Andrea e Antonio Comandini degli emmevubì e Dario Giovannini e Michele Bertoni degli Aidoru. Il risultato è un disco che naviga a vista tra rock internazionale e musica d’autore italiana, tra anni ’60 e prog, tra blues e melodia. Un lavoro sporco nella esecuzione, per nulla patinato, suonato con semplicità (chitarra, basso, batteria, piano) e senza fronzoli. Nel complesso un buon cd (nulla di eccezionale sia chiaro) che però manca del brano memorabile. Il progetto prevede anche la nascita dell’etichetta discografica Bluscuro che produce questo esordio. Il cd è corredato da una fiaba illustrata, che dà il titolo all’album, nella quale vi è una non tanto velata critica al mondo discografico italiano.

del nostrano Benvegnù. Quanto i toni si irrobustiscono un pelo, sembra di ascoltare qualcosa degli Afterhours. Ma i Libra hanno personalità e lo dimostrano subito con una grande pop song come Io resto qui, con tanto di chitarrina in stile Coldplay versus U2. Zeder Anima Autoprodotto Anima il titolo di questa autoproduzione dei giovani Zeder. Divisi tra Ferrara e il Salento appaiono già dalle prime battute manifesti nelle intenzioni e le influenze. I primi nomi che vengono in mente sono Marlene Kuntz, afterhours, Litfiba, un certo rock che ha fatto scuola e proseliti un po’ ovunque. La proposta della band non rimane comunque nell’anonimato di gruppi epigoni senza carattere ma riesce a distinguersi per grinta e spunti interessanti. Ben suonate, tutto sommato ben prodotte queste tracce sono solo l’assaggio delle potenzialità di questa band. Fiub Brown Sugar Jestrai Sembra una presa in giro il titolo di questo mini dei Fiub. Rimasti in due fanno il verso ai White Stripes con questa manciata di brani dal titolo Brown Stripes. Rumorosi, rock and roll, low-fi, tra punk e stoner, un po’ grunge ( marchio di fabbrica Jestrai) i Fiub sono scarni ma potenti, essenziali. In coda all’album Daytripper dei Beatles più incazzata che mai. Un assaggio interessante, aspettiamo le prossime portate. Dorian Gray Tempi Supplementari K-factor La coordata K- factor, shinseiki, audioglobe fa riemergere uno dei gruppi più importanti dell’underground italiano degli anni 90 italiani: i Dorian Gray. Questo Tempi Supplementari recupera alcuni tra gli episodi più memorabili della band e una traccia video con immagini tratte dalla loro tournè in Cina ( meta pressoché impossibile a quel tempo per la musica) . Il disco si apre con una tiratissima cover di Astronomy Domine dei migliori Pink Floyd e prosegue con alcuni dei brani che hanno caratterizzato la carriera, lunga quasi un decennio, della band. Degno di nota il remix di La conoscenza del fatto che sembra uscito dalle mani di Trent Reznor. Una testimonianza importante, un gruppo da non dimenticare.


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Riovolt Sambarama Irma records Riovolt altro non è che il progetto brazilian electro del produttore compositore Norbert Kupper (aka nobit). I tedeschi giungono al loro secondo album, sempre per l’etichetta bolognese Irma records. Questo è un lavoro che si presenta con un progetto grafico accattivante, rigorosamente ecologico, semplicemente fantastico. Come il precedente, Sambarama si muove sulla digital bossa, ma questo lavoro è reso più ricco da diverse collaborazioni. Ad esempio Lilian Vieira, già voce negli Zuco 103, è alle prese con uno dei pezzi più noti della tradizione brasiliana Zazueirà di Jorge Ben, passata anche dalle parti dell’immensa Elis Regina, in una versione riletta con partiture vocali raggianti e abrasive che decollano lievemente dentro un rivestimento electrogroove al cardiopalmo. L’album si muove dentro diverse atmosfere di origine brasiliana: nella title track ci ritroviamo assorbiti in una affascinante e intensa batucada del terzo millennio; passiamo poi alla vibrante Kind of demon stracarica di soluzioni spy e giungiamo dentro suoni più sottili e nitidi di Oracao sem nexo grazie anche alla meravigliosa voce della brasiliana Ju cassou. Prepariamoci ad un inverno atipico, grazie anche ai suoni leggeri e caldi dei Riovolt. (Postman Ultrachic) Charlie Haden Not in our name Verve Trentacinque anni dopo lo storico disco a nome Liberation Music Orchestra, Charlie Haden e Carla Bley decidono di rispolverare la gloriosa sigla per un nuovo disco colmo di fierezza e di appartenenza. Certo, i capelli del contrabbassista statunitense si sono imbiancati, anche la Bley non è più la ragazza scapigliata di una volta, e il manipolo di musicisti al loro fianco non conta solisti d’eccezione come Gato Barbieri e Don Cherry ma questo Not in Our Name dispensa ugualmente brividi. Si comincia con la title-track, a firma Haden, che suona un po’ come una dichiarazione di guerra: un arpeggio classico introduce il suono avvolgente dei fiati e il tutto ci rimanda proprio a quel fatidico disco che ancora si porta appresso l’urlo sordido dei dannati della terra. Il Vietnam è stato sostituito dall’Iraq, la disperazione e la voglia di gridare contro l’ingiustizia ovunque essa venga perpetrata è la stessa. Molto riusciti il reggae di This is not

Una generazione che fa le rivoluzioni sul divano

Intervista con gli Amari di Ilario Galati Gli Amari sono un trio friulano che ha appena licenziato per la Riotmaker un quarto disco maturo e convincente sospeso tra battiti hiphop e testi arguti e poetici, intimi ma generazionali. Grand Master Mogol è fatto di suoni molto ‘cheap’ che si sovrappongono dando così vita a un contesto nuovo ma al contempo nostalgico e debitore tanto della musica d’autore italiana quanto del sound che imperava negli anni dell’edonismo reaganiano. Abbiamo intervistato il Pasta, che ci racconta genesi, intenti e aspirazioni del primo combo hip hop che si ispira a Mogol. Vorrei cominciare dal titolo del vostro disco perché credo che esplicare le due citazioni che contiene possa essere un buon modo per delineare la vostra proposta. Grand Master Mogol è la fusione tra Mogol, il paroliere più famoso d’Italia, e Grand Master Flash, il disco guida dell’hip-hop della vecchia scuola newyorkese. La fusione delle due cose dà vita a questo mostro… e ora che ci penso il titolo ricorda anche il Grand Mogol, il mentore delle giovani marmotte (ride). Immagino però che non sarete cresciuti solo con la musica leggera e Grand Master Flash… Durante la composizione di questo disco devo dire che alcuni dischi della ditta Battisti-Mogol sono stati una notevole fonte di ispirazione. Comunque nel ‘97 noi abbiamo cominciato come gruppo hip hop piuttosto canonico e tutto quello che abbiamo ascoltato in questi anni ha prodotto questo risultato. Leggevo sul vostro bel sito, www. farraginoso.com, le playlist che stilate periodicamente e ci ritrovo molti dischi indie, electro… Ascoltiamo un po’ di tutto, senza alcun problema: ci piace l’elettronica, il pop indipendente, l’indie contemporaneo che si suona in Usa e Inghilterra, ma anche il funk, il soul e la disco. Gli Amari però non sarebbero gli Amari senza la componente letteraria: scrivete dei testi molto nostalgici anche se raccontano storie saldamente ancorate alla contemporaneità. Sarà forse la grafica del cd ma io mi sento inghiottito nell’imbuto cosmico degli anni ’80. In effetti questo ce lo dicono in tanti… sicuramente un po’ dipende dall’ideologia della Riotmaker e dalla gente che ci gravità intorno che è parecchio nostalgica. Mettici pure il suono di qualche videogame, i colori della cover, l’arcobaleno che fa molto pop 84 (ride)… in effetti noi siamo dei gran nostalgici e colpisci nel segno quando dici questa cosa perché ci piacciono gli anni ottanta. Sfatiamo quindi il mito che quella decade è stata piuttosto negativa per la cultura underground? Decisamente… per noi è stato un periodo formativo: in quel periodo ci arrivavano degli input che per questioni di età non potevamo comprendere appieno però anni dopo certe cose ce le siamo

ritrovate dentro. Gli anni ‘80 non sono stati solo la moda e il kitsch ma anche una serie di cose che adesso sinistramente tornano in voga… ma non butterei via tutto! Torniamo ai testi, che scrivete tu e Dario. Come funziona il vostro momento compositivo per quanto riguarda le liriche? Scriviamo in parallelo, a quattro mani, uno contro l’altro o come ci viene. Spesso e volentieri i testi parlano di noi ma per qualche strana congiunzione astrale li abbiamo resi piuttosto universali, nonostante siano spesso in prima persona… … Ti faccio queste domande perché credo che l’attenzione che la critica specializzata sta rivolgendo al vostro lavoro sia in parte dovuta proprio alla componente letteraria: sono storie nelle quali non è difficile ritrovarsi. Beh sì… tieni conto che comunque quello è il nostro mondo, lo conosciamo bene e ci permettiamo di riderci un po’ su. Riguardo questa attenzione nei confronti dei testi ti do ragione: noi ci facciamo delle grandi seghe per quanto riguarda l’aspetto musicale… per esempio l’equalizzazione di un suono piuttosto che l’elaborazione con il computer di una chitarra trattata o di una batteria mentre i testi sono stati la cosa più naturale del mondo. Una domanda che non ha risposta: io come giornalista mi occupo di una ambito musicale che è lo stesso nel quale voi operate che è quello della musica indie italiana; secondo te, non rischiamo noi di farci delle grandi seghe parlando di dischi che hanno comunque una audience molto ristretta? Assolutamente si! Croce e delizia dell’indie. Si fa un gran parlare di cose che hanno un mercato molto piccolo dove gli operatori, i musicisti e i fruitori, si conoscono tutti per nome o per nickname su msn (ride). Bisognerebbe fare un passo indietro e dire: ok, ho creato una cosa che è piaciuta, ma bisogna farla conoscere a più gente possibile, sennò non ha molto senso. Comunque, per quanto limitata sia l’audience in un modo o nell’altro questi dischi incidono alla lunga sui gusto generale, anche forse grazie al web. Sei d’accordo? È innegabile. Ti dico che noi abbiamo iniziato la promozione del disco ignorando i classici canali e mandando il promo ai blog più frequentati. Questo ha creato una curiosità molto fertile. Per dirti, mesi prima dell’uscita dell’album su emule o soulseek già si trovava per intero e questo non può che farci piacere.

America firmato Metheny e la fanfara di Blue Anthem, il cui fraseggio pianistico pieno di dolore ci ricordano quanto grande sia la Bley come compositrice. C’è un bel pezzo di Frisell e ci sono pure riletture di Dvorak e Barber e ancora una volta sono gli arrangiamenti bandistici a brillare con Goin’ Home che diventa una ballad che lacera mentre l’Adagio di Barber è uno splendido finale per un disco carico di passione. (Ilario Galati) Dirotta Su Cuba Jaz Jazzet Come possiamo definire la nostra generazione? Generazione cocktail? Generazione lounge? Generazione cazzeggio? Quest’ultima calza a pennello per Jaz. I Dirotta Su Cuba ritornano sulla scena senza la oramai solista, Simona Bencini e con una formazione completamente nuova (l’unico membro rimasto del vecchio gruppo è il tastierista Rossano Gentili); alla voce troviamo la giovane e dotata Marquica che dimostra grinta e passione insieme ad un numeroso collettivo formato da eccellenti musicisti. Il pezzo più interessante sembra essere Fantom Beat, una bella traccia di apertura che fa sperare in una rinascita danzereccia italiana; si passa poi a L’Iguana, il singolo di punta e più radiofonico dell’album, melodia accattivante, arrangiamento esperto con una forte e tagliente sezione fiati (piaciuto Kill Bill eh?). Ultimo guizzo positivo del disco può essere Amore Normalissimo (uno spensierato omaggio agli amori degli anni ’60). Poi si scende, inesorabilmente; l’album scorre con pezzi che non tolgono e non aggiungono nulla al panorama musicale attuale. Ora sembra prendere in giro la Giorgia degli ultimi anni; il testo di Italy sbigottisce (“Son malato immaginario/mangio pizza fuori orario/son nato in Italy”!!!). Apprezzabile il lavoro svolto per la grafica del cd, un bel digipack con un libricino a mò di diario e con il cd che riprende la forma di un vecchio 45 giri in vinile. (Giancarlo Bruno)


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Bari, No New York! (parte prima)

Mai titolo fu più azzeccato: 1) perché chissà quando e se mai a memoria di barese si è potuti assistere ad una tale raffica concentrata di emozioni sonore, che manco a New York appunto; 2) perché proprio in No New York - la seminale compilation prodotta da Brian Eno nel (non tanto) lontano 1978 e da poco, dopo anni di disturbi intestinali per i collezionisti, che per possederla erano costretti alla dura scelta tra una costosissima versione giapponese in cd e la ancor più costosa e rara versione originale in vinile della Antilles, sussidiaria alternative della Island rec., ristampata sia su cd che su vinile, ad opera credo di un’etichetta russa - ritroviamo ben tre degli artisti che hanno reso così stupefacente questo mese d’autunno: Arto Lyndsay, Lydia Lunch e Ikue Mori (ok, quest’ultima, che doveva esibirsi con Zeena Parkins il 29, ha rimandato il suo concerto al 20 dicembre, ma la sostanza non cambia). Inizialmente questo dovevavoleva esser un resoconto di questo tour de force musicale, ma il tempo e lo spazio mi hanno convinto a ripiegare su una più concisa analisi generale della situazione, perché la situazione merita di esser analizzata e compresa. Diceva bene Osvaldo Piliego nel suo editoriale del

mese scorso: nonostante i tagli alla cultura, il problema degli spazi, i costi di produzione e la scarsa risposta del territorio, novembre è stato un gran mese. Quanto promesso dalle tre realtà più importanti della ‘scena musicale alternativa’ barese è stato in pieno esaudito. Time Zones, alla sua ventesima edizione, ha saputo metter su un cartellone di tutto rispetto (dimenticando la orripilante-agghiacciante-disgustosa parentesi di Mauro Pagani, roba da pentirsi di avere occhi e orecchie, e di esser nato in questo mondo ingiusto che rende possibile certi eventi devastanti per l’animo, in stile punizione divina, e, badate, parlo del Dio del vecchio testamento) (apro una seconda parentesi poi per sottolineare lo stupore per l’inaspettata accoglienza da superstars dedicata alle due sorelline Casady, le Cocorosie (nella foto) per intenderci, con tanto di ragazzine scalmanate che urlavano tra un pezzo e l’altro fino alla ressa che si è andata a creare sotto al palco durante i bis, che manco per Paola e Chiara…tutto questo nonostante l’imbarazzante stile cozzalo-rap esibito dalle due e dalla culona nera che le accompagnava con basi vocali e balletti alla 50cent, che ha chiuso addirittura con un abbozzo di breakdance così goffo da meritarsi di esser frustata) (apro una terza parentesi per ribadire che non mi sono ancora ripreso dal duro colpo infertomi dalle temibili orazioni del poeta maledetto Mauro Pagani durante il suo show-piaga), ricordando in particolare le algide sonorità minimal-elettroniche di Alva Noto (al secolo Carsten Nicolai) che accompagnava-

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di Davide Rufini

no le strimpellate pianistiche di Sakamoto (nella foto), molto meglio amalgamate dal vivo che su disco, sebbene nel complesso un po’ datato come approccio avanguardistico, e l’elegante omaggio noir a David Linch e Badalamenti da parte di Lady Lydia Lunch e la sua band (una soft-nowave?). Ciò nonostante, alcune critichette non sono mancate, soprattutto da parte di chi, forse giustamente, si aspettava qualcosa di più da un così importante anniversario. Lo Zenzero, il più importante contenitore musicale che la città possiede, sta da parte sua prendendo finalmente una propria strada più sicura e definita. Dopo alcuni anni di incertezze, sembra aver deciso definitivamente di imporsi come vero e proprio club alternativo, punto di riferimento per tutti i pugliesi, e non solo, che ambiscono a suoni innovativi e moderni. Se i giovedì, a quanto pare, sono dedicati alla musica dance ‘popolare’, e il venerdì è incentrato più su proposte di pop-rock nostrano (Paolo Benvegnù il 21 ottobre, Gazzè il 4 novembre, Morgan il 18), le quali, seppur interessanti per certi versi, sono da considerare ancora il lato ‘commerciale’ del loro programma, è il sabato che si impone come l’appuntamento settimanale più interessante e significativo: in tali giorni lo Zenzero inviterà a suonare tutti i vecchi e nuovi volti della scena elettronica italiana e internazionale, attingendo un po’ da tutti i differenti ambiti e sottoculture di cui si compone questo genere. La qual cosa non può che esser accolta con enorme piacere. Eppure, proprio i primi di questi appuntamenti sono

stati i meno riusciti, non tanto per la qualità delle proposte, quanto per l’evidente difficoltà nell’inquadrare un giusto pubblico capace di dar vita a quella ‘situazione’ senza la quale il ‘popolo della notte’ barese non si muove. La strada è di certo in salita per chi vuole proporre nuove sonorità, ma una errata, se non, a volte, proprio inesistente, promozione degli eventi non può di certo esser d’aiuto. Per la prima volta, dopo la chiusura del Jimmiz, c’è nuovamente a Bari un grande spazio per la musica indipendente, speriamo che né i baresi né gli stessi organizzatori lo destinino ad una atroce decaduta, sarebbe un duro colpo per una città che è aggrappata con un filo troppo sottile al flusso degli eventi artistici-musicali del resto del pianeta. D’altra parte, la riuscita, inevitabile, di certe serate, come i concerti-eventi degli Incognito il 27 e dei Blonde Redhead il 29 novembre, non deve essere indicativa: non ci si può aspettare che una tale realtà promotriceorganizzativa come quella dello Zenzero debba sostenersi solo grazie e saltuari appuntamenti ‘a botta sicura’. La definizione di un proprio programma unitario e la vera e propria creazione di un proprio pubblico fedele e fiducioso nelle proposte, anche quando poco conosciute, si rendono dunque necessarie.


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IL SALTO NELL’INDIE Continua il nostro viaggio alla scoperta del sottobosco musicale italiano. Questo mese è il turno di Urtovox, etichetta con i piedi in Toscana, ma con le mani in giro per lo Stivale e il cuore nell’indie. Rock. Abbiamo parlato con Paolo. Prima di tutto, le presentazioni di rito, chi siete, cosa portate, dove andate? Urtovox nasce nel Marzo del 2000 a seguito di un decennale percorso negli anfratti della scena alternative rock Italiana. Fondamentale la frequentazione del CentroMusica di Modena in occasione del “RockImpresa 2000”, progetto pilota per la formazione di competenze specifiche in campo discografico finanziato dal fondo sociale europeo, che è risultato determinante per l’assetto organizzativo della Label. Urtovox dimostra già di avere buon carattere attraverso le prime produzioni: Elle, Goodmorningboy, Nest, Hogwash, Ultraviolet Makes Me Sick, Vegaenduro, Jokifocu e A Toys Orchestra. Si caratterizza per i suoi gusti indie/pop/rock chitarristico e sonico che la vorrebbe vicina ad esperienze U.S.A. quali Matador, Domino, BigCat e Touch&Go dei tempi migliori. Attraverso un paziente e tenace lavoro di comunicazione è riuscita a tessere importanti relazioni dando vita ad un network di conoscenze e rapporti umani e lavorativi utili per espandere il proprio operato fuori dai classici confini dell’alternative italiano guadagnandosi velocemente il riconoscimento della stampa specializzata italiana ed estera (e più in generale della critica...), e di una buona fetta di pubblico. Da dove nasce l’idea di mettere su un’etichetta

indipendente? Desiderio, passione, amore, follia, senso di sfida, voglia di orientare positivamente il senso autolesionista che contraddistingue tutti noi alla Urtovox. Quale gusto segue Urtovox? Se ce n’è uno. Un gusto puramente emozionale per tutto ciò che gravita intorno all’alternative indie rock di matrice anglofona. Qui in Urtovox abbiamo tutti più di 30 anni di rock’n’roll sul groppone e ne abbiamo viste di cotte e di crude. Pubblichiamo solo i progetti che ci emozionano. Ho visto che lavorate molto con l’estero, molti dei vostri gruppi cantano in inglese... è una fascinazione, la convinzione che il nostro rock sia da esportazione o cosa? Crediamo nei pochi aspetti positivi della globalizzazione. Neil Young come Lou Reed sono patrimonio indiscusso dell’umanità, appartengono a tutti. Tutti possono rielaborare le lezioni dei giganti del rock. Non importa se sei canadese, australiano o italiano. Per ciò che riguarda la musica italiana cantata in inglese preferisco chiamarla musica europea. Cosa sono dEus, Notwist, Lalipuna, International noise cospiracy, Hives se non band europee prima che tedesche, svedesi o scandinave? Credo che in Italia ci siano progetti internazionali che conservano la qualità e la credibilità per essere portati all’estero con pari dignità di tante altre bands non specificatamente americane o inglesi. Cos’è e come nasce “Songs for another place”? Songs for another place è una doppia compilation formata da un cd di band americane e un cd di band italiane. Le prime sulla scia della nuova ondata indie folk/alt country, le seconde invece con una connotazione più indie. Il tutto è confezionato in un mega packaging quadrimensionale cartonato e numerato copia per copia. La produzione condivisa con

A Toys Orchestra

Awfull Bliss, neo etichetta campana fondata sulla sconfinata passione e conoscenza di Giulio Pescatori e Patrizio Marchini. Due umanoidi fuori dal comune! La compilation sottolinea l’idea di interscambio, canzoni che creino dei ponti sui quali la musica possa viaggiare libera da ogni limitazione culturale e territoriale per permettere che la sua conoscenza, la sua bellezza possa arrivare ed essere messa a disposizione di tutti. Un general intellect che sottolinei quanto bisogno ci sia di fare in modo che il linguaggio musicale sia vero mezzo produttivo di comunicazione. La globalizzazione nella sua accezione maggiormente (pro)positiva... Considerare la musica (e ancor di più certa musica) come un qualcosa che non sia necessariamente americana, inglese italiana o giapponese ma che sia invece patrimonio dell’umanità senza legami strettamente territoriali.... soppiantare la reverenza preferendo la riconoscenza più pura nei confronti di un mondo musicale, quello propriamente americano, che è stato linfa vitale per generazioni di musicisti sparsi in tutto il mondo. Non produzione discografica in senso stretto ma produzione di comunicazione in senso ampio. Parlaci un po’ delle vostre produzioni e delle vostre nuove uscite. Le nostre prossime due uscite sono: Psycho Sun con l’album Silly Thinghs e Appaloosa con Non posso stare senza di te. I primi sono sudore, puzzo di birra e rock’n’roll ruvido e tagliente se pur fontamentalmente legato ad una matrice melodica che rimane immediatamente incastonata nella testa. Le influenze spaziano dai già citati Television ai Velvet Underground, Radio Birdman e Replacement per arrivare al traguardo dei giorni nostri alla pari di Strokes, Hives ed International noise cospiracy.

I secondi invece sono una delle band più infuocate e travolgenti del panorama Crossover noise-dance strumentale Italiano. Dinamite allo stato puro: ritmi serrati e un sound incendiario che vi porterà immancabilmente a cercarli sui palchi dei migliori rockclub italiani ed internazionali. I figli legittimi di NomeansNo, Melvins, Don Caballero e Shellac rielaborati originalmente attraverso certe propensioni Kraftwerk ed Aphex Twin. Quali realtà discografiche segui e apprezzi in Italia e cosa credi non vada nel mercato della musica. Ultimamente ho conosciuto e molto apprezzato i ragazzi della Madcap collective di Treviso, l’etichetta di Franklin Delano, Father Murfhy, Stop the wheel e Vittorio Demarin (videomaker ed appassionato di arti visive veramente molto promettente). Apprezzo anche la Unhip records di Bologna con i suoi Discodrive e Settlefish e Bar la muerte che con gli Ovo mi ha lasciato a ganasce spalancate per l’impeto e l’animalismo dadaista e futurista: rock’n’roll allo stato puro. La Wallace records nei cui confronti esprimo invidia (in senso positivo, ovviamente) per i Rosolina Mar, una band veramente mondiale! Per ciò che riguarda il mercato italiano il problema sta nella sua inesistenza. Dov’è sto mercato italiano?


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Billy Talbot: il cuore dei Crazy Horse Cuore a Nudo con Joe dei La Crus Intervista di Giancarlo Susanna - Foto di Mauro Puddu

Giovedì 22 dicembre @ Cantieri Koreja di Lecce

Il breve tour italiano di Billy Talbot, bassista e fondatore con Ralph Molina dei leggendari Crazy Horse, è nato dalla vecchia amicizia che lo lega a Stefano Frollano e Francesco Lucarelli. Appassionati da sempre del più classico suono californiano, i due sono autori di Crosby Stills Nash And Sometimes Young, un’opera in tre volumi pubblicata da un editore olandese. Quando Stefano e Francesco hanno pensato di organizzare una serata in onore di Neil Young per il suo sessantesimo compleanno, è stato quasi naturale tentare di coinvolgere Talbot, che ha appena pubblicato un disco con la sua nuova band - Alive In The Spirit World (Diesel Motor/Sanctuary) e voleva passare un po’ di tempo in Europa. Di qui l’appuntamento romano del Jailbreak, le altre tre date nella penisola e un breve giro in Olanda e Gran Bretagna. Billy Talbot ha sfoderato una grinta e un’attitudine da cantautore, catturando l’attenzione del pubblico con delle canzoni davvero molto belle. Voce un po’ roca, chitarra acustica e pianoforte. Non ci vuole molto a colpire il cuore di chi ascolta se si ha qualcosa da dire. Dal set acustico di Talbot e dal suo disco si capisce poi da dove vengano certe suggestioni dei Crazy Horse con Neil Young, da dove arrivi - tanto per fare un esempio - l’atmosfera di un capolavoro come Sleeps With Angels. Consapevole della sua storia - ci ha regalato una commovente I Don’t Want To Talk About It, scritta dallo sfortunato Danny Whitten e tratta dal primo e omonimo LP dei Crazy Horse - Talbot è stato

Dicembre e gennaio densi di appuntamenti per la rassegna Strade Maestre, organizzata dai Cantieri Koreja in collaborazione con Provincia di Lecce, Regione Puglia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il cartellone attraversa tutte le discipline artistiche dal teatro, alla danza, alla musica, alle arti pittoriche ma soprattutto consolida il progetto sul territorio regionale che fa dei Cantieri Koreja campo privilegiato di sperimentazione artistica e luogo incontro per le giovani generazioni. Dopo la

così gentile da voler scambiare due chiacchiere anche con noi. Lo ringraziamo ancora una volta per la sua sensibilità e la sua cortesia. Come mai tanto tempo per realizzare il tuo primo progetto solista? In tutti questi anni ho messo ogni mia energia nei Crazy Horse e nella collaborazione con Neil Young. Ho sempre scritto canzoni, ma sono stato un po’ troppo pigro con le mie cose, forse perché ero troppo preso dal gruppo. A un certo punto è diventato quasi indispensabile che io facessi ciò che volevo. Mi interessava molto il concetto di band. Quello che significa e il modo in cui agisce. Così mi sono concentrato sul mio gruppo e alla fine ho deciso che era arrivato il momento di mettere a frutto tutto quello che avevo imparato negli anni e di fare un mio disco. Sei sempre stato il cuore e il leader dei Crazy Horse, ma ora puoi finalmente guidare apertamente una tua formazione. In un certo senso è vero. Sono sempre stato l’istigatore all’interno dei Crazy Horse. Adesso faccio le mie canzoni e farò anche dei concerti da solo suonando piano e chitarra acustica. Ne sono molto felice. L’ultimo disco dei Crazy Horse, Left For Dead, è uscito nel 1990. Possiamo aspettarcene un altro nei prossimi mesi? Credo di no. Lavoreremo con Neil Young, ma non da soli. Questo è uno dei motivi per cui ho deciso di suonare con la mia band. Con Neil faremo qualcosa più rock di Greendale, qualcosa di simile a Ragged Glory. Qual è il tuo preferito tra gli album dei Crazy Horse? Il primo, senz’altro. E subito dopo, a pari merito, Crazy Moon e Left For Dead. Qual è il segreto della collaborazione tra i Crazy Horse e Neil Young? L’amicizia? La musica? Persone che suonano insieme. Le persone sono ciò che conta veramente.

anni in Italia ha coniugato più di ogni altro la ricerca dell’estetica elettronica alla canzone d’Autore, sarà accompagnato dai musicisti Paolo Milanesi (tromba) e Fabio Barovero (pianoforte), fondatore dei Mau Mau e di Banda Ionica. Questa formazione in trio acustico, rileggerà diverse canzoni dei La Crus, brani dei Mau Mau e cover da sempre amate ed alcune mai suonate; il tutto unito da reading di sonetti di Shakspeare, stralci

Joe (La Crus), Foto: Alice Pedroletti

produzione della compagnia leccese Dovevamo Vincere (3 e 4 dicembre) e Creature (mercoledì 7) la rassegna prosegue con Il figlio di Gertrude del Teatro Stabile di Calabria (sabato 10). Gli ultimi due appuntamenti dell’anno sono dedicati alla musica. Venerdì 16 sul palco la Compagnia Verdastro Della Monica presenta A Flower. Il concerto segue il fil rouge di un repertorio di musica vocale e strumentale scritta in grafie non convenzionali e per un uso non canonico sia della voce che del pianoforte. Ne risulta una dimensione musicale in cui gli elementi del gesto e dello spazio prendono un rilievo strutturale creando i presupposti formali della azione teatrale. Giovedì 22 i Cantieri Koreja, in collaborazione con CoolClub, ospitano il consueto Xmas party. Alle 21.00 sipario sullo spettacolo Cuore a Nudo (che il 23 sarà allo ZenzeroClub di Bari), un’avventura acustica tra musica e poesia: dalla nitidezza timbrica al fragile struggimento, dalle strozzature delicate alle parole soppesate. La poesia segue il suono delle parole e la musica si immerge nella poesia. Sul palco Mauro Ermanno “Joe” Giovanardi, il cantante dei La Crus, il gruppo che in questi

di Pasolini, Pedro Salinas e molti altri. Un concerto intimo e raccolto che esce dai canoni della classica esibizione live per liberare sul palco le emozioni più profonde. A seguire selezioni musicali a cura di Robert Passera. Dj dal 1980, ha navigato tutte le mode musicali degli ultimi 20 anni, ed è oggi considerato tra i dj più autorevoli della scena easy-listening italiana. Quando appare in consolle, si muove tra i vinili con i gesti misurati di colui che ha viaggiato nel tempo per proporre la sua cocktail-parade di brani e sonorizzazioni inusuali. Il nuovo anno si apre con la festa Befana&co. (6 gennaio alle ore 16:30) e continua con Lezioni di piano (venerdì 7 gennaio), L’ereditiera (sabato 15), Il mio prometeo - quasi un’operina rock (venerdì 21) e Premiata ditta Scintilla (sabato 29). Xmas Party: Sipario ore 21.00. Ingresso spettacolo 10 euro (solo festa 5 euro). Info 0832.242000 - www. teatrokoreja.com.


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Voglio essere come John di Giancarlo Susanna “Io sono Ringo Starr e suono la batteria”. “Io sono Paul McCartney e suono il basso”. “Io sono George Harrison e suono la chitarra”. “Io sono John Lennon. Anch’io suono la chitarra. A volte faccio lo scemo”. Così si presentavano i Beatles in un programma radiofonico della BBC all’inizio della loro carriera. Quattro ragazzi della porta accanto con il rock nel dna e l’energia dei ventenni nel cuore. E John Lennon, il “capo”, usando il verbo “to play” nelle sue varie accezioni (“suonare”, ma anche “recitare”, “fare”), dava come avrebbe sempre fatto il suo segno surreale alle uscite pubbliche del quartetto. Nel momento in cui tutto il mondo ricorda la sua tragica scomparsa, ci piace ricordarlo soprattutto così. Motore inarrestabile dell’invenzione verbale e del sense of humour. Sapiente manipolatore dei media. Artista geniale e dotato di una dialettica travolgente. Il minestrone mediatico in cui noi poveri abitanti della penisola rischiamo sempre più di affogare farà ancora una volta i suoi danni - vedi lo “speciale” andato in onda il 4 dicembre in seconda serata a Canale 5. Si farà confusione tra John e Paul,

quando noi tutti sappiamo quanto tutti e due tenessero all’attribuzione di questa o quella canzone. Si diranno le solite banalità sulla storia d’amore tra John e Yoko Ono. Si dovrà per l’ennesima volta prendere atto che quando in questo paese si parla o si scrive di musica rock, il pressappochismo e il qualunquismo la fanno da padroni. Senza nessun rispetto per nessuno. Senza rispetto per chi ha vissuto in pieno la stagione dei Beatles e i dieci anni di Lennon solista. Senza rispetto per chi non c’era, è nato dopo il 1980 e da qualcuno dovrebbe poter imparare. Senza rispetto per John Lennon. Quell’8 dicembre di venticinque anni fa il gesto omicida di un folle soffocò con la violenza la voce più importante del movimento artistico e di costume che cambiò la faccia del mondo nei turbinosi anni ‘60. Fu la vittoria della forza e delle armi sulla pace e la non violenza. Anche se le canzoni di John restano - da “All You Need Is Love” a “Imagine” = anche se le sue parole di speranza e di fiducia nel genere umano - assolutamente non retoriche e temprate dal suo senso dell’umorismo e dalla sua (auto)ironia - continuano a risuonare in ogni angolo del pianeta sulle ali della musica. Potremmo anzi dire che in questa epoca di “guerre di religione”, un testo come

quello di “Imagine” sembra più attuale che mai. “Immaginate che non ci sia il paradiso. E’ facile se ci provate. Niente inferno sotto di noi e sopra di noi soltanto il cielo. Immaginate che tutta la gente viva per l’oggi... Immaginate che non ci siano stati. Non è difficile da fare. Niente per cui uccidere o morire e neppure religioni. Immaginate che tutta la gente viva la sua vita in pace... Potete dire che sono un sognatore ma non sono il solo. Spero che un giorno vi unirete a noi e che il mondo diventi uno. Immaginate che non ci sia la proprietà. Mi chiedo se riuscite a farlo. Nessun bisogno di avidità e fame. Una fratellanza di tutti gli uomini. Immaginate che tutta la gente si divida tutto il mondo... Potete dire che sono un sognatore ma non sono il solo. Spero che un giorno vi unirete

a noi e che il mondo diventi uno”. Queste poche righe sono in fondo un segno di gratitudine e di consapevolezza. Quanti di noi scriverebbero su queste pagine, quanti di noi si sforzerebbero di vivere in un certo modo, se un signore chiamato John Lennon non avesse racchiuso nei tre minuti di questa canzone le riflessioni e le analisi di tanti filosofi e pensatori? L’hanno chiamato e la chiamano Utopia. Ci dicono che non è roba di questo mondo. Ci esortano a chiuderci nel nostro orticello di ben pasciuti occidentali. Ci spiegano che è meglio respingere tutto ciò che è diverso da noi. Continuano a sostenere la superiorità del Nord ricco sul Sud povero. Ricordare John Lennon e ascoltare le sue canzoni vuol dire anche insistere nel richiamarci a un’Utopia che ci appare sempre più come l’unica via di salvezza per la Terra e per i miliardi di esseri umani che la popolano.


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

la letteratura secondo coolcub

Bret Easton Ellis

Lunar Park

Einaudi di Nino G. D’Attis È tutto vero, ed è tutto falso: si potrebbe riassumere così il quinto romanzo di Bret Easton Ellis ottimamente tradotto in italiano (e a tempo record) da Giuseppe Culicchia. Ma sarebbe come non aver detto niente, questo è certo. Meglio affrettarsi ad aggiungere senza mezzi termini che Lunar Park è un’opera d’arte di altissimo livello e, al tempo stesso, il capolavoro assoluto di uno scrittore talmente grande non solo sul piano della notorietà che, come ha osservato The Baltimore Sun, ormai “needs no introduction”. Verità. Finzioni. Mezze verità. Confessioni di un ex ragazzo prodigio degli anni Ottanta: un viaggio nei paraggi dell’anima di Mr. Ellis. L’uomo e lo scrittore pericolosamente fusi insieme, ben mescolati a una folla di facce vere e inventate: Keanu Reeves, Robert Downey Jr, David Duchovny, Jay McInerney (a proposito: a quando il suo ritorno in libreria?), Robert Martin Ellis, Jayne Dennis e molti altri. Sono trascorsi sei anni dal precedente Glamorama e non credo che nessuno, detrattori compresi, si aspettasse un libro del genere. Non l’epigrafe tratta da Panama di Thomas McGuane: “Il rischio professionale di fare di te stesso uno spettacolo, sulla lunga distanza, è che a un certo punto anche tu compri un biglietto d’ingresso”. Neanche la lunga introduzione/prologo aperta dalla frase “Sei una perfetta caricatura di te stesso”, incipit doloroso, obliquo che schiude una piena inarrestabile di ricordi personali (gli esordi, la gloria meritata eppure prematura, gli eccessi con tanto di docce di Dom Pérignon e boliviana da sniffare, la patente di pornografo

acquisita all’alba dei Novanta). Meno che mai un romanzo di romanzi, poiché dentro le oltre trecento pagine di Lunar Park trovano posto tanto i personaggi di American Psycho (ebbene sì, Patrick Bateman è tornato!) quanto un omaggio ad Edgar Allan Poe e allo Stephen King de La Metà oscura. Si potrebbe addirittura leggere il nuovo lavoro di Ellis come un esperimento di remix letterario del classico kinghiano: lo scrittore e i suoi pericolosi fantasmi di carta in una città del Nordest sufficientemente vicina/ lontana dalle mille luci di New York (e dall’epicentro paranoide post-attacco al World Trade Center). Citazioni da Cujo e Shining, un party di Halloween con colonna sonora che passa per Time of the Season degli Zombies e Superstition di Stevie Wonder, ospiti travestiti da Anna Nicole Smith, vassoi di nachos, capsule di Super Vicodin, Xanax, Zyprexa. Ellis artefice di satire feroci: il tossico, il padre inaffidabile che descrive un’America di bambini, teenagers, adulti dipendenti dagli psicofarmaci; una nazione vittima di mostri partoriti dal suo stesso ventre: “Ovunque si vendevano giubbotti antiproiettile, perché a un tratto erano comparsi nugoli di cecchini; la polizia militare che stazionava a ogni angolo non dava alcun conforto, e le telecamere di sorveglianza si rivelavano inutili. C’era un numero talmente alto di nemici senza volto – all’interno del paese e all’estero – che nessuno sapeva contro chi stessimo combattendo o perché.” E poco più avanti: “Jayne desiderava crescere figli dotati, disciplinati, ambiziosi, ma aveva paura praticamente di tutto: dei pedofili, dei batteri, dei fuoristrada (ne possedevamo uno), delle armi, della pornografia, della musica rap, dello zucchero raffinato, dei raggi ultravioletti, dei terroristi, di noi stessi.” Ellis, scrittore che riflette sul significato dell’atto creativo: dal privato al pubblico, in una cornice che è quella della ghost story ma con un nucleo

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centrale in cui, proprio come in King, è il processo della scrittura ad essere oggetto di una dissezione critica attuata col bisturi dell’autobiografia. “The “truest” book I’ve written, in terms of the majority of events that happened”, dice l’autore. Ad una prima parte vertiginosa quanto l’intero Glamorama, con punte ferocemente (auto)ironiche - incluso un quarto capitolo dedicato al fantomatico romanzo porno dall’improbabile titolo Figa minorenne – seguono i toni drammatici che accompagnano la discesa dell’irrequieto personaggio Bret nell’angoscia che gli scatena la scoperta della paternità. Bret, figlio di un padre assente, scomparso nel 1992 in circostanze poco chiare. Bret, genitore famoso dell’undicenne Robby, ragazzino introverso quasi sempre chiuso in una stanza “(…) arredata secondo un tema spaziale: decalcomanie di pianeti e comete e lune erano incollate su tutte le pareti per dare l’illusione di fluttuare in un cielo nero nello spazio profondo.” È in descrizioni come questa che si nasconde lo straziante significato del titolo: straziante perché per la prima volta, lo scrittore Ellis tocca tasti segreti, particolarmente delicati, e riesce a commuovere i suoi lettori fino alle lacrime. Ieri si manifestava cinico, distaccato; oggi ripensa l’umano conservando una visione disperata della società alla maniera del Ballard di Crash e di Millennium people, del Mailer de I Duri non ballano. Lo scrittore è nudo, Lunar Park è un dono. Mi auguro soltanto che Bret Easton Ellis abbia mentito spudoratamente quando ha parlato di questo libro come il suo ultimo romanzo, l’opera che dovrebbe precedere la sparizione dello scrittore sul lato oscuro della luna.


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Mikael Niemi Popular Music Flamingo Ovvero: quando la Svezia non è solo Stoccolma. Essere un ragazzo in Svezia negli anni ’60, a quanto pare, non è per niente facile. Soprattutto se si cresce a Pajala, un piccolo villaggio nel Nord del Paese, talmente sperduto da “non apparire nemmeno sulle cartine geografiche”, e considerato più finlandese che svedese. Il giovane Matti, protagonista del romanzo, sente su di sé tutto il fascino dell’avvento della modernità come le strade sterrate del suo villaggio accolgono l’arrivo dell’asfalto, luccicante ed incandescente. Per Matti ed il suo strano amichetto Niila (che parla una lingua totalmente inventata, finché non si scopre che in realtà è l’esperanto, e che lo ha addirittura appreso attraverso la radio!) il nuovo mondo arriva nella persona di Elvis Presley e del suo rock sensuale, e soprattutto con la scoperta di un EP dei Beatles, una rarità per i ragazzi del paese. La loro vita cambia, e cambia la percezione del mondo. I ragazzi sognano di creare una rock band, ma anche l’idea di avere per casa una chitarra è per i loro padri blasfema, soprattutto troppo effeminata. Gli uomini di Pajala sono infatti educati a pane, carne di renna e superalcolici, e se un ragazzo non fa propria la mentalità del taglialegna è perduto. La via di fuga, il Sud civilizzato e sicuramente più liberale, tenterà allora i ragazzi, perché Pajala comincerà a stargli davvero stretta. L’autore descrive meravigliosamente quell’età critica che porta Matti ed i suoi amici dall’adolescenza all’età adulta, scandendo i capitoli con delle didascalie da romanzo di formazione, e offrendoci tante piccole avventure (come ad esempio l’esilarante sfida di velocità tra l’autobus della scuola e il maestro di musica, bizzarro corridore alla cui mano destra mancano tutte le dita tranne il pollice e che ha uno strano odore che fa impazzire i cani), strani incantesimi nel bosco, gare di sopportazione d’alcool tra ragazzi con conseguenti collassi collettivi, lavori estivi come sterminatori di topi, prove di canto e prove di baci, per arrivare poi ad una conclusione malinconica, tenera, ma forse prevedibile. Perché chi lascia il proprio paese, prima o poi, vivo o morto, ci ritorna. (Anna Puricella) Radu Mihaileanu - Alain Dugrand Vai e vivrai Feltrinelli È stato pubblicato in concomitanza dell’omonimo

Antonio Pascale Passa la bellezza Einaudi di Eliana Forcignanò

All’improvviso accade qualcosa che ti costringe a voltarti indietro, ad attraversare il passato, a disfare il fardello dei ricordi e confrontarsi con essi. Confrontarsi con il mutamento, perché molti personaggi coinvolti nel nostro passato ruotano ancora nell’orbita del presente, sebbene diversi, migliorati o peggiorati, evoluti o regrediti o, semplicemente, diversi. Il passato s’intreccia con il presente: una fastidiosa malattia alla pelle, un padre di settantadue anni che, sia pur inconsapevolmente, si sforza di recuperare il rapporto con il figlio ormai adulto e padre a sua volta di un bambino da crescere, da educare, una moglie con i piedi sin troppo per terra, scettica sui vagheggiamenti della poesia, amici che le rispettive mogli hanno preferito abbandonarle per andare alla ricerca di una seconda giovinezza, fra le braccia di un’altra donna. Ecco, la vita di Vincenzo, il protagonista del romanzo di Antonio Pascale: una vita non così eccezionale – nel senso di “far eccezione” -, se non fosse per una fastidiosa eruzione della pelle consistente in “bolle ovali e ricoperte di piccole squame”. Cosa da nulla o malattia mortale? I medici si aggrappano alla tesi “stress”, approfittando dell’abuso che di questa parolina si fa nella società contemporanea e ha inizio la via crucis: somministrazione di farmaci, consulti, ricovero, visite di parenti e

amici in vena di consigli, fra i quali il più originale è, senza dubbio, quello di zio Arturo, innamorato di una colf polacca e afflitto da una fastidiosa dermatite alla pelle che lo ha costretto ad andare da uno psicanalista. “Bisogna fare il collegamento interno. - dice lo zio – Quando non parla la mente, parla il corpo e la pelle è il nostro confine”. Alla fine, Vincenzo decide di ascoltare i consigli paterni e si sottopone alle cure termali, ma, nel periodo in cui è malato, cambia qualcosa dentro di lui, perché la malattia, sovente, si traduce in uno strumento che aiuta a guardare oltre e più a fondo, aiutando chi ne è afflitto a mettere a fuoco ciò che prima si è sempre ignorato pur avendolo sotto gli occhi. La malattia è la chiave d’accesso a un percorso di formazione che l’individuo può essere chiamato ad affrontare in qualunque momento della sua vita: certo, si tratta di una strada che intraprendiamo e seguiamo con paura, dolore, afflizione, ma vale la legge greca del pathei mathos, “conoscenza attraverso la sofferenza”. Nel caso di Vincenzo, i suoi problemi di salute sono più noiosi che gravi, dunque è lecito viverli con l’ironia che caratterizza l’atteggiamento del protagonista. Ironia e leggerezza sono i toni peculiari dell’intera narrazione che, per questo e per lo stile colloquiale, riesce godibile ai lettori.

film, in questi giorni nelle sale, ed è un libro di luoghi e di viaggi, di storia, di amore. Stile documentaristico linguaggio mitico ed umoristico si fondono, proprio come nel film, per dar voce a delle pagine di storia non molto conosciute, quelle dei Falasha (ebrei neri) ed il loro epico viaggio verso Gerusalemme: la cosiddetta “operazione Mosè”. E la storia di un bambino, etiope, nero, cristiano, si innesta in questa macro-storia di un popolo. Si racconta della sua “fortuna” di lasciare il Sudan per andare in Israele, della sua chance di trovare una via di fuga. Vai vivi diventa gli dice la mamma quando lo obbliga a partire. Vai vivi diventa sono le tre parti del libro, che corrispondono allo sradicamento dalla sua terra e dall’amore materno, all’adolescenza e tutto ciò che essa porta con sé, e all’età adulta, la crescita insieme e grazie agli altri. “Questo libro raccoglie tutto il materiale che non è stato possibile inserire nel film per ovvie ragioni di lunghezza - ci spiega l’autore-regista - ma non sarebbe stato giusto omettere parte dei racconti che il popolo degli ebrei etiopi mi ha fatto con estrema franchezza e fiducia. Non volevo tradirli”. E non li ha traditi. È tutto in questo libro. (Valentina Cataldo)

U n a galleria di personaggi (Emiliano Zapata, Pancho Villa, Diego Rivera, Tina Modotti, Edward Weston, Manuel Rodrìguez Lonzano, il Doctor Alt) che costruisce in un sapiente intreccio narrativo, glorie e derive d’uomini e donne, vicende d’artisti e di rivoluzionari, che mischiano il crudo della guerra a sublimi momenti d’erotismo, di scalmanate passioni col pennello e la pistola a portata di mano e di pensiero. Un Messico d’amore e morte che negli anni venti divenne sponda di utopia artistica e di un eccentrico vitalismo che sperimentava la rivolta, il cambiamento, il costruire che scosse le fondamenta della cultura, della politica e della morale. La Città del Messico irripetibile e memorabile degli anni venti, mostrava al mondo un volto spregiudicato, pur racchiudendo nelle sue viscere strati di pervicace oscurantismo, realizzava quella rivoluzione che incrinava pregiudizi consolidati, che mettevano in discussione i rapporti tra uomo e donna, tra sfera politica e sfera privata, tra arte e commercializzazione.

AA.VV. Brandelli d’Italia Chimienti Editore Il tema è semplice e, direbbe qualcuno, addirittura banale. In quale stato si trova la repubblica italiana dopo circa 4 anni di governo della Casa delle Libertà e del premier Silvio Berlusconi? La risposta potrebbe essere altrettanto semplice ma, in questo Brandelli d’Italia, non banale. A cimentarsi nella elencazione delle malefatte berlusconiane sono cinque personaggi molto diversi tra loro che analizzano con linguaggio e strumenti diversi cinque settori toccati dall’azione dell’esecutivo. Si parte con il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa che parla de La virtualizzazione del reale e la fucina delle illusioni. Il magistrato Nicola Colaianni firma L’eversione costituzionale, l’astrofisica Margherita Hack presenta La cultura del modello aziendale, Nerio Nesi, economista e parlamentare già presidente della BNL e ministro del lavoro, delinea Il declino dell’economia italiana. Chiude il filosofo Gianni Vattimo che ragiono intorno a La democrazia verso l’asfissia. Un libro da barricata ma serio, ricco di ragionamenti e di proposte per il futuro del paese. (P.L.)

Pino Cacucci Nahui Feltrinelli di Mauro Marino “Malgrè tout” è questo il titolo! “Malgrado tutto” un magnifico fantasma può tornare al respiro, riassaporare la gloria, se la scrittura ridona forma alla vita, lo evoca nei ricordi, nutrendo la giusta memoria, ciò che è meritato: malgrado tutto! Così fa Pino Cacucci, riscattando dall’oblio una straordinaria figura di donna per dar ritmo e forma ad una grande storia di anime in rivolta contro il mondo e contro se stesse, guidate da un sogno di libertà tanto alto da essere imprendibile. È folgorante l’incipit di questo ‘romanzo di vita’, il personaggio che si delinea ci lascia sospesi nella curiosità. Con le ali mutilate e il cuore rattrappito, Nahui vaga senza meta per le strade di una città che l’aveva vista incontrastata regina. Gli occhi persi nel vuoto, i capelli biondi ormai stopposi, i vestiti consunti, il trucco eccessivo, l’aria di chi ha perso tutto dopo aver posseduto tutto. Ah! quegli occhi: inconfondibili, unici al mondo. Adesso s’accecano, aiutando il sole a sorgere e accompagnandolo nel suo quotidiano paseo fino al tramonto. Ma prima, prima ne avevano rapiti di sguardi! Attoniti di fronte alla bellezza di Nahui Olìn Carmen Mondragòn Valseca, figlia d’un generale inventore di armi nel Messico della Revoluciòn – smisurati, verde smeraldo, morbosamente attraenti come bocche di vulcani.


Coolibrì Giuseppe Genna L’anno Luce Marco Tropea Editore Giuseppe Genna accantona la scrittura di genere e con essa manda in letargo l’ispettore Guido Lopez, il personaggio seriale dei suoi thriller, dopo che lo stesso si è incarnato nella serie tv Suor Jo. L’anno luce è definito nella seconda di copertina il primo romanzo neoborghese italiano. Definizioni a parte, L’anno luce è un romanzo di un iperrealismo talmente smodato da sciogliersi come burro sfrigolante su padella rovente. Ed ecco il Mente, un manager quaranta-cinquantenne dalle smodate ambizioni. Il Mente è un dirigente della Komtel Italia, una società di telecomunicazioni, sotto l’assedio di compratori inglesi che mirano al controllo delle comunicazioni della nostra nazione. La moglie Maura non riesce ad avere figli anche se tenta più volte la fecondazione artificiale. Una sera il Mente trova Maura riversa sul suo letto. Sembra morta. Ma in realtà è in una sorta di coma psichico. Le ragioni? L’amante minorenne della moglie, autore del folgorante Capolavoro Misterioso, si è suicidato nella sua vasca da bagno. Mentre il protagonista sta preparando materiale per la riunione più importante della sua vita la moglie verrà inseminata da un maniaco in ospedale. Per l’ottenimento del possesso della Komtel si muovono non solo compratori inglesi, i quali conoscono i segreti più oscuri dei dirigenti della società italiana, grazie al lavoro sporco del Faccendiere, ma anche il Vaticano, incarnato, nelle pagine del romanzo, da un Cardinale che conosciamo molto bene. Oggi Papa. Accanto a questi protagonisti compaiono icone immarcescibili del nostro immaginario contemporaneo, da Michael Jackson, al playboy Gigi Rizzi, dalla cagnolina spaziale Laika al Michael Douglas di Wall Street, senza dimenticare lo scrittore Uwe Johnson e il suo infernale Jahrestage. Genna si muove abilmente nelle trame dense di questo torbido intreccio, mixando fiction televisiva e tragedia classica. Ritroviamo il Mente alla fine del suo lungo viaggio, quando la tragedia è oramai montata, nella struggente lettera a Maura, dall’incipit che strazia: “Maura, amore mio, mio amore, è trascorso un anno da che te ne sei andata. Un anno luce. Un anno per me di strazio. Sono straziato, Maura”. La tragedia che si compie in L’anno luce è individuale, certo, riguarda il Mente e il crollo di quella marzialità

25 Michael Cunningham Giorni memorabili Bompiani di Elisa de Portu

In una delle interviste condotte e pubblicate da Francesca Borrelli in Biografi del possibile (Bollati e Boringhieri) Michael Cunningham afferma “Se dico che questo romanzo riguarda lo sviluppo dell’industrialismo e del trascendentalismo in America nessuno avrà voglia di leggerlo, ma di questo si tratta”. E in effetti in questo libro dell’autore, già premio Pulitzer con The Hours (Le ore) riemerge l’ossessione per la fisicità e la disgregazione del corpo bilanciato continuamente da uno spirito sempre teso alla purificazione dalla materia. Come se la risposta a una modernità fatta di macchine, ordigni esplosivi, e tecnologie sempre più aggressive sia un pensiero astratto, un’anima immanente, una soluzione, insomma, che non fa parte di questo mondo. Lucas, Simon e Cathrine sono i protagonisti dei tre racconti lunghi che compongono Giorni memorabili: tre storie ambientate in tre periodi storici distanti 150 anni l’uno dall’altro e in cui questi personaggi ritornano con vesti sempre nuove, in una sorta di reincarnazione. A tenere insieme le tre novelle è la voce suggestiva del poeta Walt Witman sempre presente nel testo e attraverso il quale in modi e con suggestioni differenti i personaggi parlano (ricalcando in questo modo la formula già collaudata in The Hours con la voce di Virginia Wolf). La prima novella, dunque, ambientata in una New York dell’Ottocento è una riflessione/denuncia sulla disumanizzazione della società

industriale: Lucas a soli tredici anni prende il posto in fabbrica lasciato dal fratello Simon, schiacciato da una macchina, dentro la quale lo stesso Lucas è convinto che la sua anima continui a vivere. Questa idea di sconfitta della società industrializzata continua poi nella seconda parte: Cat è una poliziotta che, in un clima di tensione appena successivo all’11 settembre, tenta di contrastare una banda di bambini kamikaze, il cui scopo è sconvolgere un mondo per loro ormai invivibile. Nell’ultima storia siamo, invece, in un futuro post-atomico, dove “simuli” e alieni partono alla ricerca di nuovi luoghi da colonizzare, dopo aver abbandonato una terra ormai in macerie. Giorni memorabili, quindi, nasce come un trittico di enorme suggestione, dove trovano spazio tre generi completamente diversi (il romanzo gotico, il thriller e la fantascienza), ma dove ad emergere è soprattutto la drammaticità del sacrificio, della perdita di sé e la fuga spirituale da un presente dove non sembra esserci più spazio per l’Uomo. Così, per quanto in certi punti risulti vagamente astratto e troppo ambizioso, non si può negare che in tutte le storie che compongono Giorni memorabili ad affascinare sia soprattutto la capacità visionaria di un autore come Cunningham, ancora capace in modi inaspettati di restituirci emozioni di amarezza e commozione sulla condizione umana.

Osvaldo Capraro Né Padri Né Figli E/O di Massimo Lafronza - In che squadra giochi adesso? - E dove devo giocare - Non volevi diventare calciatore? - Don Pa’, dove cazzo devo andare io. Mino, canuto giovane, ha l’oro nei piedi, ma su di sé il fardello di quell’arida storia di sangue, violenza, indifferenza, di guerre d’onore, d’omertà e vuoto sociale tristemente normalizzato dai militari al tempo dell’Operazione Primavera. “…dove cazzo devo andare io”: apatica voce che parla di un destino già banalmente descritto. Mino è il più bravo sul campo di calcio, ma viene inghiottito, masticato e vomitato dall’onnivora e classista realtà della strada. E il suo deuteragonista Don Paolo come si muoverà tra le affamate strade del quartiere Paradiso? Anche la sua una storia già nota: inerme, non potrà che tentennare di fronte ad una vita cui nessun l’ha preparato in seminario. La vicenda, nei suoi ridondanti scenari, evolve a spezzoni, proiettando il lettore verso una sensazione di instabilità emotiva. I capitoletti che inquadrano la vita del giovane Mino sono la vera forza narrativa del libro intero. In quelle pagine il narratore si lascia assorbire dalla psiche del ragazzino, ragiona e scrive semplicemente e in assoluto accordo con quell’incompletezza cerebrale. I congiuntivi si disarticolano

nell’imperfezione temporale, ricalcando l’abito mentale di un bambino; in egual modo la vicenda narrata trova il suo motore immobile in questa stessa intrinseca imperfezione. A Don Paolo, figlio di un Verbo assolutamente votato alla perfezione, non resterà che errare stancamente negli osceni costumi locutori della strada, e provare a vivere. Alla fine di tutta questa ‘finzione’, il mondo appare molto più reale. La storia, in sé, è semplice, alle volte banale. Ma sembrerebbe che l’esordiente romanziere non abbia intenzione di raccontare nulla di proposito, e che voglia, piuttosto, impregnarci di realtà problematiche e atmosfere invasive. Un romanzo crudo, talvolta crudele, che non illude mai. Tutto il resto è noir (mediterraneo).

che sembra caratterizzarlo nelle prime pagine, ma è anche collettiva, poiché il Mente è la parte di quel tutto composto da uomini privi di scrupoli pur di poter raggiungere i loro sporchi obiettivi. Il Mente ottiene ciò che vuole, prende il posto del Profeta, è amministratore delegato della Komtel, ma l’assenza di Maura è struggente. Oltre ogni cosa. (Rossano Astremo) AA.VV. Corto Testo. Istantanee sulla città Edita Venti brevi racconti di giovani scrittori esordienti, narrati sul palcoscenico della propria città; questo è ‘Corto-testo, istantanee sulla città. Il libro nasce sull’onda del concorso letterario per scrittori inediti promosso da Edita, società editoriale di Lecce, nella primavera del 2005 con lo scopo ben preciso di dar voce a passioni, sogni, ambizioni e tentazioni di ventenni e trentenni attraverso una veloce istantanea sullo sfondo del territorio urbano da loro vissuto. Sono così nate venti storie, simili alle immagine fluide di un cortometraggio, di amori e dolori, di vita e sentimenti, di attese e di slanci in avanti. Venti ritratti del proprio mondo che cambia tra domande su un futuro incerto e desideri mai assopiti di lottare per i propri ideali e valori. Tra pensieri in libertà e riflessioni alla luce di un proprio giardino segreto custodito con cura, vengono descritte aspirazioni che raccontano di vie, piazze, mura e natura con lo sguardo del proprio animo. Sono racconti di paure, di personaggi sempre pronti a spiccare il volo, ma profondamente ancorati al proprio nido. Il lettore si immerge in atteggiamenti, modi di essere, tipologie umane diverse che nutrono e traggono al tempo stesso linfa dagli odori, dai colori, dalla materia di cui si caratterizza la propria città; questa diventa musa, sfondo, rifugio e trappola nell’esistenza di ognuno, sempre in bilico tra la strada da cercare, quella percorsa e quella che la storia di ognuno vorrebbe far imboccare. Storie individuali di sensazioni universalmente condivise che ritraggono il desiderio profondo di volersi sentire vivi in ciò che si è, per ciò che si è stati e per quello che si potrà essere. (G.C.) AA.VV. Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli Luca Sossella Editore di Rossano Astremo È da poco uscita Parola plurale. Sessantaquattro


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poeti italiani fra due secoli, subito diventata un caso come titola l’articolo a piena pagina di “La Repubblica” a firma di Enzo Golino. Si tratta di un’antologia curata da otto giovani critici, Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli, Paolo Zublena, che dichiarano: “Il nostro è un gesto forte, costruito in cinque anni di lavoro intenso”. Ed è una sfida sia editoriale che commerciale per il prezzo incredibilmente basso e per la mole del volume. Da sempre la scrittura in versi è parte importante del nostro immaginario, ma da troppo tempo mancava una raccolta della produzione più recente che fosse estesa e, insieme, affidabile. Negli ultimi trent’anni non sono mancate antologie autorevoli, ma hanno tralasciato le ultime generazioni di poeti; al contrario delle antologie “di tendenza”, che sono però programmatiche e talvolta settarie. Troppo arduo, per un singolo, abbracciare il vastissimo raggio della produzione attuale. Perciò questa antologia si propone all’insegna della pluralità: tanto degli autori, quanto di chi li seleziona. Non più un umorale Minosse, ma un individuo partecipe di una comunità; portatore di una responsabilità singolare e collettiva. Plurale come i lettori ai quali il libro s’indirizza. I giovani critici sopra elencati (nati tra il 1966 e il 1973) si sono spartiti 64 autori, nati tra il 1945 e il 1975, firmando – oltre agli ampi “cappelli” a ciascun autore – otto diverse introduzioni dedicate a

Claudio Cugusi Call Center Fratelli frilli edizioni

Il sottotitolo di questo libro indagine sui call center è: gli schiavi elettronici della new economy, parole forti che potrebbero infastidire le aziende serie che lavorano in questo settore, ma non è di loro che si parla nelle cento pagine del testo. Sembra che in Italia siano quattrocentomila gli addetti ai call center, nuovi operai nelle fabbriche immateriali della new economy. Diplomati o laureati, con contratto o irregolari, vittime del mobbing e dei contratti a termine, costretti a lavorare senza mai poter lasciare la postazione, gratificati infine con paghe irrisorie frutto di alchimie matematiche ed improbabili percentuali. Per effetto di ciò il lavoratore è costretto a una marginalità sociale che si traduce nel gravare ancora sulla famiglia d’origine e nell’impossibilità di progettare seriamente il proprio futuro. Per la seconda volta nella storia economica è l’azienda Ford a precorrere i tempi e nel 1968, per fare fronte ai reclami dei propri clienti, apre il primo call center il cui numero inizia per 800 e che da questo momento sarà il prefisso universale degli attuali numeri verdi. Nell’epoca globalizzata, emblematico è il boom dell’India, dove settecentomila giovani dai diciotto ai ventisei anni

esaminare aspetti e problemi presentati da un corpus vario quanto vasto, che occupa più di mille pagine. Il volume è aperto da un quadro storico e concluso da un’esaustiva bibliografia.

parlano inglese con accento americano e lavorano ai servizi di information technology di compagnie internazionali ad un costo decisamente inferiore dei loro colleghi europei, ma almeno loro incrementano realmente l’occupazione. In Italia la Asl di Milano ha avviato un’indagine da cui è emerso che gli operatori di call canter sono affetti da numerosi disturbi psicofisici e che, al crescere della rigidità organizzativa, crescono i disturbi. Sempre in Italia, senza criminalizzare la libertà d’impresa, si assiste ad una vera pioggia di contributi alla formazione professionale e finanziamenti verso le aziende fornitrici di servizi telefonici. Ma questo miraggio da new economy sembra non arricchire nessuno dato che le aziende chiudono sempre con bilanci in rosso e gli operatori a rischio di salute vengono mal pagati e privati dei diritti fondamentali che spetterebbero ai lavoratori. In questo crogiuolo di tipico stampo made in Italy il mercato detta le sue regole, i lavoratori le subiscono e lo Stato resta a guardare.

Pino Bertelli Cinema dell’eresia NdaPress 2005

John Perkins Confessioni di un sicario dell’economia Minimum fax

Vigo, Bunuel, Rocha, Pasolini, Fassbinder, Debord, Trier, sette registi per sette modi di rivoluzionare lo schermo. Attraverso l’analisi della produzione cinematografica e delle controverse esistenze di questi colossi della cinepresa, l’autore effettua un viaggio appassionante negli “incendiari dell’immaginario”. Filo conduttore nell’accostamento di questi intellettuali, artisti, registi, poeti o carogne sovversive secondo i differenti punti di vista, è la passione con cui hanno sfidato nell’arco del ‘900 la società dello spettacolo, i suoi dogmi e le sue ipocrite censure. Anticonformismo e anarchismo visivo a volte pagato a caro prezzo ma incisivo al punto da scrivere pagine indelebili della storia del cinema, peccato che nella storiografia cinematografica “ufficiale” molti registi vengano dimenticati o relegati all’idea di avanguardia artistica. È per questo che i film di Debord ed altri sono confinati a poche visioni di poeti dello sguardo. Sono opere che decostruiscono gli eroi spazzatura dell’idolatria, della cultura e della merce e gridano che la miseria intellettuale e sociale dell’immaginario planetario poggia sulle barricate che da tempo un manipolo di predoni ha eretto contro l’umanità.

Si tratta dell’autobiografia di John Perkins, ufficialmente economista capo in una grossa società di consulenza finanziaria di Boston di fatto “sicario dell’economia”. Non si tratta di un ruolo orwelliano o di un personaggio nato dalla fantasia del Terry Gilliam di “brazil”. Il sicario, in campo economico è una sorta di agente segreto ben pagato il cui scopo è ottenere miliardi di dollari da tutti i paesi del globo, e farli passare nelle tasche delle multinazionali e delle famiglie che le gestiscono. Il metodo principale per ottenere il successo è l’ingerenza sulle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo al fine di rendere attuabili piani economici che avvantaggino le corporation ed il governo americano. In preda ai rimorsi di coscienza dovuti a dieci anni di falsi in bilancio, elezioni truccate estorsioni ed ulteriori metodi economici poco ortodossi, sulla scia degli sconvolgimenti e pentimenti da 11 settembre Perkins dismette i panni di servitore dell’impero e diviene paladino degli sfruttati realizzando questo romanzo denuncia che in America è già un bestseller e c’è da scommetterci lo diventerà anche in Europa prima che esca la produzione cinematografica già in lavorazione.

Tabula Rasa rivista di letteratura invisibile Besa È molto ricco di racconti, poesie, riflessioni e illustrazioni il quarto numero (autunno inverno 2005/2006) della rivista di letteratura invisibile Tabula rasa curata da Tommaso De Lorenzis, Mauro Marino, Luciano Pagano, Lorenzo Valle. La novità più interessante di questo numero è di certo costituita dalla presenza, sulla stessa rivista, di realtà che hanno promosso, negli ultimi anni differenti modi di approccio e relazione nei confronti dell’editoria e della scrittura, da autore a editore e viceversa, gettando un ponte tra editoria digitale e tradizionale, nel segno del copyleft. Sono presenti iQuindici, i lettori residenti della Wu Ming Foundation, con sei racconti pubblicati su Inciquid tra il 2004 e il 2005, autori dei quali sono Alberto Riggettini, Ezio Tarantino, Davide L. Malesi, Andrea Iori, Marco Biazzetti ed Emanuele Faconti, assieme a questi racconti vengono pubblicati quattro racconti inediti scritti da giovani autori (Lorenzo Valente, Luciano Pagano, Manila Benedetto e Lelio Semeraro). La sezione dedicata alla critica vede la presenza di interventi collezionati da Tommaso De Lorenzis e Luciano Pagano. La sezione dedicata alla poesia è curata da Mauro Marino, operatore culturale e direttore della collana di poesia della Besa Editrice, POET/BAR, che negli ultimi anni ha avuto modo di pubblicare l’esordio di diversi giovani poeti. La rivista, nella versione cartacea distribuita in Italia da PDE (300 pagine al prezzo di 7,00€), contiene le illustrazioni di Efrem Barrotta (BigSur).


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La gang dei Senzamore Ascoltando Radio Capital ci si può imbattere nelle sua voce, girovagando in libreria l’occhio può cadere sulla copertina del suo esordio letterario. Antonio Iovane, trentenne giornalista romano, collaboratore di Coolclub. it, approda alla narrazione con La gang dei Senzamore da poco uscito per Barbera Editore. Un volume di undici racconti scritti con uno stile molto “metropolitano”. Perché hai voluto raccontare con un linguaggio così diretto? Volevo raccontare la barbarie con strumenti e linguaggio della barbarie. Una generazione che ha perso la “cultura” dell’Eros è una generazione di barbari. L’io narrante di Lubiana dice: «delle cose sappiamo dire solo che sono belle o brutte. Vita al grado zero». Ecco, i protagonisti di questo libro vivono al grado zero della civiltà. Il sesso, per loro, è un bene di consumo. Non conoscono vie traverse, sono privi del gusto dell’attesa, della relazione. Questi stimoli, chiaramente, non arrivano dal nulla. È la barbarie che viene dal Mondo che parla ai miei

27 Intervista a Antonio Iovane Barbera editore personaggi. La realtà fa leva sui loro istinti più bassi e li manda in corto circuito. Non voglio dire che esista una generazione così. Voglio dire di più: in tutti c’è una parte di questo corto circuito. Mi piaceva l’idea di scriverci sopra quell’indagine che si chiama narrazione. Volevo raccontare una porzione di realtà attraverso la merce del sesso. Mi sembra un libro costruito in modo televisivo o cinematografico. Questo è un merito infatti leggendo i racconti mi vengono in mente luoghi, persone, facce, mazzapicchi, culi! È vero, c’è molta televisione perché i pensieri e le azioni dei protagonisti sono televisivi. Se ci pensi prima si guardava la televisione perché quelli che stavano nella scatola comunicavano qualcosa a chi stava a guardare. E chi stava guardare ne sapeva di meno di quelli dall’altra parte. Adesso nella scatola ci trovi te stesso alla ricerca della consolatoria conferma della tua normalità. E quando non ci si riconosce si tenta la via dell’emulazione e si scambia la televisione per la realtà. Come fa Ottone, che davanti a Rai 1 sogna le ragazze di Miss Italia e preso da una voglia di riscatto per un modello al quale non si potrà mai avvicinare, decide di vagare per Roma alla ricerca della sua Miss tra le prostitute della città. Ottone si serve del linguaggio parlato dalla

televisione per rispondere a quel modello. E infatti, quando deve scegliere la sua prostituta, scarta le altre dicendo: Per te Miss puttana finisce qui. La terza domanda è sulla ispirazione (quesito che non si può negare ad un esordiente). Quali sono (se ce ne sono) i tuoi punti di riferimento? Ho nel cuore Philip Roth e nel cervello Gadda. Il primo ti insegna a osare, a guardare al mondo come a una grande narrazione. Gadda (soprattutto quello della Cognizione del dolore) ti insegna che la conoscenza è nel linguaggio e nel suo ordito. C’è poi Kafka, Thomas Mann, Pirandello, Giorgio Caproni. E poi ci sono autori italiani grandissimi e sottovalutati. Adoro per esempio il primo Luigi Malerba, quello del Protagonista o del Serpente. Oppure Specchio delle mie brame di Alberto Arbasino: un manuale di scrittura straordinario. Se mi chiedi un pensatore ti dico Gunther Anders col suo L’uomo è antiquato. Considerato che il tuo lavoro principale è quello del giornalista, quanto ti sei affidato alle storie di cronaca e quanto ai racconti diretti dei tuoi amici (o alle tue esperienze)? Ti dico cosa mi ha raccontato un giorno un amico: “Stavo passeggiando vicino al Colosseo. Vedo un uomo che ero sicuro di conoscere. Ne ero proprio certo, però non mi ricordavo dove l’avevo incontrato. Però lo avevo visto e, forse, frequentato. Così stavo per andarlo a salutare quando mi sono ricordato. Era l’attore di un film

porno”. Una delle storie è nata così. Agli amici devo il gusto vertiginoso del paradosso, che se lo prendi sul serio diventa letteratura. Quando hai spesso a che fare con la cronaca, poi, impari a ridurre lo stupore e ad aumentare la comprensione. Se vuoi sapere quanto c’è di autobiografico ti rispondo: tutto, perché se non vivo quello che scrivo, scrivo male. Che poi lo abbia vissuto o meno nella realtà secondo me è un particolare. (P.L.)


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Dario Flaccovio Editore via E. Oliveri Mandalà, 35 90146 Palermo Tel. 091 202533 www.darioflaccovio.it Gialloteca

Nata nel 2002 con i primi due volumi è diretta a partire dal 2003 da Raffaella Catalano. La collana include romanzi e antologie di genere giallo e noir. Tempora

Dal 2004 include romanzi che non rientrano in un filone specifico o che rappresentano una commistione fra vari generi. Fuori Collana

La produzione comincia nel 2005 con alcuni romanzi mainstream – Il giardino della delizie di Giacinta Caruso, La porta degli innocenti di Valter Binaghi, Resurrectum di Gianfranco Nerozzi, E i morti non sanno di Gaia Servadio, Il viaggio di Aelin di Egle Rizzo e il romanzo Le piste dell’attentato di Loriano Macchiavelli illustrato a fumetti da Gianni Materazzo. I fuori collana spaziano dal thriller al romanzo a sfondo storico o d’attualità, dalla fantasy all’horror.

LA TECNICA DELLA NARRAZIONE La doppia natura della Dario Flaccovio Editore è lampante sin dalla home page dell’agevole sito internet. Una scrivania con oggetti vari e con un libro aperto. “per la professione” a sinistra, “per il tempo libero” a destra. Dario Flaccovio Editore nasce a Palermo nel 1980 e da allora opera nel campo della letteratura tecnica. Nel 2002 inaugura la collana Gialloteca, ora giunta al suo diciottesimo volume, e nel 2004 Tempora, una collana di narrativa non vincolata a generi e mode, che ospita romanzi fuori dagli schemi; i fuori collana sono, invece, romanzi mainstream diretti a un pubblico più ampio possibile. Dal febbraio 2005 la casa editrice si avvale della consulenza editoriale di Luigi Bernardi (scrittore, traduttore, giornalista, editore). A coordinare il lavoro di tutti i settori è la direttrice editoriale Marisa Dolcemascolo. “La narrativa si è aggiunta alla produzione tecnica già esistente”, sottolinea Raffaella Catalano, editor e responsabile della collana Gialloteca, “e che continua. È grazie al retroterra solido della tecnica e della manualistica che la casa editrice ha potuto intraprendere la sfida della narrativa, sostenendola con mezzi economici adeguati e con una struttura organizzativa in grado di gestire l’ampliamento dell’attività”. E i risultati si vedono. “La casa editrice, a differenza di altre”, prosegue Raffaella, “si prodiga con vari mezzi nella promozione: pubblicità, un buon numero di copie omaggio alla stampa, partecipazione alle fiere, presentazioni su tutto il territorio italiano, distribuzione capillare. E la risposta dei critici, dei lettori e dei librai è positiva e migliora di giorno in giorno”. Ma nonostante il buon momento della Dario Flaccovio Editore i problemi di una piccola casa editrice restano. “Essere una casa editrice medio-piccola, almeno per quanto riguarda il nostro settore narrativa, che è il più “giovane”, significa avere difficoltà a imporsi sul mercato, lottare per rendersi “visibili” sui banchi delle librerie e tramite le recensioni sui giornali, diventare credibili per i distributori nazionali, per i librai e per i lettori. Di fatto, dal 2002 a oggi, di credibilità e di visibilità ne abbiamo conquistata tanta. Questo perché, come obiettivo primario, tendiamo a produrre libri di qualità, sia dal

punto di vista dei contenuti che della “confezione” (cura del testo e delle copertine). Una scelta vincente è stata, finora, quella di dedicarci soltanto agli autori italiani, molti dei quali esordienti o emergenti, ma sempre dotati di buon talento e di grandi potenzialità”. Una attenzione e una cura del prodotto che ha portato ben tre autori della casa editrice palermitana tra i quindici finalisti del Premio Scerbanenco per il miglior romanzo giallo/noir dell’anno. Si tratta del lombardo Valter Binaghi con La porta degli innocenti, del campano Massimo Siviero con Vendesi Napoli e del calabrese Gianfrancesco Turano con Ragù di capra. L’altra carta vincente della Dario Flaccovio Editore è rappresentata dalla rete. “Il sito www.darioflaccovio.it è un ottimo strumento di promozione dei nostri titoli”, conclude la editor, “delle novità, degli appuntamenti a cui la casa editrice partecipa, che siano fiere o presentazioni di singoli autori. Di recente abbiamo inaugurato una newsletter che raggiunge cinquantamila utenti e adesso il sito è utile anche dal punto di vista commerciale per la narrativa, mentre lo è da sempre per i libri tecnici. Di recente abbiamo messo on line l’archivio di tutti i nostri autori, con biografie e immagini, mentre da sempre esistono la sezione Filodiretto (presente in ogni pagina dedicata ai singoli romanzi) che offre la possibilità di contattare direttamente gli scrittori, la sezione Recensioni e quella delle Presentazioni, entrambe aggiornate in tempo reale, oltre a uno spazio per la stampa dal quale scaricare schede informative, copertine dei libri e fotografie degli autori; gli abstract di ogni libro sono anch’essi scaricabili e il sito offre tanti altri servizi per il pubblico”. Forse non è un caso anche quest’anno Dario Flaccovio Editore, come era già accaduto nel 2004, si piazza in cima alla classifica dei siti di editoria più visitati d’Italia, sia per quanto riguarda il settore della narrativa che per quello della tecnica e manualistica secondo i dati rilevati da Alexa dall’inizio del 2005 a oggi. La casa editrice palermitana - per numero di visite al suo sito www.darioflaccovio.it - si colloca alla posizione numero 56.342 della classifica mondiale, quindi risulta prima rispetto a tutti gli altri editori italiani.

Alcune domande sul giallo a Raffaella Catalano Il giallo classico è un romanzo “a chiave” che deve accompagnare il lettore verso la soluzione di un “caso” (un delitto, una scomparsa, ecc.) disseminando ad arte la narrazione di indizi che possano far calare il lettore stesso nei panni dell’investigatore, fornendogli tutti gli elementi per venire a capo dell’enigma. Di questi tempi, però, il giallo italiano è anche un’opportunità per calare il mistery nelle diverse realtà regionali del nostro paese. Negli ultimi anni in Italia è nato (o meglio si è affermato) un nuovo fortunato filone giallo e noir. Perché secondo lei dopo anni di confino nella “letteratura di genere” il giallo ha subito questa trasformazione? Forse perché finalmente è chiaro il concetto che un buon romanzo è un buon romanzo e che un giallo o un noir non devono essere penalizzati a causa di un’etichetta inutile: se raccontano una bella storia hanno la stessa dignità della letteratura cosiddetta “alta”. Telefilm, film, romanzi, racconti, trasmissioni televisive. Pare che la gente sia sempre più appassionata al crimine. La letteratura rispecchia questa realtà? Lo ha detto lei stesso. C’è un grande interesse per il mistero, per il delitto. Nel campo della narrativa, lo dimostra il successo degli autori che si dedicano al giallo e al noir. E alle case editrici arriva un numero sempre crescente di proposte di romanzi mistery anche da parte degli aspiranti scrittori. Il giallo, secondo lei, svolge un ruolo sociale? Non mi sento di fare valutazioni così impegnative. Però una cosa che in qualche modo ha a che fare con un piccolissimo ma significativo cambiamento posso segnalarla: mi consta che autori diventati popolarissimi fra la gente (magari anche grazie agli sceneggiati televisivi tratti dai loro romanzi), come Camilleri, abbiano spinto anche chi non aveva mai preso un libro in mano a entrare in libreria e a scoprire il fascino della lettura.


Be Cool Due amici, la loro passione per la musica e un sogno: quello di lasciare il proprio Paese per realizzare le ambizioni di sempre. Questo lo scenario su cui si muovono Ruy e Tito, giovani musicisti cubani che vivono di espedienti in una Havana solare e apparentemente senza problemi. Il primo vive con sua nonna, mentre Ruy ha due figli e una moglie, Caridad, di cui è profondamente innamorato ma il loro rapporto, ormai logoro e vittima di una profonda incomunicabilità, sembra destinato a esaurirsi. A un certo punto però tutto sembra andare per il verso giusto: presi dai preparativi per il loro primo concerto, riescono a conoscere due produttori spagnoli giunti sull’Isola in cerca di talenti da lanciare in Europa. La vita che hanno sempre sognato sembra oramai ad un passo, ma è proprio in quel momento che le reciproche convinzioni sembrano sgretolarsi. Un sapiente mix di commedia, ritmo e sentimento caratterizza questo film frizzante, ben diretto e soprattutto poco prevedibile, dall’ottima colonna sonora (in Spagna al quinto posto degli album più venduti) e dalle interpretazioni sincere ed azzeccate. Inoltre i colori di Cuba, l’allegria che tradizionalmente vi si respira sono presenti e acclimatanti, ma per una

Noir, Commedia, Italiano, Sperimentale, Drammatico

il cinema secondo coolcub

volta quasi misurati, rispettati. Come a dire che non è tutto lì, come recita uno dei protagonisti quando dice che “questo è il miglior Paese del mondo per perdere tempo”, anche se non è detto che tutti vogliano farlo. Habana blues stupisce non solo per la confezione, ma anche perché riesce a rappresentare bene la voglia di sognare e di evadere nascosta in ognuno di noi, per la sensibilità e la cura che manifesta nell’affrontare situazioni facilmente banalizzabili. Difficile parlare di Cuba senza toccare la politica, del tutto impossibile parlare di politica a Cuba. E questo Zambrano lo evidenzia in un modo tutto speciale, grazie ad un’attenta quanto intelligente analisi socio-culturale che lascia trasparire l’angoscia e l’amore che caratterizzano da sempre il rapporto con le proprie radici. Tutto il resto va da sé e quando non bastano una buona sceneggiatura e bellezze latine a fare un capolavoro, di sicuro servono a rendere godibile e appassionante quanto basta un film di nicchia e poco pubblicizzato come questo. Non serve aggiungere altro per una pellicola che chi ama la musica non dovrebbe assolutamente perdere e che chi sogna ad occhi aperti in fondo conosce già. A suo modo il film più rock dell’anno.

Benito Zambrano Habana blues Warner Bros di C. Michele Pierri

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Be Cool

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Tsai Ming Liang Il gusto dell’anguria Dopo tre inattesi premi all’ultima Berlinale arriva anche nelle nostre sale il controverso e immaginifico “Il gusto dell’anguria” del cinese Tsai Ming Liang. in tempo di grave siccità la televisione cerca di suggerire diversi metodi per risparmiare acqua e propone di bere succo d’anguria al posto dell’acqua. Ma ognuno ha i suoi metodi per procurarsi l’acqua: Shiang-chyi raccoglie le bottiglie vuote e le riempie con l’acqua rubata nei bagni pubblici, Hsiao-kang, un attore porno, si arrampica sui tetti in piena notte per farsi un bagno nella poca acqua che trova nei cassoni. Sopravvivere è difficile, ma la solitudine è ancora più dura. Un prodotto di nicchia per chi ama il cinema orientale. John Irvin L’educazione fisica delle fanciulle A quattro anni dal suo ultimo lavoro John Irvin torna con un film dal sapore retrò intitolato “L’educazione fisica delle fanciulle” e che vede la presenza di Jacqueline Bisset e Enrico Lo Verso. La storia, ambientata in Turingia tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ruota intorno a sei fanciulle sedicenni, ospiti fin dall’infanzia in un lussuoso collegio dove apprendono danza, musica e buone maniere, sotto la guida di istitutrici intransigenti e severe. Ma l’adolescenza è anche un periodo di scoperte che neanche lo stretto controllo degli adulti può riuscire a frenare. Audace ma riflessivo. Jim Jarmush Broken Flowers Un cast d’eccezione (Bill Murray, Sharon Stone e Jessica Lange) per un regista di culto come Jim Jarmush (“Coffee and cigarettes”, “Daunbailò”) e il suo “Broken flowers”, da dicembre nei cinema. Semplice l’intreccio: Don Johnston, single incallito, è stato appena lasciato dalla sua ultima conquista, Sherry. Mentre si affligge per la sua solitudine, gli arriva una lettera anonima che lo informa che ha un figlio e la ricerca comincia. Da non perdere. Jean-Pierre e Luc Dardenne L’enfant Freschi di Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne approdano nelle sale con il film che gli è valso il prestigioso premio, il drammatico “L’enfant”. Il racconto verte su Bruno, Sonia e il figlio che hanno appena avuto. Lui, 20 anni,

Paul Haggis Crash – contatto fisico Filmauro di Dario Quarta In una Los Angeles prenatalizia e meltin’ pot, si incontrano/scontrano le vite di una casalinga snob e del marito procuratore, di due amanti/poliziotti, di una recluta “buona” e di un altro “cattivo”, di un regista nero e della moglie, di un fabbro latinoamericano, di un commerciante iraniano con la sua famiglia, di due ladri di automobili, di una coppia coreana e...Crash! Il titolo è azzeccatissimo: automobili e “incidenti”, in un modo o nell’altro, dominano le storie. È un gran film, per tutto quello che riesce a comunicare, e per gli interrogativi che si trascina. Una ricca carrellata di personaggi per una serie di vicende e incontri concatenati o intrecciati in una Los Angeles grande nelle inquadrature, ma piccola come un paesino per la quotidianità narrata. Bianchi, neri, gialli, ispanici, arabi; incontri, incidenti, famiglie, amori, carriera; tutto segnato dal confronto tra razze, e persone. È un film che parla dei pregiudizi e di tolleranza; della generosità degli intolleranti e delle “paure” di chi razzista non è. Tutto, ed il contrario di tutto, in un continuo incrociarsi di vicende (alla maniera di America Oggi di Robert Altman) che avvincono e convincono. Funziona la colonna sonora, funzionano le sorprese, funzionano i personaggi, funzionano gli attori.

Terry Gilliam I fratelli Grimm e l’incantevole strega Buena Vista di C. Michele Pierri Vendicarsi delle proprie paure ad anni di distanza è possibile. Dimostrarlo è l’obiettivo di Terry Gilliam che con le storie dei Grimm ha passato una brutta infanzia. In questo film infatti l’ex Monty Python con la solita ironia e con l’aiuto dell’inedita coppia Heath Ledger-Matt Damon pensa bene di rendere i fratelli più conosciuti dai bambini protagonisti del mondo che loro hanno sempre raccontato, con tutti i problemi che questo comporta. Nel racconto i due, imbroglioni di professione, saltano da un villaggio all’altro truffando popolani creduloni con le loro storie di mostri da loro stessi inventate. Ma la truffa ha vita breve e le autorità li mettono alle strette: risolvere un caso spinoso o sarà pena di morte. A complicare le cose una strega (Monica Bellucci) e i loro problemi si moltiplicano. Ne esce fuori un film dai due volti: da un lato visionario e paradossale com’è nella consueta cifra del regista, dall’altro forse troppo scontato e semplicistico. In fin dei conti un lavoro godibile, ma che sicuramente lascerà l’amaro in bocca a chi ama Gilliam e ha imparato a conoscerlo per perle come Brazil o La leggenda del re pescatore, solo per citarne alcuni. Ma se è questo che passa il convento bisogna accontentarsi. In fondo di Gilliam ce n’è uno solo.

Simon Shore Cose da fare prima dei 30 Warner Bros (DVD) Inizia la lista delle cose da fare prima dei trenta anni e già sai che molti voteranno per il sesso a tre ma che probabilmente nessuno riuscirà nel lussurioso intento. La commedia dolce e amara firmata dal britannico Simon Shore ruota attorno al mondo del calcio. Un gruppo di sei amici da venti anni gioca con la stessa squadra fondata dal patrigno di uno di loro ormai malato e impossibilitato a seguire le partite. I calciatori dilettanti dell’Atletico Greenwich si apprestano a disputare la cinquecentesima partita della storia e qualcuno sente l’esigenza di appendere le scarpette al chiodo (le mogli stressano ovunque...). Ma il calcio, in realtà, è solo il pretesto per raccontare storie di amore e di amicizie, segreti e bugie, figli in arrivo e tradimenti, cose nascoste da tempo e sentimenti castrati. Tra trasferte fantozziane e gare rinviate per i più svariati motivi le scene di calcio giocato sono pochissime. Non mancano momenti comici e battute interessanti. Un film che in Italia non ha avuto molto successo al botteghino e che adesso esce in Dvd. Raccomandato a chi non si vuole arrendere alle responsabilità della vita adulta. (Pedroso)

Luca Guadagnino Melissa P Sony Pictures di C. Michele Pierri Prima ancora di scrivere so già che l’impietoso popolo di Coolclub non mi perdonerà mai questa recensione. Come so che parlare di un film scritto e pensato per adolescenti può facilmente risultare banale. Ma forse non è così. Lungi da me trovare giustificazioni di sorta per quello che considero un film scontato, noioso e se vogliamo anche inutile, ma una cosa è certa: Melissa P è un prodotto che bene rappresenta i nostri tempi. Nato da un caso letterario (100 colpi di spazzola prima di andare a dormire), questa pellicola prodotta dalla coppia Neri-Amendola cerca di schivare polemiche decisamente più grandi di lei. È un lavoro mediocre? D’accordo, ce ne sono tanti. Fa male al cinema italiano? Non più di un film dei Vanzina. Allora cos’è che dà così fastidio, anche solo al pensiero di vederlo? Sono fermamente convinto che proprio perché figlio di un vero diario di una vera adolescente Melissa P dia fastidio a molti. Troppe le domande che la gente si pone. Ma davvero le nostre figlie sono così? (i genitori); ma davvero siamo diventati così? (i figli). E se la comprensione di se stessi parte da un esame di coscienza, toccare nervi scoperti non può che essere doloroso, anche se lo si fa involontariamente come in questo caso. In parole povere non vedetelo. Ma rifletteteci su.

vive di piccoli affari poco legali che combina con i suoi amici; lei ha 18 anni. Ma questa sarà la prima occasione di affrontare la vita in un modo diverso. Per chi vuole tenersi aggiornato. Peter Jackson King Kong Dopo la saga tratta dal capolavoro fantasy di Tolkien “Il signore degli anelli”, il neozelandese Peter Jackson attinge a piene mani dalla storia del cinema con questo suo “King Kong” che rappresenta il secondo remake dell’originale del 1933. La storia è nota e racconta di un gruppo di esploratori e cineasti indipendenti che hanno in progetto di girare un documentario. Recatisi nell’Isola del Teschio a largo di Sumatra, attirati dalla credenza che lì vi sia un gigantesco e pericoloso gorilla chiamato Kong, una volta giunti a destinazione si rendono conto che non si tratta di una leggenda, ma il mostro esiste realmente. Xiaoshuai Wang Shangai dreams A metà fra storia e fiction questo film di Xiaoshuai Wang. Durante gli anni sessanta, sotto la spinta del governo cinese, molte famiglie lasciarono le grandi città per stabilirsi nelle regioni povere, con lo scopo di sviluppare l’industria locale. Una ragazza di diciannove anni, per volere del padre, si troverà ad affrontare un difficoltoso distacco dalla vita che aveva fino ad allora conosciuto, fatta di amici e di primi amori, per trasferirsi a Shangai. Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Luc Jacquet La marcia dei pinguini Forte di incassi milionari in mezzo mondo, arriva anche in Italia il documentario francese “La marcia dei pinguini”. Cavalcando l’onda lunga di un genere che mai come adesso gode di ottima salute e popolarità, Luc Jacquet racconta le peripezie che conducono il pinguino imperatore a percorrere migliaia di chilometri e a patire fame e stenti pur di mettere al mondo dei piccoli pennuti. Nel doppiaggio nostrano la voce narrante di Fiorello. Godibile ed interessante allo stesso tempo.


Finché la banda suona… Cinema e bande musicali

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di C. Michele Pierri

Come sempre la storia si ripete. E se fino a pochi anni fa tutto ciò che era popolare poteva apparire noioso e addirittura da abolire adesso è di gran moda. A questo meccanismo non sfugge il cinema che tra corsi e ricorsi vede salire nuovamente le quotazioni delle Bande Musicali, icona popolare per eccellenza. Semplice moda o recupero vero di ciò che in precedenza aveva detto molto? Arduo rispondere anche se il cinema ha sempre avuto un feeling particolare con la musica e ancora di più con le bande, spesso presenti in passato. A partire dal cinema italiano degli anni d’oro. Nel film di Comencini Pane, Amore e Gelosia del 1954, il Maresciallo interpretato da Vittorio De Sica, si congratula con il maestro della banda musicale per la bella esecuzione, sintomo di una sincera ammirazione per chi portava l’allegria nella vita grigia e semplice dei ceti più disagiati. A metà degli anni Cinquanta la banda musicale appare già come uno strumento di diffusione musicale, così la ricorda il cinema comico di quegli anni. E non è un caso che la banda fosse presente maggiormente in film leggeri o comunque dal seguito popolare. Borghesi e aristocratici infatti tendevano a snobbare quello che ritenevano un semplice quanto deprecabile fenomeno folkloristico da feste e sagre per il volgo, da

non prendere troppo sul serio a differenza della lirica e della più tradizionale musica classica. Una vera rivoluzione in questo senso la compie il regista slavo Emir Kusturica (nella foto a destra), la cui storia cinematografica è permeata da un accurato lavoro di ricerca e proposta di temi musicali cari al suo popolo. Anche Kusturica suona e lo si intuisce facilmente. Nel 1986 si unisce in via provvisoria alla No Smoking Orchestra, band che mescola sonorità zingare a ritmi rock, entrandone definitivamente a far parte nel 1998 come chitarrista. I suoi lavori, caratterizzati da un mix musicale nato dalla frontiera balcanica e dall’incrocio delle tradizioni ortodossa, cattolica e musulmana che popolano la zona, fanno della “banda” un tratto distintivo e addirittura necessario al racconto. Ma tale lavoro non sarebbe potuto essere svolto senza l’aiuto di una figura fondamentale, quella di Goran Bregovic (in basso). Il sodalizio con il musicista comincia quasi da subito, vista la comunione di intenti e l’amicizia che li accomunavano. Il suo lavoro migliore, o almeno più apprezzato, sia per sonorità che per influenze rimane senza dubbio Ederlezi (che dà anche il titolo al cd-antologia delle colonne sonore di Bregovic) e tutta la colonna sonora de Il tempo dei Gitani (Kusturica, 1989). Giusto il tempo di altri due film (Underground, Arizona dream) e il legame si rompe. Ma Kusturica non rinuncia ad un meccanismo collaudato e nel successivo Gatto nero, gatto bianco è ancora la banda, che con il tema di Bubamara attraversa l’intero film, a farla da padrona. C’è la banda quando il nonno

ubriacone esce dall’ospedale, c’è la banda quando alla vigilia di un matrimonio il nonno “muore”, almeno momentaneamente. Questo dà in un certo senso un’idea forte e tangibile di come sia impossibile scindere emozioni, anche quotidiane, dalla familiarità dell’orchestra di paese. Il percorso continua nel 2001, quando dividendosi tra cinepresa e chitarra, il regista bosniaco realizza Super8 Stories, documentario sulla musica balcanica, girato e suonato assieme ai No Smoking. E se in questo Kusturica ha avuto un ruolo di rilancio, c’è un cinema, come quello italiano, che anche per tradizione, sembra averne raccolto l’eredità e recepito i segnali. Già nel 1996 infatti Francesca Archibugi ha girato uno splendido documentario, intitolato La strana storia di Banda Sonora, in cui restituisce alla banda quella dignità che in passato aveva perso a scapito di generi più “alti”. Nel lavoro, diretto a Chianciano e provincia, affermati jazzisti (Enrico Rava, Enzo Pietropaoli, ecc.) incontrano la Banda musicale del luogo, lavorando e producendo assieme. E dimostrando che la musica non conosce titoli e confini. Ma neanche la Puglia sta a guardare. Il caso più emblematico è senza dubbio quello di Pippo Mezzapesa, regista bitontino, che sulla banda e su un suo inadatto componente ci ha addirittura fatto un corto, Zinanà (nome dei piatti orchestrali in dialetto barese), vincendo il David di Donatello nel 2004. Soffia dunque un vento nuovo, che fa della tradizione qualcosa da raccontare e di cui andar fieri. Anche al cinema. E non rimane che adeguarsi e seguire con attenzione quello che fra pochi mesi potrebbe essere già vecchio. Perché la banda è tornata a suonare, ma le sue note potrebbero presto non udirsi più.

L’orchestra di Piazza Vittorio vista da Agostino Ferrente Non è propriamente un banda ma è il gruppo più multietnico che l’Italia abbia mai avuto. L’Orchestra di Piazza Vittorio è un ensemble composto da venti musicisti provenienti da comunità e culture diverse, ognuno coi suoi strumenti ed il suo bagaglio di musica popolare. L’ideatore e aspirante direttore artistico di questa orchestra è Mario Tronco degli Avion Travel. Il regista Agostino Ferrente in Prove d’Orchestra racconta il percorso che ha condotto alla nascita del gruppo. Attraverso gli ostacoli, le delusioni, le frustrazioni, la burocrazia, il razzismo, ma anche le speranze, le soddisfazioni, gli incontri e soprattutto la musica, questo film racconta la storia di una grande scommessa musicale e profondamente umana. L’idea è quella di raccontare una storia vera facendo incontrare e scontrare due linguaggi cinematograficamente opposti: il realismo essenziale del documentario e lo sfarzo fantasioso del musical. info@ orchestradipiazzavittorio.it


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Intervista a Franco Galluzzi Livera: un viaggio nell’arte di Osvaldo Piliego In occasione della sua mostra presso la libreria Ergot a Lecce il 17 dicembre, abbiamo incontrato l’artista Franco Livera. Nel 1984 entra in possesso della sua prima fotocamera e frequenta l’Accademia di Belle Arti di Lecce. Tra la fine degli anni ottanta ed i primi anni novanta fa esperienza a Roma con Bruno Ceccobelli ed Emilio D’Elia e si dedica ad una ricerca personale. Nel 1993 fonda insieme ad Antonio Galluzzi il progetto Interzone, sviluppato fino al 1998. Risalgono a questo periodo le collaborazioni con musicisti e videomakers italiani e la partecipazione, in veste di coordinatore, alle due edizioni di Pixel, rassegna di

cinema in video ospitata dal comune di Torchiarolo (Br). Successivamente ha inizio una nuova ricerca sulle possibilità performative del corpo umano che lo porta a dar vita alla “struttura aperta” Bluefactory, spazio fisico/mentale nel quale far convivere nuove contaminazioni. Presto interverrai con un tuo lavoro all’interno di Ergot, di che cosa si tratta? Una mia amica lo ha definito un lavoro molto Linchiano. In sostanza è una proiezione che avviene in una valigia, un po’ come fece Duchamp con il suo museo portatile, ho creato questa struttura in cui all’interno di una porzione di campana di vetro avviene la proiezione di

un mio lavoro dal titolo Ballet rouge. Questa campana è a sua volta inserita all’interno di una valigia che diventa un oggetto d’arte trasportabile, in osmosi con i saltimbanchi, un richiamo al viaggio che è presente come tema anche nel video, ballet rouge è in fondo un viaggio interiore. Il tutto è accompagnato dalle musiche di Mauro Ingrosso. All’interno dello spazio Ergot ci saranno anche due mie foto tratte da una sequenza, sono porzioni di corpo che si abbracciano. C’è legame tra le foto e il video, tra i due lavori? Il legame è psicologico. In entrambi i lavori c’è la voglia di andare in profondità. Mi rendo conto che in ogni mio lavoro, sia foto, sia video, anche se sono rappresentate delle modelle, in un certo senso rappresento me stesso. I miei sono un po’ come degli autoritratti, in un certo senso autobiografici. Perché hai scelto di lavorare con il corpo? Perché è l’unica cosa che mi appartiene veramente. La body art è quella parte dell’arte del 900 che mi interessa. Io lavoro con il corpo ma sono interessato all’essenza. Una volta una modella prima di venire in laboratorio mi chiese. “Cosa devo portare? E io le risposi: “porta la tua anima”. Raffiguri solo te stesso e donne, perché? Perchè la donna è la mia controparte, mi completa. Perchè la fotografia? Non la fotografia ma quello che posso fare attraverso la fotografia, il video è un estensione. Io non faccio la fotografia, attraverso la fotografia esprimo concetti. Qual è il tuo rapporto con la musica? È sempre un problema, per questo per i miei lavori mi affido a dei professionisti. In generale la musica è fondamentale, ascolto sempre musica quando lavoro, mi piacciono molto i Massive Attack e la musica sinfonica.


CoolClub .it L’aniMa balcanica della MUniciPale

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Intervista a Livio Minafra di Gianpaolo Chiriacò

Pianista, fisarmonicista, scrittore, leader della Municipale Balcanica nonché autore di un disco in piano solo acclamato dalla critica internazionale, Livio Minafra, a soli ventitre anni, rappresenta già una felice sintesi tra le mille anime musicali pugliesi, espressione di un artista talentuoso e di una sensibilità vigile. Livio, come nasce la municipale balcanica? Per errore, come i bambini! Infatti si voleva fare una band che omaggiasse Fred Buscaglione e poi si è andati sul balcanico! E il bello è che man mano ci si è accorti che quella musica non era così lontana da noi, anzi, ci apparteneva, come pure la musica degli zingari, o quella ebraica, o quella francese. Il tema era diventato il Mediterraneo, con la sua pelle, per così dire, Sud-icia! Un’avventura non prevista, ma che quando è partita, è stata ‘na bomba per le vite di ciascuno. Oggi ciascuno dei componenti della Municipale è solare grazie al gruppo. Ci mettiamo tutta l’anima, soprattutto quella più radicale e libera. Quanto contano, per voi, le musiche popolari? Non è la musica popolare che conta per noi. È l’approccio della musica popolare che ci affascina. La spontaneità, la sovente amatorietà democratica del poter fare popolare. La possibilità di unire la ricerca delle radici geografiche alla ricerca di nuove radici, da conoscere e sintetizzare. Diciamo che il popolare e la free music sono oggi le musiche che più di altre non trascurano la propria individualità, anzi, la esaltano. Ma non esiste un genere per noi. Semmai un’appartenenza geografica, ma anche quella è “solo” il punto di partenza. Il genere è il genere umano, non è uno scaffale della Feltrinelli! Voglio sottolineare che oggi la musica popolare è la musica dal e del mondo. E come tale non è museificabile, semmai salvaguardabile. Voglio dire che è indispensabile conservarla e perpetuarla ma che essa stessa ha necessità di incontrarsi con altre culture per essere viva. E che siano incontri nati spontaneamente. Non a tavolino, se no è solo fenomeno. Quanto è importante suonare dal vivo i vostri strumenti? Abbiamo bisogno di comunicare. Secondo me per comunicare si deve sudare. Gli strumenti ci aiutano in questo. E poi ci aiuta anche l’improvvisazione libera, la possibilità di gridare, cantare, danzare, imbarazzarsi, cazzeggiare, provare gioia e dolore attraverso il proprio strumento. In questo numero di Coolclub.it ci stiamo interrogando su cosa significhi “banda” oggi. Cos’è per te una banda? Il percorso di ricerca svolto da tuo padre (Pino Minafra) ti ha influenzato in qualche modo? La banda è l’orchestra del meridione d’Italia. Ne è l’anima musicale più colta, o perlomeno lo era. Oggi è un fenomeno in decadenza e che serve a guadagnare la giornata (30, 40 euro). Invece è un territorio da esplorare e onorare ancora. E non con schifosi arrangiamenti di Blue Moon o la Macarena, ma con materiali originali e nuovi nati per banda. Così hanno fatto Alessandro e Antonio Amenduni; così hanno fatto Antonio ed Ernesto Abbate. Hanno amato la banda e scritto marce sinfoniche, allegre, funebri, di bellezza tale che lo stesso Puccini le ha osannate più volte. E poi la banda è un fenomeno sociale. Porta gratuitamente la musica nelle piazze. Toglie dalla strada tanti ragazzini per insegnar loro la musica, la vita, al posto magari di una pistola giocattolo. Li toglie al degrado e alla noia. Noi oggi però crediamo che la banda sia un’orchestra mal riuscita, che sia solo un-za-zà e stonature. Ed è come quando ci vergogniamo, per esempio, dei nostri prodotti tipici e poi negli Stati Uniti costano un occhio della faccia, e poi i tedeschi ne vanno matti. Il Sud subisce esso stesso il celebre proverbio: nemo propheta in patria. Esiste, in Italia, un movimento sotterraneo fatto di bande popolari? Esistono due tipologie di banda in Italia: quella rigorosa e classica, e quella anarchica. Ti ho già parlato della banda classica e del

suo prestigio che spero riconquisti. Le bande anarchiche, invece, sono un fenomeno diffuso in tutta Europa. E anche in Italia, da sempre un po’ speciale rispetto alle altre nazioni, nel bene e nel male. Non bisogna soffermarsi sul lato formale ed “erroriale” di queste bande. Non perché lascino a desiderare, ma perché non è un dato né interessante né fondamentale. Fondamentale è qui lo spirito, la capacità democratica di unire ragazzi alle bande, senza leader e senza guide. Balza infatti una poeticità carica, incazzata e felliniana, assolutamente unica è ben più alta e nobile della pulizia formale classica (pur bella). Il fatto solo che mi fa incazzare è che queste bande sono così pure di spirito, e allo stesso tempo anticapitaliste, che sono disorganizzate alla follia. Mai un cd, mai partecipazioni in festival di un certo tipo. Solo strade, scioperi e centri sociali. Questo mi fa rabbia perché riduce il raggio di azione delle bande che invece meriterebbe tanto di più. A che livello è un movimento politico? Politico a livello puro. Idealista, filantropo e a tratti anarco-socialista quando pure marxista! Ma non è brutto che con tutto questo si prenda posizione politica. È slancio puro, autentico e sincero. Avete partecipato al Vote for Vendola, ma cosa pensi a riguardo della situazione culturale pugliese? Fiorente, vivace, curiosa e, nel suo, unica. Da far invidia ad altre regioni. Poi sulla gestione della cultura meriterebbe un’intervista mio padre, Pino Minafra. È un capitolo troppo grosso e trascurato. Diciamo che nel paese dell’arte si pensa ancora che l’industria sia l’unico cuore vero. Ignoranza becera. Eppure l’economia con la Cultura ci va a nozze, non va a nozze con l’ignoranza la Cultura, e nemmeno con il capitalismo selvaggio, come lo definiva Pasolini. Il problema è che non la si pensa proprio. Cultura è il protocollo di Kyoto, l’agricoltura biologica (meglio quella biodinamica), i padri Comboniani, e poi ci sono gli artigiani dell’arte (a torto chiamati artisti). La cultura è il colore che l’uomo dà alla vita e al pianeta. Mi sembra che invece vadano di moda il grigio e le pellicce. La musica (Municipale Balcanica, Sud Ensemble, Canto General, i concerti in piano solo), oppure la letteratura, su quali vie pensi di continuare in futuro? Sono abituato ad esprimere in tutti i modi. Esprimere fa sì che la malattia (le durezze della vita) diventino benattia (la possibilità di far tesoro della tristezza e creare positivo). Continuerò su queste strade. Le emozioni le trovo esplorando in profondità i progetti che ho creato o dei quali sono partecipe. Mi interessano meno le idee che nascono, si realizzano e poi muoiono per farne posto a delle altre. Oggi ho queste cose e ci gioco con senso di fantasia e protezione! Poi…vediamo!


CoolClub .it Le altre culture della 11/8 Records Food sou 34

Se nel Salento parli di musica balcanica e di contaminazioni sonore e culturali non puoi che pensare al trombettista Cesare Dell’Anna (nella foto) e a tutto ciò che ruota attorno alla sua casa/ laboratorio. L’Albania Hotel è ormai una sede operativa, una sala di registrazione, un luogo di passaggio e di incontro dove chi passa ha un interesse comune o la curiosità/necessità di scambiare le

proprie esperienze. Da questa esperienza è nata la Undici ottavi Records (11/8), una giovane etichetta indipendente che vuole offrire l’insieme dei servizi di cui una produzione musicale e artistica in genere necessita, a partire dalle fasi di produzione, organizzazione, fino all’assistenza marketing ed alla tutela legale. Si tratta di un progetto che aspira a diventare un vero e proprio network, costruito come struttura orizzontale tra diverse situazioni che mantengono comunque, autonomia creativa e produttiva. Oltre a Cesare, che cura la direzione artistica, 11/8 Records ha visto nei suoi fondatori il regista Lorenzo Bassano, riconosciuto in Italia e all’estero che cura la parte creativa, e Marinella Mazzotta, specializzata nel diritto d’autore che cura il management e l’ufficio legale. “Ci pare importante sottolineare che il progetto costituisce la naturale evoluzione della “casa/laboratorio Albania Hotel”, il laboratorio di produzione e organizzazione artistica che si è fatto conoscere ed apprezzare con largo riscontro sul territorio italiano e non, creando importanti contatti e circuiti artistici”, sottolinea Marinella. “Il nostro sguardo è rivolto alle culture “altre”, a ciò che soprattutto la musica sa unire: ritmi e melodie di terre lontane e vicine, di esperienze indelebili nelle nostre memorie che ci ricordano che siamo tutti figli di un’unica umanità. Questo spiega le varie collaborazioni, con musicisti di varie etnie,

tese a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti della cultura della tolleranza e dello scambio ed il coinvolgimento di artisti di fama internazionale coinvolti quotidianamente con realtà ai margini, come Miloud Oukjli che con la sua fondazione “Parada” porta avanti il progetto di recupero dei ragazzi nelle strade di Bucarest”. In soli due anni di vita 11/8 Records ha realizzato le produzioni Core dei Tax Free, Hotel Albania degli Opa Cupa, Tecnopizzica dei Tarantavirus e Zina, mentre i progetti sperimentali di jazz elettronico DD3 e My Miles sono di prossima uscita. Ultimamente sono usciti anche alcuni videoclip, sempre per la regia di Lorenzo Bassano, delle musiche di Opa Cupa e Zina, che saranno presentati entro la fine dell’anno. “Un’attenzione particolare del nostro lavoro”, prosegue Marinella, “è rivolta alla valorizzazione e riattualizzazione della musica e composizioni per banda. Questo non meraviglia se si pensa che Cesare ha impugnato la tromba quando aveva solo 7 anni per andare in giro in tutta la Puglia, tra processioni e feste paesane. Da ciò la sua naturale propensione ad inserire nei propri repertori arrangiamenti bandistici. L’esempio più evidente è il gruppo Opa Cupa composta da ottoni dal sapore di festa salento-balcanica. Nei live la band ospita sul palco bande locali, artisti e giocolieri che intervengono con numeri di grande impatto scenico. I repertori suonati sono in parte originali (scritti da Cesare) ed in parte provenienti dalla tradizione bandistica salentina eseguiti in stile balcanjazz”. Oltre all’esperienza personale, 11/8 Records ha un documentato archivio di ricerca ed interviste effettuate sul territorio, al fine di salvaguardare una delle più fertili ed interessanti t r a d i z i o n i musicali.

Intervista a Don Pasta

Don Pasta, al secolo Daniele De Michele, è un dj-economista, appassionato di gastronomia che prova ad unire le sue passioni e conoscenze con il progetto “Food sound system, manuale politico di gastronomia musicale”. Nasce come dj in Salento, da dieci anni suona regolarmente a Roma, dove vive. Chi è Don Pasta? Un addetto al tempo libero che di tempo per sé ne ha sempre poco, ma prova a fare in modo che sia a sufficienza per godere dei rapporti umani, per far nascere da essi parole di cucina e musica. Perfetta fu la definizione di Postman Ultrachic, che mi disse “Daniele, tie sì retrò.. e comu tutti li retrò sì futurista”. Il nome Don pasta me lo diede un senegalese in un bar africano dove teoricamente facevo il dj, ma passavo molto più tempo in cucina a preparare la pasta per tutti quanti. Da allora è un nome che mi porto appresso divertito in ricordo dei mie anni parigini. Cibo e musica in accoppiate ardite, un gioco di ricordi che riaffiorano attraverso diversi sensi, la chiave di Food Sound system è questa? L’idea del parlare di cibo e musica è nata molto naturalmente, forse perché entrambe rappresentano dei momenti che uno dedica a se stesso. Riflettendoci, sono effettivamente attività che aiutano a riappropriarsi del proprio tempo, rubato dalle mille urgenze della vita, come in Momo di Micael Ende, dove il tempo delle persone veniva rubato e fumato dagli uomini grigi. Così per me è stato assolutamente naturale creare qualcosa a partire dai ricordi, come la corsa verso la posta di Otranto per prendere il pacco di vinili acquistato per corrispondenza da Sweet Music con le ultime uscite dei Pixies, dei Jesus and Mary Chain, degli Smiths e le orecchiette mangiate a casa di fretta prima di immergersi nella voce di Morrisey e nelle chitarre in feedback dei fratelli Reid. Da dove nasce l’idea? Ho ascoltato musica sin da piccolo, quando entrai nella stanza di mio fratello e le note di London Calling dei Clash cambiarono il mio approccio con il mondo. In Salento negli anni ottanta c’era veramente poco da fare e così la mia stanzetta divenne un luogo di viaggi e proiezioni verso


CoolClub .it und System mondi lontanissimi, come la Londra di Brixton, lo Studio One di Kingston dove Bob Marley e Peter Tosh inventavano il reggae, l’atmosfera rarefatta dei bar fumosi dove deragliava la voce di Tom Waits. Questa ricerca solitaria e appassionata si confondeva con i ritmi blandi dei pasti familiari, infiniti, poveri e allo stesso tempo ricchi di piacere. Probabilmente lì nacque questa propensione alla riflessione solitaria e alla cura dell’immaginazione. Alla fine Food sound system, non è un libro di musica, non è un ricettario, non una raccolta di racconti. È tutto questo insieme, o cosa? Di fondo nel libro cibo e musica rappresentano lo strumento narrativo per parlare della mia vita. Ho usato le modalità di preparazione di un piatto come uno strumento per intraprendere un discorso più esteso sul mangiare, inteso come origine, territorio, consumo critico dei beni della terra. Il connubio di questi ingredienti si compie tra righe che raccontano il mio percorso ormai decennale di dj in giro per l’Europa, tra il Salento, Roma, Barcellona e Parigi. Cosicché in questo libro si può trovare di tutto, dalle recensioni dei miei dischi preferiti alle ricette salentine, scritte sotto lo sguardo vigile della nonna o ai luoghi dove ho vissuto, Roma, Parigi e ovviamente il Salento. Di

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fondo Food Sound System racconta soprattutto del mio modo di godere dei piaceri e dell’arte del mangiare, del sentire musica, del viaggiare. I legami tra le canzoni e i piatti sono assolutamente soggettivi e i dischi di cui parlo sono raramente attuali e rispecchiano i miei gusti onnivori che vanno dal punk al reggae, dal jazz alla bossanova. É anche uno spettacolo...ce ne parli? Visto che questo è un progetto nato per gioco, una volta ideato è divenuto l’origine di tantissime nuove idee.. mi sono ritrovato a salire su un palco per la prima volta senza neanche essermi veramente reso conto della portata della cosa, visto che per dieci anni ero ben nascosto dalla consolle da dj e non andavo .. è il caso di dirlo.. in pasto al pubblico!!! L’idea come dicevo è venuta molto naturalmente perché i testi si prestavano in modo particolare alla lettura, avendo una struttura quasi da canzone pop. Ho invitato il gruppo della Mescla di Napoli a rielaborare le canzoni di cui parlavo (da Coltrane ai Ramones, passando per Miles Davis e Lou Reed) e una serie di registi (professionisti e non) a filmare la preparazione dei piatti in questione (dalla focaccia di cicorie al pulpo gallego). Lo spettacolo è l’unione di tutte queste cose; io leggo, la Mescla suona e dietro di noi scorrono le immagini di questi piatti prelibati. Nei tuoi spettacoli sei accompagnato dalla Mescla, ce ne parli? Per parlare della Mescla bisognerebbe vederli in azione a Napoli.. dove si riuniscono in alcune occasioni a suonare in

grandi feste, che durano giorno e notte. È un collettivo di musicisti fondato nell’autunno del 1999 come un progetto musicale con un organico non fisso e spesso numerosissimo. Il repertorio prende spunto dalla tradizione musicale dell’intero bacino mediterraneo (rom, klezmer, balcanica e dell’Italia meridionale) rielaborata in una chiave rock, scanzonata e ruspante, adatta ai mercati popolari, a pranzi senza pause e feste bucoliche. Con la loro banda hanno suonato per strade, mercati, campagne in Slovenia, Bosnia, Hercegovina, Croazia, Ungheria, Francia e Spagna. Come sei arrivato a Food Sound Sytem, ci parli un po’ di te? Food sound system è indubbiamente il sunto della mia storia e delle mie passioni. Probabilmente ho cominciato a scrivere per la necessità di sottopormi alla bellezza dell’atto creativo. Nel farlo non c’era pretesa artistica, piuttosto una volontà di trasformazione della propria realtà interna, attraverso un movimento di immagini, suoni e parole. Scrivendo però il pensiero ha preso forma, la scrittura è diventata racconto e donpasta un narratore di favole. Un libro, un piatto e un disco che consigli ai lettori di Coolclub e perché. Come libro direi Ricette Immorali di Montalban, perché è con lui che per la prima volta ho potuto apprezzare il piacere di leggere di cucina. Come disco senza dubbio London Calling, che mi ha insegnato l’importanza di amare tutta la musica senza barriere tra punk, reggae, funk, jazz. A vent’anni di distanza ha ancora un suono fresco è un disco senza tempo, direi. Sul piatto preferito mi metti in crisi, ma alla fine opto per la parmigiana salentina, quella pesante e piena di polpettine. Di fondo è un piatto molto complesso che però al gusto conserva una incredibile armonia, grazie alla dolcezza delle melanzane.


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ogni martedì - musica Jam sassion jazz al Willy Nilly di Squinzano (Le) ogni mercoledì – musica High fidelity al Caffé Letterario Il nuovo appuntamento in musica del Caffé Letterario di Lecce si chiama High Fidelity. Ogni settimana un dj diverso si alternerà in consolle per selezionare un personale percorso alla scoperta di un genere musicale, un periodo, una etichetta o un gruppo. ogni sabato – musica Open bar sino alle 00.30 al Willy Nilly di Squinzano (Le) I dj di Coolclub all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) sabato 10 - musica Marco Parente alla Saletta della cultura di Novoli (Le)

Neve Ridens è il nuovo “doppio” lavoro del cantautore napoletano Marco Parente. Non un album doppio e neppure una sequenza rigorosa, ma due lavori assolutamente diversi per umore, suoni e atmosfere (vedi intervista del numero di ottobre). L’appuntamento rientra nella rassegna Tele e Ragnatele. Inizio ore 21.30 – ingresso 7 euro. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it. Postman Ultrachic all’Istanbul Café di Squinzano (Le) Houria Aïchi. Canti sacri d’Algeria (Le voci dell’anima. Occidente oriente) presso la Chiesa del Salvatore a Bari sabato 10 – teatro Il figlio di Gertrude ai Cantieri Koreja di Lecce La rassegna Strade Maestre prosegue con questo spettacolo del Teatro Stabile di Calabria. Il figlio di Gertrude è un progetto nato con Julia Varley, attrice dell’Odin Teatret di Eugenio Barba dal 1976: un giovane dialoga da solo con le persone

Al Meeting delle etichette indipendenti premiati i vincitori di Click Note fotografiche e Icc - Italian Cover Contest 2005 Il barese Francesco De Napoli, con il suo lavoro con i Quarta Parete, è il vincitore della IV edizione del concorso di immagini musicali Click Note Fotografiche, organizzato dal MEI - Meeting delle etichette indipendenti 2005 e dallo Studio Alikè in collaborazione con Next Exit, Venus, Self Distribuzione e Coolclub.it. De Napoli si è distinto per l’originalità dei lavori e per la cura e la ricerca nell’attuazione delle sue idee. Marco Calcinaro, per l’importanza sociale delle immagini (new orleans/house of blues) e per l’originalità di alcuni scatti, ha conquistato invece il premio speciale assegnato da Alikè. La prima

che hanno significato qualcosa nella sua vita. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832.242000 - www.teatrokoreja.com. domenica 11 – musica Rosolina mar ai Sotterranei di Copertino (Le) lunedì 12 – musica Stefano Bollani al teatro Politeama Greco di Lecce martedì 13 – musica Stefano Bollani all’Orfeo di Taranto IG al Teatro Politeama Greco di Lecce

Nato dall’incontro fra Gianni Maroccolo poliedrica figura delle italiche avanguardie musicali (Litfiba - Csi – Pgr) e Ivana Gatti, giovane cantautrice bresciana, IG è uscito il 10 ottobre con Resta. IG indossa i colori tenui della delicatezza: melodie rarefatte ed ipnotiche, ballate fluide e quiete, impreziosite talvolta da note impetuose ed affilate. A metà strada tra il passato ed il futuro della scena elettro-pop nostrana. Atmosfere intimiste, di passioni inconfessabili, carnalità, sentimenti oscuri. Con una voce che accarezza, delicata e avvolgente. Sperimentando continuamente. L’appuntamento, organizzato da Rebel Sound e Arci, è al Teatro Politeama di Lecce. Inizio ore 21.30. Ingresso 10 euro. Noa acustic band & solis string quartet presso la Chiesa di San Paolo a Bari La cantante israeliana Noa si presenta in una veste che mette particolarmente in risalto le sue grandi doti vocali e ne evidenzia bene la vena nostalgica. L’appuntamento rientra nella rassegna Le voci dell’anima. Occidente oriente ideata da Antonio Princigalli ed organizzata da Princigalli Produzioni con l’Assessorato alle Culture e Religioni del Comune di Bari. martedì 13 – cinema Buffalo Soldiers al Santalucia di Lecce mercoledì 14 - cinema Private al Cinema Elio di Calimera (Le) mercoledì 14 - musica Ludovico Einaudi e Mercan Dede Chiesa di San Marcello di Bari mercoledì 14-giovedì 15 – teatro Napoli milionaria al Teatro Politeama Greco di

edizione dell’ICC - Italian Cover Contest 2005, il primo concorso nato per premiare le migliori copertine fotografiche di cd, è andata invece alla copertina del cd “Kill the ghost” dei The Jans realizzata da Kris Reichert e Anna Di Pierno (Tube Records). Il Premio della Critica è andato invece a Marco Bellotti per il suo lavoro “Prodotto da mia madre” (N3 Music) “per l’originalità, la creatività e la cura nella costruzione di un’immagine che ironizza sul titolo del disco e per aver dimostrato ottime capacità artistiche anche in un ambito lontano dalla musica come la fotografia”. Ulteriori info www.alike.it

A destra una delle foto di Francesco De Napoli.

Lecce da mercoledì 14 a domenica 18 – teatro Antonio Albanese in Psicoparty al Teatro Piccini di Bari giovedì 15 dicembre - cinema Quo vadis baby al Dbdessai di Lecce Tickets all’Antoniano di Lecce giovedì 15 - musica Jazzin Rocking Project ( coverband di Rock progressive ) all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 16 dicembre - teatro A flower ai Cantieri Koreja di Lecce

La Compagnia Verdastro Della Monica presenta, per la rassegna Strade Maestre, A flower, concerto scenico di Francesca Della Monica e Stefano Bozolo. Il concerto segue il fil rouge di un repertorio di musica vocale e strumentale scritta in grafie non convenzionali e per un uso non canonico sia della voce che del pianoforte. Ne risulta una dimensione musicale in cui gli elementi del gesto e dello spazio prendono un rilievo strutturale creando i presupposti formali della azione teatrale. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832.242000 - www. teatrokoreja.com. venerdì 16 - musica Rough trade night all’Istanbul Café di Squinzano (Le) Una serata dedicata al rock d’oltremanica con i dj della casa discografica Rough trade. In consolle si alterneranno Ben Ayres, chitarrista dei Cornershop, James Endicott, Richie e Dr Kiko. Il dj set, organizzato da Coolclub, è all’Istanbul Café di Squinzano. Ingresso 5 euro. Info www.cooclub. it – 0832303707. Inizio ore 23.00.

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CoolClub.it Coro del patriarcato russo di Mosca “Peresvet” (Le voci dell’anima. Occidente oriente) presso la Basilica di San Nicola di Bari sabato 17 – musica Rough trade night allo ZenzeroClub di Bari domenica 18 - musica Giovanni Lindo Ferretti e Gianluca Petrella (Le voci dell’anima. Occidente oriente) presso la Chiesa di San Sabino a Bari lunedi 19 dicembre - musica Giovanni Lindo Ferretti e Paolo Fresu presso la Chiesa di San Sabino a Bari Un ascolto in dimensione verticale: dalla terra al cielo. Un ascolto interiore, voragine e vertigine, in quello spazio indefinibile, se non per negazione, che sta tra l’orecchio, il cuore e la mente, l’anima e lo spirito. Responsorio d’Avvento è un progetto di Giovanni Lindo Ferretti voce con Paolo Fresu, tromba. L’appuntamento rientra nella rassegna Le voci dell’anima. Occidente oriente. martedì 20 – musica Zeena Parkins e Ikue Mori (TimeZones) al Vallisa di Bari Djivan Gasparyan (Le voci dell’anima. Occidente oriente) presso la Chiesa Mater Ecclesiae a Bari mercoledì 21 - musica Ensemble Palazzo Incantato presso la Chiesa del SS Redentore di Bari sino a mercoledì 21 dicembre – arte Nulla da dipingere: nulla da scolpire di Pasquale Pitardi nel foyer dei Cantieri Koreja di Lecce giovedì 22 - musica Cuore a nudo (vedi intervista a pag. 21)+ Robert Passera ai Cantieri Koreja di Lecce Rumorerosa + L’aura allo ZenzeroClub di Bari Shank all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 23 - musica Coolclub Night al Candle di Lecce Rumorerosa + L’aura al Planet di Lequile (Le) Roy Paci & Aretuska al Lido San Giovanni di Gallipoli (Le) sabato 24 - musica Insintesi all’Istanbul Café di Squinzano (Le) domenica 25 – musica Postman Ultrachic all’Istanbul Café di Squinzano (Le) lunedì 26 - musica Ballati al Candle di Lecce Negramaro a Casarano (Le) H-nito fun all’Istanbul Café di Squinzano (Le) mercoledì 28 – musica Festa del Fuoco a Zollino (Le) Linea 77 al Candle di Lecce giovedì 29 - musica Psycho Sun al Candle di Lecce Super Reverb all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) La band guidata da Jessy Maturo presenterà i brani tratti dall’album Solo Rock’n’Roll (Info www.super-reverb.it). I Super Reverb a marzo suoneranno sul palco del prestigioso Cavern Club di Liverpool, il locale dove hanno iniziato a suonare i Beatles e attraverso il quale sono passati tutti i nomi più importanti del panorama musicale mondiale: Chuck Berry, Eric Clapton, Queen, Rolling Stones, B.B. King, Brian Adams, The Who... solo per citarne alcuni. Sud Sound System - Ghetto eden al Lido San Giovanni di Gallipoli Dj War all’Istanbul Café di Squinzano (Le) venerdì 30 – musica Uccio Aloisi, Pino Zimba & Zimbaria, Kumenéi, Antonio Amato e Alessia Tondo al Planet di Lequile (Le) Ska Combat all’Istanbul Café di Squinzano (Le)

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gennaio domenica 1 - musica Mama Roots all’Istanbul Café di Squinzano (Le) lunedì 2 – musica Giorgio Tuma all’Istanbul Café di Squinzano (Le) mercoledì 4 - musica Kosmik all’Istanbul Café di Squinzano (Le) giovedì 5 – musica A toys orchestra all’Istanbul Café di Squinzano (le) Muzak all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 6 – teatro Befana & Co. ai Cantieri Koreja di Lecce (dalle 16.30) venerdì 6 – musica Baustelle allo ZenzeroClub di Bari Extrema al Canlde di Lecce Applepie all’Istanbul Café di Squinzano (Le) sabato 7 - musica Tob Lamare all’Istanbul Café di Squinzano (Le) Lezioni di piano ai Cantieri Koreja di Lecce Un concerto teatrale dedicato all’opera di Jane Campion e Michael Nyman per la regia di Carlo Bruni è il primo appuntamento dell’anno per la Rassegna Strade Maestre dei Cantieri Koreja. Questo lavoro nasce dal desiderio di condividere la passione per un film e per la musica che lo anima; di rievocare l’origine semplice, misteriosa e travolgente di una passione amorosa. Un posto lontano, un uomo, una donna muta a lui promessa, un amante e l’emozione di un improvviso, potentissimo vincolo a cui non si può sfuggire. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832.242000 - www.teatrokoreja. com. giovedì 12 - musica Peppe O Blues (chitarrista napoletano tra i più importanti del panorama del Blues italiano con all’attivo innumerevoli collaborazioni da Buddy Miles a Steve Ray Vaughan) all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) venerdì 13/sabato 14 - teatro L’ereditiera ai Cantieri Koreja di Lecce Il Nuovo Teatro Nuovo (Teatro Stabile di Innovazione di Napoli) presenta L’ereditiera di Annibale Ruccello e Lello Guida per la regia Arturo Cirillo. giovedì 19 - musica Cool Plecs ( coverband di classici del rockblues al femminile ) all’Heineken Green Stage di Tricase (Le) sabato 21 - teatro Il mio prometeo - quasi un’operina rock ai Cantieri Koreja di Lecce La Compagnia Piccolo Parallelo di Romanengo presenta Il mio prometeo - quasi un’operina rock. Di una probabile trilogia di Eschilo dedicata a Prometeo, conosciamo solamente il Prometeo incatenato. Quando si parla di Prometeo di solito si pensa all’aquila che ne va a mangiare, a seconda delle versioni, fegato o cuore. Con il Prometeo incatenato, siamo ancora alla fase precedente, quando Terrore, Dominio ed Efesto vanno, per ordine di Zeus, ad inchiodare con catene e ceppi di acciaio il traditore Prometeo alle rocce di Scizia. Lo spettacolo lascia le belle parole del testo e trasporta tutto negli anni 70. L’esplosione delle bande rock e delle rock star. Quelle che facevano il personaggio e quelle che lo erano. Sipario ore 20.45. Ingresso 10 euro (ridotto 7 euro). Info 0832.242000 www.teatrokoreja.com. lunedì 23 - teatro Daniele Luttazzi in Come uccidere causando inutili sofferenze al Teatro Socrate di Castellana Grotte giovedì 26 - musica Suoth Mamma all’Heineken Green Stage di Tricase (Le)

La redazione di CoolClub.it non è responsabile di eventuali variazioni o annullamenti. Gli altri appuntamenti News e corsi Sold out con Carlo Chicco su www.coolclub.it Sold out lo storico pro- Per segnalazioni: gramma di Controradio redazione@coolclub.it (Bari 97.300 - Bari Sud 97.200) condotto da Carlo Chicco compie 10 anni! L’appuntamento è dal lunedì al venerdì dalle 18.30 alle 19.30 in collaborazione con la rinomata rivista Blow Up e con dei partner d’eccezione. L’Urlo di Galati Ogni mercoledì, dalle 21 alle 22.30, su PrimaVeraRadio (107.3 e 98.0 per Taranto, 95.1 per Lecce) va in onda l’Urlo – settimanale di musica (+o-) indipendente italiana condotto da Ilario Galati. Arezzo Wave Avete tempo sino al 15 dicembre per iscrivervi ad Arezzo Wave. Per partecipare al bando di concorso basta spedire il materiale a uno degli oltre 200 punti di raccolta (antenne) in tutte le regioni d’Italia elencati sul sito www.arezzowave. com. Ogni regione avrà 1 o 2 band vincitrici (a seconda della grandezza del territorio) che potrà esibirsi durante la prossima edizione di Arezzo Wave Love Festival che si terrà dall’11 al 16 Luglio 2006. Per info Coolclub 0832303707. TeatriDiPosa e FuoriScena La PrometeoVideo di Silene Mosticchio, in collaborazione con il comune di Tricase, continua la sua proposta di servizi sul territorio con un progetto ambizioso di formazione nell’ambito del Cinema e del Teatro: TeatriDiPosa e FuoriScena. Anima del progetto di formazione è il direttore artistico della Prometeo, l’attore e regista salentino Ippolito Chiarello. I corsi avranno inizio a gennaio e si concluderanno a giugno. Agevolazioni e rilascio dichiarazioni per crediti scolastici e universitari. Info Cell. 347.47.41.759 Tel. 0833.772209 prometeovideo@libero.it. Dj Kosmik conquista Face Off

Sino al 15 di gennaio è possibile votare il video del dj salentino Kosmik, vincitore della tappa di Bari del contest “Face off 2005”. In palio la possibilità di andare al “hot summer jam festival” di New York! Per sostenere Kosmik http://www. timtribu.it/faceoff CoolClub segnala una bella iniziativa degna di essere citata, ovvero quella di un ragazzo (Edoardo Pellegrino) che ha coinvolto la sua classe, I Liceo Classico dell’Istituto Marcelline ed il III Liceo Linguistico del medesimo istituto, nell’adozione a distanza di un bambino tramite la Fondazione Aiutare I Bambini. È raro che tali iniziative vengano da singoli ragazzi piuttosto che da istituzioni.


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La natura ambigua dei manga di Roberto Cesano Qualche giorno fa ho ascoltato in radio un dibattito tra Sergio Bonelli, nome storico del fumetto italiano, nonché proprietario dell’omonima casa editrice, e Luca Raffaelli, critico fumettistico e fondatore della mostra-mercato Roma Comics, all’interno del programma Sumo. Questa trasmissione radiofonica è strutturata in una discussione tra due ‘esperti’ con opinioni opposte su un determinato tema; nel caso specifico il tema era il seguente: “Tex Willer” contro i manga??! Ovvero il rappresentante più longevo del fumetto popolare italiano contro un’indefinita “schiera” di serie nipponiche. Già tale presupposto non mi ha entusiasmato, ma ho avuto l’opportunità di sentire anche di peggio dai due contendenti, in termini di luoghi comuni sui manga. E ciò che m’appare gravissimo è che siano stati degli addetti ai lavori a pronunciarsi, evidenziando un’impreparazione totale su questa fetta importante del mercato fumettistico. I lettori di comics sono consapevoli, infatti, che i manga oggi trainano le tirature delle case editrici, in un panorama alquanto desolato a livello economico. Naturalmente il fatto che un certo tipo di fumetti venda non è una garanzia di qualità, tuttavia esso dovrebbe spingere gli addetti ai lavori a porsi delle domande invece che rifiutarsi, come dichiarava Bonelli a Sumo, di avere qualche curiosità su di essi. In effetti dalle parole di Bonelli non si evinceva alcun giudizio sui manga e

Sandman

sulle loro caratteristiche; al contrario l’editore si dichiarava consapevole dei dati di vendita e rispettoso nei confronti dei prodotti del Sol Levante. Però sentir paragonare Hayao Miyazaki a Disney mi ha fatto comprendere quanto egli fosse impreparato su quest’importante realtà. Il nocciolo della questione è questo: l’atteggiamento di Sergio Bonelli è ancora molto diffuso in Italia dove, ripeto, il seguito dei manga è numerosissimo. Sin dalla loro apparizione negli anni ’80 in Italia, preceduta dall’invasione degli anime dei tardi anni ’70, i manga sono stati accusati di essere visivamente poveri e standardizzati; di presentare tematiche e situazioni violente ed efferate, oltre che di essere così radicati nel proprio contesto socio-culturale da risultare incomprensibili per un occidentale. Dopo circa un decennio il parco-testate giapponese delle maggiori case editrici, come la Panini e la Star Comics, si era enormemente ampliato grazie al consenso dei lettori italiani. Come mai? Il motivo del successo delle testate nipponiche risiede proprio nelle critiche ricevute: i manga presentano una varietà di stili grafici lontanissimi dalla tradizione statunitense ed europea ed hanno una visione più adulta del fumetto in quanto mezzo espressivo. In Europa, tranne che in Francia, e negli States questo medium è stato liquidato per decenni come “roba per ragazzi”; al contrario, in Giappone i manga sono parte integrante del background culturale dei suoi abitanti, e sono realizzati per ogni tipo di target generazionale e sociale. Sono, dunque, dei prodotti narrativamente più adulti e sfaccettati rispetto ai comics popolari occidentali, concepiti quasi esclusivamente per un pubblico di adolescenti; in molti manga la sessualità non è nascosta né censurata, poiché è una sfumatura dell’esistenza umana; i personaggi sono tridimensionali e non incanalati nel dualismo bene/male. Immaginatevi un Peter Parker (L’Uomo Ragno) adolescente che deve districarsi da una tempesta ormonale per una procace fanciulla e confrontarsi con

nemici che esulano dai cliché classici sui malvagi. Bisogna ammettere che la cultura orientale differisce nettamente da quella occidentale, e il fumetto ne è una naturale estensione. Tuttavia, si può affermare senza remore che il fumettomane si sente maggiormente rispettato da opere nelle quali non è trattato come un decerebrato con un’imperitura sindrome di Peter Pan. Potrei, adesso, parlare specificamente del fondamentale contributo che gli anime hanno dato al campo dell’animazione mondiale, ma non lo farò perché è argomento troppo esteso. Comunque negli USA e nel resto del mondo autori e case editrici se ne sono resi conto da un pezzo, adeguandosi ai gusti dei lettori. Il giovanissimo direttore artistico della Marvel Comics, Joe Quesada, ha creato una linea editoriale nella quale autori come Nihei (Blame) e Kia Asamiya (Dark Angel, Silent Möbius) si sono cimentati con i personaggi storici della Casa editrice americana. Il divo Neil Gaiman (Sandman) ha celebrato il decennale della propria serie dando alle stampe un volume che si fregia delle tavole pittoriche dello straordinario Yoshitaka Amano. Auspichiamo che accada la stessa cosa in Italia, senza tralasciare i meriti che gente come Bonelli e personaggi come “Tex” posseggono. In fondo tradizione ed alterità possono convivere con ottimi risultati.

Blame




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