Coolclub.it n.12 (Febbraio 2005)

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anno II numero 13 Poste Italiane spa spedizione in abbonamento postale 70% DCB Lecce

Il pomeriggio leccese offre strani spunti. Basta un divano, una dozzina di Raffo, sky sintonizzato sulle avventure continua a pag. 2

STORIE

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del nuovo reality di turno è il gioco è fatto. Sigaretta a portata di mano, neurone ammansito dal luppolo e si parla di Coolclub. Segreti redazionali che pochi conoscono ma che permettono, in un flusso di coscienza più o meno ragionato, di decidere l’argomento del mese. Superata la parentesi donne, grazie al sorriso di una mogliettina giovane e carina tale e quale come te, si parla del fatto e dello sfatto della settimana trascorsa. Questione meridionale, stato della nuova letteratura, stato delle ernie del disco in corso e si scivola lentamente verso il vero o presunto motivo della visita. Pericolosa in questo caso l’assenza della nostra coscienza critica Pierpaolo impegnato tra comizi, comitati e comunicati. Più che una riunione è una rimpatriata e presto come nei nostri più bei ricordi è il disimpegno il protagonista. Un breve excursus sui precedenti tentativi di fare i seri ci impone leggerezza che la sopraggiunta ebbrezza non fa che lubrificare. Dopo un po’ ci si ritrova a parlare di storie, di quante volte le nostre mail hanno ospitato divagazioni, piccoli raccontini, deliri di onnipotenza. E sempre, alla fine, un po’ ci è dispiaciuto non dargli spazio, sembrare censori o spietati selezionatori. Nel frattempo siamo già nella fase volemose tutti bene. Pacche sulle spalle, il Brasile in tv, Franco Simone che ci fa l’occhiolino, carrellata su Fashion tv e il dado è tratto. Questo mese le prime pagine di Coolclub.it ospiteranno i racconti dei lettori. Senza tema, a briglia sciolta, un numero leggero da leggere nei momenti di relax (recenti sondaggi danno il nostro giornale come il più letto nei bagni degli universitari). Piccoli, agili come levrieri afgani i raccontini che ospitiamo hanno vinto sul tempo. Molti ce ne sono arrivati, alcuni tanto carini che ci è dispiaciuto non inserire. Non siamo una rivista letteraria e credo che molti lo avranno già capito, non siamo gente che si ama prendere molto sul serio e nelle prossime pagine ne avrete la conferma. Semplicemente volevamo provare a raccontare qualcosa e non solo dal nostro sguardo, questa volta in maniera creativa, divertente se possibile. Un numero primaverile abbiamo pensato (aiutati da una modella polacca di 18 anni che in tv, tra palme e battigie tropicali, ci ha ricordato il risveglio dell’ormone). Fisiologico torpore e virus stagionali e digitali ci hanno un po’ rallentato ma non scoraggiato. Mese di passaggio e non solo climatico, confidiamo tutti, mentre scriviamo queste pagine, in una vera primavera salentina. Un doveroso ringraziamento va a chi, in questi mesi, ci ha aiutato e sostenuto, un benvenuto ai nuovi e sempre più numerosi tesserati. A chi è partito un abbraccio lungo come la distanza che ci separa e pieno di tutto l’affetto che non hai fatto in tempo a dire. Ogni riferimento a persone o storie vere è puramente casuale e non voluto, quindi nessuno si senta offeso o chiamato in causa. Precisiamo infine, che tranne rari casi, gli scritti ospitati sono opere prime, esperimenti di neofiti della narrativa che hanno accettato un invito senza pretese letterarie ma solo con la voglia di esserci e partecipare a questo nuovo numero del giornale. Chi vuole, può comunque continuare a spedire i propri scritti che saranno gelosamente conservati e pubblicati appena sarà possibile. Fortuna che ogni mese ci regala musica, libri, film con cui emozionarci, di cui parlare o discutere. Li troverete, quelli scelti da noi, nelle nostre consuete sezioni, insieme con gli appuntamenti per trascorrere questo mese di Aprile sotto un nuovo cielo, con un’ora in più di sole, un nuovo disco preferito, un bel libro sul comodino e una nuova stagione da vivere. Osvaldo

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CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 2 Numero 13 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Dario Quarta, C. Michele Pierri, Gianpiero Chionna Collaboratori: Giancarlo Susanna, Valentina Cataldo, Cesare Liaci, Sergio Chiari, Maurizia Calò, Marcello Zappatore, Davide Castrignanò, Amedeo Savino, Patrizio Longo, Augusto Maiorano, Antonio Iovane, Rossano Astremo, Rita Miglietta, Marta Vignola, Daniele Lala, Elisa De Portu, Daniele Rollo, Marco Daretti, Marco Leone, Fulvio Totaro, Stefano Toma, Federico Vaglio, Lorenzo Coppola, Paola Volante, Nicola Pace, Giacomo Rosato, Antonietta Rosato, Nino D’Attis, Luca Greco, Luisa Cotardo, Rakelman, Antonella Lippo, Livio Romano, Pierfrancesco Pacoda, Stefano Cristante, Carlo Chicco, Antonino De Blasi, Fabio Rossi, Marcello Aprile, Annalisa Serpilli, Nicola Pace, Massimo Muci, Francesco Lefons, Alfredo Borsetti, Fabio Striani, Gianni De Blasi, Antonio Calogiuri, Camillo Fasulo, Chiara Piovan, Ruggero Bondi, Mauro Marino Per le foto si ringrazia Alice Pedroletti Progetto grafico dario Stampa Lupo Editore - Copertino Chiuso in redazione all’1 e 35 circa del 26 gennaio 2005 Per inserzioni pubblicitarie: ufficiostampa@coolclub.it

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La ragazza col cane era vestita di rosso. La guardavo ogni pomeriggio, verso le sette, lei passava sotto la mia finestra con il suo pastore tedesco. Mia madre in cucina preparava la cena, mio padre stava per rientrare. Tra meno di un’ora avremmo mangiato tutti insieme in cucina. Mio padre ci teneva molto, poiché a pranzo non tornava mai a casa, e, diceva che la cena era l’unico momento per stare insieme. Si faceva raccontare le nostre giornate, la scuola, il calcetto, voleva sapere anche degli amici, delle fidanzate, dei compiti, se gli avevamo fatti o meno, però, lo chiedeva alla mamma. Lei ci copriva sempre, anche quando non gli avevamo fatti tutti. Da quando le giornate si erano allungate, verso le sette del pomeriggio c’era ancora una bella luce, e io potevo vedere la ragazza col cane che passava sotto la mia finestra, ogni giorno alla stessa ora, lo stesso tragitto. Il suo cane faceva la pipì sul cancello di fronte a casa mia. Ci viveva un altro cane lì dentro e i due si odiavano. Era un affronto per il cane chiuso nel cancello che quell’altro andasse a fare la pipì proprio lì davanti. La ragazza col cane era bellissima. Aveva i capelli gialli come il sole e sorrideva sempre e quando il suo cane faceva la pipì e l’altro cane abbaiava forte lei rideva scoprendo i denti. Anch’io ridevo dalla mia finestra. Io forse ero un po’ innamorato della ragazza col cane. Una volta l’avevo anche incontrata per strada, da vicino. Lei era senza il cane, ma io l’avevo riconosciuta lo stesso. Quella volta aveva una maglietta verde che si intonava molto bene con i suoi capelli. Io non me ne ero mai accorto perché dalla mia finestra non potevo vederli, ma anche i suoi occhi erano verdi. Ed erano grandi, e belli. La ragazza col cane mi sorrise quella volta, e da allora mi sembrava che quando passava sotto la mia finestra alzasse lo sguardo per vedere se io c’ero. O almeno così mi piaceva immaginare. Gli odori della cucina di mia madre arrivavano fino alla mia camera da letto. Quella sera avremmo mangiato carne fritta. Io adoravo la carne fritta. Mia madre amava molto cucinare. Era contenta quando mangiavamo tutto quello che aveva

di Dario Goffredo

la ragazza col cane preparato. Io aspettavo l’ora di cena, perché così potevo salutare papà. Avremmo guardato il telegiornale. Mi era sempre piaciuto guardare il telegiornale, mi faceva sentire importante, perché era una cosa che facevano i grandi. E fare le cose che facevano i grandi mi piaceva. Io mangiavo le stesse cose che mangiava mio padre, anche se non mi facevano impazzire, ma le mangiavo lo stesso per farlo felice. E in effetti lui era felice. La ragazza col cane si avvicinava al cancello di fronte al mio. Io mi preparavo ad assistere alla divertente scenetta del battibecco tra i due cani. E proprio mentre il cane della ragazza stava per alzare la zampa e l’altro cane si scagliava sul cancello ringhiando tutta la sua rabbia, la signora che abitava nella villa del cane dentro al cancello si affacciò sulla porta e sgridò la ragazza col cane, perché non voleva che il suo cane facesse la pipì proprio lì davanti, c’era una puzza tremenda ed era uno schifo. La ragazza col cane guardò in alto, verso la mia finestra, mi sembrò che sorridendo mi facesse l’occhiolino, poi guardò la signora e alzò il dito medio della mano sinistra, poiché con la destra aveva il guinzaglio del cane. Poi se ne andò fiera con al fianco il suo cane fiero. Io ridevo molto, ero felice che la ragazza col cane mi avesse fatto l’occhiolino, ora ero sicuro che mi avesse notato. Fu quando la ragazza col cane stava per uscire dal mio campo visivo. Furono tre rumori assordanti, e poi il motore di una moto veloce, e poi un silenzio irreale. Tutti i suoni mi arrivavano ovattati. La ragazza col cane era stesa per terra. Il cane le leccava la faccia. La gente gridava. Dopo pochi minuti la strada era impazzita. Un via vai di macchine della polizia, carabinieri che correvano a destra e a sinistra, l’ambulanza con le sue sirene che cercava di farsi spazio fra la folla. Agenti in divisa cercavano di tenere alla larga le persone, formarono un cerchio e dentro al cerchio c’era la ragazza col cane, ma qualcuno aveva allontanato il suo cane. Io pensavo che alla ragazza non avrebbe fatto piacere che qualcuno allontanasse da lei il suo cane. Il vestito della ragazza col cane adesso era più rosso di prima. A un certo punto sentii le mani di mio padre sulle spalle, e lui che mi diceva di allontanarmi dalla finestra, non c’era niente da vedere, e dovevamo cenare. Mi voltai e cominciai a piangere sulle spalle di mio padre, che erano grandi e forti. Lui mi strinse a sé e piano mi allontanò dalla finestra. Quella sera non riuscii a mangiare la carne fritta e mio padre non era felice. Guardammo il telegiornale, per giorni e giorni guardavo tutti i telegiornali, volevo sapere. Volevo capire. La ragazza col cane era caduta in un agguato mafioso. Ma non era lei la vittima designata, così dissero al telegiornale. La vittima designata era un pregiudicato di trent’anni. Io non sapevo che cosa volesse dire pregiudicato, ma capii che non era una cosa bella da dirsi. Il pregiudicato aveva risposto al fuoco dei suoi aggressori, mettendoli in fuga. Ma un proiettile aveva disgraziatamente colpito alla testa la ragazza col cane, che aveva la sola colpa di portare il cane a fare la pipì davanti al cancello di un pregiudicato che la mafia voleva uccidere. La ragazza col cane ora è sepolta al cimitero, di fianco alla sua nonna. Pare che il suo cane vada a trovarla ogni giorno. I custodi del cimitero lo lasciano passare e ormai lo salutano e gli fanno trovare dell’acqua e del cibo. Ma il cane della ragazza rifiuta l’acqua e il cibo. Lui vuole solo che la sua padroncina lo porti a fare la pipì davanti al cancello. Io non mangio più la carne fritta, e ogni volta che al telegiornale sento parlare di un agguato mafioso mi viene da piangere, ma ormai sono grande e non posso piangere. Mia nonna diceva che i ragazzi non piangono.


CoolClub .it il mare come

funziona di Antonio Iovane

Funziona così. Uno va al mare, si spoglia completamente e si lascia solo il costume che ripara il mazzapicchio, si sdraia sul telo steso sulla sabbia, si lamenta che fa caldo allora si infila nell’acqua, l’acqua è limpida, pulita, normale, torbida, sporca; poi arriva il sole, e il sole è: alto, forte, normale, tiepido, basso, freddo se ci stanno le nuvole che se lo impallano e al sole, che è un primattore, un poco gli rode. Poi torna e si sdraia sul telo che a quel punto è pieno di sabbia. Allora lo sgrulla, poi si sdraia, e si lamenta che fa caldo. Per questo che Simone al mare ci vuole andare punto. Ma il 7 agosto arriva sempre l’amico e gli dice che ci vanno tutti e ci sono un mucchio di femmine e le femmine al mare sono: fiche, belle, carine, normali, brutte, cessi. E che fa? Non ci va, al mare, Simone? È lì che se la guarda, la spiaggia del paesino, e lui la spiaggia del paesino la odia. Gli altri, invece, sembrano tutti cristoforocolombo quando sbarca in america che credeva che era l’india: impanati di sabbia, fanno capriole, carpiati, urrà. Simone guarda l’orologio e supera gli altri che ancora fanno il circo, perché pensa che se prima arriva prima se ne va. Invece la vita gira diversa. Il sole è alto, Simone sembra che dorme, invece aspetta la vocina. Solleva la palpebra e si studia il culo di Laura. Laura è bassina, ma ha un culo che può andare davanti al papa. Il culo può essere tondo, normale, piatto, in linea di massima. Quello di Laura l’ha fatto un compasso. Fa caldo, si suda, la vita trema, rifratta al sole d’agosto. - Andiamo a farci un bagno? – dice Marco. È sua, la vocina. È di Marco. Allora Simone pensa che ora gli tocca di andare col sorriso a farsi questo schifo di bagno e poi cominciare a schizzare e urlare vocalizzi e fare quello che si diverte. - Io vengo – fa Laura. E si solleva. Allora in acqua ci vanno tutti, come il domino. - Vieni, Simone – gli fa Marco. E Simone gli tocca di andare. Si solleva e stancamente raggiunge il mare. Il mare è normale. L’acqua è pulita. Raggiunge gli altri dove si tocca appena. Ci si schizza un poco. Si schiamazza. Si fanno capriole. Enzo, tira fuori un pallone. Si gioca, wow. Il

mare non ha un fine, un cazzo di scopo. Poi Marco pensa di essere nel ’68 e si toglie il costume. E lo mostra. E lo tira lontano. Verso le ragazze. Che ridono. Allora Enzo lo imita, perché le ragazze ridono ed Enzo è un tipo barboso e quando gli ricapita un gesto di comicità paragonabile a quello? Enzo si tira giù il costume e si crede Jerry Lewis. Poi cominciano le ragazze: Eva, Mirka, Federica e Laura. E Simone gli viene una dura emozione a pensare al culo svelato di Laura. Ma lui il costume se lo tiene. Perché si vergogna. E tutti gli dicono: Dai, Simone, ma Simone fa il ritroso. Allora violenza, mi sembra giusto: i ragazzi gli sono addosso, uno lo tiene per le mani, uno per le gambe, un altro gli sfila il costume e poi lo mostra trionfante. Sempre matte risate. Simone ha il mazzapicchio sessantottino pure lui, adesso. Il mazzapicchio può essere: grosso, normale, piccolo. Poi cominciano le capriole per

mostrare il culo, giusto pure questo. Tutti a fare le capriole, tranne Simone, che gli rode e cerca di nasconderlo. Alla capriola di Laura standing ovation di Sant’Oronzo dal Loggione. Insomma, si passa nature qualche divertente quarto d’ora. Poi tutti si riprendono il costume. Solo che Simone non trova più il suo. Tutti tornano ai teli e Simone no, ché cerca il costume. Allora, sull’arenile, Laura gli fa il sorriso da Miss Malizia 2004 e gli mostra, trofeico, il costume a fiori. Simone sorride, perché così quando gliela chiederà e lei domanderà le referenze, lui ci potrà mettere pure questa: quella volta che ti ho sorriso quando hai fatto la stronza. Però dentro è tutto uno smadonno. Gli amici che se la ridacchiano e lui che sta col mazzapicchio di fuori, ad aspettare che gli riportino quel cazzo di costume così può uscire e aspettare che finisca la giornata. Però il costume glielo riporta nessuno.

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CoolClub.it È ancora lì, in mare, inginocchiato sulla sabbia alla larga dai bagnanti che si buttano in acqua e cominciano a nuotare a stile libero, ciaff ciaff. Se esce dall’acqua sono 10 metri a culo di fuori, con un centinaio di spettatori spiaggiati che aspettano solo di distrarsi da quel caldo che sa di noia del 7 agosto 2004. Simone è lì che implora, mezzo sorridente. Dice: Dai, ragazzi. Ma quelli fanno finta di niente, i bastardi. E Laura che finge di prendere il sole ma ride. Dai, ridatemi il costume. Niente. Ore e ore così, una cosa insostenibile. E la gente comincia ad andarsene, prende le cose e via. Se hai portato l’ombrellone prendi l’ombrellone e te ne vai, quando viene sera. Simone comincia pure ad avere freddo e ormai a implorare gli amici non ci pensa più. Tattica, ci vuole. Se non dici nulla quelli si stancano di metterti in mezzo e ti ridanno il costume. Macché. Dopo un po’ li vede che ridacchiano e raccolgono le loro cose, e Simone vorrebbe uscire, ma è più forte di lui, si vergogna, il culo non lo mostra mica, lui. Neanche se lo pagano. Dai, ragazzi, dice un’ultima volta. E Marco gli fa: Hai l’ultima possibilità, esci e ti sarà dato. Simone se ne resta invece lì in ginocchio, un po’ per implorazione e un po’ per necessità. Lui la linea del mare non la passa nemmeno con le cannonate, come Cristopher Lambert in quel film che se esce dalla prigione gli esplode il cervello e tutti i pezzetti si appiccicano in giro. Quelli, allora, ridacchiano, e lo lasciano così, portandosi via il costume a fiori e tutta la borsa, i bastardi. Lui grida disperato, ma il grido gli muore in gola. Simone aspetta. C’è ancora una signora, al mare, con la figlia. E lui il culo alla signora non lo fa mica vedere. Magari alla figlia in privato sì. Ma alla signora no. Allora aspetta. Poi, alle 8, se ne va pure la signora e restano le zanzare. Alle zanzare il culo lo puoi far vedere: gli occhi ce l’hanno mica. Simone è incazzato, nudo come un dannato dell’inferno cammina radente alle mura in cerca di qualcosa da mettersi. Nel paesino c’è nessuno, solo il cieco silenzio. Simone si infila nei vicoli ma i panni li hanno messi troppo alti e lui non ci arriva. Poi, finalmente, in fondo a una via: uno stendino, con costumi di ultima generazione, un miraggio notturno. Simone cammina veloce veloce, ma proprio da dietro lo stendino scantonano tre persone mezze brille confuse dalla penombra. Allo stendino non ci arriva. Allora che fa? Boh. Si butta di nuovo contro il muro e c’è una finestra mezza aperta a un primo piano. I piani possono essere: terra, primo, secondo, terzo, quarto, quinto. Seminterrato, se sei un terrorista. Lancia un’occhiata: non c’è nessuno. Allora la apre e si infila dentro, appena in tempo per non essere visto. Salvo. Si guarda attorno, apre la finestra per fare entrare un po’ di luce lunare. È uno studio medico: lettino per le visite, scrivania, teca di vetro con medicine e ferri. Su un attaccapanni c’è un camice. Simone se lo infila e si sente meno nudo, anche se il mazzapicchio ha ancora un bel po’ di gioco e anche se con quel caldo ci vuole poco a imbrattare un camice di sudore. Fa niente. Accende il lume sulla scrivania e chiama Marco: - Dove cazzo siete? Simone sente la voce di Marco che avverte gli altri ridacchiando: è Simone. - Ti ho chiesto dove cazzo siete?! - A Copertino. - Be’, ora smettete di stare a Copertino e… Bussano. A Simone gli si gela il sangue. Hanno scoperto che è lì: la polizia; nella migliore delle ipotesi è il proprietario dello studio. Deve aprire, lo hanno scoperto. Scappare no, che scappano i ladri. Ma lui aveva un ottimo motivo per stare lì. Attacca la cornetta. Simone si avvicina e comincia a giustificarsi ancora prima di aprire, avete ragione, non sono un ladro, dovete perdonarmi. Ma poi apre. E c’è un tizio che gli dà uno spintone che quasi lo butta per terra, e poi trascina dentro un uomo ferito all’addome, col sangue che gli imbratta la camicia. - Dottore, - gli fa il primo – credo proprio che devi curare il mio amico! – e tira fuori dalla fondina nascosta nella giacca una pistola. Simone il fiato non ce n’ha più. Dice la prima cosa che gli capita. Non sono un ladro. Allora il gangster gli avvicina la pistola alla tempia e con aria ancora più incazzata risponde: - Certo che no, altrimenti non venivo da te, dottore – scandisce. Simone gli prende il terrore. Il gangster deposita il ferito sul lettino.

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- Togligli quel cazzo di proiettile – fa al ragazzo. Simone suda. - No, guardi, io… Allora il gangster lo sbatte al muro, gli apre la mandibola con le dita della mano sinistra e gli infila la pistola in bocca. - Se non guarisci il mio amico, io ti ammazzo. Simone spalanca gli occhi. Il gangster estrae la pistola dalla bocca e Simone non è che può aggiungere molto. Osserva il ferito: è lì che rantola, si dimena dal dolore con certi automatismi strani. Che cazzo faccio? si dice Simone. Il gangster osserva il suo volto. - Allora, chi muore? Nessuno o entrambi? Simone ingoia la saliva. - Nessuno – risponde soffocato. - Bene – commenta il gangster. Piano piano Simone avvicina le mani all’addome del ferito e separa i lembi strappati della camicia, così da vedere bene la ferita mentre il sangue esce a fiotti dall’addome. Simone si gira, apre lo sportello della teca di vetro. - Che prendi? – gli domanda il gangster. - La cassetta degli attrezzi – risponde, vago, Simone. E afferra un bisturi a caso e un paio di pinze. Sui bisturi non c’è molta scelta. I bisturi sono tutti affilati. - Niente anestesia? – domanda il gangster. Simone sbuffa. - Senta, - dice – per operare ho bisogno di tranquillità. Col suo fiato sul collo non riesco proprio. Allora il gangster quasi si incazza, ma il ferito in un attimo di lucidità sussurra al compare: - Fanculo, Orazio! Dai retta al dottore, Cristo! Che Simone un po’ si compiace.

Il ferito ha ormai perso conoscenza e Simone non sa proprio decidersi se infilare nella pancia del mafioso il bisturi o la pinza. È laureato in lettere, lui. E quasi quasi ce le infila entrambe. - Tutto bene, dottore? – gli urla il gangster fuori dalla porta. - Tutto bene, - risponde Simone – il suo amico reagisce in maniera positiva. Poi si decide per l’incisione. Netta con del cotone intriso di alcol, avvicina il bisturi e comincia. Piano, pianissimo. Poi il mafioso in un riflesso si irrigidisce. E gli muore sotto gli occhi. Cazzo! pensa Simone, che ha ammazzato uno così, come se niente fosse. Allora si cala dalla finestra e corre per le vie del paesino con il camice addosso. - Ma sei ancora qui? Dopo mezz’ora tutta la banda di amici è in spiaggia: Eva, Mirka, Federica e Laura, e poi Enzo e Marco. Tutte acchittate, tutti azzimati. Che lo guardano come fosse una star. - Sei stato tutto il tempo qui, cazzo?! – dice ancora Marco. Simone non risponde. Si fa avanti Laura, col costume a fiori tra le mani. Si avvicina. Ma lui le fa segno di stare ferma. Esce dall’acqua, nudo nature, senza le mani che coprono il mazzapicchio, macché. Cammina per otto passi. Laura gli porge il costume e dice: Mi dispiace, Simone. Avrai avuto freddo a stare tutto questo tempo in acqua. È stato uno scherzo pesante. Simone sorride amaro. - Sono andato in paese, - spiega, scandendo - sono entrato nello studio di un medico ho indossato un camice, hanno bussato due della Sacra Corona Unita che io pensavo fossero i proprietari, a uno gli avevano sparato in pancia, l’altro ha pensato che fossi un medico e mi ha intimato di operarlo, io ci ho provato ma non capendoci un cazzo l’ho ammazzato in tempi da record, poi sono scappato e sono tornato in spiaggia. Sorride ancora, sempre più amaro, si gira e raggiunge di nuovo il mare. L’acqua è calda, e a Simone gli prende la pigrizia di lasciarsi andare e di affondare e stare giù con la testa, ché nessuno ti rompe, quando stai con la testa sotto l’acqua, non si è mai visto che uno ti rompe e ti parla proprio mentre stai giù con la testa. Dopo un poco si sente toccare, riemerge. È Laura. Che sta in silenzio, e lo abbraccia da dietro, e Simone sente la pressione dei suoi seni sulla schiena. - Se ne stanno andando - dice lei, osservando gli amici che si dirigono verso le macchine. Ma Simone guarda la luna e la luna può essere piena, tre quarti, mezza, un quarto, spicchio. L’acqua può essere limpida, pulita, normale, torbida, sporca. Il mare può essere agitato, mosso, poco mosso, normale, calmo. Il mare funziona così.


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la bottiglia di Antonio Calogiuri

T: E’ qui vicino. Mi pare che fossimo proprio qui ieri; prova a vedere più lontano dal marciapiede. A: Eccola, l’ho trovata. Faccio io, magari tira fuori un fazzolettino che la puliamo. Il punto era evidente anche se non c’era luce su quello stradone che porta al piccolo porto di S. Cataldo. La sabbia smossa di recente si vedeva subito nella distesa di colore sporco compattata dall’umidità invernale. Scavai con le mani e dissotterrai la bottiglia di whisky, smezzata la notte prima. Dopo averla pulita in modo molto sommario rientrammo in macchina. Fuori faceva un freddo pungente: sarà stato gennaio, febbraio forse. La macchina invece era ancora piuttosto riscaldata, ma a noi non interessava troppo. Nella busta di plastica bianca c’erano un paio di bicchieri pure di plastica bianca ed una bottiglia da un litro e mezzo di Coca Cola. Normalmente la compravamo “dallu Pippi” che ci dava anche i bicchieri. Inizialmente era diverso con lui; poi però cominciammo a chiedere una bottiglia di Johnny Walker un giorno sì ed uno no, e avvertii più pesante il giudizio del suo sguardo mentre ci batteva il conto. La cosa andava avanti ormai da qualche mese; ci conoscemmo in ottobre davanti al Corto Maltese, eravamo ognuno con i rispettivi amici. Indossavo una camicia “grigio Manchester”, come amavo dire allora, e delle bretelle assurde, bianche e nere a disegni psichedelici. Mi davo arie da musicista. Grazie ad un mio amico che la conosceva ci parlammo e, dopo un paio di birre, ci scambiammo i telefoni. Il pomeriggio seguente lei mi chiamò e tutto ebbe inizio. Era molto bella, l’ho sempre pensato, tutti l’hanno sempre pensato; mi scelse, così, senza pensarci due volte: nella mia infinita presunzione non me ne stupii affatto. Ma torniamo a quella notte vicino alla spiaggia. Eravamo ben organizzati, anzi, meticolosi direi. In fondo il rituale era sempre lo stesso, molto preciso. Versavo i primi due bicchieri. I primi due li facevo sempre molto carichi, i successivi li diluivo maggiormente. A: Ecco a te. Attenta a non versartelo addosso che arriva all’orlo

del bicchiere; preparo il mio e brindiamo. T: Grazie, dài che mi devo riscaldare. Non eravamo affatto tipi freddolosi. Il nostro problema non era il freddo; ci dicevamo banalità ormai. Per alcuni mesi eravamo stati insieme praticamente tutti i giorni, in ogni momento. Questo ci aveva consentito di conoscerci a fondo e quindi di delineare subito in modo chiaro i limiti del nostro rapporto. Il nostro futuro era già visibile ed era ovvio. Nell’attesa, usavamo questi “strumenti” per tirare fuori ciò che ognuno voleva dall’altro, nel modo più animalesco possibile. La coscienza e i sentimenti venivano sbattuti con violenza fuori dai finestrini insieme ai fazzolettini sporchi, in quelle nottate senza luce. T: E’ buono. Oddio, è sempre buono, bravo; l’ho finito però, fanne subito un altro. A: Bravo? Mischio solamente, no?! L’ho finito anch’io. Pronti col prossimo giro. Ecco... sei proprio bella stasera! Era quello che volevamo, no? L’alcol saliva, l’eccitazione saliva, faceva molto caldo in macchina. I vetri erano già completamente appannati, i nostri occhi dicevano cose molto più sensate delle stronzate pronunciate dalle bocche. Il rituale, nella sua fredda precisione, prevedeva che più o meno dopo il terzo bicchiere mi sporgessi per baciarla; la mia lingua non faceva altro che prometterle un’altra nottata di piacere e lei rispondeva: era pronta a farsi scopare. Perchè altro non era, non facevamo l’amore, forse non l’avevamo mai fatto. Nell’ebbrezza generale, accaldati dalla lussuria, spesso completamente nudi, eravamo comunque assolutamente lucidi: io non ero l’uomo che stava cercando e lei non poteva essere la donna che stavo cercando. Solo i corpi, anestetizzati dall’alcol, si appartenevano completamente in quegli incontri in macchina. Andavamo avanti per ore, finchè non ci sentivamo sazi di drinks e di noi. A volte rincasavamo con la luce e, alla nuova sera, sapevamo che saremmo stati travolti dallo stesso desiderio, al massimo in un posto diverso. Un giorno, per fortuna, tutto finì.

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gli eroi fanno orario continuato

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un delirio di Nino G. D’Attis

“La parola è libera ma io non lo sono più” (Jean Baudrillard) “Le notti non finiscono all’alba per la via.” (883)

Eravamo dalle parti di Tor Bonacciana, strafatti di tintura di Caluerpa racemosa e strozzapreti al tartufo quando Robin se ne uscì dicendo che i Daft Punk gli stavano facendo risuonare nella brocca il ritmo dell’ite missa est bizantino. Nel cielo color merda di pastore maremmano in una tiepida notte di novilunio guizzavano anàfore, chiasmi, rime derivate e pesci palla muniti di porte Usb al posto delle branchie. Packard Bell, e sei ciò che ascolti! «È ora di tornare nella bat-caverna, scemo» dissi. Vistosa erezione dieci centimetri sotto il volante, un dolce pensiero per Gitana, la mia Real Doll peripatetica da 9.000 $ acquistata in un periodo in cui avevo bisogno di mettere un po’ da parte la difesa dei più sfigati per ritrovare il diapason della voluttà. L’onniscienza e la conoscenza dell’assoluto non si comunicano in formule e discorsi. Il loro linguaggio più consono è la danza di un piede sull’acceleratore di una Lamborghini corazzata. Robin: capelli biondo improvvisato, una vestaglia di seta mossa dal vento e gas intestinale illuminante rilasciato ad ogni incrocio. «Ammazza che zavorra che sei, Brùus!» Pensierino delle due e quarantacinque: e se a suo tempo avessi lasciato al Joker la possibilità di togliersi uno sfizio con il nanerottolo? Il culo ridotto a un’unica piaga, la testa donata al Museo di Göteborg e per me nuove, pazze avventure. Robin: un imbecille con la erre moscia da bingo bongo istruito che amava Kiarostami e si era sempre rifiutato di vedere Squadra Antitruffa. Aveva bisogno di me. Suo padre, ex-sbirro corrotto buttato fuori a pedate dal Dipartimento per degrado morale oltre i livelli di guardia, si era riciclato nel giro dello spurgo pozzi neri. La madre batteva di giorno sulla Salaria camuffata da ragazza dell’Est. Gente semplice, se così si può dire. Il piccolo non aveva mai sparato a una donna prima di conoscermi. Aveva impallinato qualche facocero lucano fuori corso a Psicologia. Si era divertito a randellare e/o torcere il collo a uomini di spettacolo vecchi e tristi, le dita rattrappite attorno alla rotula di un efebo dai capelli lunghi, il dotto compianto sempre sulla punta della lingua: «eheu nos miseros, quam totus homuncio nil est!» Locuste in doppiopetto blu di sartoria, 50.000 soldatini di piombo occultati nel taschino della giacca: soffici baschi sbiaditi e Sten Mark III con l’automatico inserito. Le mogli, le fidanzate a casa, sugli Appalachi, prese in trappola dalla necessità di descrivere meticolosamente al vicinato le valorose azioni degli amati in una cieca profusione della coscienza e dell’amore.

«Frena, Brùus, frena!» Topo americano a ore dodici. Grandi orecchie, guanti gialli, già visto da qualche parte. Topo che attraversa sulla zebra pedonale fischiettando Somewhere over the rainbow. Incravattato. Tracotante. Odioso a pelle. «Frena, Brùus, ‘orcamad...» Pneumatico anteriore destro che passa sopra qualcosa producendo un’oscena pernacchia. «Occazzo, Brùus...» Pneumatico posteriore destro che passa sopra lo stesso “qualcosa” di prima producendo uno SQUISHHHH. Sibilo. Freni. Puzza di gomma bruciata. Robin rimase immobile, guardò fuori dal finestrino imbrattato di macchie rosse e abbozzò un sorriso, come se avesse visto qualcosa di molto divertente là sotto. Poi rivolse la sua faccia da cazzo nella mia direzione con lo stesso identico sorriso. «Mr. Wayne» disse, «hai mai sentito parlare di un personaggio copyright Disney Company che ha divertito per generazioni tanto i bambini quanto gli adulti, che è apparso in centinaia di cartoni animati, show televisivi, videocassette, albi a fumetti, libri e svariati altri media?» «Più o meno» grugnii. «Cioè, io da piccolo leggevo Zora, Wallestein e Pompea. Perché?» Per tutta risposta, il mio assistente fece spallucce e mi porse il cellulare. Chiamai gli avvocati di Annamaria Franzoni. Chiamai Ana Beatriz (la mia ex) ed elemosinando un alibi esordii con una serie di locuzioni sconnesse che avevano vagamente a che fare con la legittima difesa imperfetta come sottoprodotto della dottrina dell’attacco preventivo che governa i rapporti interpersonali e il grave rischio di uno stallo pandemico. Bla-bla-bla-bla-bla... Ana Beatriz (la mia ex) mi mandò a cagare. Chiamai Alfred, fedele maggiordomo dai tempi delle elementari, e gli chiesi di prepararmi un bagno caldo, qualche biscotto con il prosciutto e un Jack Daniel’s con un po’ di ghiaccio e un dito d’acqua. L’umanità può continuare ad esistere senza redenzione? «Gesù, Brùuus, non posso credere che tu l’abbia fatto davvero...» Esaurito il credito residuo della SIM, schizzammo via come tarantolate di Galatina destinazione bat-caverna, Tufello, casa dolce casa.


CoolClub.it Ho la testa schiacciata sul finestrino del furgone. Ad Ale là dietro gli è presa sauvage, mi tiene per capelli mentre va avanti da cinque minuti buoni, quando scatta la scudisciata sulla chiappa copiata e incollata dal manuale di Jessica Rizzo sento che mi si è addormentato un polpaccio. Il parcheggio del locale è ormai deserto, ho la gola secca, meglio tagliare corto, inarco la schiena espongo il tribale, un paio di gemiti e la partita è chiusa, sette minuti netti, fosse un velocista avrebbe un futuro. Dentro Giulia recita il mea culpa sul batterista, ci va di bocca, ma quello è imbevuto di birra come un biscotto atene nel latte. Raddoppio l’effetto e il morto resuscita e muore in poche battute. Si va. Furgone carico, arrivano gli altri con la calza piena di caramelle regalate da quei disadattati che vedi sotto palco a ogni concerto. Quelli pensano di avere di fronte dei grandi, ma questi al primo sole si imbellettano, coprono i tatuaggi e presenziano al pranzo domenicale con tanto di nonna ottuagenaria a capotavola. C’è una festa… dicono ma Giulia non c’è, non li sente guarda fuori dal finestrino. Ha tirato un casino. Suo padre sembra non volerne sapere di stare meglio e suo fratello è sparito da settimane. Fa le nuvolette con la bocca e quando il finestrino si appanna disegna cuoricini con l’indice. Fumiamo per strada e ridiamo. Nello stereo i Sonic Youth girano a palla e penso che Kim Gordon è una gran femmina, mica come quella troia di Courtney…ci vuole dignità e consapevolezza nell’essere una groupie, mica basta imbracciare una chitarra per sentirsi redenta. Il locale è di quelli fichi, che non ci entri se in tasca c’hai solo il banco posta. Ma noi saltiamo fila e tutto, ci portano a un tavolo vip, bottiglie a pioggia, serviti e riveriti, gentilezza gratuita che ti chiedi perché. Cos’è sta storia Ale? Solo festa stasera piccola, vai tranquilla… e mi dà una manciata di superchicche. Io mando giù le zigulì magiche mentre Ale si attacca nervoso alla vodka. Gli altri gongolano in giro come zombie in cerca di carne fresca, Giulia è in bagno da quindici minuti per il richiamino di metà serata. Scendo in pista, voglio sudarmi via questa giornata, voglio ballare. Dal soffitto scende un enorme lampadario di cristallo, sembra una torta nuziale alla rovescia Mi vuoi sposare? Mi aveva chiesto. Ed io con la menata che sono come un treno in corsa, che devo fare un casino di cose l’ho rispedito al mittente. Mi amava cazzo e mi sapeva far stare bene. Sono circondata da una mandria di scimmioni che non mi scollano gli occhi dal culo e io ci provo gusto e li faccio arrapare, faccio la troia come solo io so fare. Un rampante cinquantenne mi si avvicina con una bottiglia di ferrari e me ne versa in bocca. Io come da copione mi lascio innaffiare, lascio scivolare tutti quegli euro di roba sotto il mio body, nella mini fucsia, mi inzuppo il perizoma. Sono fradicia quando Ale arriva con i rifornimenti. Altro giro altra corsa… mi fa e io lo seguo, saliamo delle scale mentre dentro tutto gira a mille. Entriamo in un privé completamente buio, vedo solo strobo e denti, una dozzina di sorrisi bianchi che risplendono in

riservato per il gruppo

questo buio glaciale. Chiudo gli occhi e sogno lui, la nostra prima volta e anche un po’ della seconda. Quando mi sveglio è perché una sirena si è portata via Giulia, ha strippato. Quando si mette troppa neve in pista c’è il rischio di fare il ruzzolone. Scendo in fretta le scale, il locale è vuoto, dei ragazzi neanche l’ombra. Fine della serata, prendo un taxi, torno a casa. Sono in bagno, doccia e poi letto. Mi spoglio e allo specchio vedo il mio corpo ricoperto di lividi e morsi, maculata, graffiata, sembro un cazzo di dalmata. Vomito e piango per ore mentre mi guardo e non so più cosa sono. Chissà dov’è ora, chissà se poi quella casa in campagna l’ha comprata veramente. Mi piacerebbe fosse qui. Oggi fa male.

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CoolClub oolClub.it Sapeva quello che lo avrebbe aspettato una volta uscito dal lavoro: la frisa, sua moglie, la tele, il cane e i bambini. Però c’era anche il telefono, e la tele sarebbe stata sicuramente troppo alta perché i bambini avrebbero parlato e non glielo avrebbero fatto seguire il telegiornale e la moglie avrebbe risposto al telefono per dire dopo un secondo… “…Te lo passo subito.” A quel punto il volume della tele bisognava che fosse più basso e che i bambini smettessero di urlare, altrimenti non avrebbe potuto sentire niente al telefono. “Pronto?…” “…” “Dimmi” “…” “Ciao…” “…” “Dimmi” “…” “Scusami ma non sento un cazzo, i bambini fanno casino.” “…” “ma chi sei?” “…” “ti ho detto che non sento un cazzo!” TLAK Dopo aver riagganciato si sarebbe accorto che il cane gli aveva mangiato la frisa, attratto dall’odore del tonno. La moglie gli avrebbe chiesto chi fosse al telefono e lui le avrebbe chiesto di tacere perché al telegiornale parlavano del Lecce di Zeman. Allora il volume sarebbe stato più alto perché quando parla Zeman non si sente mai un cazzo “Stata puona cara giocata in attacco…squatra giovane… commessa distrazione…” “quando parla Zeman, non si sente mai un cazzo!” “chi era?” “sssst, zitta!” “…” “BAU! BAU!” Il giorno seguente sarebbe tornato a lavorare ed avrebbe incontrato un collega, l’unico visto che erano solo in due a fare quel lavoro, e gli avrebbe detto “per caso mi hai chiamato tu ieri sera?” “no perché? “perché non sentivo un cazzo” “in che senso…” “nel senso che ho risposto al telefono però non sentivo chi c’era dall’altra parte.” “hai visto che Lecce?” “non sentivo un cazzo” “è vero, quando parla Zeman non si sente mai un cazzo.” Alla pausa avrebbe mangiato una frisa, la frisa era il suo piatto preferito: poco bagnata, con la ricotta forte, con il pomodoro e col tonno. Con le alici no. Forse al lavoro si stressava di meno che a casa, dopotutto lavare i vetri delle finestre dei palazzi a duecento metri d’altezza ti permetteva di estraniarti dal resto del mondo sotto. C’era silenzio lassù. L’unico suo collega era appollaiato con lui sulla trave ed era lì che lavoravano parlavano e mangiavano la frisa. Il collega gliene avrebbe offerto un pezzo della sua e gli avrebbe anche parlato delle tre punte ma lui avrebbe risposto che il problema era a centrocampo e l’altro nonono, il problema erano i centrali e le tre punte e ancora nonnonno, il problema era a centrocampo ma nonnononnoonononooo, il problema… Sinchè una delle corde che tenevano l’asse su cui erano appollaiati non avrebbe finito per cedere TLAK Si erano trasferiti nella Città Grande vent’anni prima per sfuggire all’ondata di caldo che stava colpendo il meridione. Dicono. Era una città di merda per fare quel mestiere, gli edifici erano troppo alti, se cadi da cinquanta metri forse possono tenere

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almeno la bara aperta il giorno del funerale, ma da duecento fanno prima a frullare i pezzi rimasti intatti e seppellirti in una coppa di sangria. Il collega si sarebbe trovato dal lato della corda spezzata e sarebbe caduto nel vuoto assieme alla frisa, l’altro avrebbe fatto appena in tempo a sentirsi mancare la trave da sotto il culo e ad aggrapparsi d’istinto alla corda. Il collega durante la caduta avrebbe urlato qualcosa ma sarebbe stato troppo lontano e poi non era facile fare conversazione appeso ad una corda a duecento metri d’altezza. “Che cazzo ha detto…” Si sarebbe chiesto l’altro mentre si reggeva con le mani alla corda che ancora lo teneva in vita…si sarebbe retto per mezz’ora, lagnandosi in cuor suo più che per la caduta del collega o per quella della frisa, per il fatto che ancora una volta non aveva sentito un cazzo. TLAK Il collega si sarebbe schiantato al suolo. “…non ho sentito un cazzo…” si sarebbe ripetuto l’altro una volta atterrato, salvato dai pompieri e se lo sarebbe chiesto anche a casa dove avrebbe deciso di prepararsi una frisa. In casa non ci sarebbe stato nessuno, neanche il cane. Avrebbe acceso la tele ed ascoltato Zeman, si riusciva addirittura a sentire qualcosa. La frisa sarebbe stata di suo gradimento… sarebbe stato proprio bene. Si sarebbe fatto tardi e non sarebbe tornato nessuno a casa, neanche l’indomani né il mese dopo né l’anno dopo, ma il perché non ci è dato saperlo… …perché non si sentiva un cazzo.

di Giovanni De Blasi

la frisa CHIASSO, CALCIO, MORTE


CoolClub.it No Wow The Kills Domino/Self 2005

di Camillo Fasulo

Picaresque The Decemberists Kill Rock Stars 2005

di Osvaldo Piliego

Guero Beck Geffen/ Unversinal 2005

Immaginate, soltanto per un momento, una impossibile relazione tra i Joy Division e P.J. Harvey, con Robert Johnson a dare la sua benedizione. Ci siete? Immaginate adesso dei suoni cupi, dall’andamento sghembo e ipnotici allo stesso tempo, ossia strutture di canzoni spigolose, claustrofobiche, con riverberi e distorsioni. In poche parole suoni in bassa fedeltà, dal sapore post punk ma carichi di calore animale e di sudore blues. Se volete capire come tutto ciò possa funzionare non avete che da sprofondare per una mezz’oretta tra le tracce di No Wow. The Kills, un duo: una lei (VV, alias Alison Mosshart) ed un lui (Hotel, alias Jamie Hince) anagraficamente divisi tra America ed Inghilterra. Una delle realtà più stimolanti emerse dal recente riflusso r’n’r. Con il loro debutto Keep on your mean side avevano stupito per la grezza rilettura del vecchio suono del blues. E proprio quest’approccio ha portato The Kills a compiere oggi un passo ancora più deciso in questa direzione: far convivere il buon vecchio blues con l’elettronica più minimale. E non solo! Su tutto il disco aleggiano anche altre oscure presenze: quella dei Velvet Underground e quella di una Grande Mela molto-molto anni ’70. È bello pensare a un cantastorie contemporaneo che invece di girare per le piazze, occupa pacificamente il nostro lettore, trattenendoci per un po’ inchiodati all’incredibile fascino del piccolo e del quotidiano. The Decemberists, nome che rievoca paesaggi invernali e al contempo un gruppo rivoluzionario russo, sono uno di quei gruppi che si fa avanti timidamente nei tuoi ascolti per poi cementarsi in testa come un tormentone. Perché le canzoni concepite dalla mente di Colin Meloy sono belle nel loro essere così acclimatanti, confortevolmente folk. Ma allo stesso tempo i Decemberists sanno scuotere e sorprendere grazie a piccoli guizzi più indie e lunghe impennate pop psichedeliche. Dichiaratamente influenzato da Morrisey (a cui tra l’altro ha dedicato un piccolo album tributo) e Robin Hitchcock, Colin sembra averne raccolto lo spirito più che lo stile. Egli gioca con i personaggi raccolti dalla strada e con gli strumenti. Il titolo del disco è Picaresque, richiamo alla tradizione del viaggio e dei racconti che questo ispira, un viaggio romantico e ironico. Una traccia su tutte From my own true love (lost at sea). Consigliatissimo.

La pirateria telematica, che sta contribuendo in maniera radicale al cambiamento delle possibilità di fruizione del materiale culturale, è una manna dal cielo per tutti quei milioni di musicofili squattrinati sempre a caccia delle ultime novità, ricercatori assetati di conoscenza, ma con poche risorse da investire. Rappresenta invece una piaga d’Egitto per le case discografiche, che vedono andare in fumo fior di quattrini. Questa volta è toccato a Beck essere “vittima” degli “scaricamenti” abusivi, così che si è stati costretti ad anticipare l’uscita dell’album e a modificare la scaletta dei brani da inserire. Guero, che significa semplicemente “bianco” nel gergo del quartiere latino di L.A., questo il titolo dell’ultimo nato in casa Hansen, esce solo ora in veste ufficiale. Ad un primo ascolto ti sembra un ibrido tra il revival anni ‘70 di Midnite Vulture (dell’ormai lontano 1999), con il quale condivide anche gli stessi produttori, e l’hip hop/country/ rock di Mellow Gold. Di certo segna il ritorno a quella “vecchia strada” abbandonata per un attimo in quella splendida parentesi melodica che fu Sea Changes (2002). Ma va anche un po’ oltre. Vediamo in che senso. Que honda Guero? è un pezzo leggero, ironico, con una componente “iberica” latente e con tanto di pubblico ispanico (che fischia pure); un brano orecchiabilissimo, sulla falsariga di Loser. Girl, secondo singolo, è una mesta parodia del surf Beach Boys style rimescolato in salsa folk, perfetta per il juke-box di un qualunque stabilimento balneare almeno un po’ più alternativo. Missing è una sorta di bossanova, almeno nella concezione hanseniana del termine che dell’esotismo del Brasile conserva l’atmosfera mesta da saudagi; appena un po’ più “sinfonica” e scazzata; da sorseggiare in estate con un bicchiere di caffè in ghiaccio. Earthquake weather potrebbe essere una canzone da falò se non fosse così ambigua, in bilico tra l’allegria e la tristezza, se non avesse l’umore mutevole di uno zingaro alieno che suona la chitarra nello spazio (ma va benissimo così, probabilmente è uno dei pezzi più forti dell’intera baracca sonora). Chain reaction è un hip hop violento lacerato da chitarre acide e suoni industriali, abbastanza beastyboysiano, un genere che è un vecchio cavallo di battaglia di Beck, caro ad artisti come il nostro Bugo che ne hanno tratto ottimi insegnamenti. Scarecrow è uno space-country alla stregua di Earthquake weather, più sostenuto e dilatato di quest’ultimo, pieno di echi e riverberi, ma anche più melodico (o monotono?). Rental car è un hard-rock sostenuto e orecchiabile, anche se all’improvviso ti spiazza con uno jodel tipo “I lo-lo-lo-lo-lo-lo-lo-love music!” e se a tratti ricorda Beautiful stranger versione Madonna (vi ricordate la colonna sonora di un Austin Power?). Il primo singolo E-pro rappresenta il paradigma del ritorno a quelle sonorità già battute di cui si è già detto all’inizio di questa recensione, un po’ la summa dello spirito che aleggia all’interno di quest’album. Nel complesso e concludendo, se Guero non può essere assolutamente considerato un’involuzione o un lavoro minore, non può, secondo me, allo stesso modo aspirare a rappresentare un qualche progresso significativo sulla strada di Beck. Rakelman

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CoolClub.it Bianco sporco Marlene Kuntz Virgin Chi si aspetta un ritorno alle origini resterà deluso, chi ama questa loro nuova vena lancinante e più impegnata troverà un naturale proseguimento alle precedenti prove. Certo è che i fans non ne rimarranno delusi. Disco un po’ contraddittorio come l’ossimoro del titolo.

Language. Sex. Violence. Other? Stereophonics V2 Inconfondibile il sound, inalterata la capacità di graffiare il pop e di confezionare canzoni grintose e orecchiabili. Diverse le tracce candidate a diventare singoli con tanto di video fico e passaggi come se piovesse in radio. Meglio loro che molti altri.

I am a bird now Antony and the Johnsons Secretly Canadian - 2005

di Rakelman

Valende Jennifer Gentle Sub pop

di Osvaldo

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Lullabies to paralyze Queens of the stone age Universal Dopo l’abbandono di Nick Olivieri anima carismatica e non solo della band, torna il suono del deserto con questo Lullabies to paralyze. La formula è più o meno la stessa: suoni granitici, grandi aperture. Si fatica però a trovare quelle gemme che fecero brillare il precedente e bellissimo Songs for the deaf.

Make do with what you got Solomon burke Shout / Sony L’esempio vivente che la longevità artistica non è sempre sinonimo di rincoglionimento. Salomon Burke è un grande e torna con un nuovo album. Omaggia anche Van Morrison e i Rolling Stones con l’eleganza e quel timbro vocale che lo contraddistingue rendendolo unico.

Come suona la musica di un “angelo”, un’efebica punk beauty, che canta come se fosse una matrona nera assorta e malinconica seduta in riva al delta del Mississippi, vestita come Wanda Osiris e truccata come Priscilla - La principessa del deserto? E se questo album fosse composto da dieci brani sospesi tra gospel (My lady story), soul (For today I am a boy) e r&b (You are my sister) screziati da una punta di purissimo pop (Hope there’s someone)? E se poi ad accompagnare questa creatura semimitologica nel suo viaggio agrodolce sulla Terra ci fosse gente del calibro di Lou Reed, Boy George (sui quali non spreco nemmeno una parola), Devendra Banhart (l’ultimo re del movimento neoacustico) e Rufus Wainwright (principe del pop d’autore)? Bèh, per dirla tutta, suona davvero divinamente! Con Antony e i suoi Johnsons rivivono quelle atmosfere tipiche della Factory di Warhol, almeno per quanto concerne l’aspetto estetico dell’impresa (cfr. la Candy Darling sulla copertina dell’album). Passando alla musica c’è davvero poco da dire e molto da ascoltare. Qui è un cuore nudo che canta, senza vergogna e senza manierismi. Un album imperdibile, con perle meravigliose e commoventi come What can I do? (con Wainwright) e Spiralling (con Banhart) e gioiellini soul come Fistful of love (con Lou Reed). Se arrivi a uscire con la Sub Pop significa che proprio te lo meriti. L’etichetta che fu di gruppi come Nirvana e Soundgarden marchia questo terzo lavoro dei padovani Jennifer Gentle. Niente a che vedere però con le robuste sonorità della Seattle anni 90 ma Inghilterra anni 60 nelle corde di questo duo tutto italiano. Dichiaratamente ispirati (anche nel nome del progetto) da quel genio di Sid Barret si muovono agilmente nella psichedelica di matrice folk, confezionando un disco che oltre a omaggiare l’ex Pink Floyd si muove a cavallo tra sixties e contemporaneità fluidamente. Sentiamo un po’ dei Kinks, quelle delicatezze che furono dei Beach Boys, le devianze del nuovo indie. Un lavoro leggero nei toni ma fatto di mille piccole trovate, arrangiamenti sottili pieni di un gusto retrò che conquista subito. Xilofoni, trombette, clap, hammond, violini piani e forti disegnano un percorso musicale, tortuoso a tratti, ma piacevole anche nei deliri più rumoristici. Le registrazioni, realizzate interamente a casa, vedono i due impegnati a suonare tutti gli strumenti dai classici ai meno convenzionali. Tra atmosfere sospese e momenti più intimisti si arriva lentamente alla fine di un disco sospeso tra malinconici notturni e più solari momenti.


CoolClub.it E tutti i pesci vengono a galla Carneigra Arroyo Records / Venus - 2004

di Francesco Lefons

Rewind Ricky Fante Virgin

di Giancarlo Bruno

Human After All Daft Punk Virgin – 2005

di Amedeo Savino

Album d’esordio per i Carneigra, sestetto livornese che con E tutti i pesci vengono a galla suggellano un percorso artistico molto variegato frutto dell’incontro di musicisti provenienti da ambiti musicali differenti. È proprio questo che già al primo ascolto caratterizza il disco, che unisce alla personalità della canzone d’autore tutto il folklore e le sonorità tipiche della musica popolare mediterranea. Musica balcanica, ritmiche latine (bossa e tango) e contaminazioni jazz-rock contraddistinguono il suond del gruppo, che si rifà inevitabilmente ai più noti nomi del panorama musicale italiano, come Vinicio Capossela o Avion Travel. Ironici e malinconici i Carneigra con il loro lavoro omaggiano il popolo tutto, con le sue storie e le sue contraddizioni che emergono dalla quotidianità e dall’imprevedibilità della vita. Storie di vite note e meno note ricondotte al vaglio della teatralità musicale, all’insegna della riscoperta delle origini dove poesia e politica si fondono, grazie all’ironia espressa in italiano, ma anche in dialetto, che svia da slogan facili e vendibili per riscoprire un approccio più umanistico e disincantato della realtà.

Ascoltare il disco di Ricky Fantè è come mangiare un maxi cono crema e cioccolato da quattro euro…buono, dolce, enorme…ma prima di mangiarne un altro magari aspetti un po’, è come un bel film con happy ending in cui alla fine della corsa tagli il traguardo con scene al rallentatore e titoli di coda…trionfale. Pura musica soul quella di Fantè che rimanda ai grandi padri Otis Redding, Al Green e Sam Cooke, anche se in precedenza, durante la sua adolescenza, ha pagato il pedaggio agli zii del funk con il progetto Junior Division liberamente ispirato al lavoro di James Brown, Parliament/Funkadelic e Ohio Players. I suoi punti di riferimento artistici rimangono comunque Stevie Wonder ed Elvis Presley (del quale adora la presenza scenica e i film). Il primo singolo It Ain’t Easy è stato “sospettato” (con parziale ammissione della Virgin) di plagio nei confronti di un vecchio brano di Wilson Pickett e Jon Tiven, e da parte mia non posso fare a meno di notare nella stessa canzone la citazione un po’ troppo reverenziale dei riff di chitarra e basso della Hey Joe di Jimi Hendrix. Alla realizzazione dell’album ha contribuito l’autore/produttore Jesse Harris che ha messo lo zampino anche nella scalata al successo della nuova diva Norah Jones. Con la benedizione di Isaac Hayes nelle note del disco, Ricky Fantè, inizia a correre la sua gara verso la realizzazione del sogno americano con tanti maxi coni e tante scene al rallentatore.

Due cyborg venuti dallo spazio per farci scoprire universi musicali paralleli. Un viaggio attraverso la musica house, la techno e il rock. Un crossover di generi musicali, per unire mondi diversi, quello delle discoteche e quello dei club underground. Tutto questo nell’ultimo album dei Daft Punk, tornati a stupire dopo quattro anni con Human After All. In sole dieci tracce è concentrata la loro visione del rock, sospesa tra umano e robotico: un lavoro semplice e di bassa fedeltà, eppure così ricco di spunti. Dieci tracce di riff giocosi, gracchianti tastiere e ritmi incalzanti. Una traccia per tutte: l’omonima Human After All, in cui la melodia di chitarre sintetizzate si sposa con il ritmo imperterrito della drum machine, mentre una voce fuori campo ripete che i Daft Punk sono umani. Dopo tutto. Il duo che insieme agli Air è l’emblema del “french touch”, ha dato un’anima al vocoder, creando con savoir faire un album elegantemente geniale, tanto da mettere in imbarazzo l’ascoltatore. E allora con disinvoltura ci si può lasciare prendere dal ritmo, perché la musica dei Daft Punk, prima d’esser musica è suono, è qualcosa di primordiale. Quando metti su Human After All, dopo un po’ ti ritrovi a dondolare la testa. Ti entra dentro, non puoi farci niente. E’ paradossale che due androidi mascherati da essere umani riescano a prendere dei suoni, delle semplici campionature e a “convertirle” in un trip musicale che ha tutti i colori della musica elettronica, più uno: quello dell’originalità.

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CoolClub.it Tamales De Chipil Biandilò o Chavò On the road/ Venus 2005

di Scipione

Perturbazióne Canzoni allo specchio Mescal 2005

di Valentina Cataldo

Mentre tutto scorre Negramaro Sugar – 2005

di Osvaldo

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Se vi piacciono i ritmi calienti dei sud del mondo, se la musica gitana vi trascina in lussuriose danze, se il viaggio (mentale e fisico) è la vostra passione, i Tamales De Chipil fanno per voi. Il nuovo cd si chiama semplicemente Biandilò o Chavò ovvero “è nato il bambino” in lingua rom ed è “un viaggio sonoro alla ricerca della felicità”. Le canzoni si susseguono con ritmo serrato passando dalla musica balcanica (Antonio Lauria, autore, voce e chitarrista del gruppo, è di origini zigane), tradizione popolare italiana ed echi e ricordi del Sud America palesi anche nel nome. Il tamales è infatti nella cucina messicana un impasto di mais cotto a vapore in una foglia di banano, mentre il chipil è la spezia che lo insaporisce. Nei cinque anni di vita i toscani Tamales hanno fatto da spalla a Modena, Roy Paci, Sergent Garcia, Sud Sound System, Ottavo Padiglione, Manu Chao. Tutte influenze che confluiscono nel lavoro variegato e accattivante. Una patchanka che si inserisce nel fortunato filone italiano di musica pensata per la piazza senza tralasciare il messaggio politico e intellettuale. La loro musica è “un rock gitano ispirato dalla forza perenne dell’utopia”, almeno così la definiscono.

Sono cresciuti è quello che ti viene da pensare quando ascolti il loro nuovo cd. Sono cambiati, maturati, per alcuni aspetti forse possono anche piacere di più. Per l’incredibile equilibrio tra melodie e testi per esempio. Per i toni malinconici così facilmente recepibili. Per gli intrecci di violoncello e tastiere, chitarre acustiche ed elettriche, voci e cori, oltre a tutto il resto. Ritornano così i Perturbazióne, senza troppo frastuono e dopo oltre due anni di assenza. E convincono, come con In circolo, il disco precedente uscito con l’Audioglobe, come con Agosto, il pezzo lancio, il più struggente, sicuramente quello trainante dello scorso cd. Se poi ci mettete anche il tocco di classe di una produzione firmata Paolo Benvegnù, il gioco è fatto, e il tutto a mio avviso funziona, e bene. La presenza su alcuni pezzi di Rachele e Francesco “Baustelle” alle voci e ai cori e quella di Jukka Riverberi e Luca Di Mira - leggi Giardini di Mirò - rispettivamente alla chitarra e al Korg danno completezza a questo lavoro, in cui la fresca ironia e lo slancio un po’ più rockettaro che gli caratterizzavano paiono dissolversi lasciando il posto a Canzoni allo specchio che sanno di pop - nelle migliori delle sue accezioni - e musica d’autore.

Il secondo è sempre la portata più difficile da sfornare per un gruppo. I Negramaro dopo la “misteriosa” eliminazione da Sanremo sono ormai lanciati verso vette che mai avremmo sperato per una band di matrice rock. I consensi in giro non mancano, frutto semplicemente del fatto che siamo di fronte a un disco vero che si distingue nel mare di killer track senza niente dietro. Che il progetto Negramaro non fosse carne da macello per classifica lo abbiamo sentito nel primo album e lo abbiamo visto nel coraggio del Festival. Diverso dal primo, questo nuovo Mentre tutto scorre abbandona un po’ le simpatie per i Radiohead per definirsi con maturità italiano. Morbido nella produzione ricca e ben calibrata, il disco rispecchia le due anime del gruppo: l’attitudine rock e quella più intimista e lirica. La scrittura dei brani attinge alla tradizione cantautorale (soprattutto nei testi) vestendola di arrangiamenti che riescono a far convivere distorsioni e tappeti d’archi con estrema naturalezza. Ammiccante quanto basta per arrivare ai più l’album ha in serbo spunti che puntano decisamente più in alto rispetto alle facili classificazioni. Il complesso del lavoro conferma un ottimo momento creativo della band che merita la giusta attenzione nel nuovo firmamento pop rock italiano.


CoolClub.it Join the cousin Kech Black Candy

di Osvaldo

Funeral The arcade fire Rough Trade 2005

di Rakelman

Ashes Tristania SPVAudioglobe 2005

di Nicola Pace

Si potrebbe dire scolastici ma poi ci si correggerebbe subito precisando “ però, che bella scuola”. L’impressione che si ha ascoltando i Kech, dimenticando per un attimo che sono italiani, è che il loro indie pop appartiene a tempi e luoghi cari a chi come il sottoscritto ha vissuto e amato gli anni 90. Il sapiente uso di accordi in minore, gli arpeggi cristallini e taglienti uniti a strutture minimali e dirette, i pianissimo che preparano in crescendo a ritornelli poppeggianti e aggressivi sono come l’occhiolino della tipa che ti piace un sacco. Cioè, li desideri, vorresti fosse così, sono cose che ogni volta che succedono non possono non piacerti. E i Kech non possono non piacere, perché hanno ben assortito e distribuito le carte a loro disposizione. Se poi vi piacciono le voci al femminile, quelle un po’ da lolita, che magari a un certo punto passano dall’inglese al francese accomodatevi in questo Join the cousin. Se poi dopo i primi minuti comincia un simpatico ondeggiare destra sinistra della testolina, siete a metà dell’opera. Ora non rimane che godersi un po’di sano indie pop made in italy di ottima fattura, senza pretese intellettualoidi, ma pieno di buone trovate e sano disimpegno musicale.

Funeral è un album bellissimo e gli Arcade Fire (Win Butler con la moglie Regine Chassagne e il fratellino Will) un gruppo a gestione familiare interessantissimo. Le coordinate geografiche sono Montreal, Canada. Quelle musicali sono così eterogenee che sfuggono a qualsiasi catalogazione di genere. Le sonorità espresse in questo lavoro, il primo del gruppo, segnano ancora una volta il ritorno della new wave più rockettara e ballabile, contaminata qui da una forte componente folk a la Belle & Sebastian, ma non è tutto. L’atmosfera che si respira è a tratti elegiaca (come il titolo dell’album ben stigmatizza), oscura e malinconica come solo i Mercury Rev hanno la capacità si sfornare; a tratti epica e dall’incedere sostenuto (Crown of love giusto per dirne una); l’appeal è molto indie e vi farà felici sicuramente. Neightborhood (brano disseminato in cinque tracce e nato, a quanto dicono loro, dalla lettura della Repubblica quella di Platone però) è sicuramente il muro portante dell’opera, che contiene anche pezzi in francese Une année sans lumiere - come è d’uopo per un gruppo canadese della provincia francofona. Evidenti sono poi i debiti che i tre hanno verso la musica “sacra” (Win ha studiato teologia e sua moglie Regine suonava l’organo in chiesa…). Ormai famosi in patria e nel continente nordamericano grazie ad un fortunato passaparola avvenuto soprattutto in rete, sono pronti per ammaliare anche il mercato europeo e noi gli aspettiamo a braccia aperte!

Dopo quattro anni di meditazione il combo norvegese si riaffaccia sul mercato discografico, con il nuovo disco intitolato Ashes. Il disco in questione vira stilisticamente rispetto al precedente World of glass, contrassegnato da barocchismi soffocanti. Nel 2005 i Tristania ripartono dalle loro radici black-metal mescolandole con sonorità moderne. I sette brani presenti non sono affatto monotoni ma stupiscono sempre con lo scorrere dei minuti per il cambio repentino di atmosfera. Penso a Libre, dove riff rocciosi di chitarra sono incalzati dal lacerante screaming del cantato, per passare successivamente alle melodie folk di Equilibrium, al black-doom di The wretched dove il coro all’unisono dei tre cantanti fa entrare l’ascoltatore in un tunnel nero ed asfissiante. Solo con la seguente ed acustica Cure la luce è ritrovata, in cui la talentuosa cantante addolcisce le atmosfere con la sua virtuosa esecuzione. Negli ultimi tre brani possiamo ascoltare un’alternanza di sezioni strumentali in stile black-metal, parti acustiche e soprattutto dark-oriented. Insomma un disco da ascoltare, poiché evade dalle solite noiose e stereotipate uscite gothic-metal, e che forse consacrerà definitivamente i Tristania e li farà entrare nell’oscuro olimpo delle gothic-metal band.

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CoolClub.it Piersandro Pallavicini Atomico dandy Feltrinelli "In questo libro c’è la magia della chimica creativa, del futuro della scienza colto nel momento in cui nasce, in un percorso di ‘fantasia possibile’ che prende il via dalla realtà dei laboratori d’avanguardia dell’odierna scena internazionale..."

Silvia Ballestra Tutto su mia nonna Einaudi Un libro intorno all'eredità e alla contrastata divisione dei lasciti materiali di una nonna. Una singolare saga familiare al femminile, allegra e sentimentale e non priva di follia, che gioca su vari registri, dall'elegiaco al comico e all'auto-ironia.

Vincenzo Cerami La sindrome di Tourette – Storie senza storia Garzanti – 2005

di Mauro Marino

Corinne Maier Buongiorno Pigrizia Bompiani – 2005

di Pierpaolo

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Sam Lipsyte Venus Drive Minimum Fax Con questi 13 racconti lo scrittore di New York descrive gli angoli più disperati e surreali dell'America di oggi con un originalissimo black humour e uno stile serrato e incisivo.

Aldo nove Lo scandalo della Bellezza No reply Un omaggio a Fabrizio De André, un flusso di emozioni che ripercorrono l'intera discografia ufficiale con la sola pretesa di rendere la suggestione delle parole, della musica, del tempo senza alcun filtro.

C’è Fabio Cacace che la sindrome di Tourette la porta e la rappresenta in sogni che ingombrano la sua notte, in tic che non controlla: risate e spallucce che vengono non attese, irrompono e celebrano le sue giornate sempre più dissociate. E c’è un ricordo coccolato, San Paolo, Coriolano e Rasputin; c’è Leo Pazzani un poliziotto teatrante che non si occupa di ordine pubblico ma dell’armonia di tutto il creato, facendo la guardia al mondo. C’è un beauty case che snocciola il suo contenuto di odori per farsi segno/simbolo e territorio di un nuovo possibile esercizio di cambiamento. C’è, c’è e c’è l’intero mondo. E c’è Gesù, la notte di Natale, il bue e l’asinello e freddo tanto freddo che sembra di stare al Polo Nord. E c’è Roma acida e regale, a contenere fili narrativi, spinti al paradosso, con i nomi delle vie, le piazze, i borghi che sono consuetudini e ritmo di vita. È un libro popolato, denso di storie senza storia, colte in un ordinario che pare sfuggire, stingere nelle routine quotidiane, scrigno di inquietudini. Ogni-uno confuso, sparso, indistinto coi suoi mondi nell’indifferenza della Storia. Fiabazioni maledette, lievi e crudamente reali che in un "tutto qua" risolvono l’incredibile. Nessuno conosce la verità vera e la realtà, cela i misteri del nostro esserci, del nostro immaginare, quel giocarci vivi che tesse storie, prolungamenti di desideri e di bi-sogni. Poi, le cose ci parlano, abitano con noi il mistero e il tempo. Già il tempo! Sono in libreria per la presentazione del libro di poesie di una mia amica quando l’occhio cade su questa copertina grigiastra con un post it giallo: Buongiorno Pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile. Penso a mio padre, a mia madre, ai miei zii e ai miei amici, penso a mio fratello e ai miei cugini e rivedo in ognuno di loro la differenza nell’approccio al lavoro. E penso che anche io avrei voluto fregare il "padrone" e scroccare le telefonate e fare (come mi suggeriva un amico del collettivo redazionale) solo il 10%. L’autrice Corinne Maier, economista e lavoratrice (part time per scelta) dell’Electricité de France, negli ultimi anni ha dedicato gran parte del suo tempo alla psicanalisi e alla scrittura. L’agile volume si divide in sei capitoli che spiegano le strategie dell’azienda (per rincoglionire i dipendenti) e quelle del dipendente (per tentare di fregare l’azienda e "a volte" i colleghi). Leggo rapidamente il libro e penso "da domani farò così"… ma poi capisco che sono il capo di me stesso e questa tecnica non posso adottarla. Però, qualora diventassi un dipendente (statale o privato ma a tempo indeterminato) tatuerei sulla pelle questa frase. "Perché ci siano dei nullafacenti, ci vuole qualcuno che lavori"… saggezza popolare.


CoolClub.it Daniele De Blasi Eclypse Edizioni del Grifo

di Alessandra Balestra

Ilaria Seclì D’indolenti dipendenze Poet/bar, Besa – 2005

di Rossano Astremo

libro del mese Alessandro Piperno Con le peggiori intenzioni Mondadori 2005

Eclypse è una storia noir. Leo e Anita, due giovani innamorati, vivono insieme a Bologna. Lui vuole diventare scrittore. Lei è una promettente scultrice. Una Bologna notturna, inquietante e trasgressiva, si alterna alla stessa città caotica e misteriosa di giorno. In una sola settimana, il nido d’amore di Anita e Leo si trasforma in un luogo di follia e dolore. La paura di essere abbandonato, la gelosia e l’incapacità di accettare la perdita della persona amata, trascinano Leo ad un punto di non ritorno. La sua personalità si oscura, proprio come nell’eclissi. Tra schizofrenia, lucidità, ricordo, i piani narrativi e temporali sono incastonati tra loro con un stile di scrittura consapevolmente imbevuto di cinema. Ogni capitolo equivale ad una sequenza filmica. Ogni indizio è lavorato con astuzia, disseminato con attenzione dalla mano di Daniele De Blasi che racconta in questo romanzo un sentimento d’amore con le sfaccettature che ne fanno parte e che spesso finiscono per fondersi, confondersi e sovrapporsi alla realtà. Spetterà al lettore ricostruire l’esatta successione cronologica dei fatti che si chiudono con un finale aperto, proprio come al cinema.

D’indolenti dipendenze è il libro d’esordio della poetessa salentina Ilaria Seclì. Un testo, quello della Seclì, che si avvale della prefazione di un’icona musicale delle giovani generazioni, Giovanni Lindo Ferretti, ex leader dei CCCP e dei CSI, maestro "sconcertatore" dell’ultima "Notte della Taranta", il quale scrive: "Ilaria è poeta e non da oggi, ne fanno fede versi giovanili di incredibile potenza. La sua parola è forte, sincera, profonda e consapevole, così il suo sguardo e il suo comportamento schivo ma ben piantato. Come ulivo del Salento". Non è un caso che sia Ferretti a firmare la prefazione al testo perché dell’artista emiliano la Seclì conserva il respiro salmodico di molta sua produzione, pur mantenendo una inequivocabile autenticità. Perché la poesia della Seclì si caratterizza per una smodata carica energica, violenta, sanguigna ed erotica, i suoi versi sono viaggio verso il recupero di un "primitivismo dei sensi" che non può non affascinare. Affiorano dal suo corpus poetico dei temi costanti, l’amore carnale, il dialogo con la terra natia, preghiere laiche, danze, baccanali, l’immagine del sangue che sgorga, la sua è una scrittura che si nutre dell’analogia inconscia, che taglia i ponti con la tradizione per farsi carne che pulsa.

La scena è questa: Daniel è innamorato senza speranza di Gaia. Alla di lei festa dei diciotto anni, si introduce nella sua stanza e, rinvenute un paio di mutandine usate, comincia ad annusarle. Il nonno della ragazza lo scopre in flagrante, sennonché qualche tempo prima aveva già sorpreso la nipote nuda nell’atto di pompare il proprio boyfriend sotto lo sguardo di un terzo, ad accrescere il volume d’eccitazione; l’esasperazione del nonno si condensa in una frase gridata: "Avete rotto i coglioni… tutti con mia nipote". È la scena più spassosa del romanzo, ancorché una quasi citazione da Philip Roth, col vecchio Sabbath dell’omonimo Teatro che coltiva a più riprese la sua passione fetish per la biancheria intima. In Con le peggiori intenzioni Piperno si sofferma spesso sull’inconfessabile. L’elogio della masturbazione come "la più alta espressione di libertà", l’antisemitismo di marca ebraica; ma è davvero il solo politicamente scorretto che ha fatto gridare al capolavoro il folle tycoon della critica letteraria, Antonio D’Orrico, che già blandì e lanciò nell’orbita del mercato letterario Giorgio Faletti? Nel romanzo c’è altro. Innanzitutto Con le peggiori intenzioni è diventato un best-seller senza essere un giallo, e di questo ci sarebbe già da rallegrarsi: più che azione c’è meditazione; c’è un trentaduenne che sa scrivere ma lo sa un po’ troppo e spesso indulge in anafore che tradiscono un compiacimento mica da ridere; c’è una lingua pulita dalla retorica; c’è Grazia narrativa (intesa come stato di), ce n’è – per esempio – in certi ammiccamenti abili al lettore che risolvono interi passaggi o in certe descrizioni stranianti; ci sono verità sorprendenti sulla carta quanto banali se restano pensate; c’è un troppo frequente sguardo proibito al lettore; ci sono ossessive citazioni da Proust, Bellow, Roth; c’è una Roma anni ’80 detestabile, con tutta una sua geografia del fighettame: Parioli, Olgiata, Via Veneto. E c’è un plot sbilanciato, un senso di incompiutezza che può risolversi solo in un ambizioso progetto balzacchiano. Piperno, l’ha ammesso lui, sogna La commedia umana che già tentò Balzac: una vasta architettura di romanzi in cui i personaggi si incrociano, ritornano, si chiariscono. Piperno non è giovanilistico. Piperno tenta la saga. Piperno è antimoderno. Piperno è moralistico in senso letterale. È questo autore antimoderno che piace a D’Orrico? Forse. Parafrasando Piperno – nel passaggio in cui magnifica il personaggio dell’Arabo - potremmo scrivere: "Ecco in cosa consisteva la follia di D’Orrico: cercare un goccio di epos in un decennio che ha violentemente abolito ogni mitologia". Ma Con le peggiori intenzioni basterà davvero? Antonio Iovane

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CoolClub.it Giuseppe Carlotti Klito Fazi Editore - 2005

di Fulvio Totaro

Marco Denti William S. Burroughs. The black rider Bevivino Editore – 2005

di Ruggero Bondi

A cura di Antonio Pascale Best Off - Il meglio delle riviste letterarie italiane Minimum Fax 2005

di Scipione

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Una storia piuttosto comune. Ventinovenne, bello e intelligente diventa misogino dopo una delusione d’amore: inizia a frequentare le donne e a sparire nel nulla dopo due o tre giorni di scopate e senza un reale motivo. Entra anche in un circolo virtuoso di disprezzo per la società, i colleghi, Bush, la televisione, da cui non riesce a venir fuori nonostante la psicoterapia, gi antidepressivi e la PlayStation2. Un libro (e un personaggio) in cui si specchiano molti giovani d'oggi; peccato che il protagonista sia un giovane manager strapagato, non uno sfigato qualsiasi. Klito, libro d’esordio di Giuseppe Carlotti, racconta piuttosto fedelmente sentimenti, pensieri e azioni di una fetta dei "giovani d'oggi". Un libro che alimenta la diffusa credenza femminile che "tutti gli uomini sono uguali (cioè stronzi). Ma a sfogliarlo con leggerezza si possono cogliere la precisione maniacale nelle descrizioni e nei dettagli che rende bene la paranoia del protagonista, il formato blog attraverso il quale scorre la narrazione e uno stile vicino al grottesco. Fino al delirio finale.

Da Junkie a The black riders passando per il Pasto Nudo e La nova trilogy, questo libro riassume in novanta pagine la vita, le opere, gli incubi e le ossessioni di uno tra i più grandi e visionari scrittori del novecento: William S. Burroughs. Marco Denti, che ha già firmato nella stessa collana "I Cattivi" Jim Morrison: An American Rebel, descrive il background culturale di un’intera società, capace in un primo momento di inquadrare Burroughs solo come tossicomane e soggetto mentalmente instabile, e poi di innalzarlo ad icona di un movimento nato dalla beat generation, passato per i moti rivoluzionari degli anni sessanta\settanta, e conclusosi negli anni novanta con la collaborazione con diversi musicisti del calibro di Tom Waits, Kurt Cobain, Patti Smith e molti altri. Ottime le citazioni di Burroughs, che riassumono in poche righe il suo pensiero, il suo modo grottesco e paranoico di vedere tutto ciò che ci circonda. Due ore di lettura che tirano in ballo più di mezzo secolo, inevitabilmente rischiano di essere troppo superficiali e di non trattare argomenti fondamentali. Ottima infarinatura, per chi vuole scoprire come un uomo può aver influenzato con le sue lugubri visioni intere generazioni di artisti.

La domanda su quale sia lo stato della letteratura italiana è sempre nell’aria. La qualità della scrittura e delle idee è spesso sotto processo. Minimum Fax, attenta in varie forme e modi a monitorare la situazione, propone questa prima edizione di Best Off, il meglio delle riviste letterarie italiane. Lo scrittore campano Antonio Pascale (La città distratta, La manutenzione degli affetti, Passa la bellezza tutti usciti per Einaudi) cura questa antologia con la collaborazione di Christian Raimo e Nicola Lagioia. Il libro è diviso in tre parti, territorio-immaginario-lavoro, e presenta in appendice una interessante intervista a Guido Crainz. Attraverso una scelta coraggiosa e variegata viene fuori una Italia letteraria molto eterogenea per temi e lingua. Tra autori più o meno giovani, tra racconti e saggi, interviste e inchieste Best off palesa il continuo lavoro che si svolge nelle redazioni delle riviste (cartacee e on line) disseminate in tutta Italia: Accattone, Cronache Romane, Il caffè illustrato, Carmilla, Una città, ellittico, FaM – Frenulo a mano, Fernandel, Maltese Narrazioni, Nazione indiana, Nuovi argomenti, Lo straniero, ‘Tina. Una buona pubblicità per la scrittura e per la lettura.


CoolClub.it Hotel Rwanda Terry Gorge

di C. Michele Pierri

DVD Nicotina Hugo Rodriguez

di Scipione

Tickets Ermanno Olmi Abbas Kiarostami Ken Loach

A dieci anni da uno dei massacri più grandi che la storia ricordi, quello tra le due etnie africane di Hutu e Tutsi, arriva nelle sale un film agghiacciante. Tratto dalla vera storia di Paul Rusesebagina, definito lo “Schindler africano”, direttore d’hotel che salvò, barricandocisi dentro, più di 1200 persone. In un film dall’ottimo equilibrio narrativo spiccano le interpretazioni dei protagonisti, permeate di bravura e umanità. Il lavoro, ricco di sequenze affascinanti e suggestive, spesso accompagnate da una colonna sonora molto evocativa, non si limita a raccontare, ma lancia forti capi d’accusa alla comunità internazionale e allo stesso pubblico al quale è destinato. Un prodotto quindi riuscito sotto più aspetti, che propone uno spaccato di una delle più grandi tragedie degli ultimi decenni: un’opera che fa discutere, piangere e soprattutto riflettere. E come spesso accade la cosa che fa più paura è una sorta di indifferenza del mondo occidentale che avrebbe potuto intervenire ed invece è rimasto fermo a guardare, consapevole eppure immobile. Uscendo dalla sala si ha la forte sensazione di essere segnati, di avere dentro se stessi un sentimento prepotente. E a chi mi ha chiesto che cosa avessi, ho risposto: “Vergogna, ecco cosa provo”.

In molti lo hanno definito una tarantinata. Nicotina, in una nottata di merda, è il film ideale. Perché racconta una serata impossibile vissuta da un gruppo di persone in un una novantina di minuti a Città Del Messico. Tra le 21 e le 23 (minuto più minuto meno) il regista Hugo Rodriguez prima delinea una serie di personaggi squallidi, morbosi, curiosi, sfigati e poi li fa incontrare all’inseguimento di una borsetta con 20 diamanti purissimi. Tutto parte dall’errore di un hacker (a seguito della sua passione/invasione nei confronti della vicina orchestrale) e dal grilletto facile di un bullo burbero e bonaccione. Una sparatoria che mette in moto tutta una serie di equivoci che coinvolgono anche una farmacista con il marito palloso, un mafioso russo dalla basetta scolpita, un giovane gangster (un po’ latin lover) e una coppia di barbieri. Un thriller comico e agile, ben girato, con alcuni dialoghi al limite dell’assurdo. E con la sigaretta sempre tra le dita, filo conduttore della vita dei protagonisti tra chi ha paura del tumore ai polmoni e chi ne accende una dietro l’altra, tra chi ha deciso di smettere e diventa insopportabile e chi per fumarne una perde l’esistenza. Novantadue minuti da passare con il sorriso soprattutto se visto in una nottata di merda… come esclamano i poliziotti…

Tre atti per tre grandi registi (Olmi, Kiarostami, Loach). Non un film a episodi, come tengono a sottolineare, ma una serie di incontri durante un viaggio in treno dal centro Europa a Roma. Riunire grandi artisti sembra un po’ la tendenza degli ultimi mesi (vedi Eros), ma anche stavolta ne esce fuori un prodotto politically correct, eccessivamente noioso e deludente, presentato fuori concorso all’ultimo Festival del Cinema di Berlino e sostenuto da un imponente battage pubblicitario che lascia, a posteriori, ancora di più con l’amaro in bocca. Come a dire che tre grandi maestri lavorino meglio se soli. Non credo tuttavia che il problema sia questo, bensì derivi da una vera e propria carenza narrativa, condita a tratti da eccessiva accademia. In un intrecciarsi di storie un uomo avanti con gli anni (Carlo Delle Piane) ripensa, seduto sul treno che lo riporta a casa, agli ultimi momenti trascorsi con la segretaria (Valeria Bruni Tedeschi). In una lettera che non scriverà mai prova a confidarle quanto sia strano, seppur tremendamente bello, innamorarsi da vecchi. Una famiglia di albanesi prosegue il viaggio sulla coincidenza per Roma. Sullo stesso treno troviamo una signora alquanto spocchiosa con un giovane obiettore di coscienza che finirà per abbandonarla e tre simpatici tifosi scozzesi in trasferta per la Champions League: la loro proverbiale sportività si renderà manifesta nell’aiutare quei poveri albanesi. Ed è proprio il tratto diretto da Loach il più riuscito, seguito da quello di Kiarostami (che spicca per un fine umorismo) e dispiace dirlo, per ultimo quello di Olmi, senz’altro il più disastroso. Nonostante alcune finezze, che tuttavia è lecito aspettarsi da questi grandi nomi il film non riesce mai a decollare e a giungere al cuore dell’argomento, che dovrebbe essere una riflessione a tratti entusiastica, a tratti di denuncia, sulla nuova Europa. Se a questo si aggiunge la delusione per tre autori che uno ama profondamente si capisce il perché non si può essere teneri con un lavoro che poteva senza dubbio offrire di più. I singoli stili sono ben riconoscibili e nonostante questo l’opera è nel complesso svogliata e manca di quella sceneggiatura che dovrebbe essere, a mio parere, base portante di ogni lavoro che si rispetti. Storie di emarginazioni e privilegi per un film “macedonia” che nulla aggiunge, e naturalmente nulla toglie, alla carriera di tre grandi maestri che si sono cimentati in questo esperimento tanto pericoloso quanto affascinante. C. Michele Pierri

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CoolClub.it Un tocco di zenzero Tassos Boulmetis Anni ‘60. Il piccolo Fanis con la sua famiglia è costretto a lasciare Istanbul e a trasferirsi ad Atene. Qui fatica a inserirsi e poco alla volta si chiude in un mondo in cui il cibo diventa una vera e propria ossessione.

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Kinsey e ora parliamo di sesso Bill Condon

Heimat 3 - Cronaca di un cambiamento epocale Edgar Reitz

Uno sguardo sulla vita di Alfred Kinsey, pioniere nella ricerca scientifica sulla sessualità umana, che nel 1948 pubblicò il libro, divenuto poi un best-seller, intitolato: “Il comportamento sessuale nel maschio umano”.

Terza capitolo della saga che segue le vicende del direttore d’orchestra Hermann Simon e la cantante Clarissa Lichtblau, dalla caduta del muro di Berlino ai giorni nostri.

Il resto di niente Antonietta De Lillo Il resto di niente è tratto dal romanzo di Enzo Striano. Al centro la figura di Eleonora Pimentel Fonseca. Intorno a lei si snodano le vicende della Rivoluzione Napoletana del ‘99, viste attraverso lo sguardo di una donna.

La vita è un miracolo Emir Kusturica

La nuova pellicola di Kusturica trova ambientazione nel 1992 in Bosnia, alla vigilia della guerra civile; attorno alle vicende di Luka, ingegnere serbo, si ricamano i cliché più cari al regista di Sarajevo. Si nota un vasto uso di allegorie e simbolismi che hanno per protagonisti degli animali: dopo il memorabile maiale divoratore d’auto in Gatto nero, gatto bianco, è la volta di un cane e di un gatto che rappresentano le due etnie in contrapposizione, il cui azzuffarsi trova pace solo quando Luka e Sabaha (infermiera musulmana) consentono all’amore di trionfare sulle barriere di età, nazionalità e religione; lo stesso amore è ben sublimato nella sua imprescindibilità da un’eccezionale asina che staziona sui binari in attesa di un treno che ponga fine alle sue pene sentimentali, poi decisiva per il lieto fine. Viene sottolineato l’eroismo della gente comune (la vita continua nonostante la guerra, e anche sotto i bombardamenti si continua imperterriti a giocare a scacchi), e il tutto è presentato in modo surreale e fellinianamente circense, grazie anche alla colonna sonora (forse inferiore ai tempi del sodalizio con Bregovic) che accompagna le usuali roboanti scene di festa.

Lemony Snicket Una serie di sfortunati eventi

Siamo stanchi di favole con belle addormentate, case di marzapane, ruscelli di cioccolato ed elfi colorati che canticchiano mentre vanno “a lavorar”. È tempo di favole dark, buie e nebbiose, di città oscure, di spiagge salmastre e laghi sinistri. È tempo di seguire le disgrazie che si abbattono senza tregua sui tre poveri orfanelli Baudelaire. Tra incendi misteriosi, serpenti terrificanti e sanguisughe assassine, in un mondo tetro a metà tra Dickens e “Nightmare before Christmas”, dove gli adulti sono meschini o semplicemente inerti e sprovveduti, la lotta è tra l’intelligenza di tre bambini e l’inarrestabile perfidia del cattivo di turno, il conte Olaf, attore scarso e pieno di sé, interpretato da un incontenibile Jim Carrey ritornato trasformista. Pieno di trovate e di particolari giusti al posto giusto, il film manca per certi versi nella sceneggiatura che rielabora tre avventure della fortunata serie di Lemony Snicket (fantomatico autore di libri per ragazzi) senza davvero chiarire e sciogliere tutti i nodi narrativi (ma la strada per il sequel è aperta). Prima di tornare alla realtà caramellata che tentano di propinarci, restate al cinema e guardate i titoli di coda.


Ogni Sabato Istanbul Café – Squinzano Dj CoolClub Danzerete con i dj CoolClub. Ska, reggae, lounge, anni 80, anni 60 e tutti gli altri anni: divertimento assicurato. Ingresso con consumazione (gratis Soci CoolClub). Inizio ore 23.00. Info 0832303707.

7/9 aprile Brindisi/San Pancrazio/Lecce Red Kid Arrivano dall’Irlanda con un carico di pop e rock i Red Kid. Tre serate nel Salento per presentare i loro brani. Il 7 appuntamento al Big Ben di Brindisi, l’8 all’Angelè di San Pancrazio Salentino, il 9 al Candle di Lecce. Info allo 0832303707.

8 aprile Cantieri Koreja – Lecce Uragani – Concerto d’attore

8 aprile Fondo Verri – Lecce Mäma

9 aprile Saletta della Cultura – Novoli (Le) Omaggio a Chet Baker e Jerry Mulligan

15/18 aprile Astragali Teatro – Lecce Il corpo minimo

La prima installazione itinerante della produzione creativa di manufatti di Mäma. Mäma nasce nel 2003 come esperienza creativa all’interno del progetto ArtLab. La mostra proseguirà sino al 20 aprile. Info Big Sur, immagini e visioni tel. 0832.346903.

La rassegna Tele e Ragnatele tributa un doveroso omaggio ai due artisti. Sul palco un quintetto composto da Aldo Bucci, Rossano Emili, Giuseppe Bassi, Beppe Brizzi, e Andrea Gargiulo. Ingresso 7 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3@virgilio.it

Astràgali Teatro e l’Associazione Culturale Nuovi Ingranaggi organizzano un laboratorio intensivo di teatro rivolto a giovani e studenti condotto dal regista teatrale Fabio Tolledi. Il 13 alle 21.00 si terrà la conferenza Il corpo e l’eretica del teatro. Per informazioni ed iscrizioni tel. 0832-306194, e mail astragali@libero.it.

15/16 aprile Cantieri Koreja – Lecce Il raglio dell’asino

16 aprile Saletta della Cultura – Novoli (Le) Ennio Rega

30 aprile Novoli Max Manfredi

Il raglio dell’asino si ispira all’opera di Dostoevskij e in particolare a L’idiota, Ingresso 10 euro (7). Info: tel.0832.242000 - info@teatrokoreja.com

“Le parole dell’inizio” è il titolo dello spettacolo. Sul palco con Rega Lutte Berg - chitarre e Matteo Di Francesco – percussioni. Ingresso 7 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3 @virgilio.it

Frabrizio De Andrè lo definì il migliore tra i giovani cantautori italiani. Genovese come il grande maestro Max Manfredi, scrittore, poeta, cantautore, è un artista eclettico. Ingresso 10 euro. Inizio ore 21.30. Info 347 0414709 – marioventura3 @virgilio.it

Un viaggio musicale nella Germania anni ‘30 attraverso ballate e canzoni scritte da Bertolt Brecht e musicate da Kurt Weill che ci trasportano nell’Europa del secolo scorso, nel periodo a cavallo delle due guerre. Ingresso 10 euro (7). Info: tel.0832.242000 - info@teatrokoreja.com


5/10 Aprile Festival del Cinema Europeo al Santalucia di Lecce Dal 5 al 10 aprile si svolge a Lecce presso il Cinema Santalucia la VI edizione del Festival del Cinema Europeo diretto da Alberto La Monica. In anteprima nazionale, dieci film europei concorrono al premio per il Miglior Film (che consiste nell’Ulivo d’oro e in 5.000 euro), assegnato da una Giuria internazionale presieduta in questa edizione da Gillo Pontecorvo (al quale sarà riservato un omaggio) e composta da Claudio Santamaria, Shaila Rubin, Irini Stathi e Andreas Schmidinger. Come ogni anni una sezione speciale è dedicata ad un protagonista del cinema italiano. Dopo Ugo Tognazzi, Giancarlo Giannini, Fabrizio Bentivoglio, quest’anno sarà protagonista a Lecce Virna Lisi, una fra le attrici più rappresentative del cinema italiano. Nel corso del Festival saranno presentati: La donna del giorno, Tenderly, La cicala, Buon Natale, Buon Anno, La regina Margot, Va’ dove ti porta il cuore. L’ospite della sezione dedicata ai grandi maestri del cinema europeo sarà il regista Edgar Reitz, del quale verrà proposto l’ultimo capitolo della sua gigantesca opera, Heimat 3. In questa sesta edizione, il Festival presenta inoltre “Emerging European Film-makers”, una rassegna dei vincitori del concorso di cortometraggi organizzato dall’Audiovisual Industry PromotionMifed (Mercato Internazionale del

7 aprile – cinema Private al Db d’Essai di Lecce 7 aprile - musica Offside al Jack N Jill di Cutrofiano (Le) 7 aprile – musica Folli tra fogli all’Ex Cnoss di Lecce 8 aprile – musica Dielettra e Burning sis al Transilvania di Lecce 9 aprile – Teatro Viva la vita ai Cantieri Koreja di Lecce 9 aprile - musica Cadabra alla Casa Dei Popoli di Molfetta (BA) 12 aprile – cinema L’inventore di favole al Cinema Santalucia di Lecce 14 aprile – cinema è più facile per un cammello… al Db

Cinema e del Multimediale) in collaborazione con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia. I lavori, realizzati da giovani registi emergenti provenienti da 25 paesi dell’Europa allargata, sono stati selezionati da una Giuria Internazionale composta dal grande attore olandese Rutger Hauer, dal giornalista e opinionista tedesco Patrick Vom Bruck, e dagli italiani Walter Vacchino (Presidente ANEC) e Pino Farinotti (scrittore e critico cinematografico). Sono inoltre previsti un convegno su Cinema europeo, quale identità? organizzato dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, una tavola rotonda su Scrittura e interpretazione tra cinema e televisione a cura dell’AIACE Nazionale, la rassegna Puglia Show, poco più di due ore dedicate alla proiezione di cortometraggi Pugliesi organizzate in collaborazione con Simona Toma e Giovanni De Blasi. Si terrà infine un seminario di letteratura e cinema: “Le nuove frontiere della narrazione. forme della rigenerazione del linguaggio critico e creativo nell’esperienza della nouvelle vague”. Le lezioni saranno tenute da Massimo Causo, critico cinematografico, Bianca Lotito, studiosa di cinema e letteratura, Simone Emiliani, coordinatore redazionale dell’Enciclopedia del Cinema Treccani, Ugo Primiceri, studioso di cinema e letteratura, Dedi Baroncelli, critico letterario e poeta e Domenica Elicio, coordinatore responsabile del seminario. Programma completo e informazioni su www.europecinefestival.org.

d’Essai di Lecce 15 aprile – musica Crifiu al Loenghrin Pub di Tricase 17 aprile – teatro Il gatto con gli stivali ai Cantieri Koreja di Lecce 19 aprile – cinema L’amore fatale al Cinema Santalucia – Lecce 19 aprile – musica Skaccomatto dj set al Chelonia di Lecce 21 aprile – cinema Fino a farti male al Db d’Essai di Lecce 22 aprile – teatro Per Ecuba_Amleto, neutro plurale ai Cantieri Koreja di Lecce 23 aprile - musica Apres la Classe e Crifiu a Poggiardo

23 aprile Giorgio Canali/Rossofuoco al Chlorò di Calimera 25/28 aprile – cinema Cuore Sacro al Db d’Essai di Lecce 25 aprile – musica Crifiu in Piazza Castello ad Andrano 26 aprile – cinema Se mi lasci ti cancello al Cinema Santalucia di Lecce 28 aprile - musica Diaframma e Cadabra a La Cantina di Gioia Del Colle (BA) 29 aprile - musica Diaframma e Cadabra al Xx Secolo Music Site di Carovigno (BR) 30 aprile - musica Diaframma e Cadabra alla Masseria Belmonte di Crispiano (TA) 30 aprile - musica Folkabbestia a Trepuzzi (LE) 30 aprile – teatro Pinocchio ai Cantieri Koreja di Lecce


KILL CoolCl CoolClub ub.it CLUB VOLUME 1

LA PAGINA DEI DISCHI La parola stampata comporta responsabilità che solo la follia riscatta, con la paura e il sangue di chi le ha scritte.

WRITTEN BY DANIELE ROLLO La fortuna mi è amica, se qualcuno legge questa storia. Tra pochi minuti porterò il cd in tipografia, e verranno stampate le copie di questo, ultimo, Cool Club. Poi forse sarò arrestato. Perché Lala è morto, tutti sono morti e al 42 di via de Jacobis in questo momento si sente solo il ticchettio della tastiera. Scrivo il mio ultimo pezzo per raccontare come sono andate le cose: intorno a questa scrivania il pavimento è un lago di sangue. Quando sono arrivato in redazione, due ore fa, ho trovato Lala solo al suo computer. Dico: «Lala, maledetti!» «Cosa?». Lo raggiungo e gli affondo le dita nella spalla, si contorce lievemente. Scopro che sta giocando con il solitario di Windows. «Maledetti capitalisti, non avete ancora installato Linux!» «Cosa vuoi?» dice Lala, risentito per l’interruzione inopportuna. «Mi dovete quaranta euro, bastardi: Italian playboys Link Quartet» «Eeeh?» quel suo eeeh! prolungato mi fa venire il vomito. «Tekitoi! Rachid Taha!» «Eeeeh?» ripete spostando il dieci di picche sotto il Jec di cuori. «Senti Lala: ho comprato questi due dischi, e voglio indietro i miei soldi» «Tu sei pazzo» Lancio i cd del Link quartet e di Rachid Taha sulla scrivania. «Li ho comprati, ho speso quaranta euro, perché me li avete consigliati voi sullo scorso numero, stavano nella pagina dei dischi. Mi avete fottuto» sto urlando «mi avete fottuto Lala, rivoglio i miei soldi. Vuoi ascoltarli? Scommetto che non li hai nemmeno ascoltati prima di scrivere quelle recensioni!» «Senti, Rollo, perché non te ne vai?»

«Ok. Non volevo arrivare a questo» appoggio lo zainetto che sulla scrivania emette un rumore semi-metallico ed estraggo la mitraglietta. «Cazzo!» fa Lala. La mitraglietta punta proprio verso i suoi occhiali. Dalla finestra s’infila una luce obliqua color zucca. Lala sta tremando come un bambino. «Non aver paura Lala. Voglio solo i miei soldi». Mi porge il portafoglio, ci sono solo dieci euro. «Non bastano, bastardo. Perché consigliate questi dischi?» «Le ha scritte Postman Ultrachic quelle recensioni». Con una mitraglietta automatica Volnus K9 puntata in fronte non mi dice più che me ne devo andare. Suda freddo e basta. «Chiamalo. Digli di venire. E non fare cazzate». Esegue. Compone il numero e dice a P.U. di sbrigarsi, che è urgente, che deve correre qui. Dallo zaino estraggo le catene ed i lucchetti. In tre minuti Lala è incatenato alla sedia. Rumori all’ingresso: qualcuno sta aprendo la porta. Chiedo a Lala se P.U. ha le chiavi. Risponde no. Punto la mitraglia verso la porta. Entra Piliego. «Stai calmo Piliego. Stai molto calmo». Piliego è immobilizzato sulla soglia. Non riesce a dire una parola. «Avanza molto lentamente». Lo faccio accomodare ad un’altra sedia ed incateno anche lui. A questo punto chiede cosa succede. «Aspettiamo P.U. Voialtri mi dovete ancora dei soldi. Per quei cd. Lala, spiegaglielo tu» Sento che racconta la storia delle recensioni. Sento che mi credono pazzo. Sento che la mano sinistra trema. La destra no, per il peso della Volnus. «Senti, Piliego. Devi dirmi qualcosa? Aspettiamo visite?» «No. No. Penso di no». «Pensi?»

«No. Non aspettiamo visite» «State calmi, adesso arriva Postman e chiariamo tutta questa faccenda» «Se vuoi i soldi, li avrai Rollo, non è necessario…» Alzo la Volnus chiedendo «Cosa? Cosa non è necessario?», ma molto saggiamente tace, tutto incatenato accanto al collega. Vado a sedermi al computer di Lala con la Volnus sulle gambe e continuo il solitario lasciato a metà. Per dieci minuti c’è solo silenzio, interrotto dai clacson e da qualche click del mouse. Poi l’applauso di Windows: il solitario è riuscito. A quel punto suona il citofono. Rispondo. Quando Postman entra, vestito di tuttopunto come al solito, sono di nuovo al computer con la Volnus sulle gambe. Non voglio intimorirlo, ma alla vista dei due amici incatenati sbraita verso di me: «Che cazzo sta succedendo qui?» «Non è molto chic da parte tua» «Tu chi cazzo sei?» poi si volta senza aspettare una risposta e comincia ad armeggiare con le catene. Ora mi trema anche la mano destra che tiene il mouse, mentre cerco di chiudere la finestra del solitario appena vinto. Impugno la Volnus. E’ solida. «Fermo Postmam». Si gira ed effettivamente si paralizza. E poi… Poi sento che dal mio dito parte una pressione sul grilletto, ed un innocua roboante raffica di pallottole scalfisce il soffitto di via De Jacobis. Dopo, un silenzio tombale. «Neanche con te le buone maniere servono a qualcosa Postman. Sgancia il portafoglio e siediti lì». Incateno anche lui e raccolgo il portafoglio. Ventisette euro. Ne mancano tre. «Ne mancano ancora tre…»

sussurro in faccia a Piliego. Sono tutti e tre seduti, incatenati l’uno affianco all’altro. «Puoi fare qualcosa?» «Cazzo! Non ho niente». Un vero peccato. Mi siedo, sempre al posto di Lala. Sto cominciando a raccontare daccapo tutta la storia a Postman, ma Piliego interviene: «Puoi prenderti il Fax!». Fa sempre più freddo, e contemporaneamente sudo, il tremore ha sconfitto anche la mano con la pesante Volnus K9. Però mi concentro: il fax, una buona idea… E proprio ora entra un tale che non ho mai visto prima, Postman ha lasciato la porta aperta, «Cicci!» gridano tutti e tre. Scatto in piedi e urlo «Cazzo! non aspettiamo nessuno! Cazzo! Non sei stato invitato». Il dito col grilletto fa tutto da sé, parte una scarica di colpi che , tà-tà-tà-tà-tà, disegna uno zigzag sullo sfondo: in primo piano c’è il povero Cicci, crivellato. Subito dopo è steso pancia in giù. «Avevamo detto niente sorprese! Perché non avete installato Linux! Perché volete fottermi? Tekitoi! Tekitoi!». E poi, il fracasso. Tà-tà-tà-tà-tà-tà. Vetri in pezzi, computer in pezzi, la fotocopiatrice rincula di venti trenta quaranta cm, il telefono sobbalza, pezzi di intonaco saltano via e, quindi, al ritmo della Volnus i corpi di quei tre ladri si torcono e ballano come marionette impazzite. Quando il dito rilascia il grilletto sono belli e fatti. Perdono ettolitri di sangue da ogni forellino. E il sangue si mischia a quello di Cicci. Prima di uscire devo ricordarmi di frugare nelle sue tasche, per quei tre euro. Ora sono di nuovo seduto, il pc di Lala è illeso, finirò il mio resoconto e via in gran fretta, al tipografo. Le mani non tremano più.

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CoolClub.it

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KILL CLUB VOLUME 2

POCHE PAROLE DALLA PRIMA PENNA Dove una piccola disattenzione può portare a conseguenze ben gravi e dove le azioni contano più delle parole.

WRITTEN BY DARIO GOFFREDO C’è il sole a Lecce stamattina, e decido di camminare un po’ dal mio ufficio alla sede di coolclub. Sono circa dieci minuti a piedi e alla mia schiena fa decisamente bene se cammino un po’. L’uomo moderno soffre di mal di schiena a causa dell’eccessiva comodità diffusa: divani, sedili di automobili, poltrone imbottite danno solo l’idea che la nostra schiena stia meglio. In realtà la minano piano e dall’interno. Cammino piano, mi guardo intorno, sono rilassato, ma nell’aria c’è qualcosa di strano, i vetri dei palazzi riflettono il sole, è primavera, le ragazze cominciano a spogliarsi, gli uomini cominciano a guardarle. Un tipo col cane si ferma al centro del viale perché al suo cane gli scappa proprio lì. Clacson. Il cane non si smuove. Bestemmie. Il cane non si muove. Un camionista scende dal camion. Il cane si muove. Al semaforo c’è un gran caos, una vigilessa cerca di mettere un po’ d’ordine ma ottiene il solo risultato di peggiorare le cose. Un autobus di linea si incastra con lo specchietto di una autobus urbano. Il traffico impazzisce del tutto. Clacson, bestemmie, qualcuno prova a schiaffeggiare la vigilessa, qualcuno lo ferma, la vigilessa chiede aiuto alla radio. In via de jacobis c’è silenzio. Ma non è un bel silenzio. Un silenzio teso, mi sento un po’ meno rilassato. Da lontano vedo Cicci che entra nel portone della ex scuola elementare dove c’è la sede della cooperativa. Dopo un po’ un frastuono infernale, appena attenuato dalla distanza giunge alle mie orecchie. Sembrano scariche di mitra, urla, di nuovo scariche di mitra. Mi fermo. Ho paura, ma so che qualcosa va fatto, e

so che devo farlo io. Non so che cosa sia successo esattamente all’interno dei due vani senza accessori che ospitano gli uffici e la redazione del giornale, ma ho paura. Riprendo a camminare. Porto la mano alla tasca della giacca di velluto nero. La mia penna laser è lì. La stringo tra le dita, la trovo rassicurante. Allungo il passo. Intorno a me nessuno sembra aver sentito quello che ho sentito io. Il tabaccaio è sulla porta e guarda gli uccelli, non gli sembra strano per nulla che si siano levati in volo tutti insieme e all’improvviso. La ragazza della salumeria non la vedo da qui. Non l’ho mai vista, io. Prendo il telefonino, compongo il numero. Suona libero, ma non risponde nessuno. Ormai sono vicino e il silenzio che proviene dall’interno è di morte. Vedo Daniele Rollo, uno che ha collaborato con noi qualche volta, che esce velocemente dal portone, ha uno zaino in spalla che sembra piuttosto pesante e un cd in mano. Lo saluto, ma non mi vede e non mi sente, entra in macchina, parte a razzo, quasi mi investe, ma non mi vede. Entro nel portone e un odore pungente mi prende le narici. Odore di botti di natale misto a qualcosa di più dolciastro, nauseabondo. Spingo la porta aperta dell’ufficio e mi trovo di fronte a uno spettacolo raccapricciante: il collage da muro preparato da Osvaldo e Cicci due anni prima, quando hanno messo su le loro stanze, è completamente in brandelli. Tutto bucato e strappato e a terra, a terra, in un lago di sangue, i corpi senza vita di Osvaldo, Pierpaolo, Cicci e Luca. Ho un conato di vomito, non riesco a trattenerlo e vomito nel cestino della carta straccia. Poi prendo il

telefonino e chiamo il 113. “È un casino, balbetto, è successo un casino, aiuto!” Poi l’occhio mi cade sul pc portatile di Pierpaolo, l’unica cosa rimasta intatta nella stanza. C’è un documento word aperto, mi avvicino, lo leggo. È la confessione scritta di una strage, firmata da Daniele Rollo, quello che ho visto uscire di corsa poco fa. Dice che deve portare il cd del giornale in tipografia. Telefono subito in tipografia. “Pronto?” è Cosimo, il nostro tipografo. “Cosimo, sono Dario, ascoltami bene: sta venendo da te un tipo con il cd del giornale. Cerca di trattenerlo il più a lungo possibile, inventati qualcosa, io sto venendo subito. Mi raccomando non farlo andare via prima che io sia arrivato. Ciao”. Riattacco. Raccolgo le chiavi del Doblò di Cicci, le pulisco un po’ e mi precipito fuori. LecceCopertino all’ora di punta ci vuole circa mezz’ora, ma se corro ce la posso fare in meno. Mentre guido ogni tanto porto la mano alla mia penna laser. Qualcosa va fatto. Finalmente arrivo alla rotonda sulla San Pietro-Copertino, prendo la direzione Monteroni, cento metri e sono in tipografia, vedo già l’insegna, Tipografica Desa. Quando entro nel parcheggio vedo Daniele che esce quasi di corsa. Quando mi vede ha un lampo strano negli occhi, vedo la sua mano che trema. “Daniele!” lo chiamo. “ Che vuoi? “ mi fa lui aggressivo. Mi accorgo che dietro di lui è uscito anche Cosimo, cerco di dirgli di rientrare ma è troppo tardi, Daniele si è tolto lo zainetto dalla spalla, in un baleno ha estratto una mitraglietta e ora è lì che si fa scudo con Cosimo puntandogli

contro l’arma. “Bastardo!” mi dice “mi ero dimenticato di te. Tu sei Goffredo, quello che censura. Perché non censuri le recensioni dei dischi di merda invece di censurare la gente per bene come me?” “Daniele stai calmo, non peggiorare le cose” “Le cose possono peggiorare solo per te mio caro stronzo”, mi fa lui. E prima ancora di finire di parlare ha aperto il fuoco. Cosimo viene scaraventato lontano, il suo corpo è privo di resistenza, sembra una bambolina di pezza. Io riesco a lanciarmi dietro al Doblò che mi offre un valido riparo. Daniele spara all’impazzata. Tutto ciò che viene colpito dalla sua furia va in pezzi. Schegge di lamiera mi feriscono a una gamba. Mi salgono agli occhi lacrime di dolore, la vista mi si annebbia, ma il pensiero si schiarisce: qualcosa va fatto. Afferro la mia penna laser. Aspetto un momento in cui Daniele rallenta la sua furia distruttiva, forse pensa che sia morto anch’io. Esco allo scoperto con un tuffo, la mia schiena non mi accompagna, l’ernia stride, le gambe mi cedono, Daniele mi vede e ha un balzo, mi punta contro la mitraglietta, è tutto velocissimo, schiaccio il bottoncino della mia penna e la punto contro i suoi occhi. Rimane completamente accecato. Con un salto gli sono addosso, riesco a togliergli la mitraglietta dalla mani. Potrei ammazzarlo come ha fatto lui con i miei amici, come ha cercato di fare con il giornale. Lo guardo in faccia e gli dico: “Hai sbagliato a dimenticarti della prima penna di coolclub”. Sarà la polizia a occuparsi di lui, io non ho il tempo per andare in galera per colpa sua.


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