Coolclub.it n.35 (Marzo 2007)

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anno IV numero 35 marzo 2007

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Io, il 77 l’ho visto attraverso la matita di Andrea Pazienza, le foto di Tano D’Amico, l’ho letto nelle pagine di Marco Philopat e l’ho ascoltato in una marea di dischi. L’ho sentito urlare, piangere, cantare, io l’ho vissuto così. Perché io nel 77 non ero ancora nato. Eppure il 77 in un certo qual modo fa parte di me, qualcosa è rimasto. Come l’adolescenza, un po’ come la cruciale soluzione di conflitto generazionale storico. Oggi, a trent’anni di distanza c’è qualcosa nell’aria che rende questo compleanno stranamente attuale. Noi, come quasi tutti del resto, non abbiamo potuto esimerci dall’omaggiarlo. Avevamo pensato di farlo non parlando di musica, ma alla fine è stato impossibile. E abbiamo scoperto che esistono tanti 77, tante idee intorno all’argomento che non basterebbe un libro a contenerle. Motivo per cui le pubblicazioni si sprecano, gli speciali, gli extra-qualcosa. Noi abbiamo cercato un taglio aperto al ricordo e uno sguardo che andasse un po’ oltre quello che è il comune pensare sull’argomento. Non siamo un giornale “impegnato”, chi ci conosce lo sa, ma abbiamo idee e la convinzione che la nostra non sia e non debba essere una Blank generation, una generazione vuota: le firme, la vivacità delle penne che affollano queste pagine ne sono la dimostrazione. Questo giornale è in fondo figlio di un modo di pensare l’editoria sviluppatosi in quegli anni. Quindi Coolclub.it ringrazia il 77 dedicandogli questo numero. Una serie di interventi, interviste e riflessioni per raccontare un anno, senza scaletta, legati da un filo emotivo. Dischi freschi di stampa come ogni mese, libri al bacio, film in sala consigliati da noi. Il ritorno dei Verdena, dei Tre allegri ragazzi morti, quello di Ozpetek. Mentre in Tv va Sanremo nel mio stereo va il nuovo di Lcd soundsystem ed è ufficialmente il compleanno di Coolclub.it. Il giornale compie quattro anni. E pensare che il mio primo editoriale era dedicato a Bobby Solo e Little Tony (quell’anno insieme a Sanremo): non ci avrei mai creduto. Buona lettura Osvaldo Piliego

CoolClub.it Via De Jacobis 42 73100 Lecce Telefono: 0832303707 e-mail: redazione@coolclub.it Sito: www.coolclub.it Anno 4 Numero 35 marzo 2007 Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844 Direttore responsabile Osvaldo Piliego Collettivo redazionale Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, C. Michele Pierri, Cesare Liaci, Antonietta Rosato Hanno collaborato a questo numero: Mauro Marino, Giuseppe Scarciglia, Michele Frascaro, Andrea Rapini, Berardino Amenduni, Valentina Cataldo, Camillo Fasulo, Livio Polini, Federico Baglivi, Gennaro Azzolini, Nicola Pace, Giovanni Ottini, Gianpaolo Chiriacò, Ilario Galati, Elena Cipresso, Antonio Iovane, Fulvio Totaro, Davide Rufini, Claudia Attimonelli, Silvestro Ferrara, Anna Puricella, Valentina Sansò, Silvia Visconti, Rossano Astremo, Sabrina Manna, Roberto Cesano. Ringraziamo le redazioni di Blackmailmag.com, Primavera Radio di Taranto e Lecce, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, QuiSalento, Pugliadinotte.net, Rete Otto e Supertele. Progetto grafico dario Impaginazione Danilo Scalera Mago Pancione Stampa Martano Editrice - Lecce Chiuso senza conoscere il vincitore di Sanremo Per inserzioni pubblicitarie Pierpaolo Lala 3394313397

4 Dancing Queen vs God save the Queen

9 Luca Telese

6 Io e il ‘70

11 è davvero esistito il 77? 13 Keep Cool

23 T.A.R.M.

27 Coolibrì

39 Appuntamenti

24 Verdena

33 Be Cool

46 Fumetto

35 Ferzan Ozpetek

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Assioma musicale legato al 1977 è senza dubbio il Punk. Niente di più sbagliato, o meglio, limitato. Il ’77 è solo un’espressione, anche tardiva, del punk (le sue origini vanno cercate molti anni prima negli Stati Uniti); sicuramente una serie di fattori, soprattutto mediatici, lo hanno indissolubilmente legato alla figura dei Sex Pistols. Il ’77 è un anno in cui la musica sembra di fronte ad una scelta. Sarà perché nel ’77 muore Elvis Presley, e con lui simbolicamente svanisce un certo modo di intendere la musica e il rock, sarà perché il clima sociale suscita nei giovani reazioni diverse e contrastanti, sarà perché si verifica una sorta di regressione ideologica o un indirizzarsi su altri argomenti. In un periodo di profonda rinascita per la musica, accanto al nichilismo tipico del punk, si fanno avanti ed emergono altri suoni, segno di un sentire diverso un determinato e delicato momento storico. Il boom economico degli anni ’60 ha lasciato il posto a un momento di grande depressione, e non solo economica. Questo provoca una caduta dei sogni e degli ideali del decennio precedente e apre le porte a un mondo musicale che rifiuta l’estetica del passato per cercarne una nuova e più diretta. Si regredisce così a forme più primitive del rock (vedi il punk) o ancora si cerca una strada che sia emotivamente specchio di una depressione generazionale diffusa: la “blank generation”, una generazione vuota. E poi i primi germi della new wave, il reggae, la disco music e tanto altro. Ecco che accanto al fondamentale Never

Mind The Bollocks, ovviamente dei Sex Pistols, l’anno ci regala una serie di pietre miliari che non si possono dimenticare. Il ’77 è l’anno di un disco che meglio di tutti dipinge un altro modo di concepire il rock, un disco che ha fatto tesoro dell’insegnamento dei Velvet Undergound affiancando alla musica suonata una sua accezione più alta e artistica. Il disco è Marquee Moon dei Television. Il leader della band Tom Verlaine è la reincarnazione (e il nome d’arte ne è la prova) di una poetica decadente urbana (perfetta rappresentazione della “blank generation”). Dentro questo disco c’è il punk, ma anche il blues, il free jazz, il folk. È musica nervosa, ipnotica, desolante che tanto rappresentava il lato oscuro di quegli anni e molto anticipava di quello che avrebbero alcuni gruppi della new wave dopo. Un disco fuori per certi versi dai canoni musicali che lo circondavamo ma intriso dei sentimenti del periodo. Accanto a loro David Byrne e i Talking Heads pubblicavano 77 che contiene l’inno generazionale Psycho Killer. Nel frattempo a Berlino David Bowie, smessi i panni glam, affiancato da Brian Eno è alla scoperta di nuove frontiere, del futuro. il suo Heroes è stravolgente per i tempi, è suggestionato e allo stesso tempo suggestiona il krautrock. L’elettronica disumanizza la musica e diventa messaggio quasi un monito alla perdita di personalità, alla sopraffazione della tecnologia sull’uomo. Sempre del 1977 è Trans Europe express dei tedeschi Kraftwerk padri di questo percorso intrapreso anche


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dal “nuovo” Bowie. Un viaggio in cui l’uomo quasi scompare per diventare macchina, industria, in cui la melodia si affianca all’ossessione del ritmo e della velocità. Algidi e sovversivi padri del ritmo melodico e della melodia meccanica. Un altro disco che in modo diverso dipinge quest’anno è sicuramente Animals dei Pink Floyd ispirato da Orwell (La fattoria degli animali), un disco critico, cattivo, paranoico, che segna il passaggio prima dell’arrivo al grande The Wall. Tutt’altro messaggio veniva dalla Giamaica e da colui che, in pochissimo tempo, divenne la voce di un popolo, del suo riscatto. Parliamo di Bob Marley, l’uomo che portò il reggae al successo planetario e di Exodus disco che contiene brani come Jammin’ e One Love/People get ready. Accanto alla rabbia, al decadentismo, all’alienazione e all’impegno un altro sentimento animava quel sentimento: il disimpegno. Mentre i Sex Pistols attentavano e oltraggiavano l’immagine della regina d’inghilterra in God save the Queen gli Abba la facevano ballare in Dancing Queen. Il gruppo svedese pubblicava The Album in cui svettava la bellissima Take a chance on me. Mentre la disco music invadeva le classifiche nelle sale usciva La febbre del sabato sera con il quasi sconosciuto John Travolta e le musiche dei Bee Gees. La disco music era la via di fuga per chi voleva dimenticarsi delle proprie origini, di tutto quello che lo circondava e immergersi in un mondo fatto di glitter, fashion, danza, sesso. Solo pochi esempi, uno sguardo più ampio a un anno bellissimo in cui usciva il primo disco solista di Iggy Pop, si formavano i Police, i Ramones pubblicavano due dischi, Ian Curtis entrava a far parte dei Joy Division, in cui ancora non ero nato e ancora oggi mi pento di non aver avuto vent’anni. Osvaldo Piliego

Il 1977 è stato per le arti visive una specie di spartiacque tra tutte le correnti artistiche degli anni sessanta (pop art, new dada, arte concettuale ecc.) e quello che verrà nei primi ottanta (transavanguardia in Italia, neoespressionismo in Germania e graffitiamo negli Stati Uniti). Intanto nel 1977 Andy Warhol accresceva il suo conto in banca ritraendo i grandi “porci” della Terra con i suoi Vanity Portraits. Negli States imperava l’arte iperrealista (o fotorealistica) con artisti del calibro di Chuck Close e Duane Hanson. A Firenze in questi anni sorgeva Art/Tapes/22, diretto da Maria Gloria Bicocchi, dove lavorò dal ’74 al ’76 una figura come Bill Viola. In Europa come in Italia si sentivano gli ultimi vagiti della Body Art e della poesia visiva. Proprio su queste due correnti sii focalizza l’estetica Punk inglese. Da una parte parti del corpo trafitte da piercing e spille da balia, care a performer della body art come Sterlarc, a i collage-decollage molto usate nella grafica punk di Jamie Reid, una riproposizione dei “Merz Collage” di Kurt Schwitters. “Repulsione” era la risposta all’ambiente sociale inglese dei lavori grafici di Jamie Reid dei Sex Pistols. Il disegno più potente che mostrava meglio la sua inquietudine fu realizzato durante le celebrazioni del Giubileo nel 1977, ed era una fotografia della Regina deturpata da una scritta realizzata con lettere ritagliate ed una spilla da balia che le trapassava il labbro riprodotte su poster e sulla copertina del 45 giri dei Sex Pistols God Save the Queen. Utilizzando lo stile agitprop che aveva perfezionato negli anni precedenti, Reid parlava per e a una generazione che aveva fatto del singolo dei Sex Pistols il più venduto nella settimana del Giubileo. La censura delle radio fece scoprire che c’era un’altra Britannia, la cui esistenza veniva formalmente riconosciuta. La copertina era più un grido che un quadro: poteva

essere molto grezza (certamente Artwork violento?), questa riutilizzazione di un prodotto già esistente che poteva essere presa come un modello di ispirazione. Lo era perché rappresentava un messaggio diretto a tanta gente che per anni è stata costretta al silenzio quando tutti volevano soltanto urlare. Il Punk è stato preso seriamente quando gli uomini del marketing e dei mass-media hanno fiutato l’affare musicale, vista la sua grande forza di identificazione, ma Jamie rimaneva continuamente ai margini e in guerra con l’industria discografica. Provocando sconcerto nelle case, nelle scuole e nelle città, l’immagine Punk è esplosa su mille giubbotti di cuoio in migliaia di città diverse, e ha cominciato a divenire uno stile di vita. Ha dimostrato la potenza del disegno dei grafici all’industria della musica e ha aperto la porta a una generazione nuova di disegnatori britannici, i cui scopi erano diversi da Jamie. Hanno usato la libertà creativa dell’industria musicale come una vetrina di lavori emotivamente forti, non mutilati da compromessi sociali. La loro influenza si è diffusa dalla musica alla moda, dai mass-madia fino a condizionare il consumatore. Politicamente, il punk è stato un singhiozzo rivoluzionario nel clima reazionario inglese. Nel periodo in cui il Punk passava attraverso lo spettro del marketing dalla A alla Z nuovo, Jamie è rimasto a distanza dal mondo commerciale, solamente una breve apparizione con un suo manifesto dal titolo Lettera a Brezhnev, collaborando con Frank e Margi Clarke. Negli anni 70 il veicolo erano i Sex pistols e Jamie poteva nascondersi dietro ai suoi disegni. Ma lo slogan che ha concepito per un poster “Ognuno può essere i Sex Pistols” ha anche voluto dire per lui che il prossimo lavoro era più di un affermazione delle sue ispirazioni (da Up the Rise, catalogo della mostra di J. Reid). Giuseppe Scarciglia


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Lecce1977. C’era ‘Popof’di Carlo Massarini e Massimo Villa alla radio e io chiuso in macchina mi sintonizzavo per ascoltare musica e i ‘gr’ che dicevano gli scontri e le vittime di quei giorni di piombo. Erano i ‘settanta’ e qui, nell’estremo sud-est le cose arrivavano di lato, come una botta al fianco. Sospiravo passioni ed incazzature. I primi erano già in giro a Firenze, a Bologna, a Roma da poco universitari e poi Lecce non è mai stata veramente città ai margini e, in quegli anni, la tensione salì anche qui. Città universitaria con un buon movimento studentesco nei licei e negli istituti tecnici viveva la sua bagarre politica con frequenti confronti tra parti. “Fascisti e comunisti” era una battaglia che animava le serate di nutriti gruppi di giovani che si davano da fare crescendo, un tempo di aggregazioni, di lotte, di amori. Disegnando destini. L’ala creativa coltivava le sue utopie: fanzine, gruppi musicali, tentativi di teatro nutrivano l’illusione postpolitica. C’erano linfa e talenti e tutto sembrava poter fiorire, al riparo da tensioni e insane radicalizzazioni militari. La stessa autonomia ‘operaia’ era una frangia che, nei riguardi della tenuta militare delle fazioni ‘marx-leniniste’ e alla verve ideologica e pragmatica dei gruppi della nuova sinistra’, appariva più come una gioiosa confraternita post-hippie. La Chiesa Greca era divenuta in quegli anni il ‘quadrato’ delle esperienze di radicalizzazione politica. Autonomia aveva il suo palazzo occupato, e il Movimento Lavoratori per il Socialismo il suo fortino. Il primo ricordo è una vespetta verde con due a bordo che trasportavano una grande bandiera rossa, avevo undici anni, ed era il 1967, il mio ingresso nella scuola media, diventavo ragazzo. Avrei avuto ventuno anni nel settantasette, e il mio crescere è tutto racchiuso in quei dieci anni di travagli esistenziali, di avventure, di clamori che hanno mischiato la vita. Negli occhi il ‘movimento’ o più che altro il continuo

muoversi delle cose. Ma più di tutto, se mi racconto vengono persone a cui ho prestato fede. Sempre mi sono lasciato accompagnare nel desiderio di costruire in libertà il percorso, per dar forma alla mia visione della pratica creativa e della poesia. Agire nell’attenzione, nel presente, per meglio cogliere l’ attitudine al volo, alla planata, allo sfiorare la lingua, l’espressione, le sue modalità, per meglio comprenderla negli altri, nel suo mostrarsi, dichiararsi. Nei poeti come nel largo dell’arte, della creatività, del fare propositivo, costruttivo e capace di prefigurare, non solo opere, ma sempre, una differente qualità della vita, delle relazioni e dello stare a vivere. Questo l’insegnamento post-politico degli anni settanta per chi come me di quell’epoca e a lungo poi, è stato “pubblico”, testimone, con gli occhi aperti a guardare e a nutrirmi. Dicevo guide: legami, molto spesso vissuti in ascolto, a cogliere con lo sguardo, provando in un apprendimento sempre artigiano, da bottega. Prima “i più grandi” nella adolescente vita di strada. Biciclette, corse in campagna, incursioni notturne nei caseggiati in costruzione della prima periferia leccese, che costruiva la sua circonvallazione in un epoca di ‘battaglie’ man mano divenute politiche. E’ stata la politica l’elemento chiave di quella socializzazione. Non capivo, ma percepivo che l’idealità non era nello stato delle cose, bisognava cercar altro, tentare altro, anche quando molti anni dopo, ho scelto il teatro, la fascinazione artistica, la poesia. Tutto s’è mescolato nella politica, da quella stagione di formazione vissuta per strada. Prima fascista son stato. Subito appena in strada, fascisti erano i miei pari, anche se da qualche parte filtrava l’infatuatuazione per i primi ascolti musicali ‘impegnati’: Beatles, Jimi Hendrix, Cream, la pscichedelia americana. Chiusi in una stanza a divagare di hippy, delle gioie di Woodstock, imparavamo ad aggiustare il


CoolClub.it Un movimento, intanto, esiste. Non è un problema se non riuscite ad attribuirgli le giuste dimensioni o le opportune etichette; se non riuscite a trovare la sede unica di questo soggetto; se è difficile ridurre le tante idee presenti in un unico pensiero. Quando serve, un movimento c’è. La lotta dei cittadini di Scanzano Jonico per difendere il proprio territorio dalle scorie nucleari, lo sciopero a oltranza degli operai di Melfi o la protesta delle famiglie di Termini Imerese per difendere il lavoro, rappresentano dei fatti assolutamente straordinari all’interno del panorama politico e sociale italiano. Non un movimento politico, non solo. I cittadini della Val di Susa, o i duecentomila di Vicenza non rappresentano una forma di opposizione ideale alla politica del governo. Non solo. Sono fatti che parlano di una voglia di partecipare da parte dei cittadini e, insieme, di un deficit di rappresentanza. I partiti non sono più il tramite, il collante tra le istanze della gente e i diversi livelli istituzionali: c’è troppa distanza e, spesso, una forte autoreferenzialità. Ma, c’è dell’altro: le posizioni che il movimento assume sui vari temi sono così radicali (nei contenuti) che non riescono più a trovare una sponda limpida e sicura all’interno del dibattito politico, troppo preoccupato nel mantenere equilibri e interessi intatti. Da qualunque parte. Dal livello nazionale a quello locale. Non può destare meraviglia che un movimento contro la guerra si opponga alla costruzione di una base militare, o protesti perché in Italia le spese militari continuano ad aumentare. Si è per la pace, come scelta politica, non per slogan. Se i Cpt sono non luoghi vanno chiusi, non si possono superare. A danno dei migranti. Se la legge 30 ha moltiplicato la precarietà, ad ogni livello, va abrogata, non può essere superata. A danno dei lavoratori. Le rivendicazioni del movimento non possono essere ricondotte ad un’esibizione folcloristica, da relegare in spazi ben

tiro al desiderio. Era lo spirito del tempo che iniziava a dettare le regole di un divenire globalizzato che, con gli anni del boom economico (i magnifici ‘sessanta’ della dolce vita e delle cambiali) attraverso le merci ed i consumi, aveva iniziato a rodere la distanza tra centro e provincia. Tra i fasci di guide ce n’erano, ‘arditi’ più che altro, ma non buoni maestri. L’idealismo mischiato alla nostalgia, aveva un che di macabro, nessuna energia mutante, solo atti più o meno valorosi per temprare, per far ragazzi coraggiosi, assalti ai rossi e presidi alle sedi. L’ultimo atto d’una guerra civile ancora non digerita che aveva i suoi scampoli tra i giovanotti schierati: fascisti e comunisti, ma anche poi, strategie terribili attentati, bombe, scontri, grande tensione. Piazza Fontana per me è la leva di consapevolezza e la scoperta d’un altro agire, fare, credere. Da solo però, a guardare, per molti anni nel movimento da outsider e poi nella “follia intellettuale” del PdUP (Partito di Unità Proletaria per il Comunismo) con tante buone guide, di pensiero, di riflessione, persone che ancora stimo: Elettra Ingravallo, Piero Fumarola, Franco Ungaro, Chino Salento, Gigi Perrone. Da qui la mia sociologia (Urbino nel 1978), la scelta di studiare elaborando tra teorie e pratiche una mia idea del lavoro culturale. Mi piacquero subito degli studi di sociologia sud-americana. Il sociologo militante,

protetti. Al contrario r a p p r e s e n t a n o u n ’ a u t e n t i c a piattaforma di un programma di governo, e che trova serie difficoltà ad essere attuato da chi si è proposto come referente politico del movimento stesso. Sono idee che stanno alla base di un progetto di società diversa, sono quelle idee che, a livello globale, ti fanno parlare di un altro mondo possibile. Ma, attenzione: perché anche il movimento rischia seriamente di fallire la propria missione, e questo è bene dirselo. Senza andare lontano, l’ultimo appuntamento di Nairobi ha smascherato, ove ancora ce ne fosse bisogno, quanto stia diventando elitario e borghese, il movimento: e, d’altronde in Africa non sarebbe potuta andare diversamente. Biglietti d’ingresso al forum troppo costosi per i poveri, l’acqua venduta in bottiglie di plastica, il cibo troppo costoso in una terra dove migliaia di bambini muoiono di fame. E poi, i nostri delegati della Tavola della pace, delle amministrazioni locali, alloggiati in lussuosi alberghi a cinque stelle, in compagnia di ogni tipo di prelibatezza. C’è da pensare, se si vuole costruire nei fatti e non solo con gli slogan, un altro mondo possibile. C’è poco ancora da analizzare, lo si è fatto ormai per troppo tempo; è ora che il movimento progetti interventi concreti e azioni precise, per non rimanere vittime di illusioni. Tutti.

produttore di consapevolezza, non scienziato, non separato, non numeratore di questioni e fenomeni quello che poi anni dopo ho realizzato con Motus ( Urbino 1985, la mia prima formazione di lavoro culturale) e nell’incontro con Danilo Dolci. Sperimentare la possibilità del contatto con chi ha dato alla sociologia una poetica, una tensione di accoglimento, di ascolto dell’altro per muovere cambiamento, sviluppo, progresso nella misura delle necessità, delle priorità, del reciproco adattamento creativo. Nel mezzo di questi due momenti c’è l’incontro, a Lecce nella seconda metà degli anni settanta con Luigi Lezzi e Stefania Miscuglio, teatro di strada, pantomime ma anche una eccezionale ensamble di musicisti Toni Robertini, indimenticato compagno di vita, con la Mela d’Oro sino a Bandaid, passando per il Collettivo musicale di Terra d’Otranto. La comunità hippie, l’ensamble creativa si realizzò con viaggi di spettacolo che attraversavano il sud d’Italia portanto il Jazz e una formidabile energia condita di fuochi d’artificio e suoni di banda. Una vecchia Anglia, un furgone Volkswagen e la mia vespa, i locomotori. Il teatro, quella l’origine di un interesse sempre nutrito e in progressione: l’infatuazione e la militanza grotowskiana, i Festival di Sant’Arcangelo, le esperienze urbinati, il clown, le prime

Michele Frascaro

autonomie produttive, sino alla lunga e bellissima parentesi con il Teatro della Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri negli anni 90. C’era stato il venir via da Urbino nel 1989, dopo Motus e venne l’incontro con Antonio Verri nella stagione di Astragali, l’inizio dell’avventura del laboratorio Santa Maria del Paradiso verso il Fondo Verri e le scene con Patrizia Rucco coreografa della compagnia di teatro danza Skenè, a realizzare il mio settantasette. La relazione questo il centro. Oggi che “arte relazionale” è divenuto un termine ed un valore diffuso, io sorrido. Non lo chiamavo così il mio agire, ma adesso è chiaro dove inquadrarlo, come meglio comprenderlo. Vengo comunque da lì da quegli ascolti, da quelle spintonate d’energia cresciute per strada, da quel camminare svelto traversando le ‘cose’ del tempo a fronte alta, trattenendo il respiro quando la botta al fianco arrivava forte. Aperto sempre, è sono felice d’aver costruito un percorso originale, denso di occasioni e di incontri che sempre rinnovano l’entusiasmo e la vitalità del lavoro. Guardando, guardando mi son fatto vivo! Mauro Marino Mauro Marino è attore, scrittore, operatore culturale. Insieme a Piero Rapanà è anima del Fondo Verri di Lecce


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CoolClub.it Trentasette anni, giornalista, scrittore, autore e volto televisivo (è da poche settimane in onda su La7 la sua nuova creatura Tetris), Luca Telese cura una interessante collana per la Sperling & Kupfer. Le radici del presente, spiega lo stesso Telese, “raccoglie libri che si propongono di uscire dal purgatorio infinito delle memorie indeterminate, per accendere qualche piccola candela che illumini questa terra di nessuno così vicina e impervia, il nostro passato prossimo”. I primi volumi, alcune in realtà sono delle ripubblicazioni, hanno avuto un ottimo riscontro tra il pubblico come nel caso di Nicola Rao e della sua Fiamma Celtica. Lo stesso successo che pochi mesi fa Telese ebbe con Cuori Neri nel quale il giornalista, formatosi professionalmente e culturalmente in ambienti di sinistra come Rifondazione Comunista (è stato infatti nell’ufficio stampa del partito di Bertinotti) e Il Manifesto, ripercorre con minuzia di particolari l’assassinio di 21 giovani militanti di destra durante gli anni di piombo. La prima domanda è personale. Tu sei nato nel 1970. Che ricordo hai del 1977? Un ricordo terribilmente vivido. Ad esempio i giorni in cui rimasi imbottigliato, il 12 marzo, insieme a mia madre nei vicoli del centro storico di Roma, mentre piovevano i lacrimogeni, e la gente ci tirava i limoni dalle finestre. Gli anni di piombo, per quelli della mia età, sono allo stesso tempo la favola dell’orco e il sogno psichedelico della nostra infanzia. Come mai il 1977 viene considerato un anno così importante nella storia italiana? È un anno cardine, ed è quasi inutile ricordare perchè: l’anno in cui di fatto muore la strategia del compromesso storico, l’anno dell’ultima e più feroce guerriglia generazionale che questo paese ricordi fra padri e figli, l’anno zero per la sinistra italiana, che dopo il massimo storico del 1975 e del 1976 si ritrova dilaniata tra guerre di religione intestine. E poi è l’annus orriblis della lotta armata: record di gambizzazioni e sequestri, l’anno della guerra e del coprifuoco. In questi dodici mesi si compie tutto: dalla creatività alla guerriglia, dall’utopia dell’alternativa che sembra ad un passo al tunnel delle morti per eroina. Qual è stato l’avvenimento più importante del 1977? Ce ne sono tanti: ma direi che la cacciata di Lama e la morte di GIorgiana Masi possono raccontare tutto quello che ho detto. Dal libro Cuori Neri alla collana Le radici del presente stai portando avanti un interessante percorso di rilettura critica dell’Italia di questi ultimi quarant’anni. Ma è veramente così difficile “pacificare” questa nazione? Assolutamente sì, ci vorrebbero i carri armati. E non potendo ricorrere a quelli, risucire ad affermare un piccolo grande principio che ispira la mia collana. Non esiste una memoria, ma “delle” memorie. E l’unico modo per tenerle insieme non è la “memoria condivisa” vagheggiata da Carlo Azeglio Ciampi (ci ho creduto pure io, adesso mi sono arreso), ma almeno quella composta, partecipata, che ti permette di tenerti il tuo frammento di verità,

ma almeno di conoscere anche quello dell’altro. Nelle Radici del presente mi sono imposto di documentare il più ampio numero possibile di punti di vista, anche quelli che non condivido. Non si può arrivare alla verità per rivelaizoni, o per guerre egemoniche, solo per approssimazione, direi. E mi pare già tanto. Ma di una cosa sono convinto: se non si ricuciono le ferite dell’odio del nostro passato prossimo, non si risolvono nemmeno le guerre per bande del tempo che stiamo vivendo. In Cuori neri hai raccontato gli omicidi dei militanti di destra molto spesso dimenticati. Hai ricevuto qualche critica ma soprattutto molti apprezzamenti anche da giornali come Liberazione e Manifesto. è un buon segno (politicamente parlando) oppure è il riconoscimento di un lavoro di ricerca minuzioso e imparziale? Direi che le critiche positive, sopratutto all’inizio sono state una sorpresa. Ma in un anno sono riuscito anche a incontrare schegge e frammenti di intolleranza che non mi aspettavo potessero sopravvivere. Non mi aspettavo un assalto all’arma bianca, in piazza, a Bologna. Esiste una archelogia dell’odio, in questo paese, tanto stratificata quanto radicata. Ci vorrà forse mezzo secolo, ma forse riusciremo ad estinugere anche le fonti avvelenate delle tifoserie ideologiche da stadio. Qual è il lascito politico degli anni ‘70? Cosa pensi degli arresti delle nuove Br e del ritorno di personaggi come Scalzone? Su Scalzone andrebbe fatta una riflessione più complessa e articolata. Però, se posso porcedere per titoli, è una sorta di paradosso vivente. Il suo carisma è atipico, non si impone per la leadership, ma per il senso di protenzione che ispira agli ascoltatori. Il fatto che gli squarci della sua radicalità e del suo ribellismo siano annegati fra citazioni di Spinoza, di Hegel, di Truffaut o di Shakespeare, non riduce la gravità e la forza del suo massimalismo da irriducibile. Una domanda faceta (Coolclub.it è pur sempre un giornale musicale). Cosa pensi della musica della fine degli anni ‘70 (se non sbaglio ami il prog)? Il progessive potrebbe essere preso per una metafora di tutto quello che ho detto, di un’epoca, e forse di più. In ogni presentazione che faccio, infatti, provo a dire che la chiave per capire l’utopia e il senso di tragedia degli anni di piombo, la spensieratezza dei grandi ideali, e la durezza della lotta armata, il vento forte della rivolta, e la bonaccia della sconfitta, bisogna introdurre una paroletta che di questi tempi è fuori moda: la complessità. Ebbene, il pop è semplice, il progressive è complesso. Non puoi capire il ‘68, il ‘77, gli indiani metropolitani, Berkley, Bob Kennedy, Soldato Blu, il Laureato, Pazienza e Brubacker, il Pci e gli autonomi, i giovani ribelli di destra e i golpisti, se non hai mai sentito, per dire Selling England by the Pound. Non puoi spiegare la coesistenza magmatica degli opposti se non hai mai sentito Darkside of the moon, se non hai compulsato la partitura di Wish you were Here, se non ti sei mai addentrato in The court of King Krimson. C’è stato un tempo in cui si poteva sognare di abbattere ogni frontiera, anche quando si era apparentemente rinchiusi dentro il reticolo chiuso di un vinile. E invece adesso, anche dopo che il digitale ha abbattuto ogni frontiera, siamo compressi nel respiro asfittico del gingle, dei successi derivati dagli spot, dei fotogrammi e dell’insostenibile leggerenza del pop. È per questo che quel ventennio di rivoluzioni musicali che si aprono con i Beatles e si chiudono con The Wall potrebbero essere il palinsensto perfetto per una scansione storiografica degli anni di piombo. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. (pila)


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CoolClub.it “Il ‘48, il ‘68, il prosciutto cotto..”: con queste parole, uno dei più grandi sociologi del secondo novecento italiano - Rino Gaetano - sbeffeggiava le fitte retoriche sugli anni cruciali del nostro passato collettivo, quegli anni che vengono sempre seguiti, manco a dirlo, dall’aggettivo rivoluzionario. A quella sequenza si potrebbe serenamente aggiungere il ‘77 che, a nostro modesto avviso, è assente dal testo menzionato soltanto per problemi di rima. Esegesi personali e non autorizzate a parte, il ‘77 resta un vero buco nero della storia repubblicana, un evento imprendibile a distanza di 30 anni dal suo dispiegarsi. Una distanza che ormai dovrebbe consentire una lettura critica di quell’annus terribilis come avvenne per altri episodi chiave della storia nazionale. Basti citare la Resistenza la quale - benché non certo esente da vertiginosi usi pubblici e politici - dopo appena otto anni incontrava uno dei più fertili e duraturi tentativi di ricostruzione storica (Roberto Battaglia, Storia della resistenza, Einaudi, Torino, 1953). Il destino del ‘77 è diverso. Eppure le interpretazioni non mancano. Anzi, tre distinti campi hanno concorso ad erigere una selva di rappresentazioni che ci allontanano dalla reale comprensione di cosa sia stato realmente il ‘77. Il primo è quello della memoria dei protagonisti. Dopo aver esplicitamente sostenuto in un libro uscito a caldo (Autori molti compagni, Bologna ‘77. Fatti nostri, Bertani, Verona, 1977) che il ‘77 rifuggirà indisciplinatamente all’ordine del discorso degli storici, intasano puntualmente ad ogni anniversario tutti i mezzi di comunicazione raggiungibili. Ma la memoria, che pur è una funzione importante per la costruzione delle identità individuali e collettive, resta fisiologicamente imprigionata nel suo punto di vista parziale. In questa prospettiva, si ripropongono come un riflesso pavloviano le immagini di sempre: la cacciata di Lama dalla Sapienza a Roma, il mite Lo Russo caduto sotto i colpi dei carabinieri a Bologna, Radio Alice e la stantia contrapposizione tra «creativi» e «duri e puri», Kossiga la vipera velenosa, infine, nelle versioni più raffinate, la natura profetica di una insorgenza di «non garantiti» (leggi oggi: precari). Troppo poco. Davvero troppo poco per parlare di un movimento periodizzante nella storia del ‘900. Di contro, si erige da trent’anni la rappresentazione dello stato, degli uomini di allora e dei loro eredi nel governo del Paese. Il discorso proveniente da questo campo lascia forse ancora più interdetti coloro che all’alba del Terzo millennio vogliono capire i conflitti del Novecento e progettare una società migliore per il Terzo millennio. Si possono prendere in prestito le parole di Sarkozy, ministro dell’Interno della Quinta Repubblica francese, che a proposito del ribollire delle banlieus parigine così si è espresso: «racaille», feccia. Dunque il ‘77 sarebbe il gesto disperato del «fondo» del secolo morente, i reduci di un estremismo ideologico e violento, gli scarti che le istituzioni hanno giustamente represso e spazzato via. Da ultimo vi è il campo dei media il quale, salvo rari casi, non ha fatto altro che appoggiarsi ora alla memorialistica dei reduci, appaltando inopinatamente paginate di interviste agli ex, ora al discorso dello stato e ai figliocci di Cossiga, che, nelle prove più deliranti, spalmano su almeno trent’anni di vicende

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complesse la categoria destoricizzata di terrorismo: il ‘77 alle origini de rapimento Moro, il ‘77 alle origini delle BR vecchie e nuove, il ‘77, perché no, ispiratore del terrorismo islamico. D’altronde, cosa è stato il «nine-eleven» se non un gesto spettacolare, quello spettacolo che i settantasettini distillavano in gocce di rivoluzione. E prima di loro i dadaisti, i surrealisti, i futuristi. In ogni caso tutto il peggio del ‘900! In questa babele di discorsi contrapposti, del ‘77 quale esso è stato non sappiamo ancora niente. Cosa succedeva a Lecce intorno a quegli anni? E a Palermo, Napoli, Venezia? Si può parlare di un movimento solo in virtù della mobilitazione di gruppi radicalizzati di due o tre città? Quali i soggetti protagonisti? Quali i conflitti generazionali? Quale la cornice internazionale, oppure si deve concludere che si sia trattato di un caso periferico? Come si ridefiniscono le culture politiche? E che ruolo ha il consumo nell’erodere i tradizionali riferimenti politici della sinistra? Come incide sulle istituzioni e sulle forme della politica ecc. ecc. Insomma, in attesa di qualche risposta proveniente giocoforza dalla generazione dei trentenni di adesso che con astuzia diffidano non solo delle pratiche di etichettatura delle istituzioni e dell’autoreferenzialità delle «memorie divise», ma anche dei professionisti dell’opinione pubblica, dei mercanti della notizia, non paia troppo iperbolico il titolo di queste note: «è davvero esistito il ‘77»? Andrea Rapini

Diffuso in seimila copie da un piccolo editore alla fine del 1976 Porci con le ali di Rocco e Antonio, pseudonimi dietro cui si celavano gli scrittori Marco Lombardi Radice e Lidia Ravera, ci mise poco a diventare un libro cult per la generazione del ‘77. Diario di due adolescenti di sinistra alle prese con le lotte politiche e l’emancipazione sessuale, il libro offre un ritratto autoironico e scanzonato della generazione “contro” italiana. Il racconto si dipana tra avventure sessuali promiscue e consumate in fretta, tra tradimenti e amori impossibili, tra la scoperta del sesso opposto e di quello omologo, tra infatuazioni per l’intellettuale rivoluzionario e la studentessa annoiata di turno. Quello che emerge nel modo più forte è il desiderio di sperimentare, di trovare nuove strade, e l’impossibilità in definitiva di riuscire a staccarsi completamente da quelli schemi borghesi cui i protagonisti per nascita a tradizione erano legati. Di un paio d’anni successivo, ma ambientato nella Bologna della ‘77 è Boccalone di Enrico Palandri, una storia d’amore dai primi incontri nelle piazze della Bologna universitaria settantasettina fino alla separazione e al dolore che ne consegue, forza motore della stessa realizzazione del libro. E sullo sfondo c’è la politica, un mondo lontanissimo dagli eventi tra cui il protagonista si muove: tutto l’interesse di Enrico è per Anna, non c’è posto per nient’altro, ed infatti gli unici momenti in cui il protagonista partecipa a riunioni di collettivo, incontri alla radio e alla stesura di riviste clandestine sono quelli in cui Anna, per un motivo o per l’altro è assente. Significativo per descrivere il clima sociale, ma soprattutto interiore, in cui nasce questo libro è l’ultimo capoverso della dedica comparsa nella prima edizione: “A quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo”. Ma cosa è rimasto di quelle atmosfere, di quella voglia di spensieratezza mischiata alla serietà delle armi e dei bastoni? Al di là delle giuste considerazione sulla reale portata rivoluzionaria di una stagione di lotte, quello che c’è da chiedersi oggi è se siamo ancora in grado di stupirci di fronte a certe cose, o se siamo tutti, irrimediabilmente, diventati più “maturi”, e l’idea che se si è incazzati si possa spaccare una macchina, o se si ha voglia di fare sesso lo si possa fare col primo sconosciuto visto sull’autobus, ci scandalizzano più per stanchezza che per vero pudore. In fondo è vero che di stronzi è già pieno il mondo e di questi quanti hanno respirato l’aria del ‘77? dario



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Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie

la musica secondo coolcub

Lcd sound system Sound of silver Dfa/Emi Dfa-sound / *****

Non a caso questo album è stato eletto disco del mese. Non a caso in questo numero dedicato al 77. James Murphy è stato ed è ancora a pieno titolo un rivoluzionario, uno dei nomi che si nasconde dietro la sigla Dfa. Dfa (Death from Above) è l’etichetta discografica che ha scritto una nuova estetica del suono. Ha preso il post-punk, la new wave, il rock e li ha messi a braccetto con la dance, la techno. Il risultato all’inizio è stato deflagrante. Nascono definizioni come punk-funk che sembra recuperare la prima house per superarla. Oltre a una serie di compilation la Dfa pubblica i Rapture (solo per fare un esempio) gruppo manifesto del nuovo stile. Ma la mente illuminata del nostro Murphy si cela anche dietro a Lcd soundsystem. Il primo omonimo album è uscito nel 2005 è ha sorpreso tutti per la capacità di mettere

insieme gli Stooges, Brian Eno, New Order, gli !!!. Dopo averlo ballato per due anni tutti lo aspettavamo alla difficile prova del secondo episodio. Ripetersi sarebbe stato troppo comodo, ha dichiarato anche lo stesso Murphy. Impossibile per lui non cambiare, non evolversi. Perché il signor Lcd sembra avere il dono, la sensibilità di sentire, filtrare, distillare, far suonare la sua città: New York. Questo nuovo Sound of Silver sembra essersi scrollato di dosso un po’ di sporcizia rispetto al precedente, corteggiato e conquistato da una piega più dance. Ma l’attitudine, quella è intatta. Le ritmiche ti suonano in faccia, i sinth sembrano recuperati da una cantina rimasta chiusa trentanni, rispolverati e messi a punto per l’occasione. Il gioco analogico, sintetico funziona come non mai, il campanaccio di Time to get away è irresistibile, ogni

tanto da lontano sembrano arrivare altre canzoni, altri suoni (sarà il passato o il futuro?). La strumentazione rock è perfettamente a suo agio tra beat e bassi che sembrano suonati nel tunnel del metro. Ci sono momenti in cui il nostro si dimostra più emotivo (Someone Great), il loop di piano in partenza sembra non possa mai diventare la bellissima, pop e un po’ New Order style All my Friends. Episodi come Us v Them sono un po’ più allucinati come la title track dal sapore house. Ma è la finale New york I love you a lasciare sbigottiti. Una ballata struggente, stanca, arrugginita come la fine di una notte sfrenata, sullo sfondo le prime luci dell’alba e la città che ami. Se volete sapere che suono ha il 2007 Sound of Silver è il disco che ve lo spiegherà. Osvaldo Piliego


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Sondre Lerche and Faces Down Phantom Punch Virgin Power-Pop / ****

anche se vorresti piangere. Undici splendide poesie di sei splendidi/e poeti/ esse di qualche tempo fa che si prestano perfettamente ad essere arrangiate e adattate musicalmente. Dal cartoncino opaco del booklet, dalle fotografie in copertina, dalla scelta dei testi e degli autori non di certo fatta a caso - Parker, Yeats, De La Mare, Dickinson, Auden, Rossetti - si ha una ulteriore conferma del gran gusto, oltre che della classe e della poesia, di Carla Bruni. A quattro anni da quel Quelqu’un m’a dit che aveva fatto della modella una cantante, quanto bello è stato sentirla cantare, voce bassa un po’ rauca, in francese? Esce ora No Promises. Open disc con contenuti esclusivi e piccole biografie di tutti gli artisti contenuti. Nessuna promessa ma un caloroso consiglio. Valentina Cataldo

Air

Pocket Symphony Virgin Avant-pop / ***

Quasi da non crederci. Sondre Lerche non ne sbaglia una. Lo avevamo lasciato l’anno scorso alle prese col cocktail jazzato mezzo Bacharach mezzo Sinatra delle Duper Sessions, e lo ritroviamo oggi con un bellissimo disco sorprendentemente rock, dirompente e scanzonato. Niente miracoli, sia chiaro, ma con queste undici canzoni neanche-una-brutta, questo giovane norvegese potrebbe mandare a casa metà della pletora di gruppi oggi in circolazione che iniziano per the e finiscono per s. I suoi compari Faces Down rumoreggiano a volume alto e tingono di colori saturi la sua scrittura capace e brillante. Canzoni gustosamente pop, dal piglio facile, costruite con maestria e tecnica impeccabile, ti si appiccicano sopra e non si scollano per un po’. Ennesima prova di un talento che continua a maturare senza flessioni da quando aveva 17 anni (quattro dischi fa) e che fa quasi invidia così bravo, carino, biondo e con gli occhi azzurri. Magari gli puzza l’alito. Giovanni Ottini

Mika

Life in Cartoon Motion Island Pop / **½

Non capivo. Mi sento meglio. Il mio voto resta lo stesso, ma è stato comunque consolatorio per me sapere che un po’ dovunque Mika, almeno per la critica, appaia piuttosto lontano da quello che autoreferenziali spot definiscono “la prossima superstar”. Non si può dire che sia partito male: Grace Kelly è un tormentone intelligente, e se dopo il secondo ritornello dichiarate di non avere un deja-vù dalle parti di Freddie Mercury, siete bugiardi (o fan intransigenti dei Queen). Attorno al singolo azzeccato, altre nove canzoni le quali, dopo ripetuti ascolti, non offrono prove inconfutabili del (presunto?) talento di questo ragazzo libanese (23 anni), fuggito dalla guerra nel suo paese e a Londra da quando, di

anni, ne aveva nove. Se gli Scissor Sisters sono un frullatore del pop metrosessuale, Mika frulla le “Sorelle” con Queen e Rufus Wainwright… L’originalità? No, grazie. Qualche buono spunto c’è (Any other World, Stuck in the middle) e anche una discreta dote vocale. Che dite, aspettiamo il secondo cd prima di massacrarlo anche noi? Berardino Amenduni

Carla Bruni No Promises Naïve pop / ***

Piacevole come una notte a Parigi col vento freddo e la luna piena, delicato come il folk, triste come un blues. Un cd che va di sottofondo, che non toglie i pensieri dalla testa quando ne è piena, non ti sveglia se stai dormendo, non ti commuove

C’era molta attesa per il quinto album degli Air. Il motivo? Le loro scelte artistiche e le possibili chiavi di lettura. Prima di tutto, nuovo produttore: Nigel Godrich, fondamentale nei lavori dei Radiohead. Poi, il lavoro solista di Jean Benoit Dunckel (a nome Darkel), un album piacevole ma che nulla aggiunge alle sonorità canoniche del duo. Poi, la produzione del successo di Charlotte Gainsbourg (l’Album 5.55, che vanta le stesse collaborazioni di questo Pocket Symphony) e, ancora, una zingarata nel mondo del cinema (hanno collaborato con Sofia Coppola per Marie Antoinette). Se vogliamo, tutto poteva essere letto come un possibile segnale di cambiamento. Così non è. Godrich non appare così influente, fatta salva Mayfair Song, che potrebbe essere tranquillamente una traccia dei Radiohead. I due ospiti, Neil Hannon e Jarvis Cocker (ex cantante dei Pulp) non graffiano. L’unica vera novità è l’utilizzo di strumenti musicali tipici della cultura giapponese (un “koto” e uno “shamisen”) che conferma la ricercatezza e l’eleganza del duo. In personalità, invece, gli Air stentano un po’. E chissà con qualche grande voce femminile (come nel loro superlativo primo album, Moon Safari), cosa sarebbe venuto fuori. Dino Amenduni

The Datsuns

Smoke & Mirrors Hellsquad/V2 Rock / ***

Soffiandonuvolonidifumosomafurentegarage r’n’r davanti ad una lastra di lucido acciaio, The Datsuns giocano a fare gli illusionisti… e ci riescono benissimo. Senza nessuna finzione sprigionano un’energia che senti davvero autentica. Anticipando i conterranei Wolfmother, però, The Datsuns avevano già dimostrato cosa si può ottenere mandando a memoria un’intera enciclopedia del rock, dalla “A” di Ac/Dc fino alla “Z”… quella dei mitici Zeppelin (Led Zeppelin, ovviamente).


KeepCool Con il precedente Outta Sight/Outta Mind (2004), produzione firmata addirittura John Paul Jones, avevano forse calcato troppo la mano sul versante heavy e questo li aveva un po’ castigati. Ora che invece hanno ripreso a suonare ciò che sanno fare meglio è tutta un’altra storia. Certo, le influenze sono sempre fin troppo evidenti ma, mischiando hard rock & garage punk, riescono a recuperare quel gusto istintivo ed appassionato di suonare senza pensare troppo al risultato finale: suoni semplici ed immediati, vena ironica e tanto sano e viscerale r’n’r. Smoke & Mirrors è, infatti, un disco perfetto per tutti quelli che al r’n’r chiedono di essere eccitante, genuino e suonato con convinzione: amplificatori a manetta e riffoni tritaossa che più classici non si può! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

The High Llamas

Can Cladders Drag City / Wide Indiepop-sixties / ***½

Sean O’Hagan, carismatico leader nel progetto High Llamas, ha un passato musicale di tutto rispetto, una gavetta ed un curriculum che parte fin dagli anni ’80, all’interno della scena indie, fu chitarrista nella band Microdisney, nome che forse vi dirà poco…, di discreta qualità. Poi, subito dopo, intraprese la carriera solista, facendo ricerche ed esperimenti tra il pop ed il cantautoriato, la psichedelia, ma anche l’elettronica, dischi dove da solo, in realtà, non è mai stato, perché accompagnato da fidati collaboratori quasi fissi (Marcus e Dominic) oltre che da ospiti occasionali importanti

Patrick Wolf

The Magic Position Loog / Universal Indiepop – electronica / ****

Se siete anche voi fra quelli rimasti sensibilmente affascinati da Wind is the Wires, secondo album del giovane cantautore britannico di origini irlandesi Patrick Wolf, non farete certo fatica ad accogliere il suo nuovo ed entusiasmante terzo lavoro, The Magic Position. Si riparte! La formula espressa (sempre più materia pop) non manca certo di raffinatezza e qualità, abbandona, per certi versi, il lato scuro prevalente nel passato. Piacevoli e ben elaborati gli interventi

15 come Brian Wilson, Jimmy O’Rourke, o gli Stereolab, gruppo in cui per un periodo ha anche fatto parte. Quest’ultimo disco, il sesto targato High Llamas, riprende contatto col passato, ritornando così allo stile delle origini, ispirandosi ai ’60 e ‘70, con cori vocali femminili, e negli stumenti: troviamo archi, piano, hammond, basso, batteria e chitarra, oltre ad una leggera elettronica. Delicato e ben curato, album ricco di personalità. Livio Polini

Khan

Who Never Rests Tomlab Funk, rock, disco… / ***

Prima release su Tomlab records per il turcofinnico Khan, che arriva dopo innumerevoli anni di attività su altre etichette con altri pseudonimi. Frenetico, come il titolo dell’album lascia intuire, tredici tracce in pieno stile Tomlab. Un lavorio digitale nei minimi dettagli sonori, duro e rock quanto basta, elaborato nel sottofondo elettronico. Per la prima volta Khan immortala la sua voce, realizzando un’opera completa ed intimista. Tra le migliori tracce On the Run, Strip Down ed Excomunication. Funk, rock, disco music, glitch, experimental, cut n’ paste, trip hop... ogni genere e sottogenere è sfiorato o colpito in pieno, per un insieme di influenze che non stonano, ma anzi che contribuiscono a formare un lavoro piacevolmente eterogeneo. Una esplorazione nel sottobosco dei generi musicali, da ascoltare almeno una volta per tutti. Federico Baglivi

di natura elettronica, così come il suono di strumenti classici appartenenti alla famiglia degli archi. Tratti malinconici e di meditazione (come in The Bluebell) si scontrano con gioia, rinascita e senso di libertà, canzoni allegre e spensierate dai ritmi sostenuti (Accident & Emergency ad esempio, ma anche Overture). Ospite prestigiosa di questo disco è Marianne Faithfull, in duetto con Patrick nel brano Magpie, dove i due ci regalano una grande prova attraverso splendide voci accompagnate da pianoforte e viola. Emozionante, un disco di grande qualità. Livio Polini

Alex Gopher

Alex Gopher Go 4 Music/Wide Synthpop / ***

Uno dei guru dell’elettronica made in France torna con un nuovo lavoro in dodici tracce, lavoro intitolato Alex Gopher appunto. Brani di indubbia bellezza, del resto non ci si poteva aspettare altro da uno dei personaggi che negli ultimi dieci anni ha impresso una pesante impronta nel panorama elettronico europeo. Sin dai tempo degli Orange infatti, insieme ai due futuri Air, Gopher è stato tra i personaggi più rappresentativi di queste sonorità. In queste dodici tracce che vanno dal synth-pop alle sonorità più Air, Gopher ci da lezioni di stile. Meno belle le tracce synthpop più ballabili, semplicemente stupende quelle più lente ed evocative. Una rivincita verso chi ha considerato Air e Daft Punk i punti di partenza e di arrivo dell’elettronica francese? Di sicuro Gopher fa sapere di esserci anche lui, come del resto c’è sempre stato in questi ultimi dieci anni. Sembra proprio essere il disco della maturità. Federico Baglivi

The Zincs

Black Pompadour Thrill Jockey Pop rock / ***½

Terza nuova uscita per gli Zincs di Jim Elkington (già nei Sophia di Robert Sheppard), e questa sembra essere quella buona. Un disco amabile e maturo, più elettrico dei precendenti ma comunque molto leggiadro e composto, forte della direzione del grande John McEntire al mixer. Dieci canzoncine pop vicine per attitudine tanto ai Sea and cake, per gli ottimi arrangiamenti e l’impostazione vocale di Elkington, quanto ai Luckysmiths, per lo spirito fresco e accattivante ma mai stupido. Ottime per un lungo viaggio in macchina, anche perché è proprio durante un lungo ed estenuante tour nei grandi territori americani che l’album è stato ideato. Il cupo sarcasmo delle liriche di Elkington mescolate con queste melodie apparentemente “leggere” (ma che di fatto nascondono anch’esse un che di inquietudine interiore) rendono questo lavoro tutt’altro che easy. Piccola chicca: in tre brani compare anche la delicata voce di Edith Frost che impreziosisce ulteriormente questo bel disco. Gennaro Azzollini


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Claude Cambed & the Now HappyGoneStreet Shinseiki Pop / ***

Chi, come me, ha un passato modernista, non può non amare questo disco. Claude Cambed e suoi smaglianti The Now sono una dichiarazione d’amore a gruppi e a un periodo musicale che fanno parte del background di ogni epigono del Quadrophenia pensiero. Ed è proprio con questa parola che ironicamente giocano in questo album (HappyGoneStreet). Seguire, interpretare l’opera dei grandi maestri oggi senza cadere nello sterile revival non è facile. Questo disco, come un gioco di scatole cinesi, lascia scoprire traccia traccia dopo influenze e citazioni. Lo fa con una vivacità compositiva seducente che guarda al passato. Fanno capolino a questa festa della musica i Rolling Stones, David Bowie accompagnato da Syd Barret, i Kinks e tutto quello che di quegli anni si ricorda con piacere… veramente tutto (anche spruzzatine più hard). Concepito come se si trattasse di un vinile, suonato oggi con un’attitudine a cavallo tra i 60 e 70 questo HappyGoneStreet è un piccolo gioiellino. (O.P.)

Deerhoof

Friend opportunity Tom Lab Avant pop / ****

La musica dei Deerhoof è sfuggente: quando credi di averla afferrata subito intraprende una nuova strada. Una band più che eclettica epilettica, capace di tenere in equilibrio garage rock, noise, progressive, pop, punk. Tutto insieme, tutto in rapidissima sequenza, come una carrellata vorticosa di suoni e soluzioni possibili. Una traccia e i suoi mille punti di fuga. Capaci di sintetizzare tutto in meno di due minuti (Kidz are so small) o in lunghe divagazioni strumentali (Look away). Sbarazzini nella voce di Satomi Matsuzaki, giocosi nell’approccio musicale apparentemente senza regole ma matematico nella costruzione, ipnotici e malinconici (the Galaxist) quando smettono di portare in giro la fanfara (+81), sognanti (Whiter the invisibile bird). I Deerhof sono mille cose e per lo stesso motivo una cosa unica. (O.P.)

The Bird and the Bee The Bird and the Bee Metro Blue - Blue Note Jazz e dintorni / ***

Greg e Inara - si legge sul loro space - si sono incontrati qualche anno fa in quel di Los Angeles (sono entrambi californiani) e hanno scoperto di avere in comune un folle amore per il jazz. Per un paio d’ore hanno suonato insieme tutti i pezzi di loro conoscenza e…questo album è niente più che una conseguenza di quell’incontro. Inara George è figlia d’arte e ha già pubblicato un lavoro da solista, Greg

John Cale

Circus Live Emi rock-avanguardia / ****

È stato il fondatore, con Lou reed, dei Velvet Underground. È stato il produttore del primo disco degli Stooges e di Patty Smith. ha influenzato in maniera imprescindibile la musica contemporanea, Ha avvicinato sonorità inusuali, l’avanguardia ai canoni del rock. jonh cale è indubbiamente uno dei musicisti viventi più importanti. la sua carriera è costellata di collaborazioni, ha influenzato e ispirato moltissimi artisti. Dopo quaranta anni di carriera john cale è ancora in pista e in pole position. Esce in questi giorni Circus Live un doppio cd che documenta l’ultimo lungo tour dell’artista. Emozionante dalla prima nota che tra scordate accordature introduce una bellissima Venus in Furs. Il concerto condensa la poliedricità straordinaria di Cale che sa essere epico (Helen of troy), vicino e alcolico (Buffalo Ballet). Quando rimaneggia classici come femme fatale riesce a toccare corde che pensavamo non avere. Il primo cd finisce ed è un battito d’ali, troppo tardi si è nel tunnel. Cale ti prende nel suo vortice, ti trascina in un suo mondo come solo i grandi sanno fare. e ne scopri gli angoli, le epoche, ne condividi i ricordi, ne senti la rabbia e la poesia. Il circo di John Cale ha una serie di numeri strabilianti, personaggi sorprendenti, animali fantastici. Lo spettacolo di John Cale è una di quelle cose che bisognerebbe vedere almeno una volta nella vita. Osvaldo Piliego

Radicalfashion

Odori Hefty Experimental, electronica, glitch / ***½

Kurstin ha studiato piano da grandi maestri e ha scritto e prodotto per diverse band tra cui the Flaming Lips, tanto per citarne una. Armati dunque della loro passione e conoscenza tecnica, lei alle voci lui alle armonie strumentali, hanno dato vita a questo album. Non solo jazz però, qui dentro ci sono tastiere luccicanti distorsioni dance e drum machine. Il disco che metterei in pausa aperitivo, tra noccioline, olive verdi e martini in ghiaccio risulta essere altamente chic, allegro e anche quel dolce quanto basta. Bossa, easy jazz ed electronic pop schekerati insieme. E testi ironici e diretti. Un assaggio tanto per gradire? “Would you ever be my fucking boyfriend?”. Eh? Valentina Cataldo

Disco semplice ma complesso allo stesso tempo. Semplice, dicevamo, perché di partitura non particolarmente difficile, e complesso, come natura, espressione, temperamento, come messaggio, come ricerca dei suoni e degli ambienti. Ci impressiona così, con la sua sperimentazione, Hirohito Ihara, compositore, pianista giapponese di formazione classica conosciuto in questo progetto col nome di Radicalfashion. È la sua opera prima, Odori, un miscuglio di interferenze, ricerche, frammenti elettronici, pianoforte, voci, visioni confuse e a tratti nitide, emozioni, turbamenti, flashback, pensieri discostanti. Per farvi un’idea del livello di esperimento, pensate ai più famosi Books, o, volendo rimanere in Giappone, a Tujiko Noriko. Sono artisti originali anche e quindi diversi da Hirohito, ma hanno


KeepCool uno stile somigliante. Può convivere tutto quello qui descritto all’interno di un solo disco? Certo, è sicuro, basta non rinunciare all’immaginazione, basta chiudere gli occhi ed ascoltare, tu cosa vedi? Livio Polini

Jon oliva’s pain

Maniacal Renderings AFM/Audioglobe Heavy / ****

Ad oltre venti anni dal suo debutto con i Savatage, Jon Oliva è un personaggio, ancora oggi, ricco di entusiasmo e di progetti per il futuro. L’uscita di questo secondo lavoro con i suoi Pain dà l’esatta misura del suo attuale stato di salute, artisticamente parlando: eccellente, ovviamente! Diviso tra Savatage e Trans Siberian Orchestra, tra una pausa di riposo e l’altra, il buon Jon ha anche pensato bene di “distrarsi” e di distrarci con i suoi Pain. Ed è davvero una gran bella distrazione questo Maniacal Renderings, quanto di più vicino al capolavoro Dead Winter Dead (1995) dei Savatage. L’album ci regala un Oliva in gran forma, accompagnato da una band di assoluto spessore. Impetuoso, coinvolgente, puramente maestoso, e poi senza la benché minima sbavatura o caduta di tono, Maniacal Renderings ha anche un altro grande merito: quello di riuscire, se amate il genere, a tenervi incollati allo stereo per molto, molto tempo, regalandovi un pugno di canzoni fatte sì con la testa di chi ha oramai esperienza da vendere, ma soprattutto con il cuore di chi sa dispensare ancora grandi e sincere emozioni, e scusate se è poco! Vecchi Sava-fans, gioite: “il re della montagna” è ritornato! Camillo “RADI@zioni” Fasulo

Archive

Lights Studio Album Archivio musicale / ****

Massive Attack Coldplay e Pink Floyd, trip-hop pop melodico e psichedelia, relax sogni e trip mentali tutto in un unico disco. Undici tracce che sembrano appartenere ad artisti voci stili diversi e risalgono invece ad un unico nome: Archive. Un minestrone potrebbe dire - e ha detto - qualcuno, un lavoro vario intenso creativo lo definirebbe qualcun altro. Violenti respiri e momenti di apnea, quelli che solo intrecci post-rock possono creare quando a disperarsi sono esclusivamente gli strumenti, viaggi solo andata verso destinazioni ignote quelli guidati da note elettriche create dai synth e bassi potenti e

13 colpi di bacchette ripetuti e sempre uguali. A questo, riff e parole di semplici sofferenti canzoni d’amore. Discoteca camera d’hotel a cinque stelle e soffocante cantina di legno, un gin tonic un martini e un bicchiere di vino rosso per accompagnare Lights. Viso da bravo ragazzo e mani affusolate contraddistinguono il nuovo vocalist del gruppo, Pollard Berrier, entrato al posto di Walker. Sul palco sono in sette, tastiere, batteria, basso, campionatori, chitarra, voce maschile che si alterna a quella – struggente - della fedele Maria Q. Non Londinium, non Take My Head, non You All Look The Same To Me, non Noise, qualcosa di ognuno e poi molto altro. Per chi potesse, per chi ha voglia di ballare, urlare, piangere, le loro date live sono su www.archives-archive.com. Valentina Cataldo

Virgin Steele

Visions of Eden Sanctuary/Edel Epic-metal/***

I Virgin Steele hanno finalmente rotto il silenzio che durava, ormai, da quattro lunghi anni. Il nuovo studio album, Visions of Eden, è un concept che si svolge idealmente nei pensieri della donna del ventunesimo secolo, intenta a ripercorrere, storicamente, il suo ruolo nelle civiltà sviluppatesi con il trascorrere dei secoli. V.o.E ha come sottotitolo The Lilith Project, infatti, gli undici brani in questione sono parte di sessanta composizioni scritte in questi anni e presentate come opera metal dal titolo Lilith. Unico artefice del master è David DeFais, compositore e scrittore dal livello indiscutibile, il quale se pur confermando i peculiari elementi compositivi della band, questa volta, però, ha commesso delle sbavatura in sede di produzione. Infatti, anche se i pezzi sono eseguiti al meglio, tuttavia, le chitarre sono mixate bassissime, il basso è appena percettibile, mancano interventi solistici, capaci di dare maggiore complessità alla partiture e che in più avrebbero donato, assieme alle parti tastieristiche, un unicum più curato ed espressivo. Nicola Pace

Rhapsody on Fire

Triumph or Agony SPV/Audioglobe Hollywood score metal / ***

Eccoli tornati i nostrani Rhapsody, questa volta “…on Fire”; nel frattempo sono cambiate molte cose: cambio di etichetta, avvicendamento di manager e rettifica di moniker (a causa di un’omonimia). Il loro Hollywood score metal è sempre più coadiuvato da incantevoli motivi dal sapore medioevale e tardo rinascimentali, il tutto ornato da sontuosi arrangiamenti di archi e fiati su cui le solenni ed, a tratti, ieratiche voci del

coro sono libere di manifestarsi. In questo Triumph or Agony, la parte speed del loro stile è stata momentaneamente messa in secondo piano per dare voce al lato folk, ed è una cosa che apprezzo, ma mi accorgo di come, progressivamente, nuove idee stentino ad emergere. Ritengo, infatti, che la composizione più eccitante di questo nuovo lavoro sia la suite The mystic prophecy of demonknight, in cui la band pur riprendendo le proprie tipicità, no è cascata nell’auto-citazione. Insomma, gli arrangiamenti sono ineccepibili, la produzione è impeccabile, ma i Rhapsody possono fare senz’altro di più, in termini di originalità. Nicola Pace

Ralfe Band Swords Talitres rec. Alt-folk / ***

Immaginate se gli Hack and A Hacksaw, con la loro commistione di folk europeo e americano, provenissero invece che dal new Mexico dall’Inghilterra, se condissero le loro melodie malinconiche con quell’inconfondibile humor britannico, se possedessero la stessa capacità camaleontica della prima Beta Band, se invece di dedicarsi al solo amore per la musica balcanica si lasciassero contaminare da tutte le varie espressioni folk europee (in particolare dalle orchestrazioni di Pascal Comelade) beh, forse il loro nome sarebbe stato Ralfe Band. Swords, il disco d’esordio di questa gruppo capitanato dal fantasioso Oly Ralfe, è di una squisitezza particolare. E già John Peel si era accorto delle qualità delle loro produzioni nel 2004 quando, mandando il loro primo singolo durante il suo programma pensò: “Its difficult to tell who they’ve been listening to...”. Ed infatti sembra che i loro punti di riferimento, per i testi quanto per le melodie, siano davvero innumerevoli. Ad ogni nuovo brano, ma anche all’interno di ciascun brano stesso, la giostra dei rimandi sembra non fermarsi mai. Ciò nonostante, il disco possiede una sua forte personalità, determinata credo proprio dalla origine inglese dei componenti della band, da quell’ineliminabile ostinazione dei musicisti di quelle terre di render tutto decisamente pop. Quando cercate della buona musica indie dall’Inghilterra, scansatevi le porcherie brit-rock patinate e ricercate roba come questa, sono certo che, a lungo termine, sarete ben più contenti dell’acquisto, felici di scoprire come possa mantenersi fresco al di là di tutte le mode. Gennaro Azzollini


KeepCool

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The Stooges The Weirdness Virgin rock / ****

Quando uno arriva alla soglia dei 60 comincia a guardarsi indietro, magari con la nostalgia dei 20 anni. Se a farlo è Iggy Pop, la reazione e rimettere in piedi la band. Tornano gli Stooges con un nuovo album in studio. Personalmente sono contrario alle cariatidi del rock, ma questa è l’eccezione che conferma la regola. Chi ha visto Iggy dal vivo può capire. Il fuoco del rock and roll non si è mai spento in lui. Questo nuovo The Weirdness lo vede più attizzato che mai, la produzione è affidata a Steve Albini, gli Stooges dietro fanno il loro, pesanti, sporchi. Non siamo dinanzi al capolavoro, questo è chiaro. Ma lo smalto dei fuori classe c’è e si sente. Niente fronzoli, niente fashion victim, ma sudore e rabbia. (O.P.)

Cut of Mica

Finally it’s Friday Green Fog rock / ***

Fa piacere che una band al primo esame dimostri una tale applicazione nella materia scelta. In questo caso i Cut of mica hanno scelto la matematica del rock e se la cavano egregiamente facendo sempre quadrare i conti. Come argomento a piacere portano gli Shellac e sembra il buon maestro Albini sia stato studiato a fondo e assimilato. I cut of mica sono ragazzi curiosi e si applicano trovando spunti anche in territori post, punk, hardcore. Emotivi nelle deflagrazioni umoristiche riescono in aperture soniche lancinanti che si alternano a momenti dalle cadenze spezzate alla Karate. Un debutto che mette in tavola molte carte e tutte buone da giocare. (O.P.)

Urlaub in polen

Health and welfare Tomlab rock / ***

Cresciuti con il Krautrock a colazione e con il noise nel taschino non ci saremmo aspettati un’apertura “melodica” da parte di questa band. I tedeschi sono cambiati e lo fanno con un disco che ne dimostra l’ottimo “stato di salute”. Dopo gli sperimentalismi delle origini scelgono la strada della comprensibilità, scelgono la strada più diretta. Dritti alla meta, con uno sguardo ai Kraftwek e un altro al post-punk. Come in un gemellaggio Inghilterra/Germania,

Grinderman Grinderman Mute rock / ***½

Si dice che con i cinquanta arrivi la crisi di mezza età. C’è quindi chi si tinge i capelli, chi si cerca l’amante e chi compra la Porsche. Da par suo Nick Cave (49 ancora per poco) si fa crescere un paio di baffoni da camionista, imbraccia una chitarra elettrica e, insieme a tre dei suoi compagni di sempre Bad Seeds, cerca di scrollarsi di dosso un po’ della tediosa raffinatezza che plastificava i suoi ultimi lavori. In effetti basta il puzzolente fuzz dell’apripista Get It On e il tappeto acido di chitarre wha del seguente “blues senza fica” a farci capire che qui non si va tanto per il sottile. Il ricercato lirismo del “Re Inchiostro” è qui mutuato con turpiloquio e spacconeria da bancone del bar. In brani come Honey Bee, Depth Charge e Love Bomb quasi riecheggia la follia autodistruttiva e psicotica dei Birthday Party. E quando si tratta di tirare il fiato e di concedersi alla melodia tutto è scarno, scuro ed essenziale. Pungente rivendicazione di chi negli ‘80 era meno stempiato, baciava le capre e si scriveva bestemmie (con l’errore) sul petto. Giovanni Ottini come se Bowie attraversasse il suo nuovo periodo berlinese. Da lontano, dietro il beat e il muro di sinth si sentono echeggiare le onde dei Joy Division, Cocteau Twins… Ci sono spunti quasi dance, i Neu, il gospel, tutti insieme e la convivenza e più che pacifica. Per molti, forse non proprio tutti. (O.P.)

Ladytron

Whitching hour Sleepingstar sinth pop / ***

Glaciale e allo stesso tempo sensuale. Questo è da sempre il suono di Ladytrhon, sinth pop con venature dark. Per questo nuovo Whitching hour la rotta si è aperta verso mari pieni di Shoegaze. Il suono é più denso, gli spigoli del passato sono smussati. Come un raggio di sole che filtra dai nuvoloni e ti mette la voglia di ballare, così è l’attitudine da dancefloor dei Ladytron. Electro-clash quando ancora se ne parlava poco sono stati capaci di trovare una personale evoluzione che oggi li porta ad aver maturato una scrittura variegata addirittura aggressiva in alcuni frangenti. Su tutto sembra posarsi però una polverina magica capace di rendere tutto così dreamy. Ladytron era il titolo di una canzone dei Roxy music, Ladytron è una delle band che guardano agli anni 80 ma

con la testa rivolta verso il futuro, il cerchio è chiuso, ed è perfetto. (O.P.)

10 Corso Como Sacro e Profano Irma world music / ***

Due opposti che alla fine si incontrano, incrociano e mescolano. Il bianco e il nero, l’uomo e la donna, il bene e il male, il sacro e il profano. Assoluti che accomunano il mondo così come la musica: diversa ma alla fine unica. Sacro e profano è il terzo volume di una compilation che esplora la world music con un lavoro di ricerca storico e geografico, world ma non solo, tra le tracce si trovano anche piacevoli divagazioni di generi che vivacizzano l’ascolto. Il primo disco è il sacro. Il canto ti avvicina a Dio si dice ed è proprio la voce la protagonista del disco. Sia essa preghiera, richiamo, invocazione, dichiarazione o addirittura silenzio nella chiusura lasciata a Keith Jarret e al suo piano che parla tutte le lingue del mondo. Nel secondo è il ritmo a prevalere a farsi avanti e prepotente. Suoni latinotronics, il calypso di Harry Bellafonte,


KeepCool il tropicalismo di Caetano Veloso e tanto, tanto ancora. Un disco preziosissimo nel packaging come nel contenuto. (O.P.)

Frankie Valentine

The world of what Sunshineenterprise Cill out Dance World / ***

Un’artista come Frankie ha trascorso gli ultimi trent’anni della sua vita a far ballare la gente, dall’alto della sua consolle ha guardato il mondo. Ha suonato il reggae, la dance fino a scoprire una sua vocazione da produttore. Esce World of what, suo secondo album, suo nuovo studio sulle possibilità del ritmo, sulle sue modernità da pescare nella tradizione. E sembra proprio partire dall’inizio, spiazzati come se si trattasse di un album di world. Un disco in crescendo come un’introduzione alla modernità. Come se Frankie ci prendesse per mano e ci accompagnasse a scoprire da dove si parte e dove si può arrivare. Ogni traccia sembra aggiungere uno strato, un impulso che da acustico diventa sintetico e batte i quarti, avvolto dai sinth. House calda riscaldata da influenze latin, jazz, a tratti deep. (O.P.)

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Stefano Giaccone

Tras os montes La locomotiva / Venus Canzone d’autore / ****

Spesso ci si chiede quale sia lo stato della musica d’autore italiana, quella che dovrebbe proseguire lungo la via segnata da Ciampi, Tenco, De Andrè, De Gregori, Fossati e molti altri. La risposta sarebbe incoraggiante o, ancor di più, entusiasmante se molti dischi avessero a che fare con l’intensità e la poeticità di Tras os montes di Stefano Giaccone. Già leader dei Franti, uno dei più importanti gruppi underground italiani degli anni ’80 dal quale proviene anche la cantante Lalli, ha partecipato a vari progetti, ha collaborato con numerosi artisti ed è ora giunto alla sua quinta fatica da solista. L’album si muove tra chitarre e spunti jazz con testi che potrebbero essere letti anche senza musica che spaziano dal personale all’impegno sociale. Registrato in Galles con l’ausilio di Dylan Fowler, il disco ospita musicisti internazionali come Nathan Thomson, Tomos Williams, Gillian Stevens, Oliver e Rachel Wilson-Dickson.

Avion Travel

Danson Metropoli Sugar Rivisitazione d’autore / ****

Non è mai facile realizzare una cover giacché si rischia sempre di scivolare in imitazioni ridicole o in interpretazioni che fanno rimpiangere l’originale. Gli Avion Travel, guidati dall’istrionico Peppe Servillo nella nuova formazione in quartetto (abbandonati i fasti e gli “sprechi sonori” della Piccola orchestra), riescono nella difficile impresa di reinterpretare un maestro sacro della musica d’autore come Paolo Conte. Danson Metropoli accoglie undici canzoni dell’avvocato piemontese, e non tutti pezzi molto conosciuti, e un inedito scritto appositamente (Il giudizio di Paride). Nelle versioni firmate Avion Travel convivono la grande passione di Servillo e il virtuosismo chitarristico di Fausto Mesolella, arrangiamenti asciutti e non barocchi e soluzioni stilistiche originali. Lo stesso Conte si mette in gioco e accompagna la band e una strepitosa Gianna Nannini in una intensa versione di Elisir. La napoletanità degli Avion spicca poi in Spassiunatamente. Da segnalare anche la versione strumentale di Max. “Abbiamo cercato di essere interpreti ma anche, un poco, autori, come del resto un buon interprete dovrebbe essere sempre”, aveva commentato Servillo. E, secondo me, sono riusciti nell’opera. Pierpaolo Lala

Tra gli undici brani anche Senza sicura di Marco Peroni ed Edoardo Cerea, La neve dei 24 Grana e Tuo per sempre, traduzione da John Doe. Buone notizie. (pila)

Anonimo Ftp

Lo sguardo dal cielo Il re non si diverte Rock / ***

“La semplicità è più importante della voglia di stupire”, la frase impressa sull’ultima pagina del booklet e sull’home page del sito fotografa al meglio la proposta musicale degli Anonimo Ftp. Dall’alternative rock dell’esordio Vetro (2002), alla vena psichedelica del successivo My Dreams, con questo Lo sguardo dal cielo la band milanese viaggia diretta verso l’essenzialità pop/rock (nella migliore delle accezioni). Ovviamente nulla di innovativo ed entusiasmante ma è un disco che gira bene, è ben suonato, ben cantato e ospita alcuni brani interessanti. Gli Anonimo Ftp sono destinati a crescere. (pila)

..A Toys Orchestra Technicolor Dreams Urtovox Indie ****

Gli ...A Toys Orchestra sono cresciuti, sbocciati come un fiore. I loro giochi sono diventati più intriganti, i mezzi a disposizione solidi (merito anche di un’interminabile tour), la poetica rafforzata da una maturità stilistica e artistica raggiante. Le loro canzoni fatte di sogni sono oggi in Technicolor, sgargianti anche nelle tinte più autunnali. La band campana ha scelto, per questo disco, di fare le cose sul serio. Sono stati prodotti Dustin O’Halloran (Devics) che gli ha cucito addosso un suono che profuma di internazionale. Il risultato è Technicolor Dreams che arriva a tre anni dall’esordio in casa Urtovox e appaga le aspettative. La band riesce a muoversi su registri che passano dall’indie al pop, grandi aperture, surreali teatrini, isterismi, carezze, corali reminiscenze anni 60. Pink Floyd, Delgados, Blonde Redhead tutto e alla fine niente perché con questo album gli ...A toys Orchestra dimostrano di aver intrapreso un percorso assolutamente personale e unico, per lo meno in Italia. Un gruppo che è pronto a spiccare il volo. (O.P.)


KeepCool

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Vito Ranucci & Musicisti di Napoli Est Il giardino delle delizie La Frontiera / Rai Trade ElectroFolk / ****

È un disco curioso, sofisticato e appassionante. Se ne ascoltano i primi passaggi e si ha l’impressione di avere a che fare col già sentito, con un prevedibile esempio di musicista partenopeo irretito dalle contaminazioni e dal suo stesso dialetto. Epperò, ascoltando più a fondo Il giardino delle delizie, si coglie lo spessore delle sue scelte, la corposità dei suoni, le rifiniture di mestiere. Vito Ranucci è principalmente un sassofonista - dal suono splendido peraltro - ma è anche un compositore, un musicoterapeuta, un filosofo, e un sessionman di rango. E tutto questo si intuisce con l’andare del tempo. Il suo sound attinge all’elettronica (Cala ‘a sera) e al jazz (Etoile), al popolare (Bella figliola) e alla musica antica (Canto veranlis); e mischia tutto quanto in un modo efficace, che non è leggero, tuttavia non è nemmeno borioso o saccente. È frutto di una conoscenza attenta, e di un’atmosfera concentrata, ma nondimeno è sornione e istintivo, come tutti i napoletani. Gianpaolo Chiriacò

La Resistenza

La ballata ti lu clandestinu Autoproduzione Folk-rock d’autore / ****

Che si usi l’inglese, l’italiano, il sanscrito o il dialetto di Mesagne, il difficile - trattando di canzoni - sta nel dosare le parole al punto giusto, nel posizionare sillabe e note con accorta semplicità. La Resistenza possiede questa virtù: sa giocare abilmente con il materiale a disposizione; sa fare dell’economia espressiva la sua arma migliore. La band ha poco più di due anni di vita, ma già una certa fama, dovuta alla professionalità e al vigore con cui affronta ogni brano. Nel disco si scorgono le qualità migliori dei musicisti, in particolare la carica di Enrico Cervellera alla voce e il melodiare scattante di Emanuele Raganato al sassofono. I testi, scritti in dialetto e densi di tensione civile, riconducono direttamente

Paolo Zanardi

I Barboni Preferiscono Roma Olivia/Venus cantautore / ****

Zanardi è un talento. Lo avevo scritto in occasione dell’uscita di Portami a Fare Un Giro, e lo ribadisco per questo nuovo I Barboni Preferiscono Roma. Cosa ha di speciale il cantautore pugliese? Forse niente, a parte il fatto di saper scrivere canzoni significative senza dover ricalcare per forza chi lo ha preceduto. Quanta voglia c’avete di ascoltare un cantautore caposseliano? Zero? Io lo stesso. E la musica di Zanna non c’entra una mazza né con Vinicio né con altri cattivi maestri. Assomiglia solo a se stessa. Inoltre, come se niente fosse, il nostro è capace di inventarsi melodie notevoli a servizio di storie di marginalità dotate di una poetica non comune. Il tutto infarcito da una precarietà – strumentale e non - assolutamente disinvolta. Il disco, dall’apertura di Piazza Vittorio sino a Lady Lazarus (ottava traccia!) praticamente non conosce cedimenti e mantiene, sino alla conclusiva Suite, un livello molto elevato. Canzoncine assortite abitate da personaggi ai limiti, dalla nutrita fauna di Piazza Vittorio al Pompeo di Paz -, passando per barboni e altre frattaglie urbane, senza che affiori mai maniera o autocompiacimento. Del resto Zanardi è uno vero. Sarebbe il caso che qualcuno se ne accorgesse. Ilario Galati

al linguaggio delle posse, ma con un certo tocco d’autore. Gioverebbero certamente, al sound del gruppo, una varietà maggiore nei campionamenti e nell’uso delle percussioni. Ma ogni gruppo, in fondo, è perfettibile, soprattutto se cresce in fretta come La Resistenza. Gianpaolo Chiriacò

Antonello Messina Aziyz Dodicilune jazz / ****

Aziyz è strada, fatica, amore, forza, coraggio, dubbio, pensiero. Pezzi che hanno forza melodica, fantasia ritmica, pensiero intenso, che parla con respiro di fisarmonica, di bandoneon, voce di piano, mai tanto atteso e sperato, e fiato di tromba il tutto sostenuto brillantemente da sapiente contrabbasso e batteria. Assolutamente generoso, Antonello Messina ha scritto ogni fraseggio come se fosse quello del suo strumento, la tromba da’ fiato alla

trama delle stelle sostenute dal cielo dipinto dal piano, che sfiora in più occasioni lo spettro cromatico dell’anima, la batteria, il contrabbasso sembrano figli prediletti. La fisarmonica e il bandoneon hanno uno spazio definitivo. Come dire, in quel contesto, in quel brano,dietro quella melodia non si può, o meglio non si deve dire nulla di più e nulla di meno. La traccia n.3 è una rivisitazione assolutamente geniale del brano di Ivano Fossati L’orologio Americano. Un omaggio sentito e sincero. Chi già conosce quel brano sentirà che, se si può fare un’operazione del genere, quella è l’unica possibile, e forse l’unica consentita. Fedele, generosa e assolutamente riverente… poi... poi un’inversione ritmica che non lascia fiato, ti prende per le spalle, e ti trascina, ma


KeepCool non troppo veementemente fra tutto un tempo impazzito, che gira intorno per poi a riportarti gentilmente lì dove ti aveva preso, a lasciarti accarezzare dal fraseggio noto e delicato, come lo si vorrebbe, come solo deve essere. Waltz for Debby, la traccia n.9 è un’altra splendida interpretazione del celebre brano di Bill Evans. Amore puro, pura passione, come specifica lo stesso Antonello Messina. Il resto è un percorso fra strutture, note, alternanze, soffi di vento, intonazioni evocanti di bandoneon, e le mille dita di Messina sanno farsi sentire, ma se appena ci si sofferma ad ascoltare, allora entrano, e parlano, di stelle, di luci piccole e grandi, che si fermano ad illuminare il tempo che abbiamo e non abbiamo. Nostalgie come felicità vicine e lontane, bocconi di vento, e tutti gli imprevisti del caso. Un disco che si lascia ascoltare, non troppo tecnico, non troppo scontato. Intenso come i grandi sentimenti, e come quelli, proprio come quelli, semplice, percorribile e sconfinata. Elena Cipresso

Luca Lo Bianco

La scomparsa di Majorana Silta Records Teatro musicale / *****

Spesso, si dice, la musica ha un intento narrativo. Talvolta, invece, si ispira a un testo già scritto. Talaltra, sono le parole a essere plasmate dalla musica. Ma raramente si giunge a una tale compenetrazione fra suoni e trama, fra l’impianto armonico e il racconto. L’idea di Luca Lo Bianco si può sintetizzare nell’espressione “teatro musicale”, ma affronta la difficoltà

21 supplementare di essere compressa in un disco, di non avere a disposizione una scenografia, un palco e delle quinte per sostanziarsi. Ebbene, nonostante tutto, La scomparsa di Majorana è un cd che catalizza completamente l’attenzione, che si impone a tutte le facoltà cognitive, e pretende di essere ascoltato. Perché ha tutto: una struttura musicale avvincente, fatta di jazz ma anche di sequenze elettroniche e di fioriture vocali; un testo (recitato, perlopiù) che avvince e cattura, costruito intorno all’omonimo libro di Leonardo Sciascia; un’indiscutibile originalità. E perdipiù si innesta su un caso - quello di Ettore Majorana - che si colloca tra i più delicati (quindi meno pecorecci) misteri italiani. Il disco ha anche il merito di riscoprire tale caso, di raccontarlo in pochi tocci ma con chiarezza, e di interpretarlo con gran classe. Gianpaolo Chiriacò

I Tarantolati di Tricarico U’Squatàšçë Compagnia Nuove Indie Folk / ***½

Nel campo della riproposizione della musica popolare, I Tarantolati di Tricarico rivestono un ruolo dominante. La loro attività ha più di trent’anni di vita, e da sempre sono riconoscibili per il ritmo travolgente, l’insieme di voci potenti e generose, e il talento live unico. Per tali motivi, i Tarantolati di Tricarico non possono fare altro che incidere un disco dalla pulsazione incessante, in cui spicca (e come non potrebbe farlo?) un muro di percussioni pauroso. Molto azzeccate anche le intromissioni del basso, che riescono a dare un ulteriore tocco di groove alla portata ritmica di U’Squatàšçë. Certo, nel suo genere, il disco è un piccolo capolavoro, o perlomeno non ha alcun difetto: è ben suonato - ascoltare Lillilà, il brano iniziale, per averne una chiara idea -, cantato con eccezionale vitalità (soprattutto nelle filastrocche musicate di Hàtta mammóne e di Uno: montë la lunë) e realizzato con squisita onestà. Ciò nonostante, non riesce a spostarsi dal proprio specifico campo d’azione quello del folk -, ed è un peccato, perché i Tarantolati, dal vivo, riescono a solleticare anche il più inveterato anti-tradizionalista: potrebbero riuscirci facilmente anche con le incisioni. Gianpaolo Chiriacò

Pilar

Femminile singolare Valter Casini Music jazz mediterraneo / ****

Prendi la tradizione e trasformala in habanera (Curre a mamma toja); prendi le onde fredde dell’Atlantico che raggiungono il Portogallo di Pessoa (Alma fluvial); e poi prendi musica leggera, ma nel senso calviniano di “sottrazione di peso”; infine prendi una voce autorevole, limpida, abilissima nel fraseggio rapido (rapidità, altra categoria di Calvino) e nei toni acuti, e lascia che impastino flicorno e fisarmonica. Femminile singolare è un album pieno di Mediterraneo, acquatico, dove le protagoniste non sono le parole (che talvolta indulgono nell’ingenuità - da segnalare qualche gabbiano di troppo), ma le correnti. La personalità di Pilar unifica, sintetizza e governa canzoni di sensazioni. Le storie sono poche, contro il dominio della musica che le parole assecondano con mestiere. In Femminile singolare attendi il climax, aspetti che la musica cresca, che la voce lasci le proprie catene (Lontana, Alma fluvial). Ed è in questo scatenamento, nella dimensione verticale più che in quella orizzontale, l’essenza e l’originalità di Femminile singolare, che rivela i suoi momenti più alti – oltre che nelle canzoni già citate – nella ritmatissima Cenere e diamanti, in Piuma, Scacco matto e Amistad. Del carisma di Pilar ci si può capacitare anche vedendo il dvd-concerto allegato al cd: la canzone trascina, qui, anche sostenuta da una grammatica del corpo molto personale. Correda il cofanett anche un book a dire il vero piuttosto disorganico con brevi “momenti” della vita del quartiere San Paolo di Roma, quello da cui Pilar proviene, descritti e fotografati.


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C’era una volta, nella lontana e incasinata città di Los Angeles, un gruppo di studenti del Dipartimento di Belle Arti dell’Ucla: Bruce Licher, Philip Drucker, Mark Erskine, Jeff Long si ritrovavano nei sottopassaggi e nei parcheggi dell’università per registrare strani suoni strumentali metallici e percussivi. Si chiamavano Africa Corps. Di lì a poco sarebbero diventati i Savage Republic. Era il 1981, il mondo era stato da poco sconvolto dal terremoto del punk, il nuovo genere musicale che prometteva valanghe di soldi per le case discografiche che facevano a gara per accaparrarsi qualche gruppo di debosciati che potessero diventare i nuovi Sex Pistols. Qualcosa di buono ne uscì comunque fuori, ma per lo più fu una carnevalata. Come giustamente sottolinea il buon Reynolds, nel suo Post-punk (Isbn ed.), quella del punk fu una parentesi di radicalismo whiterock conservatore all’interno di una lunga storia di art-rock che dal progressive e il kraut-rock dei primi ’70 è proseguito di fatto senza sosta fino alla metà degli anni ’80 con la new wave. Anche L.A. subì le sue ferite nichiliste (ben documentate da Penelope Spheeris in The Decline of Western Civilization) e potette godere di propri martiri (Darby Crash). Ma il punk era roba per disadattati sociali, per i reietti, era l’espressione di sofferenza e di rivalsa dei giovani dei ceti bassi. Gli ambienti artistici studenteschi, al contrario, esprimevano ben altre esigenze, mostravano un’attitudine marcatamente arty e intellettualoide, e portarono avanti un discorso di ricerca e sperimentazione musicale in definitiva del tutto opposto al rigorismo rock’n’roll del punk. La musica non era uno sfogo, ma una componente di un più complesso e ampio sviluppo concettuale. A tal proposito ricordiamo cosa scrisse Bruce Licher, fondatore dei Savage Republic e dell’etichetta Indipendent Project: “Tragic Figures si presenta come un tentativo (pienamente riuscito) di opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk). L’unità concettuale che lega la dimensione sonora a quella visiva non può essere scissa, pena la sostanziale incomprensione del progetto Savage Republic e più in generale del progetto I. P. Rec.”. La creazione artistica in ogni sua forma seguiva un preciso filo ideologico che andava oltre la musica stessa. I Savage Republic d’altra parte non furono un caso isolato: intorno a loro sorse una variegata comunità di musicisti e artisti, nonché di progetti ed etichette indipendenti. Tra queste bisogna ricordare la Trance Port Tapes, che di fatto diede il nome alla scena, la “trance music”. Qui si definiva il comune interesse per il concetto di trans-porto, di veicolamento, di medium, e di conseguenza per il viaggio, l’esplorazione, ma anche il rapimento mentale, l’estasi. Spiega A Produce, uno dei fondatori: “Non siamo interessati alla trance

KeepCool Sarebbe stato interessante far uscire questo numero con un elenco di definizioni chieste un po’ in giro su cosa significhi punk oggi, cioè a distanza dei 30 anni che ci separano dalla sua nascita. Non è scontato domandarsi cosa voglia dire punk nel nostro tempo, al cospetto, ad esempio, di generazioni più giovani e di tendenza che hanno adottato il termine punk, nelle varianti di punk-a-bestia e punk-a-merda, per indicare individui spregevoli e paria della società; né è chiaro il legame che, ad esempio, il mondo della moda ha coltivato con cura in questo trentennio - Zandra Rhodes, Vivienne Westwood e Jean Paul Gaultier - mantenendo inalterato il fascino per gli accostamenti radicali, per gli strappi e le scuciture, per le borchie, per i piercing, per le ciocche di capelli colorate e per l’uso di tanto, tanto nero, dalle unghie smaltate alle spalline dei reggiseni che spuntano, soprattutto se si pensa che il punk nasceva come rifiuto dei canoni della moda: punk is attitude not fashion. Il punk musicale è fortemente connesso con il tessuto urbano, con quelle città dove le forme di produzione sono improvvisamente mutate, il lavoro è diventato immateriale e il disagio giovanile si concretizza in rabbia, contestazione, antagonismo e performance-shock. È punk Londra, Berlino, Milano, Bari – indimenticabile l’esperienza della giungla barese degli anni ’80. Poi, improvvisamente, il 25 novembre 2006 muore Professor Bad Trip (nella foto), il più grande artista underground italiano che aveva dato luci e visioni all’immaginario punk. Allora lab080 ha pensato di richiamare alla memoria quegli anni con la piccola rassegna Supamolly 1977-2007 (dal nome di un club underground berlinese): due live (3 e 23 marzo) in collaborazione con Tiger Town e interni alla rassegna Planet of Sound e due reading-concerto affiancati da seminari all’università. Supamolly è un progetto che pratica l’etica del D.I.Y., è autoprodotto, ad ingresso gratuito e si dirama per varie location del sottobosco urbano. (info www.myspace.com/lab80) Claudia Attimonelli (aka lenore) music al suo stato puro e minimale, quanto all’idea o all’elemento trance così come si manifesta in differenti idiomi musicali”, e di fatto la scena trance non possiede alcuna forma univoca nello stile, “l’elemento trance si può cogliere sin da quando africani e asiatici cominciarono a battere su percussioni artigianali”. Nel 1982 uscì Tragic Figures, un album determinante per quella che sarà l’evoluzione musicale del post-punk e non solo (in particolare influenzò il desert rock, la neo-psichedelia, l’industrial e soprattutto il post-rock, del quale furono protagonisti con il loro progetto successivo, gli Scenic). Dopo un cambio di formazione seguirono l’EP Trudge e un secondo grande capolavoro: Cerimonial. Qui la fascinazione per le sonorità esotiche si accentua dando vita ad un complesso e inedito ethnic rock, una sorta di world music psichedelica: la trance raggiunge il suo vertice creativo. Dice Licher a proposito di questa loro ammirazione per i temi esotici: “Il mondo arabo, mediorientale è un’autentica miniera assai poco sfruttata, una esplosione di colori, di simbolismi. Il semplice alfabeto arabo d’altronde ha un’eccellente densità pittorica nelle sue lettere”. Giunsero poi Jamahiriya (1988) e Customs (1989), ultimo definitivo passaggio nell’evoluzione del gruppo, il momento della loro estrema maturità. La loro ultima esibizione fu il 25 febbraio 1989. Era il momento giusto, per evitare una triste e immeritata degenerazione nella formalità o peggio nella pacchianeria. Ora sono tornati, convinti di avere ancora qualcosa da dire. E in attesa del nuovo album, godiamoci per ora questo inaspettato live, certi che potranno ancora trans-portarci, anche se solo per un’oretta, attraverso quelle loro magiche atmosfere. L’appuntamento è martedì 13 marzo al Bohemien di Bari all’interno della rassegna Planet of sound. Gennaro Azzollini


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Si intitola La Seconda Rivoluzione dei Tre Allegri Ragazzi morti il nuovo lavoro della band capitanata dal rocker-fumettista Davide Toffolo. Il trio di Pordenone, giunto al suo quinto disco, celebra così il suo primo decennio di vita. Registrato presso il Green Fog Studio di Genova (di proprietà dei Meganoidi) e prodotto da La Tempesta, label gestita degli stessi T.A.R.M., l’album giunge a tre anni di distanza dal precedente Il Sogno del Gorilla Bianco. La Seconda Rivoluzione Sessuale contiene al solito brani secchi, veloci, ironici e profondamente pop, pur introducendo una serie di novità interessanti nella scrittura e negli arrangiamenti. Abbiamo intervistato Enrico Molteni, bassista della band. Questo disco segna il vostro ritorno discografico dopo circa tre anni di assenza. Vi siete occupati anche di altro in questi ultimi anni ma mi pare di capire che questo vostro ritorno sia piuttosto ragionato e meno spontaneista rispetto ai dischi precedenti. Sicuramente, la differenza è che questa volta siamo partiti dalla musica, mentre prima partivamo da un’idea della singola canzone, dalle parole o dal ritornello. Questa volta siamo partiti dalla musica e ci siamo concentrati specialmente su di essa, pur non essendo noi dei virtuosi dello strumento. Forse per questo suona un po’ più ricco dei precedenti.

Soddisfatti quindi? Direi di si. Le registrazioni sono durate 5 mesi e in questo lasso di tempo l’umore naturalmente andava su e giù nel senso che fino all’ultimo momento non eravamo certi che il tutto ci avrebbe davvero soddisfatto. Una volta finito invece tutti e tre ci siamo ritrovati d’accordo sul valore del lavoro che credo rappresenti bene quello che siamo adesso. La Seconda Rivoluzione Sessuale è il vostro quinto lavoro, che chiude idealmente il primo decennio di vita dei T.A.R.M. Che effetto fa suonare rock’n’roll e non essere più coetanei della propria audience? Questa è una domanda difficile. Io ho iniziato questa avventura che avevo diciotto anni per cui c’era una totale corrispondenza anagrafica con il nostro pubblico. Adesso siamo cresciuti ma mi piace pensare che siamo riusciti a mantenere un approccio e uno spirito che ci tiene legati agli adolescenti. Anche se devo dire che i nostri ascoltatori sono un po’ cresciuti rispetto agli esordi, nel senso che alcuni, diciottenni all’epoca, continuano a seguirci ancora adesso a dieci anni di distanza. Il disco l’avete registrato a Genova nello studio dei Meganoidi. Città importante per la musica italiana, come sottolineano le note stampa che accompagnano il disco… …Diciamo che il vero contatto iniziale è stato proprio quello con i Meganoidi infatti Mattia (Cominotto ndr)ha registrato il disco e ha suonato in alcuni pezzi. Quindi la scelta della città era inizialmente in secondo piano. Poi ci siamo resi conto di come Genova sia una città che ti influenza. È una città difficile per certi versi, che si è rivelata piena di musica e di persone nuove con ottime idee. Infatti ci venivano spesso a trovare in studio e molti di loro sono entrati nel disco. E nel disco ci sono anche gli Zen Circus e Brian Ritchie dei Violent Femmes. Raccontami di questi incontri. Allora, dopo aver registrato il disco siamo andati a Ferrara a missarlo e nello stesso studio c’erano gli Zen Circus che avevano questo contatto con Brian Ritchie e stavano cominciando a registrare il loro nuovo disco. Brian, oltre ad essere un grande musicista, è una gran bella persona. Gli abbiamo chiesto in inglese maccheronico di buttare un basso in un nostro pezzo e lui ha detto “si, perchè no” e da lì è nata questa collaborazione che per noi è stata molto importante perché abbiamo sempre seguito la sua musica. Entriamo nel disco. C’è un pezzo che si intitola La Sindrome di Bangs e che omaggia a vostro modo il celebre critico musicale. Posto che ormai il vecchio Lester è un feticcio (con tutto quello che ne consegue e in primis una certa acriticità di giudizio, ndr), come è nata questa idea? Ovviamente è Davide che scrive i testi per cui lui ti risponderebbe meglio. Comunque, mi sembra un pezzo particolare… è difficile che si scrivano pezzi per parlare di giornalisti musicali. Naturalmente è soprattutto un omaggio ad un certo tipo di critica e giornalismo libero. Con uno stile letterario tutto suo. A leggerlo oggi cogli che tutto sommato nella nostra epoca manca un’altra figura come lui. Inoltre nel disco c’è una cover. Non è la prima volta che vi misurate con pezzi altrui ma questa volta lo avete fatto in modo particolare. Anzitutto perché avete scelto My Little Brother degli Art Brut? Perché ci piaceva l’idea di interpretare un brano di una band contemporanea. Abbiamo visto il loro live e ci ha colpiti la loro attitudine che è molto simile alla nostra: un set fatto di canzoni fresche, veloci, con tanti slogan. Quella canzone in particolare ci sembrava suonasse bene perché in molti ci dicono “per colpa vostra il mio fratellino – o mio figlio – adesso ascolta il rock’n’roll, siete voi che gli avete fatto conoscere uno stile di vita diverso”. Per cui, Mio Fratellino Ha Scoperto Il Rock’n’Roll ci sembrava perfetta. L’abbiamo tradotta praticamente alla lettera, senza reinterpretare liberamente il testo. L’abbiamo decisa al volo. Ed è diventato un pezzo dei Tarm Brut (ride)… Qualche cambiamento all’orizzonte per quanto riguarda le ‘strategie’ mediatiche dei Tarm? Intendo: abbasserete la maschera? (ride) No, credo proprio di no. A questo punto non avrebbe molto senso tornare indietro. È interessante l’idea di inventarsi nuovi modi per trasmettere la propria immagine, senza però accantonare la mascherina, che ormai è un simbolo e ai concerti vengono tutti in maschera. Non potremmo mai abbandonarla. Ci piacerebbe sfruttare i fumetti di Davide Toffolo, un po’ come hanno fatto i Gorillaz, ma per noi è difficile immaginare degli show spettacolari come quelli della band di Albarn. Ilario Galati


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KeepCool

REQUIEM TOrNA IL rITO DEI VErDENA I Verdena sono quello che il rock dovrebbe essere. Hanno mosso i primi passi giovanissimi e sempre giovani hanno raggiunto fama e credibilità. Merito di una scrittura decisa, di un talento grintoso e di una sana dose di strafottenza. Amati o odiati come ogni estremo, i Verdena escono in questi giorni con il loro nuovo album Requiem. Dopo varie collaborazioni questa volta decidono di fare tutto da soli (o quasi, due brani sono prodotti da Mauro Pagani). La prima parola che viene in mente ascoltando il disco e parlando con il cantante chitarrista Alberto è sincerità. Sono passati tre anni dal vostro precedente Il suicidio dei samurai una pausa lunga, cosa è cambiato in questo periodo, come siete cambiati? Sono stati per certi versi tre anni di riposo; la sensazione, quello che sentivamo in questo periodo, era di non farlo, di non realizzare un nuovo disco, non era in programma per lo meno. Poi negli ultimi sei mesi ci siamo messi in studio e abbiamo cominciato a registrare qualsiasi cosa. Per la maggior parte erano jam, improvvisazioni a volte lunghissime a cui hanno partecipato anche amici. Dopo questo periodo abbiamo riascoltato tutto e scelto quello che ci sembrava migliore. Credo che tra una cosa e l’altra abbiamo scelto tra 150 pezzi, frammenti, robe. Questa volta non ci siamo imposti niente. Molti si riferiscono a voi usando parole come maturità raggiunta, io credo sia una vostra evoluzione, una normale crescita, tu come ti vedi se ti guardi alle spalle e come vedi oggi te e i Verdena? Credo la metodologia sia sempre la stessa fin dall’inizio. Quello che cambia è l’esperienza, quello si. Sai, c’è il mondo che cambia che a un certo punto salta fuori, ti scopri diverso. Cose che da piccolo non vedi. Forse è vero che sarebbe meglio restare bambini per sempre. Oggi credo di avere un’attitudine più rabbiosa, sono stanco della spensieratezza.

Da rivelazione e giovane promessa del rock italiano siete oggi una delle realtà più solide e più seguite in Italia, sentite una responsabilità verso il vostro pubblico? Non sento una responsabilità, certo mi rendo conto che ci sono tante persone che ci ascoltano, che cantano le canzoni ai nostri concerti, che sanno le nostre canzoni a memoria, che magari riflettono su quello che dico. Credo sia una cosa molto interessante. Avete fatto, nel bene e nel male, proseliti, ci sono decine di gruppi nati attingendo al vostro stile, cosa ne pensate? Sentirlo fa un certo piacere. Sinceramente io non sento molte cose che ci somigliano in giro. Mi è successo qualche volta con dei demo. Alla fine quello che penso è ...non ce la farete mai! (ride, ndr). Dopo il disco, il live, una dimensione a voi congeniale, chi vi ha visto dal vivo ne è rimasto folgorato, qual è il vostro rapporto con il palco? Sicuramente il live è una dimensione in cui ci muoviamo bene. È una cosa magica, credo si tratti di adrenalina. Se c’è da tutte e due le parti, band e pubblico l’effetto è pazzesco, c’è scambio... è una cosa difficile da spiegare. Questo numero di Coolclub.it è dedicato al 1977, che rapporto hai con quegli anni e con il punk? Il punk è importante per me come i Beatles, Miles Davis. Mi piace molto, pensa che quando sono nervoso torno a casa metto su Damaged dei Black Flag e mi rilasso. E poi sicuramente i Nirvana, loro erano molto punk... Quali nuovi gruppi ti piacciono. Mi vengono in mente solo i Jennifer Gentle. Osvaldo Piliego


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Un lungo percorso come chitarrista alle spalle, un presente che lo vede pubblicare il suo primo disco solista con Il re non si diverte. Nato in Canada ma milanese a tutti gli effetti, Giuliano Dottori è autore di canzoni dense di sentimento, melodia, eleganza. Lucida è un disco che ci ha subito conquistati. Mentre la radio passa sentimenti annacquati Giuliano è la risposta a chi chiede notizie sul nuovo rock. America, Inghilterra, Italia si danno appuntamento in queste tracce toccanti. Una serie di musicisti ispirati al suo fianco, elettrico e acustico alla stesso tempo, indipendente per scelta Giuliano Dottori è un talento che va scoperto. Un esordio arrivato con calma, quella necessaria per realizzare un disco così intenso, cosa ti ha portato a Lucida? Le prime registrazioni del disco risalgono al 2004: è stato un lavoro in effetti molto lungo. Non è stata in realtà una scelta, perché il progetto è nato davvero nei ritagli di tempo lasciati liberi dai vari progetti in cui sono impegnato come chitarrista. Ovviamente questo mi ha permesso di riflettere molto su questo disco, scrivendo moltissimo materiale che poi ho accantonato e provando più strade sia di arrangiamento che di produzione artistica. Nel tuo disco si sentono i Radiohead, Nick Drake, gli Air, Battisti, gli Afterhours, Moltheni, quanto di questo c’è dentro la tua musica, quant’altro? Confesso di non aver neppure un disco di Battisti: conosco alcune sue canzoni, quelle che conoscono tutti, ma devo dire (eresia!) che mi piace davvero poco, pur riconoscendone la grandezza – diciamo – “storica”. Negli altri nomi che citi mi riconosco abbastanza, nel senso che sono riferimenti diretti (Nick Drake) o artisti cha apprezzo molto (Afterhours, Radiohead). La lista sarebbe poi in realtà quasi infinita: Beck, Paolo Benvegnù, Elliott Smith, Bob Dylan, Francesco De Gregori, Neil Young, Led Zeppelin, tanto per citare

i nomi più celebri. Poi ho senz’altro diversi riferimenti nel campo della musica colta, applicata e non: Steve Reich, Howard Shore, Shostakovich, Debussy e centinaia di altri nomi. Che poi si sentano echi di questa musica nel mio disco non spetta a me dirlo. La tua vocazione è acustica, il disco è arrangiato con eleganza rara, ha delle piccole salite per poi rituffarsi in momenti molto intimisti, è un modo per mettere in evidenza i testi, la voce, un modo per avvicinarti alla tradizione cantautorale... cosa? Avrei voluto, in origine, che Lucida fosse un disco acustico. Poi mi sono reso conto che in un disco d’esordio è molto importante definire il più possibile il proprio mondo musicale, che nel mio caso – come ho accennato sopra – è davvero molto variegato. Così ho curato nei minimi dettagli gli arrangiamenti e mi sono volutamente sbizzarrito, chiamando a raccolta i tanti musicisti con cui ho avuto la fortuna di suonare in questi anni. Non ho fatto tutto questo per avvicinarmi a una tradizione che sinceramente non sento mia, quanto per rivendicare l’idea, in un mondo dominato da Pro Tools e Auto-Tune, che la musica si può ancora scrivere sul pentagramma e che è possibile fottersene

di avere o meno un singolo “forte”. Definiresti Lucida un disco triste, malinconico, riflessivo? È sicuramente un disco riflessivo. Tutti i testi sono in definitiva riflessioni sul passato che ritorna, sulla potenza dei ricordi. Esci con una indipendente ma il tuo disco ha potenzialità da major. È una scelta o un percorso? Non so se questo sia un complimento, ma lo prendo come tale e ti ringrazio. Credo che da un punto di vista strettamente musicale non sia l’etichetta discografica a fare il prodotto: ci sono meravigliosi artisti major e migliaia di artisticoli che pubblicano con una indipendente con la speranza di arrivare un giorno a una major. Io dalle major non ci sono neppure andato, c’avevo provato anni prima con altri progetti, ma non questa volta. Ho fatto una scelta di crescita, in un certo senso. Credo che da anni la major abbiano una politica del breve termine, del tipo “proviamo con un singolo e se va male addio”. Viceversa nel mondo indipendente, dove si lavora più per passione che per fare fatturato, si pensa a far crescere gli artisti, anche nel corso di più anni. Penso che il percorso degli Afterhours da questo punto di vista sia stato esemplare. Osvaldo Piliego


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Continua senza sosta il nostro viaggio nel sottobosco discografico italiano. A ben guardare si trovano fiori, strane piante o animali teneri e socievoli con la passione per la musica. Sono quelli della Macaco. Abbiamo parlato con Alberto e Solenn. Macaco: una strana bestia si aggira tra le etichette indipendenti. Quando è stata avvistata per prima volta? Alberto: Siamo usciti dalla giungla nel 2004. All’epoca eravamo in quattro e suonavamo assieme nei Grimoon e nei Libra. Era logico partire con le nostre produzioni per sondare il territorio e abbiamo fatto uscire il primo cd dei Grimoon Demoduff #1 e uno split dei Libra. La cosa ci è subito piaciuta e abbiamo continuato con Alessandro Grazian Caduto, poi con Marcho’s, Vega Enduro e adesso stiamo continuando per allargare sempre più il catalogo. Avere un etichetta era un nostro sogno. Venivamo fuori già da altre esperienze finite male, volevamo ripartire e abbiamo unito le forze per farlo. Ascoltando il vostro catalogo la prima cosa che colpisce è l’ecletticità della proposta. Da Grazian a Marcho’s passando per i Vega Enduro. Come vi avvicinate agli artisti in catalogo, seguite una linea o vi lasciate guidare da infatuazioni... Alberto: Dalla nascita dell’etichetta abbiamo sempre lavorato con artisti che ci piacciono…è la condizione fondamentale, al di là dei generi musicali. Effettivamente i titoli in catalogo spaziano da un genere a un altro. Essendo i Macachi degli animali docili e socievoli ci piace stare assieme alla gente. Il nostro catalogo è fatto di amici ma anche di artisti incontrati nel nostro percorso, strada facendo. La macaco vuole essere una struttura dove i musicisti si possano sentire accolti e assieme a loro organizziamo il lavoro sulla produzione del disco. Ci parli un po’ dei vostri gruppi? Solenn: Nella cesta della musica cantautoriale c’è Alessandro Grazian, autore e interprete delle proprie canzoni. Abbiamo

collaborato con la Trovarobato per far uscire il suo primo disco. Alessandro è un musicista molto professionale e determinato. Le sue canzoni in questo disco sono dei piccoli frammenti della sua personalità. È un lavoro che arriva dopo molti anni di preproduzione. Tra cantautorato, folk e pop, ci sono i Grimoon che hanno appena fatto un nuovo disco (che stanno promuovendo in questo periodo), La lanterne magique. I Grimoon propongono un’immersione nell’immaginario collettivo (e personale) con le loro musiche e i loro cortometraggi. Sono anche il nostro ponte tra la Francia e l’Italia. Tra pop e elettronica c’è Marcho’s, alieno delle montagne che si esibisce in compagnia di 2 altri alieni. Nella sua musica c’è il pop danzante e nei suoi testi il cinismo del mondo moderno. Poi c’erano i Travolta, i Libra e i Vega Enduro che purtroppo sono fermi adesso. Con i primi eravamo vicini ad un pop punk in italiano, cinico e spensierato. I Libra erano più introspettivi e dilatati con musiche tra rock e psichedelia e i Vega Enduro capitanati da Giovanni Ferrario sono un vortice di suoni rock pop psichedelico. E infine, lavoriamo come ufficio stampa e booking per Marta Collica, in collaborazione con l’etichetta sarda Desvelos. Marta incarna il blues cantautorale femminile italiano. Dimenticavo, tra un po’ produrremo il disco solista di musica elettronica di Erik Ursich. Erik con le sue macchine analogiche è senza dubbio uno dei migliori esponenti dell’elettronica sperimentale Italiana ed Europea. La gente che si vuole avvicinare ai vostri gruppi, come può fare (che tipo distribuzione avete, che canali)? Solenn: Abbiamo distribuzione nazionale tramite Audioglobe per la maggior parte del catalogo. I titoli che non sono disponibili con Audioglobe sono disponibili tramite il nostro sito. Ovviamente poi ci sono i concerti: ad ogni concerto di gruppi dell’etichetta sono in vendita anche tutti i titoli del catalogo Macaco, www. macacorecords.com. E infine c’è una newsletter che aggiorna chi si interessa alla giungla su concerti, eventi, dischi in uscita. Nell’intricato mondo della musica indipendente c’è un continuo brulicare di case discografiche, questa è un’opportunità ma anche un rischio, tu cosa ne pensi? Solenn: Al di là delle etichette musicali, credo ci sia una “sovrapproduzione” di musica indipendente, spesso di bassa qualità. Oggi sembra che basti prendere una chitarra in mano, registrarsi qualcosa in casa per poter ambire a diventare star della musica indipendente. Si è persa la cultura musicale, la conoscenza. Di fronte a tanta domanda, ci sono anche moltissime etichette indipendenti, spesso nate dai gruppi stessi che fanno uscire altrettanti dischi, troppo spesso di bassissima qualità. E quindi succede quel che sappiamo: non si mangia più (sempre che si consideri che prima si potesse mangiare…). Il mondo dell’indipendente è molto piccolo, già essendo in 10 non c’è spazio per tutti. Adesso che siamo 10.000 figuriamoci… Anche per la promozione, per il booking, per le vendite…c’è troppo e non c’è spazio per tutti… Le etichette di una volta non ci sono più (pensare che anche Mescal ha venduto il suo catalogo…) e quindi è crollato un modello di etichetta che poteva fornire all’artista un’offerta valida. Il pubblico di una volta non c’è più…il “mercato” indie crolla e spuntano fuori etichette come funghi in autunno…perché? Forse farsi un’etichetta è una nuova forma di autoproduzione… Quale gruppo italiano avreste voluto produrre? Solenn & Alberto: I Sepiatone, gruppo di Marta Collica e Hugo Race. Ma collaborando al disco di Marta ci siamo avvicinati a questo sogno… Osvaldo Piliego


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Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale

la letteratura secondo coolcub

Tutti i miei amici sono supereroi Andrew Kaufman Meridiano Zero

Ogni giorno ci abbarbichiamo cercando di rendere la nostra quotidianità speciale. Ognuno di noi ha una spiccata qualità, o un preponderante difetto poco importa, un elemento dominante che supera gli altri. Alcuni di noi sono eroi della normalità. I fumetti ci hanno venduto una verità sbagliata, i supereroi volano, riescono a fermare un treno in corsa, riescono a vedere attraverso gli oggetti. Ma non è così: basta guardarsi intorno con un po’ di fantasia. Il mondo è pieno di supereroi. Metaforicamente parlando, magari, ma quasi in ognuno di noi nascosto un super eroe. Basta pensare in piccolo, guardarsi intorno. Ecco che una monoossessione come il perfezionismo diventa

superpotere identifica un personaggio. Questo è il gioco sottile, quanto geniale che Andrew Kaufmann usa per intessere una storia in cui amici e avventori diventano supereroi agli occhi della mediocrità del protagonista. Una galleria di personaggi strambi muovono una storia in cui il situazionismo, l’attitudine allo scrocco, il presenzialismo diventano poteri che nella società moderna fanno emergere un uomo. Ecco che il surreale diventa leggera ma pungente critica della contemporaneità. Sullo sfondo uno spettatore protagonista che scompare agli occhi della sua amata. Un teatrino ingenuo solo all’apparenza è il ritratto del mondo in cui viviamo, un mondo in cui la normalità non è più di moda, in cui il

peggio di noi è costretto ad emergere. Nonostante questo Tutti i miei amici sono supereroi non è un romanzo amaro, ma esilarante. Perché alla fine scorrendo le pagine ci riconosciamo, riconosciamo i nostri amici quello che odiamo e invidiamo in loro. Poetico a tratti Kaufmann, regista e autore radiofonico, rende in poche pagine il ritratto di un amante che non si sente all’altezza ma che cerca con i denti e le unghie di difendere il proprio amore. Una soluzione narrativa più che originale ci va vedere l’ordinario sotto una nuova luce. Non ci sono reali superpoteri ma piccoli giochi di potere. Una favola agrodolce che lascia il segno e il sorriso sulle labbra. Osvaldo Piliego


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guerra per la libertà dell’Occidente Marshall e Joyce portano avanti la loro guerra personale, con la stessa logica: l’amico del mio nemico è mio nemico. L’abilità dell’autore è quella di mettere sullo stesso piano le strategie degli eserciti e quelle degli avvocati della coppia nel crescendo di azioni e reazioni. Da una parte Marshall che cerca di manomettere, con effetti comici il fondo di investimenti di sua moglie e Joyce che cerca di conquistare il migliore amico di suo marito; dall’altra gli americani che cadono nella trappola dei regolamenti di conti tra le tribù dell’Alleanza del Nord in Afghanistan e bombardano la popolazione civile. E il sospetto che ci sia una sorgente unica di questa furia cieca, che ha contagiato l’Occidente fino alle scelte individuali, resta anche dopo la conclusione, visionaria e provocatoria di questa storia. (F.T.)

Le saggezze antiche Michel Onfray Fazi Editore

1977. L’ultima foto di famiglia Lucia Annunziata Einaudi

Ogni volta che Michel Onfray si siede e scrive, i suoi propositi non sono mai poca cosa. Dopo aver affondato le religioni nel discusso Trattato di ateologia (vedi Coolclub n° 34), è ora il turno della storia della filosofia. Così come la conosciamo, infatti, non sarebbe altro che una variazione sul tema dell’idealismo, confezionata ad arte dal potere cristiano, che a partire dal quarto secolo ha cancellato quella parte della filosofia antica ritenuta incompatibile con lo spiritualismo e la cristianità, perseguitando filosofi, vietandone l’insegnamento, chiudendo scuole, bruciando biblioteche, distruggendo manoscritti o falsificandone le copie. Da allora, venticinque secoli di filosofia “minore” sono stati messi in soffitta: sistematicamente ignorati, dimenticati o persino distrutti. Tocca quindi a Le saggezze antiche aprire la strada agli otto volumi della controstoria della filosofia, progetto ambizioso, dichiaratamente provocatorio, ma quanto mai necessario. Il libro è un entusiasmante tuffo nel passato che svela l’altro volto della filosofia antica, fatto di uomini che indagano la materia, che difendono la varietà delle sensazioni, che insegnano il relativismo, che esaltano il piacere, il corpo, il vino, le passioni, che rivendicano la libertà totale. Nel raccontare di pesci masturbatori e sepolture nel miele, Onfray sfodera una prosa invidiabilmente fresca - impreziosita dal gusto per l’aneddoto -, con la quale celebra una filosofia schiettamente umana, terrena, ma capace di sorprendere con squisite raffinatezze del pensiero. Silvestro Ferrara

Uno stato disordine

Ken Kalfus Fandango Libri

particolare

di

Marshall e Joyce, sposati e con due figli, scampano per miracolo agli attentati dell’11 settembre. Lui arriva nel suo ufficio alle Torri Gemelle in leggero ritardo e riesce a uscirne in tempo. Lei annulla all’ultimo momento il suo viaggio sull’aereo che si schianterà in Pennsylvania. Eppure nel dolore di quella mattina, Marshall e Joyce gioiscono segretamente della possibile morte del partner. Anche se vivono ancora nella stessa casa, marito e moglie sono sull’orlo del divorzio. E la consapevolezza

di essere sopravvissuti al terribile attentato invece che aiutarli a venire fuori dal caos della loro esistenza, li spinge ancora di più in un abisso di rancori e odio reciproco. Così, in quelli che sono probabilmente i mesi più bui della storia recente degli Stati Uniti, le due vicende individuali di Marshall e Joyce, residuo di una tranquilla storia familiare si incrociano e si confrontano con le angosce dell’intera nazione e le loro conseguenze nel mondo: dal crollo del World Trade Center all’invasione dell’Iraq, passando per l’allarme antrace e la guerra in Afghanistan. Che valore ha per Joyce, in questo stato di disordine mentale il ricordo di un passato recente in cui pensava a quanto fosse fortunata ad essere giovane e brillante e vivere a New York con amici intelligenti e un marito intraprendente? Cosa è cambiato per Marshall ora che di fronte al disordine sociale, si rende conto di aver vissuto “nella stupida convinzione che bastavamo noi per dare un senso a noi stessi”? Non c’è nessun valore terapeutico in questo particolare stato di disordine perché mentre sta per cominciare la

“In Italia quasi la metà dei delitti viene consumata in famiglia. A questa regola non sono sfuggite le grandi famiglie della politica italiana. Nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato”. Ci vuole un certo distacco – temporale e poi mentale – per ricostruire la portata di eventi chiave della storia italiana, soprattutto se vissuti in prima persona e con la foga delle ideologie. Lucia Annunziata, giornalista ed ex presidente della Rai, racconta il suo ’77, senza aver la pretesa della scrittura saggistica, anzi, evitandola di proposito dato il suo coinvolgimento nei fatti narrati. L’ultimo grande tentativo di ribellarsi ai “vecchi” e ai padri, e di farlo a suon di slogan e P38, se necessario. Il ’77 si è lasciato dietro tra l’altro una scia di sangue giovane, poco importa se per colpa della polizia o delle Br. In una recente intervista a Daria Bignardi, la Annunziata ha affermato: “Tutti quelli che hanno vissuto quell’anno ne hanno pagato le conseguenze, sia in politica che nella vita privata. Anche Cossiga ha avuto il suo inferno personale” Anna Puricella

Nada

Carmen Laforet Neri Pozza

Come un cerchio, il libro si chiude così come si è aperto. Gonfio di aspettative, proteso in avanti su di un futuro che sa e può portare cambiamento. Così si apre su una svolta forte, il cambio di città, l’arrivo a Barcellona per studiare, poi corre e scorre veloce scandito da tre parti che portano dentro


Coolibrì tre nuovi, non grandissimi, passaggi, comunque importanti per il ‘nostro’ racconto, ed infine si chiude nuovamente e finalmente, al colmo dell’esasperazione e sull’orlo della follia, con la partenza per Madrid ed una nuova vita. Andrea, la protagonista io narrante, lascia Calle de Aribau dopo un anno di delusa esistenza. Magrissima di fame e povera. Sola. L’unico affetto acquisito a Barcellona sarà quello che la libererà dai legacci della casa di calle de Aribau e la porterà a spostarsi a Madrid. Scritto nei primi anni ‘40 del secolo scorso, Nada vince il premio ‘Nadal’ nel 1944 e si distingue tanto da esser definito dalla critica uno dei migliori romanzi del dopoguerra spagnolo. In Italia torna in commercio con una edizione tutta nuova - grazie alla borsa di studio vinta da una nuova traduttrice Barbara Bertoni alla ‘casa del traductor’ di Tarazona (Spagna) - per tipi di Neri Pozza. Nada è un libro che corre veloce, scritto e tradotto benissimo. Benché a tratti di una tristezza profonda, per le tematiche e le vicende di cui tratta, la scrittura resta sempre fresca e luminosa, lieve come un vapore, avvolgente e capace di restituire più di ogni altra cosa il clima umano ed intimo di Andrea nella Barcellona della sua giovane età. Stupisce la modernità del linguaggio che pesca nel gergo parlato con estrema disinvoltura descrivendo eventi e sensazioni con una immediatezza bellissima, senza il filtro spesso inevitabile delle convenzioni del tempo. Non so ancora bene se questa sia l’esatta cifra dell’autrice, Carmen Laforet, o (più probabilmente) la differenza tra la nostra cultura e quella spagnola, che senz’altro mi è sempre parsa più brillante nel descrivere l’umanità senza far uso di pregiudizi, filtri e convenzioni. È così sorprendente seguire il filo del racconto che è imperlato di luminose visioni sul mondo, sull’architettura della città vecchia, sul contesto cittadino e sulla ‘fauna umana’ che Andrea incontra lungo il suo cammino durato un anno della sua vita condivisa con noi... lettori. L’impressione è quella di avere una presa diretta con il suo pensiero, come se il passaggio in scrittura non avesse minimamente incrinato o intaccato la qualità della visione... L’autrice si è fatta così protagonista indiscussa e geniale della materia che racconta. Valentina Sansò

Franco Battiato 1965-2007. L’interminabile cammino del Musikante Vanna Lovato Editori Riuniti

Nei piani alti della classifica con il suo nuovo cd Il vuoto, Franco Battiato sbarca anche nelle librerie con un volume, curato da Vanna Lovato, che ripercorre tutta la carriera del cantante e musicista siciliano, dai suoi esordi nel 1965 sino alle attuali digressioni nelle altre arti. Franco Battiato 1965-2007. L’interminabile cammino del Musikante rientra nella Collana Momenti rock, diretta da Ezio Guaitamacchi, della Editori Riuniti. Il libro è un interessante viaggio, adatto soprattutto ai fan più sfegatati, nell’articolato mondo di Battiato dai primi approcci musicali nelle balere lombarde,

2329 Bertoncelli, Battiato dirà “Cage! Un mito di carta: non so quanto potrà restarne un domani”. Il volume scivola via tra aneddoti, dichiarazioni di Battiato (recuperate da interviste e libri precedenti), analisi dei dischi e dei singoli brani. Non mancano anche gli altri lati di Battiato. Da autore a produttore, da pittore a cineasta. Un compendio ben curato per uno dei casi musicali dell’Italia degli ultimi quarant’anni. Sempre discusso, spesso discutibile. Franco Battiato, per ora, non tramonta mai. (pila)

Voi siete qui. Sedici esordi narrativi a cura di Mario Desiati Minimum fax

dove approdò poco più che diciottenne abbandonata la sua isola, alla prima incisione del 1965 pubblicata, udite udite, in allegato al settimanale Nuova Enigmistica Tascabile. L’amore è partito (cover di un pezzo di Beppe Cardile, chi era costui) segna dunque l’avvio di una fortunata carriera che è trascorsa attraverso il prog degli anni ‘70, con album culto come Fetus, Pollution, Sulle Cordie di Aries, sino alla consacrazione pop dei primi anni ‘80 o giù di lì. Da L’era del cinghiale bianco in poi si apre una vera e propria stagione nuova per Battiato che entra in classifica, va in tv, diventa icona di un certo pubblico che non lo abbandonerà più. Una virata decisa verso la forma canzone, lontana dagli sperimentalismi che suscitò anche numerose critiche e affermazioni molto dure nei confronti dei suoi “maestri” Stockhausen e Cage. In quel periodo in una intervista a Riccardo

“Sulle riviste letterarie gli scrittori già pubblicati possono osare, i nuovi scrittori possono esordire”. Spiega anche così l’importanza delle riviste lo scrittore pugliese Mario Desiati che ha curato il terzo Best off della Minimum fax, in questa edizione 2007 dedicato agli esordienti. Sedici autori e sedici racconti recuperati qua e là sul territorio nazionale da riviste e fanzine, blog e siti internet. Uno spaccato interessante di quello che si può leggere in giro. L’importanza di Voi siete qui è molteplice. Dal punto di vista letterario si possono leggere spunti interessanti e giovanissimi scrittori (alcuni alle soglie dei venti anni) già formati e come si direbbe in maniera poco oxfordiana “sgamati” stilisticamente. Dall’altra invece queste operazioni editoriali rilanciano discussioni troppo spesso sopite sullo stato della letteratura italiana che, a ben leggere, non è messa poi così male. Tra i racconti segnaliamo (patriotticamente) anche quello di Cristiano de Majo apparso sulla rivista salentina Vertigine, curata da Rossano Astremo. (gazza)

L’incanto delle macerie Rossano Astremo Icaro Editore

Un uomo. Una donna. I loro corpi rinchiusi in uno spazio domestico. Un amore totale, il loro. Uno schermo proietta immagini. Programmi di tutto il male che c’è. Flashback della realtà lasciata alle spalle. Potere, guerre, collassi. Due solitudini. Un’unione. Inseparabili, mediatizzati: vivono attendendo un mutamento che li travolga. Questa in sintesi la storia raccontata in versi in L’incanto delle macerie, seconda raccolta poetica del nostro prezioso collaboratore Rossano Astremo, edita da Icaro, pubblicata ad oltre tre anni di distanza da Corpo poetico irrisolto. Scrive il poeta piemontese Flavio Santi nell’introduzione al libro: “Nella centrifuga di stimoli e impulsi che questa poesia muove e genera, a fine lettura si ha l’impressione che essa consista, non slabbri o ecceda – il rischio di tanto barocco-, ma sia. Sia e dunque dica, senza concedersi aloni o zone d’ombra. Dica di un mondo dove trionfa lo spettacolo, lo scambio simbolico e la morte, dove la finzione viene survoltata e diventa realtà (…) Dica di una storia d’amore che, consentaneo specchio del mondo, è finzione nel momento in cui è reale, ed è reale nel momento in cui finge (…) Dica di un mondo dove guerra è sempre: Iraq è metonimia della globale devastazione. Di un mondo visto come enorme e roboante discoteca dove techno e pop music scandiscono la forza degli stessi versi, sublimandoli e desublimandoli schizofrenicamente”. Rossano Astremo è redattore della rivista Vertigine (anche on line vertigine.wordpress.com).


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Raffabook

Rose e pistole

Le grandi personalità di solito si celebrano da morte. Se ne ricordano episodi inediti, miracoli, opere e omissioni, abitudini e pettegolezzi, in un profluvio di libri dischi dvd documentari e, nel migliore dei casi, fiction. Non è il caso di Raffaella Carrà, viva e arzilla più che mai, tornata in tv lo scorso inverno ma sempre presente nel cuore degli italiani. Non come semplice icona gay dell’ultima ora - lei stessa ammette di non sapere perché sia tanto amata dal pubblico omosessuale - , la Carrà ha segnato la tv italiana. Ha osato sfidare il perbenismo, ci ha mostrato ammiccante l’ombelico, ha incarnato l’ideale della rivoluzione sessuale. Faceva invidia quando ballava disinibita il Tuca Tuca, regina incontrastata del sabato sera, dalla figura minuta ma in grado di togliere il podio – e l’occhio delle telecamere – ai conduttori uomini. Fabio Canino e Roberto Mancinelli le dedicano un volume che più che un libro ad memoriam è uno show del sabato sera: foto inedite, commenti di quanti hanno lavorato con lei, disegni dei suoi abiti, gadget, la discografia completa e una selezione di brani da inserire urgentemente sull’Ipod. Raffa o si odia o si ama, come tutti i grandi. Sfido io comunque a trovare qualcuno che non abbia mai, e dico mai, canticchiato Rumore o Tanti Auguri in vita sua. Anna Puricella

L’ampia gamma di libri dedicati al 1977 ci propone anche questo Rose e pistole (titolo al quale ci siamo ispirati per questo numero di Coolclub.it) di Stefano Cappellini. Il libro, corredato da alcune foto di Tano D’Amico, è molto ben articolato giacché non si limita ad una mera elencazione dei fatti accaduti ma cerca di descrivere il clima all’interno del quale morti e creatività, scontri in piazza e radio libere, riuscirono a convivere. Quella convivenza, all’apparenza impossibile, tra le rose e le pistole, tra la violenza più insensata e l’innovazione del pensiero. Cappellini dedica un intero capitolo all’identikit dei personaggi che animarono quella stagione irripetibile dagli autonomi agli indiani metropolitani, dalle femministe ai terroristi. E poi racconta tre episodi chiave dell’anno come la cacciata di Lama, gli scontri di Bologna, durante i quali perse la vita Lorusso, e la tragedia di Roma nella quale rimase vittima la diciannovenne Giorgiana Masi. Storie incredibili se lette con gli occhi di oggi, normalità per i giovani dell’epoca. Per chi, come me, nel 1977 è nato libri come questo ricordano e insegnano che quel clima di paura e sgomento che la mia generazione ha vissuto nei giorni di Genova, trent’anni fa erano sentimento quotidiano. (pila)

Fabio Canino e Roberto Mancinelli Sperling & Kupfer

Il caso e l’inganno Valerio Morucci Bevivino

Associare il nome di Valerio Morucci solo all’autore, ormai stimato, di noir mi riesce un po’ difficile. Inevitabilmente finisco col pensare alla sua storia personale ed al fatto che, nel bene e nel male, sia stato uno dei protagonisti di una delle vicende più controverse e dolorose dei cosiddetti anni di piombo, la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro. Ed è ancora più difficile credere che sia proprio lui il padre del commissario Amidei, protagonista del libro, uomo di legge per necessità, senza atteggiamenti stereotipati da duro e puro, costretto a fare i conti quotidianamente con le sue frustrazioni e le sue occasioni mancate. Il libro ha la classica struttura di un noir, dove si inizia da un omicidio senza movente, ma ciò sembra solo un espediente narrativo per permettere al commissario Amidei di fare un viaggio a ritroso nel tempo e provare a rimarginare alcune sue ferite ancora aperte, il tutto raccontato con uno stile mai banale. Silvia Visconti

Stefano Cappellini Sperling & Kupfer

Playboy a Miami Charles Willeford Marcos y Marcos

Sembrano usciti da un film di Quentin Tarantino i quattro protagonisti di Playboy a Miami di Charles Willeford che arriva, finalmente, anche in Italia grazie all’opera di una casa editrice come Marcos y marcos. Willeford, classe 1919, dopo essere rimasto orfano entrò nell’esercito, e vi rimase per vent’anni. La sua carriera di scrittore iniziò a trentasei anni ma il vero successo arrivò solo nel 1984 con Miami Blues. Quattro anni di successi e di notorietà prima di andare incontro ad una prematura morte. Questo Playboy a Miami è un libro cattivo e spietato nel quale amici vitelloni pieni di soldi e spavalderia, abitanti di un microcosmo dedicato ai single, una specie di riserva indiana per playboy e giovani donne alla ricerca dell’uomo giusto, ne combinano di tutti i colori. Tra una ragazza sfasciata dalle droghe e un grilletto premuto con troppa rapidità, tra un marito eccessivamente geloso a regali “bellissimi”, i paradossali racconti di Eddie Miller, Don Lucchesi, Hank Norton e Larry Dolman si infittiscono e vengono visti da diverse angolazioni. Il finale, che di certo non ti aspetti, non può che rispecchiare tutta questa follìa. (Pila)

Mara Nanni, ex brigatista rossa condannata all’ergastolo nel primo processo Moro e uscita dal carcere nel 1994 dopo aver scontato 15 anni, ha percorso tutte le tappe che caratterizzarono gli “anni di piombo”. Giovanissima contestatrice all’università, ai primi anni Settanta si avvicinò agli ambienti dell’estrema sinistra e quindi all’area che poi costituì il nucleo storico delle Brigate Rosse. Entrò in clandestinità e nel 1979 venne arrestata. In quel momento cominciò un nuovo percorso che, attraverso le varie carceri speciali, la portò a riconsiderare il suo passato, le sue scelte ideologiche e, in un certo senso, la storia di quegli anni drammatici a cavallo del delitto Moro. Dopo E allora?, biografia scritta a quattro mani col giornalista romano Stefano Pierpaoli, pubblicata da Edizioni Interculturali nel 2002, è da poco nelle librerie il graphic novel La storia di Mara, romanzo per immagini firmato da Paolo Cossi ed edito da Lavieri. Mara, dopo E allora?, che comunque rappresenta un’ottima biografia sulla tua vicenda personale, perché la scelta di affidare ad un fumettista la tua storia? Il fumetto, secondo me, rappresenta una forma importantissima di espressione letteraria. Purtroppo sottovalutata nel nostro Paese. Credo quindi che sia un’importante mezzo di comunicazione a cui affidare una storia così particolare come la mia. Forse il fumetto riesce anche a sdrammatizzare una storia comunque normalmente legata a metodi di racconto drammatici. Inoltre ho affidato la stesura della versione a fumetti ad un artista che ritengo sensibile e di grande talento come Paolo Cossi, sia sotto il profilo narrativo e di sceneggiatura, che come artista grafico, in grado di imprimere le giuste sensazioni alla mia vicenda anche attraverso le immagini. A distanza di trent’anni cosa rimane di quell’esperienza umana e politica? Di quell’esperienza rimangono una serie di prove, difficili da superare, che hanno formato il mio carattere e la mia attuale personalità. Molte delle cose che ho fatto erano scelte determinate dallo spirito di quei tempi e dal coinvolgimento in un movimento giovanile che aspirava a trasformare il mondo, spesso seguendo analisi teoriche che in seguito si sono rivelate erronee. Alcune trasformazioni della cultura del costume e della società sono state senza dubbio positive ,gli anni ’70 non sono stati solo anni di violenza politica ma anche anni di creatività e di evoluzione, ma è vero anche che in quella fase storica in molti abbiamo seguito un’utopia che non ha portato risultati positivi né a noi né agli altri. È indubbio che la scelta della lotta armata mi appare oggi come completamente avulsa dalla storia e controproducente


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per tutti coloro ai quali doveva portare dei risultati positivi. Quindici anni di carcere segnano indelebilmente la vita di chiunque. Quanto è stato difficile ricominciare? L’esperienza della costrizione carceraria segna in modo indissolubile qualsiasi individuo. Lo aliena completamente dal mondo circostante, impedendogli di captarne molte delle trasformazioni e delle mutazioni. Il tornare in libertà mi ha mostrato una società completamente cambiata di cui ho esplorato luoghi a me sconosciuti. Ho focalizzato la mia attenzione sulle tematiche culturali. Un argomento che ho visto essere in completa involuzione nelle società attuale. Malgrado nuovi mezzi di comunicazione siano diventati accessibili alle masse, queste sembra non averne sempre colto le possibilità. Mi interesso di letteratura, di fotografia, di cinema,

della multimedialità, delle possibilità di espressione e comunicazione che derivano dall’informatizzazione. In questi ultimi anni, basti pensare ad un evento cardine quale il G8 di Genova del luglio 2001, sembrava essere riemersa una nuova attenzione verso una partecipazione attiva alla vita politica del Paese da parte della giovani generazioni. Ora, mi sembra, che ci sia stato una sorta di riflusso, un ritorno nei propri spazi domestici. Cosa avevate voi ragazzi degli anni ’70 che manca ai giovani di oggi? La fase storica che ha caratterizzato il movimento degli anni ’60 e ’70 era impregnata di una forte connotazione ideologica. L’aspirazione collettiva era, pur se con metodologie diverse, cementata dalla comune adesione ai principi marxisti. L’esempio che ci proveniva dal Vietnam dalla Cina da Cuba era il

Un uomo fermo ad un semaforo, mentre sta per andare al lavoro, nel tempo breve richiesto dal passaggio dal rosso al verde, ricorda un caso affrontato quando era ancora un praticante, dieci anni prima. Ne ricorda il fallimento, ricorda ogni dettaglio apparentemente destinato a cambiare la sua vita, ricorda una per una quelle che sembravano delle opportunità, compreso un cadavere e tutto il suo sangue, offerte da quegli anni luminosi, ricorda il periodo in cui tutto sembrava possibile, ricorda tutti i suoi sforzi per correggere la realtà che gli si palesava innanzi al fine di condurla a sé, ad una verità accettabile, alla perfezione, alla bellezza. Questa in sintesi la trama de Il correttore, secondo romanzo della scrittrice leccese Elisabetta Liguori, edito da peQuod. Evitiamo ogni equivoco. Il tuo romanzo non è un giallo. Certo, c’è un omicidio, un’indagine, tutto segue i crismi della scrittura di genere, ma sembra trattarsi solo di un espediente narrativo per gettare luce sulla vita di Nicola e Angela, i due indiscussi protagonisti del romanzo. Sì, la scrittura di genere è stata evocata quasi naturalmente dalla scelta stessa di trattare temi attinenti al mondo della giustizia. Mi è sembrato quello il linguaggio più adatto, d’impatto più immediato, per raccontare il lavoro di chi fa indagini penali, la fatica, il concatenarsi obbligato dei passi. Il linguaggio che il lettore poteva sentire come più familiare, utile a favorire poi una specie di più facile, inevitabile approfondimento del tema stesso. Il genere è la cornice, il quadro è fatto di uomini, dei loro gesti concreti e quotidiani, piccoli e grandi. La differenza quindi sta nel dettaglio, nell’analisi accurata dei personaggi.

punto di riferimento generazionale, pur essendo oggetto di una analisi che ne sopravvalutava il ruolo. La mancanza di un pensare collettivo, di una visione della vita basata sulla solidarietà fra persone dello stesso paese e non solo, sono ormai assenti da molto tempo, a prescindere dai contenuti ideologici di allora, nella cultura occidentale. I movimenti che attraversano questa fase, oltre ad essere privi di una visione ideologica e politica omogenea, fanno i conti con una società in cui trionfa l’individualismo e la passività culturale. L’interpretazione utopistica che del marxismo ha avuto il movimento degli anni ’60 ’70 ha prodotto si dei danni gravissimi, ma l’assenza dei valori di riferimento e la confusione ideoligica potrebbero comunque produrne di ulteriori. Rossano Astremo

Infatti una delle caratteristiche della tua scrittura è la capacità di entrare con precisione chirurgica nelle menti dei tuoi personaggi.. I personaggi sono la mia ossessione: mi piace essere precisa, dettagliata, ma non scientifica, risolutiva, mi piace far germinare dubbi, ipotesi. La struttura del giallo si serve sul dubbio, lavora sul dubbio, lo trasforma, ha il dubbio come motore, e quindi risulta affine alla natura del mio protagonista, Nicola uomo che vuol imparare, e che tenta disperatamente di liberarsi dai suoi dubbi, cancellarli, risolverli e trovar verità. Al racconto in prima persona di Nicola sulle vicende legate al primo omicidio sul quale ha lavorato si alternano interi capitoli in cui trascrivi le telefonata tra l’uomo e sua moglie Angela. Dialoghi in puro discorso diretto, senza interventi esterni. Pure partiture teatrali. Perché questa scelta? I dialoghi sono la parte più importante del libro, sono il suono e le immagini della storia. Quello che se fossi uno sceneggiatore o un regista, forse avrei scritto e filmato più volentieri. Alle domande astratte e personali che la storia pone, si oppongono i dialoghi. Grazie a questi la vicenda evolve, anche nel ricordo. I dialoghi sono la verità: una verità sempre e comunque doppia, perché composta dal fondersi di due personalità, contaminata dai desideri di chi la attraversa, dai suoi bisogni. Qui i dialoghi sono il motore perché una coppia è motore, mezzo di trasporto. Una coppia comprende le cose del mondo, la sua attualità, attraverso la coppia stessa, finché funziona, e lo fa servendosi delle parole di coppia, nate con il tempo, grazie ad artifici noti solo dalla coppia stessa; sono parole diverse da quelle che gli esseri umani utilizzano nelle altre forme di relazione. Volevo raccontare la verità che nasce da questa comunione e come questa verità, forse la sola che abbiamo, possa essere messa in pericolo dalla distanza. Ora che ci penso ho scritto un libro quindi anche sulle distanze e su quello che siamo costruiti a fare per ridurle. Rossano Astremo


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La minimum fax è nata ufficialmente nel 1993, anche se allora era soltanto una piccola rivista sotterranea, una pubblicazione periodica che veniva diffusa via fax. Nel 1994 la redazione decise che era giunto il momento di dare un corpo cartaceo a quello che avevano da dire, a quello avrebbero voluto leggere e che fino ad allora avevano affidato solo alle linee telefoniche. Molto tempo passato e molte cose sono cambiate da quegli anni. La minimum fax è una delle realtà editoriali indipendenti più interessanti in Italia, che si contraddistingue per la ricercatezza e la qualità della scelta dei libri da pubblicare. Per questo numero di Coolclub.it abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Marco Cassini, direttore editoriale e fondatore della casa editrice romana. Marco, qual è il ricordo che più conservi dei primi anni? Di quella rivista mandata via fax da cui tutto è partito? L’idea che più mi lega in modo affettuoso ai nostri inizi è quella di un gruppetto di persone che facevano qualcosa senza sapere cosa sarebbe diventata, cioè se era destinata a rimanere una esperienza effimera o (come non potevamo nemmeno immaginare) la cosa più importante della nostra vita. Eravamo pionieristici e sconsiderati, imbranati e avventurosi, come può esserlo solo chi ha un progetto in cui crede ma lo porta avanti senza averlo programmato: insomma, non potevamo immaginare che dopo quindici anni saremmo stati ancora qui. Non ne sapevamo niente di editoria (se non da lettori, ma non è un elemento decisivo nel curriculum di un editore) soprattutto non ne sapevamo granché di imprenditoria. Ci siamo tuffati da un trampolino che non finiva mai, e a dirla tutta credo che ancora non siamo arrivati a bagnarci le punte dei piedi. La minimum fax ha iniziato ad abbandonare l’underground editoriale dopo la pubblicazione e il discreto successo di vendite dei primi libri di Carver e delle raccolte di versi di Bukowski. Questa attenzione per la letteratura americana vi ha sempre contraddistinti. Altre scoperte quali David Foster Wallace, Rick Moody e, da ultimo, D’Ambrosio, sono legate alla vostra attenzione per ciò che accade oltreoceano. Ma cosa ha in più la letteratura americana rispetto alla nostra? Lasciami dire che non credo proprio minimum fax abbia

abbandonato, o quanto meno non del tutto, l’underground. È innegabile che Carver sia “meno underground” – se esiste qualcosa come una scala di undergroundness – di uno qualsiasi degli autori esordienti (italiani o stranieri) che abbiamo incontrato per strada. (Ma per onestà bisogna anche dire che, prima che lo rilanciassimo, era completamente scomparso dalle librerie, dai cataloghi degli editori, e in buona parte dall’immaginario letterario di molti). Ma visto che parli di underground editoriale e non letterario, credo che siamo ancora molto molto sotterranei (e del resto è proprio questo il nome che abbiamo dato alla collana principale della nostra casa editrice). Perché siamo indipendenti, non allineati ai meccanismi che regolano e muovono i grandi numeri. Certo siamo emersi un po’ rispetto agli inizi, i nostri libri si vedono di più in libreria, si trovano più recensioni sulle pagine di cultura dei quotidiani, più gente rispetto al 1994 sa cos’è minimum fax (e mia madre un giorno mi ha chiamato tutta emozionata per dire che “minimum fax” era la risposta a un quiz del programma del pomeriggio condotto in tv da Gerry Scotti...) e del resto considero tutto questo nulla più che il risultato di un decennio e mezzo di sforzi e sacrifici (per noi) sovrumani. Ma d’altro canto esistono libri di altri editori che in una sola edizione e in una sola settimana vendono (lo dico senza esagerazione) più di tutte le copie di tutti i titoli che abbiamo pubblicato in tutti gli anni da che esistiamo. Venendo al cuore della domanda: “cosa ha la letteratura americana più della nostra?” credo di poter rispondere: forse niente. Ci sono cose distanti, toni differenti, approcci diversi, tutto questo è innegabile e ovvio. Prediligiamo, è vero, alcuni scrittori o aspetti o filoni che provengono dagli Stati Uniti (e che – certo, certo! – sono il prodotto di un immaginario ricco, di un “essere al centro del mondo”, ecc ecc) ma se stessi qui a fare l’elogio dell’unicità e prevalenza della letteratura americana, cosa che ovviamente non mi preme particolarmente, sono sicuro che lo stesso potrebbe fare, che so, Voland per la letteratura dell’est europeo, Cavallo di Ferro per la lusitana, e/o per il noir mediterraneo... Poi qualche anno fa avete scelto di puntare sulla giovane narrativa italiana con la nascita della collana Nichel. Un azzardo che sta dando ottimi frutti: ottimi scrittori e ottimi libri. La Parrella, ma anche Raimo, Pacifico, Lagioia, Meacci, e l’elenco sarebbe infinito, sono passati (e molti restati) da voi... Cosa vi ha spinto a puntare sui giovani? Non è un ulteriore rischio per una “media” casa editrice come la vostra? Pubblicare autori italiani, soprattutto se esordienti, è un passo che a un certo punto abbiamo sentito necessario, e dico necessario con tutta la forza e il peso che questo aggettivo può avere. È connaturato all’idea di editoria quella di scoprire, di dare forma e visibilità a qualcosa che fino a un certo punto “non esiste” nel mondo esterno. C’è un forte senso si responsabilità in tutto questo, che noi sentiamo e che ci governa. Responsabilità nei confronti dei lettori come per ogni libro, ma in questo caso, è fortissimo nei confronti degli autori. Decidere se dare o no voce e forma a un manoscritto e farlo diventare libro, decidere insomma se pubblicarlo o meno, e quando, e come, fino a decisioni apparentemente innocue o secondarie come il mese di uscita o l’illustrazione o addirittura il prezzo di copertina. Siamo fin troppo consapevoli che ogni piccolo dettaglio di ciò che farà di un manoscritto un libro può essere determinante per le sue sorti, e quindi per le sorti dell’autore che ha covato, partorito, coccolato quel romanzo o quella raccolta di racconti. Altro elemento che vi contraddistingue è la vostra capacità nell’organizzare eventi legati alla promozione dei libri. Tra book party, happy hour, feste, reading, e quant’altro, l’ingegno di certo non vi manca... Avete nuove sorprese in cantiere? Per ora ci stiamo concentrando sulla valorizzazione dell’idea di book party, una festa il cui motore stesso sia un libro. Il libro diventa al contempo la ragione stessa della festa, il suo epicentro e il “biglietto di ingresso”. Dopo averlo lanciato per la prima volta a Roma a gennaio, in occasione dell’uscita dell’antologia Voi siete qui, da mezza Italia ci stanno chiedendo di organizzarne altri. È possibile che se ne facciano ancora, e in effetti ne abbiamo già in cantiere due (uno a Torino e uno ancora al Rialto Santambrogio di Roma) ma non vogliamo farlo diventare né un business né una abitudine: da una parte non vogliamo sminuirne la portata di “eccezionalità” (e se ne facessimo una a settimana ci stuferemmo ben presto, tanto noi quanto i nostri lettori), dall’altra vogliamo davvero rimanere concentrati sull’unica passione e sull’unico lavoro a cui dedichiamo tutti i nostri (molti) sforzi: la ricerca di buone storie che valga la pena pubblicare e diffondere fra i lettori. Rossano Astremo


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il cinema secondo coolcub

Death of a president Gabriel Range Newmarket Films

Con Death of a president torna il film “politicamente scorretto”. L’ultimo lavoro dell’inglese Gabriel Range, autore ancora poco conosciuto dal nostro pubblico, ha già conquistato il Premio della critica al Festival Internazionale di Toronto. Rappresenta uno dei rari esempi di “mockumentary”. Non è solo dunque un semplice documentario, ma anche una finzione, uno “scherzo”. La particolarità di questo film sta proprio nella sua struttura. Rappresenta un ottimo collage di fiction, girata dal regista, e di autentico materiale d’archivio. Arriva nelle sale già investito da una enorme ondata di polemiche. Basti pensare, infatti, che le sue proiezioni sono state espressamente vietate dalla Casa Bianca in molte delle maggiori città degli USA, tranne che nei circuiti d’essai. D.O.A.P, ambientato nel 2008, vuole essere un’ipotetica inchiesta e un’opera commemorativa alla figura di George W. Bush, morto in un attentato il 19 Ottobre 2007. Nel suo ultimo giorno di

vita, il Presidente si trova a Chicago per una conferenza. Fuori, ad attenderlo, una folla inferocita che sfila in corteo, assiepando le strade della città. Al termine del suo discorso, pieno di riferimenti al patriottismo e alla questione mediorientale, la situazione diventa incontrollabile. La reazione dei manifestanti è furiosa. Bush, di ritorno all’auto presidenziale, muore, raggiunto da un colpo d’arma da fuoco. Quando il vice Dick Cheaney prende il suo posto, comincia una vera e propria caccia all’uomo. Molti degli indiziati vengono trattenuti e interrogati dall’FBI, fino a quando tutti i sospetti non ricadono su un cittadino americano di origini siriane. Da questo momento, le massicce misure antiterroristiche attuate dal nuovo Presidente si rivelano, in realtà, delle enormi limitazioni alle libertà del cittadino. Range è abilissimo nella direzione artistica, e si rivela ancora maggiormente nel saldare insieme del materiale così

estremamente variegato, grazie anche al gran lavoro di montaggio di Brand Thumim. Questo “documentario” scritto dallo stesso regista e da Simon Finch, che ne è anche produttore, oltre ad essere un ottimo fanta – thriller politico, offre soprattutto dei grandi spunti di riflessione e apre un dibattito su quella che è l’odierna realtà internazionale. I fatti dell’11 settembre hanno alterato per sempre “la mentalità americana”, e non solo. La perenne sensazione di essere sotto lo scacco del terrorismo ha assalito l’intera popolazione. I provvedimenti legislativi attuati dalla Casa Bianca, come il Patriot Act, già aspramente criticato da Michael Moore in Fahrenheit 9/11, dietro l’intento di preservare la sicurezza, stritolano in realtà i fondamentali diritti del cittadino. Sabrina “Zero Project” Manna


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In memoria di me Saverio Costanzo Medusa

Borat

Larry Charles 20th Century Fox

Finalmente arriva anche nelle nostre sale Borat, il film più discusso, controverso e politicamente scorretto dell’anno. Interpretata alla grande dal comico inglese Sacha Baron Coen, la pellicola è incentrata sul presunto viaggio del reporter kazako Borat Sagdyiev, incaricato dal suo governo di girare un documentario sul più grande paese del mondo, gli Usa. Il falso giornalista irrompe nel perbenista mondo americano col suo carico di misoginia e antisemitismo e questo da vita ad una serie di gag irresistibili, che vanno dall’incontro con un gruppo di femministe alla cena a casa di un predicatore del sud, in cui lo stravante personaggio si rivela paradossalmente più tollerante dei suoi interlocutori. Il film, girato a basso costo con una camera a spalla, è in

Letters from Iwo Jima Clint Eastwood Warner Bros

Come da attore nei suoi film più celebri, anche il Clint Eastwood regista non sbaglia un colpo, grazie a questo film commovente e dalle sicure emozioni. Letters from Iwo Jima è il secondo e ultimo capitolo della saga della battaglia della seconda guerra mondiale iniziata con Flags of our fathers. Lo sguardo, questa volta, è interamente incentrato sul punto di vista nipponico, quello degli sconfitti che come al solito hanno gli spunti più interessanti da offrire. Al centro non più la guerra ma l’uomo, nelle sue sfaccettature più intense. Così le lettere inviate dai soldati alle loro famiglie, che danno nome al titolo, diventano il pretesto per raccontare il terrore

realtà efficacissimo nel raccontare lo strisciante razzismo di quello che a torto si ritiene il paese più democratico al mondo. Non sono mancate ovviamente le critiche, a partire da quelle del (vero) governo del Kazakistan che ha ritenuto il lavoro offensivo e poco aderente alla realtà, fino a vietarlo. Resta il fatto che questo Borat fa ridere e non risparmia nessuno, bianchi, neri, omo ed etero fino ad arrivare al presidente Bush e alla sua schiera di neocon. Ci si accorge così che quella che inizialmente parte come una risata facile dettata dal contrasto e dal luogo comune, prende pian piano la forma di un pensiero ragionato e incisivamente critico. Uno strumento in più per riflettere sul mondo e sulle sue contraddizioni, su realtà ed apparenza. E se come dice qualcuno questo film è facile, stupido ed offensivo, allora è il miglior film del genere che si possa fare. Michele C. Pierri di chi va a morire e le crisi di coscienza di chi, malgrado tutto, ce li deve mandare. Vite spezzate in cui non si avverte alcuna differenza di bandiera, non ci sono colpe o ragioni, solo il tragico peso di quello che si potrebbe chiamare destino. Interessante la scelta stilistica di sopprimere il colore, quasi nasconderlo, e di farlo emergere solo nel rosso dei fiumi di sangue versati da vite innocenti. Questo accorgimento, per niente originale, si rivela però il vero punto forte in un film intenso, ma privo di un vero punto di vista. In definitiva un film che niente aggiunge ma neanche toglie al genere, e che tutto sommato dopo più di due ore fa uscire dalla sala un po’ turbati, ma anche arricchiti. E di questi tempi, non può far male. Michele C. Pierri

Nuovo film drammatico per il figlio d’arte salito alle cronache lo scorso anno con Private, intenso affresco sul conflitto israelo-palestinese. Al centro del racconto questa volta la vita di Andrea, giovane in crisi che decide di trovare la sua strada intraprendendo il noviziato. In convento scoprirà un mondo fatto di controllo e potere che lo porterà a dubitare pesantemente della sua fede e dell’intero sistema in un viaggio morale che è innanzitutto una presa di coscienza.

La masseria delle allodole Paolo e Vittorio Taviani 01 Distibution

Il ritorno dei fratelli Taviani, autentiche glorie del cinema di casa nostra. Tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, il film affronta in maniera intensa il genocidio armeno per mano del popolo turco, un altro dei numerosi e drammatici capitoli dimenticati nel percorso dell’uomo. La storia è quella di una famiglia armena che ristuttura una vecchia masseria in Italia, in attesa che tutta la famiglia arrivi per viverci assieme. Ma l’attesa sarà vana perchè dei parenti non è rimasta alcuna traccia. Nel cast Paz Vega e Alessandro Preziosi.

Still life

Jia Zhang-Ke Lucky Red

Arriva dalla Cina questo documentario a g r o d o l c e , selezionato all’ultimo festival di Venezia. Il film prende il titolo dagli oggetti inanimati (in inglese still life) che fanno da legante ai vari capitoli in cui l’opera è divisa. Nel racconto il vecchio villaggio di Fengjie è stato abbandonato perchè al centro di un territorio dove è stata costruita un’immensa diga. Il luogo, ormai sommerso e desolato, diviene comunque teatro di incontri e di ricerche in cui sentimenti vecchi e nuovi si incrociano. Un’intensa pellicola che regala un nuovo sguardo su un oriente ancora poco conosciuto.


Saturno contro è il sesto film di Ferzan Ozpetek, forse la sua opera più matura ed intimista. Protagonista un gruppo di amici, improvvisamente costretti ad affrontare un dolore incolmabile, alle prese con l’impossibilità di separarsi perché incapaci di affrontare le proprie paure. Saturno contro è un intreccio sapiente di vite ed emozioni, in puro stile Ozpetek, con tante risate e momenti di profonda commozione. Merito anche di un cast d’eccezione: Pierfrancesco Favino, Margherita Buy, Stefano Accorsi, Luca Argentero, Serra Yilmaz, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari, Filippo Timi e una sorprendente Ambra Angiolini. Nuovamente una famiglia allargata protagonista del film. Ma se ne Le fate ignoranti era alternativa, stravagante, ora è molto più stabile e normale. Crede che questa normalità possa sconvolgere maggiormente il pubblico? Credo che se un giorno facessero un Gay Pride in cui tutti fossero vestiti in maniera normalissima, tutti camminassero con naturalezza, senza fare casino, alla gente prenderebbe un colpo. Sarebbe bellissimo. In Saturno contro c’è uno sguardo diverso rispetto a Le fate ignoranti. Lì eravamo molto più leggeri, non c’era stato l’11 settembre, avevamo un altro sguardo verso le cose. Qui invece tutto è più posato. In questo senso Saturno contro è un film più intenso, perché in primo luogo è il mio sguardo ad essere cambiato. A sette anni da Le fate ignoranti torna anche la coppia Buy - Accorsi, con tanto di tradimento e crisi. È lo sviluppo, neanche tanto ideale, dell’amore sbocciato alla fine di quel film? No, sono personaggi completamente diversi, sia lei che lui. Mi dispiace quando dicono che io privilegio la coppia omosessuale, io credo che contino le persone, non la loro scelta sessuale. Una grande giornalista (Natalia Aspesi, su Repubblica, ndr) mi ha detto che questo è il film più gay che abbia mai fatto. Mi ha fatto molto sorridere e anche tanto piacere. Secondo lei è il mio film più gay proprio perché non se ne parla, tutto è mischiato alle emozioni e ai sentimenti. All’uscita de Le Fate Ignoranti invece hanno detto che era un film gay militante, perché entrava nelle case e nelle persone che non sarebbero mai

andate a vedere due uomini o due donne baciarsi. Arcigay, come gran parte della comunità gay, è insoddisfatta dei Dico fino al punto di dichiararsi pronta a scendere in piazza e manifestare per una legge più giusta. Per lei invece i Dico sono una proposta di legge ottima. Crede che l’atteggiamento di Arcigay sia una presa di posizione testarda? Trovo buonissimo questo disegno di legge, perché credo che sia l’inizio di molte cose. Penso che si debba approvare prima questa legge, poi in seguito si vedrà. Facciamo un passo alla volta, mi dico, altrimenti non si fa niente e non si va avanti. Non capisco l’ottusità delle persone che si lamentano e vogliono sempre qualcosa di differente. Partiamo da questa legge, almeno è una cosa. Il tema musicale del film è firmato da Neffa. Oltre a questo, che musica sta ascoltando in questo periodo? In questo periodo ascolto molto Bruno Lauzi, mi ha preso proprio la mania. Ascolto anche Gabriella Ferri (sua la sensazionale Remedios, presente nel film, ndr). Ho trovato alcune sue vecchie produzioni, e ogni volta che la ascolto è veramente stupenda. Insieme a Lauzi sono due grandissimi. Può raccontarci un episodio divertente avvenuto durante le riprese di Saturno contro? Ce ne sarebbero mille, ci siamo davvero divertiti molto. Il più divertente però riguarda Serra (Yilmaz) che ha rimorchiato suo marito nel film (Filippo Timi), che ha 20 anni meno di lei. Dovevamo girare una scena, che nel film non c’è, in cui loro due si baciavano. Ecco, hanno cominciato ad usare la lingua, e al momento dello stop non si sono fermati più. Il giorno dopo ero sul set, sento un mio amico che mi dice che stava facendo la spesa per Serra, che abita sopra di me. Quando gli ho fatto notare che non ce n’era bisogno perché non dovevamo andare a cena da lei, lui mi fa: “Veramente è Timi che sta andando a cena da lei!”. Sviluppi? Non so. Ma, sai, intuisco. Anna Puricella


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Una ricognizione su quella che fu la stampa marginale a Lecce negli anni Settanta non può che partire dalla rivista Mu. Un ciclostilato dal destino singolare e dalla particolare longevità (ne uscirono 12 numeri, dal 1974 al 1976) che, nel corso della propria evoluzione accompagnò ed in parte anticipò tematiche proprie del rapporto musica-politica allora molto in voga. Con un occhio particolarmente attento alle mutazioni dei costumi ed alla cultura giovanile, Mu fu per diversi anni punto di riferimento per tutti i “cani sciolti” della nuova sinistra leccese che non si riconoscevano più nel fare politico rigido ed istituzionalizzato delle organizzazioni della sinistra “storica” (ma anche della nuova sinistra) e che sentivano l’esigenza di un diverso rapporto cultura-politica. Il 77, naturalmente era dietro l’angolo. Mu nacque agli inizi del 1974. La redazione, allora ristretta ad un solo eroico componente (Francesco Galli) si occupò, per i primi due numeri - formato quadrato in stampa eliografica – esclusivamente di musica pop. L’ingresso di nuovi collaboratori (tra loro Toni Robertini, enfant prodige del movimento creativo leccese) modificò il taglio della rivista, che assunse una connotazione più “militante”. L’obiettivo era quello di diffondere il rock ma, seppur timidamente e fra mille ingenuità, comparve la parola passe-partout “controcultura”. Era aperto il campo alla discussione di tematiche quali la droga, la sessualità (s’apprestavano gli anni de “il personale è politico”) ma anche il cinema e la letteratura undeground. Il successo della rivista convinse i suoi collaboratori a tentare la creazione di un vero e proprio “centro di controcultura”. Il progetto fallì, a partire dal numero 9, Mu assunse una connotazione sempre più politicizzata. Accanto alle recensioni dei dischi e concerti trovarono spazio articoli di taglio più “teorico”. Il progetto era quello di mettere in comunicazione politica e musica, due settori sino ad allora distanti ma che in seguito avrebbero sempre più marciato di pari passo. A partire dal numero 10, fino alla fine, Mu accentuò la sua politicizzazione e, anche in seguito ad un rimescolamento della redazione, si schierò con la consistente “ala creativa” del Movimento. Riscoperta della felicità, espropri, illegalità di massa furono le tematiche che presero il sopravvento sull’impostazione originaria. Il ’77, con tutto il suo carico di contraddizioni, spontaneismo, irrazionalità, aveva fatto ormai irruzione nella struttura del giornale, che non resse l’urto. Dichiaratamente schierati con Autonomia furono i due epigoni di Mu: Te’ all’arancia ed In/Contro. Tematiche non dissimili dagli ultimi numeri di Mu, con un accentuazione della violenza a livello grafico: due riviste dalla vita breve e dalla veste volutamente rozza e “sporca”. Non vide mai la luce Brutti Sporchi e Cattivi, di cui esiste solo un provino in eliografia. Già il titolo della testata è indicativo del contenuto della rivista: il collegamento era con le esperienze del movimento bolognese, il tratto distintivo l’ironia. Soltanto curiosità per Col sangue agli occhi, rivista dell’Autonomia più incazzata e violenta (almeno a parole). La lotta

contro la repressione fu il suo carattere distintivo, e ciò la dice lunga sulla piega che stavano prendendo gli eventi. Schierata anch’essa sulla linea “creativa”, e con un occhio rivolto agli “indiani metropolitani” fu Finalmente il cielo è caduto sulla terra, ne uscì un solo numero. Nessun numero uscì de L’elefante bianco, titolo di una canzone degli Area, solo prove di impaginazione e un menabò discusso ed elaborato nel tentativo di ritornare alla musica e a contenuti culturali sperimentando un lavoro di redazione che sempre si perdeva in ascolti appassionati (nella casa di Alessandro Salerni ricca di buoni dischi) che scordavano la missione da compiere. Con New Wave siamo invece già in pieno post-settantasette. Mentre il Movimento si chiedeva se per caso i punk inglesi non fossero fascisti, una nuova leva di fan diede vita ad un ciclostilato dal taglio prettamente musicale (autore principale di quell’esperienza fu Pierfrancesco Pacoda, oggi affermato scrittore e critico musicale). Gran cura nell’impaginazione grafica, dinamismo e verve sul piano della scrittura uniti ad uno spirito “d’impresa” nuovo e spregiudicato sono invece i tratti salienti di Gola, una vera fanzine sul modello delle riviste analoghe sorte in USA e in Gran Bretagna sull’onda del punk. Gola ebbe vita breve ma colpì sicuramente nel segno. Stampata in tipografia e con un suo piccolo ma efficiente portafoglio pubblicitario, la rivista aggiornò il gusto ed aprì a tutte le novità del nuovo decennio. Anche qui la musica fu la componente determinante (alcuni dei suoi redattori provenivano da New Wave), ma non mancava un approccio disinibito e “cool” alla cultura giovanile. Di Gola uscì un solo numero. Il secondo fu solo distribuito agli amici. E poi gli anni ottanta… Mauro Marino



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CoolClub.it E poi la gente si lamenta che non c’è mai niente. Dal 15 al 31 marzo in piazza Palio a Lecce sarà montato un tendone da circo che però non ospiterà animali e trapezisti ma concerti, dj set, incontri, spettacoli teatrali e molto altro ancora. Livello 11/8 chi vuole intendere... in tenda è un progetto di 11/8 records organizzato in collaborazione con le Albania Hotel e Salento Mind Express e numerose altre realtà che operano nel territorio, sotto la direzione artistica di Cesare dell’Anna (nella foto a destra). “Il progetto”, sottolineano gli organizzatori, “nasce dalla necessità di trovare uno spazio fruibile quotidianamente di cui il territorio appare essere oggettivamente sfornito e che riunisca le più differenti forme artistiche secondo il principio di pari opportunità e dignità: un contenitore per artisti esordienti e professionisti, su un medesimo palco attrezzato”. L’articolato programma prevede incontri mattutini, che coinvolgeranno le scuole leccesi, stage di giocoleria pomeridiani (dalle 16 alle 19 a cura di Salento Busker Fest) e i grandi eventi della sera. Si parte giovedì 15 con Opa Cupa e si continua con Montefiori Cocktail (ven 16), Nidi d’arac (sab 17), Links meet 11/8 (dom 18). Cruska e Abash (lun 19), lo spettacolo teatrale Oggi sposi di Ippolito Chiarello e il concerto del Mirko signorile quintet (mar 20), il live dei Meganoidi (mer 21), il progetto elettronico Tenda 00/1 (gio 22), il reggae di Rankin Lele, Papa Leu, Marina e i Sud Sound System (ven 23), lo spettacolo Via di Fabrizio Saccomanno e la miscela sonora di Taranta virus (sab 24), la musica leccese di Enzo Petrachi (dom 25), una selezione di gruppi locali (lun 26), lo spettacolo di danza Orbata di Barbara Toma e il progetto My Miles (mar 27), il dub tarantolato dei Mascarimirì (mer 28), il rock strabiliante degli italoscozzesi Hormonauts (gio 29, nella foto), le contaminazioni di Zina (ven 30) e il festacchione finale con la musica dei Seventy Level (sab 31). Nel corso delle serate sono previste inoltre estemporanee di pittura e mostre fotografiche. Sabato 24 marzo è previsto un interessante appuntamento dedicato al cinema. Cine paese vedrà la partecipazione di registi e operatori del settore per una riflessione sulle politiche di sostegno all’industria cinematografica. L’inizio degli spettacoli teatrali è fissato per le 20.00. i concerti partiranno alle 22.00 e saranno seguiti da dj set. Info 0832305693 – www.118records.com.

Canti di Passione

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Grecìa Salentina 25 marzo – 1 aprile Moni Ovadia, Ambrogio Sparagna e Nabil, leader dei Radiodervish, sono alcuni degli ospiti della quarta edizione dei Canti di passione, una manifestazione dedicata al recupero e alla riproposizione dei canti devozionali della passione di Cristo che si terrà dal 25 marzo al 1 aprile. Nelle Chiese degli undici comuni della Grecià Salentina, di Galatina e di Alessano infatti congreghe e cori provenienti da tutta l’area del Mediterraneo, a testimonianza di un diffuso e comune sentire religioso su temi così particolari, e cantori locali proporranno il loro repertorio. La manifestazione, curata artisticamente da Luigi Chiriatti e Gianni De Santis, prenderà il via domenica 25 marzo da Cutrofiano con il concerto di Moni Ovadia (nella foto). Tra gli ospiti i portoghesi Banda Larga, i molfettesi Calixtinus, i lucani Ethnos, i siciliani Al Qantarah, la Confraternita di Sant’Antonio Abate Speloncato (Corsica), le Confraternite di Vico del Gargano, il gruppo di cantori di Terranova del Pollino La Totarella, la Confraternita di Bonnanaro proveniente dalla Sardegna, la spagnola Banda de Santa Maria del Sur, i ciprioti Thriskeftiko orthodoxo idrjma flias, i cretesi Sirma. Ambrogio Sparagna (martedì 27 ad Alessano) con una piccola orchestra sarà interprete del dolore di madre Maria e del figlio dolente. Il cantante palestinese Nabil, voce dei Radiodervish, canterà in duetto con il salentino Antonio Castrignanò (mercoledì 28 a Melpignano). Saranno presenti infine moltissimi cantori e interpreti della tradizione musicale salentina e grica. Nel corso della settimana il Nuovo Cinema Elio di Calimera sarà aperto alla proiezione di film dedicati alla passione. La selezione è stata curata da Cecilia Mangini che introdurrà le pellicole assieme a Goffredo Fofi. L’appuntamento è organizzato da Unione dei Comuni della Grecìa Salentina e Regione Puglia, in collaborazione con Provincia di Lecce e Istituto Diego Carpitella. Tutte le info su www.cantidipassione.it


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CoolClub.it MUSICA

ogni martedì / Sonic the tonic e Mr Moon alla Negra Tomasa di Lecce ogni mercoledì / Acoustic live alla Negra Tomasa di Lecce ogni mercoledì / Conversazioni sonore allo Spazio Sociale Zei di Lecce mercoledì 7 / Ocelle Mare ai Sotterranei di Copertino (Le) giovedì 8 / Arancia Meccanica al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) giovedì 8 / I 30 denari e Queimada ai Bucanieri di Barletta venerdì 9 / Warm Transition allo Spazio Sociale Zei di Lecce Lo spazio sociale Zei di Lecce inaugura una nuova rassegna musicale. SuonArci ospita alcuni interessanti progetti musicali del Salento. Primo appuntamento con Warm Transition. Il repertorio è stato ideato per miscelare la musica Dance con la musica più raffinata come la jazz music (della serie: si può ballare ma si può anche semplicemente ascoltare). Il progetto coinvolge Francesco Coppola e Raffaele Vasquez. Ingresso gratuito. Info www.zei.le.it venerdì 9 / Miss Fraulein Torre Santa Sabina (Br) Palmares club sabato 10 / Giuseppe Di Gennaro alla Saletta della Cultura di Novoli (Le) Giuseppe Di Gennaro è nato a Milano trent’anni fa, il mare di Gallipoli ha fatto da sfondo alla sua adolescenza, ma sono state Ferrara, Bologna, Roma e Milano a vederlo formarsi artisticamente. Innamorato della dolcezza di Francesco De Gregori, dell’essenzialità di James Taylor, dell’incisività di Bob Dylan, Giuseppe Di Gennaro ha all’attivo importanti riconoscimenti. Ingresso gratuito. sabato 10 / Villa Ada e Brusco all’Arci Terra Rossa di Taviano domenica 11 / Paolo Zanardi a Monopoli (Ba) lunedì 12 / Le Singe Blanc (Francia) ai Sotterrani di Copertino (Le) martedì 13 / Deep Purple al Palasport di Andria martedì 13 / Jam Session al Lord Sinclair di Lecce Roberta & Carlo presentano Jam Session, un live itinerante dedicato ai musicisti appassionati di tutti i generi. Dodici appuntamenti per dodici locali tra le province di Lecce e Brindisi. Ingresso gratuito. giovedì 15 / Paolo Zanardi alla Feltrinelli di Bari (Ba) giovedì 15 / Skarlat al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) Sono giovanissimi e sono scatenati. Gli Skarlat propongono brani dal carattere deciso, incalzante ma anche melodico e coinvolgente. Energia allo stato puro. La band salirà sul palco del Jack’n Jill di Cutrofiano. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito. Info 0836541126 giovedì 15 / Hyra, OneWayTicket, Rest ai Bucanieri di Barletta

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sabato 17 / Europe Connection al Teatro Antoniano di Lecce La rassegna Suoni a Sud, organizzata dall’Associazione Antoniano e dall’Orchestrina e diretta dalla pianista leccese Irene Scardia, prosegue con una serata dedicata al Jazz. Sul palco saliranno infatti gli Europe Connection, ensemble composto da Gianlivio Liberti (batteria), Gaetano Partipilo (sax), Yuri Goloubev (contrabbasso), Gianluca Cacucciolo (piano), Alberto Parmegiani (chitarra). Gli Europe Connection proporranno un concerto ricco di colpi di scena e di interplay, presentando un repertorio esclusivo di brani originali sulla scia dei grandi del jazz moderno. Tra i brani in scaletta Lontano, Eugenia’ step, Sonora, Joy, Psicomagia a gò gò e Luca’s mood. Sipario ore 21.00. Ingresso platea 10 euro (ridotto 8) e galleria 5 euro. Info 0832.392567

giovedì 15 / Kurt Rosenwinkel al Teatro Paisiello di Lecce Kurt Rosenwinkel è da molti considerato il chitarrista più notevole e futuribile della sua generazione, e nonostante l’ancor giovane età la sua figura musicale è stata spesso accostata a quella di innovatori dello strumento quali Pat Metheny, John Scofield, John Abercrombie e Bill Frisell. Ingresso da 5 a 20 euro. Info 0832316512. venerdì 16/ Lisergica al Willy Nilly Irish Pub di Squinzano (Le) venerdì 16 / Agnese Manganaro allo Spazio Sociale Zei di Lecce Col Salento nel sangue e il Brasile nel cuore Agnese Manganaro si muove con agilità nel repertorio a lei caro: la bossa e gli anni ’60. Il suo repertorio di cover comprende brani in portoghese, inglese, spagnolo, italiano e giapponese, ispirato all’atmosfera del lounge. Ingresso gratuito. Info www.zei.le.it sabato 17 / Bang on a can all stars al Teatro Paisiello di Lecce

Bang on a Can All-Stars da New York a Lecce: sei musicisti virtuosi, avventurosi, dinamici ed intensi, a proprio agio nelle più diverse forme musicali oggi esistenti, sbarcano il 17 marzo al Teatro Paisiello di Lecce, promettendo una serata indimenticabile. Una formazione piuttosto unica: clarinetti e sax, chitarra elettrica, violoncello, contrabbasso, piano e percussioni. Una strumentazione che non rientra in una categoria ben definita: da un lato ensemble da camera, a tratti rock band e infine gruppo jazz, i BoaC All Stars possiedono una flessibilità che li ha resi famosi nella scena della musica classica contemporanea, la cosiddetta new music Americana ed internazionale. Da vent’anni alla ricerca di nuove frontiere musicali, con un repertorio che continua ad allargarsi grazie alle loro commissioni a compositiri riconosciuti ed emergenti, sono oggi riconosciuti come I pionieri di una musica

che sfida le categorie e abbatte ogni limite e continua ad evolversi nel tempo.Sul palco Robert Black (basso), David Cossin (percussioni), Steven Gostling (pianoforte), Wendy Sutter (pianoforte), Mark Stewart (chitarra), Evan Ziporyn (clarinetto). Inizio ore 21.00. Ingresso platea euro 20 , palchi euro 15 , palchi ridotto euro 10 , loggione euro 7,5. www.bangonacan.org

sabato 17 / Dj Gruff all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) Virtuoso inarrivabile del mixer e dei piatti, DJ Gruff riesce a far convivere una straordinaria, artigianale abilità nell’assemblare le rime, con le possibilità infinite offerte dai suoni campionati e dalla pratica dello scratch. Funky, soul, le radici africane del ghetto e la “old school” che si ricompongono all’interno di un suono travolgente ed essenziale, scandito metronomicamente dal pulsare inarrestabile della batteria elettronica. Ha collaborato con tutta la scena italiana, dall’Isola Posse All Stars di “PassaParola” a Carry D. sino al Sud Sound System e a Neffa. È anche un bravissimo breaker. Proprio di recente DJ Gruff è tornato alla sua passione originale, quella per il dj style e la manipolazione continua di piatti e vinili. Offrendosi dunque ad un mercato non più soltanto limitato ai devoti dell’hip hop. Ha fatto parte dei seguenti gruppi : Ghost Town Rockers, the Place2Be, Fresh Press Crew, Radical Stuff, Casino Royale, I.P.A.S., Sangue Misto, 0s3ss, Alien Army, Royalize, Maserio. Ora ha un gruppo tutto suo chiamato Sinfonaito, fondato con il suo socio di sempre Alessio Manna. Un nuovo appuntamento imperdibile firmato Istanbul Cafè.


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CoolClub.it sabato 17 / Koop al Mavù di Locorotondo (Ba) I Koop - ovvero il duo Magnus Zinmark e Oscar Simonsson - sono riusciti a realizzare due lavori discografici ricchi di novità, che suggestionano come ai tempi del jazz degli anni Cinquanta. Ogni traccia di è un ricamo incorniciato, che vive di fusion e di jazz, di ricercata elettronica e di voci bellissime. sabato 17 / Carmen Consoli al Teatro Italia di Gallipoli (Le) sabato 17 / Ninfea ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 17 / Finali regionali Arezzo Wave a Grottaglie (ta) sabato 17 / Hic niger est all’Arci Terra Rossa di Taviano (Le) domenica 18 / Sergio Caputo a Polignano a Mare (Ba) lunedì 19 / Sergio Caputo al Teatro Italia di Gallipoli (Le) A tutt’oggi Sergio Caputo ha pubblicato più di 100 canzoni, molte delle quali sono diventate dei classici. In questo risiede la forza dei suoi spettacoli: solo successi, il meglio del meglio del suo repertorio, canzoni che sono state e sono in radio, in tv, in videoclip, canzoni che hanno fatto sognare intere generazioni. Ed è proprio il pubblico, attivo e partecipe, che diventa il terzo elemento vincente dei suoi spettacoli. Oggi Sergio ha una marcia in più, l’esperienza americana, l’essersi esibito davanti al pubblico più smaliziato del mondo, e averlo conquistato. 0833/266940 martedì 20 / Sergio Caputo al Teatro Curci di Barletta giovedì 22 / Lisergica al Bing Bang di Brindisi giovedì 22 / The Second Grace al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)

Islanda e Messico, Caracas e Buenos Aires, Dublino e Londra, Madagascar e Cape Town: la musica dei palermitani The Second Grace è un viaggio sonoro infinito. Il quartetto ha da poco pubblicato l’album d’esordio nel quale sono chiare le

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sabato 24 / Primo maggio tutto l’anno al Teatro Kismet di Bari Grande successo anche quest’anno per la terza edizione della rassegna nazionale curata dalla Primo Maggio srl (società organizzatrice del Concerto del Primo Maggio) in collaborazione con AudioCoop, MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti e con alcune delle più importanti realtà radiofoniche italiane, riservata a gruppi emergenti, che ha fatto registrare, in Puglia, un incremento delle adesioni con ben 71 demo raccolti, provenienti da tutte le province. Sono 6 i gruppi che hanno superato questa prima fase di selezione e che si esibiranno dal per aggiudicarsi il passaggio alla successiva fase di selezione nazionale. I gruppi sono: C.F.F. e il Nomade Venerabile (nella foto), caratterizzati da un percorso artistico multiforme in cui pop-rock riverberato, dark cantautorale, strisciante psichedelia e improvvise virate distorte si inseguono e si intrecciano alle suggestioni scatenate dal teatro-danza e dalla video-arte; Accanitofan (Hnf) miscela di sonorità soul, dub, funkj, house, drum&basss e breakbeat, Sud Foundation Krù esperimento musicale tra hip hop, sonorità rock, funky e reggae; The Carving musica new wave / rock anni ‘80; Uross pop cantautorale; Queimada con il loro sound ruvido e rock. I primi tre classificati passeranno di diritto alla selezione nazionale della rassegna, che si svolgerà a Roma con le stesse modalità delle selezioni regionali determinando gli artisti che poi suoneranno sul prestigioso palco del concerto del Primo Maggio 2007 in Piazza San Giovanni a Roma. La serata sarà ad ingresso libero. Informazioni al numero 080 558.35.41

influenze di personaggi chiave della musica contemporanea come Sigur Ros, Calexico, Nick Drake, Jeff Buckley, Damien Rice e Devendra Banhart. L’appuntamento è al Jack’n Jill di Cutrofiano. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito. Info 0836541126 giovedì 22 / Oloferne, Pixel, Railway ai Bucanieri di Barletta giovedì 22 / Reckless Tide al Nord Wind Disco Pub di Bari A colorare (di nero) la sempre più fervida e interessante scena metal Pugliese, vengono questa volta chiamati in causa i tedeschi. Loro sono i Reckless Tide, ormai affermato gruppo Thrash Metal di origine teutonica e saranno protagonisti, del secondo special event all’interno della rassegna di musica metal settimanale “The Metal Place” che la Vivo Management organizza da diversi anni tutti i giovedì sera al Nord Wind Disco Pub di Bari. venerdì 23 / Meganoidi al Demodè di Bari venerdì 23 / Hic niger est all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) venerdì 23 / Ninfa Giannuzzi & Palmiro Durante acoustic project allo Spazio Sociale Zei di Lecce Ninfa Giannuzzi è una delle figure

storiche della musica salentina. In questa formazione in duo, accompagnata alla chitarra da Palmiro Durante, ripropone tutto il suo repertorio dalla musica tradizionale ai cantautori italiani. Ingresso gratuito. Info www.zei.le.it sabato 24 / Elettronoir all’Istanbul cafè di Squinzano (Le) Elettronoir è un gruppo di Roma, 5 elementi, un suono che sta a metà tra Morricone e Cure, tra Warp e Labrador, gli anni ‘70 dei poliziotteschi e gli anni ‘80 della new wave. Avanguardia e melodia. In una parola, Pop. sabato 24 / Mashrooms a Francavilla Fontana (Br) domenica 25 / Mashrooms ai Sotterrani di Copertino (Le) domenica 25 / Irene Scardia al Castello Carlo V di Lecce Irene Scardia, pianista, compositrice, performer. Il linguaggio stilistico dell’artista rivela sotto il profilo armonico e compositivo una matrice jazzistica in combinazione con elementi


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martedì 27 / Ludovico Einaudi al Teatro Team di Bari In bilico tra suoni colti e avanguardia, suggestioni etniche ed elettronica, Ludovico Einaudi, pianista e compositore tra le figure di punta della musica contemporanea europea, presenterà martedì 27 marzo 2007 al TeatroTeam di Bari il suo ultimo capitolo discografico “Divenire”. Con lui sul palco il sestetto d’archi composto da Marco Decimo (violoncello), Thomas Schrott (violino), Laura Riccardi (violino), Svetlana Fomina (viola), Antonio Leofreddi (viola), Franco Feruglio (contrabbasso). Live electronics: Robert Lippok. “Un percorso vario, movimentato e imprevedibile, come un grande paesaggio di montagne e pianure, di fiumi e di mari… quell’energia che ti spinge ad assaporare il mondo fino ad annullartici dentro, in continuo divenire”. Botteghino: P.zza Umberto, 35 - Bari; Tel. 080.5210877 / 080.5241504. Per l’acquisto online: www.teatroteam.it. Poltronissima Vip € 30,00 + € 3,00 prevendita; Poltrona € 25,00 + € 3,00 prevendita; Galleria € 20,00 + € 2,00 prevendita. impressionistici e riferimenti al pianismo moderno, modulati secondo uno stile molto personale dalle sonorità morbide e raffinate. Forte di una formazione tra musica, danza e teatro, l’artista predilige la produzione e realizzazione di spettacoli e performances interdisciplinari. Inizio ore 21.00. Ingresso gratuito. martedì 27 / Frank Gambale a Brindisi martedì 27 / Jam Session al Nyx di Trepuzzi (Le) giovedì 29 / Adel’s al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le) è impossibile ascoltare questa band siciliana senza lasciarsi trasportare dal ritmo frenetico del rock. Gli Adel’s sono un trio attivo sin dal 1994, sono giunti al loro quinto cd e soprattutto al loro primo DVD. Il loro sound è assolutamente personale: blues, surf e rockabilly si mischiano in un cocktail esplosivo. L’appuntamento è al Jack’n Jill di Cutrofiano. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito. Info 0836541126 giovedì 29 / Camillo Re, Hope Leaves, Leitmotiv, Metafora ai Bucanieri di Barletta venerdì 30 / Ninfea all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le) venerdì 30 / Creme allo Spazio Sociale Zei di Lecce Creme è un cantautore capace di scrivere canzoni che giocano con il pop, il folk. Canzoni che sembrano ispirate alla tradizione italiana, alla musica di Battisti soprattutto, ma che suonano oblique sfiorando la psichedelia inglese di artisti come Robin Hichock. Ingresso gratuito. Info www.zei.le.it

sabato 31 / MadHornet + Mass Murder Machine ai Sotterranei di Copertino (Le) sabato 31 / Paolo Belli al Teatro Politeama Greco di Lecce giovedì 5 aprile / Blog al Jack’n JIll di Cutrofiano (Le) Serata all’insegna del punk e del rock salentino allo storico locale di Cutrofiano. Sul palco due delle band più longeve della scena alternativa di Lecce: i Bludinvidia e gli Psycho Sun. In apertura spazio ai Logo. L’associazione culturale C-ARTE durante lo spettacolo metterà in scena alcune performance dalla caratteristica vena surreale. Ingresso gratuito.

TEATRO

venerdì 9 marzo / Bad&Breakfast ai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce Camera doppia è uno spettacolo teatrale musicale un po’ bizzarro, ironico, travolgente in cui può succedere di tutto… Sul palco Emanuela Gabrieli (voce) e Carla Petrachi (pianoforte). Ingresso unico € 7,00. Info: 0832.242000 giovedì 15 / Sacco & Vanzetti al Teatro di Nardò (Le) giovedì 15 / Assurdo a sud al Teatro Comunale di Ruffano (Le) venerdì 16 / Processo a dio al Teatro Paisiello di Lecce martedì 20 / Oggi sposi al Teatro di Livello 11/8 di Lecce mercoledì 21 / Banda 25 al Teatro Filograna di Casarano (Le) 25 anni di storia della Banda Osiris in una


CoolClub.it rilettura ironica e non cronologica di alcune tappe significative dell’iter creativo della band, tra musica seria e comica, citazioni colte e trash d’annata, canzoni d’autore e jingle pubblicitari. Sipario ore 21.00. Info 0833514242 venerdì 23 e sabato 24 / Aspettando Godot ai Cantieri Koreja di Lecce La rassegna Strade Maestre dei Cantieri

Koreja di Lecce prosegue con un classico del teatro contemporaneo. Aspettando Godot di di Samuel Beckett in questa rilettura del Teatro di Pontedera per la regia di Roberto Bacci. “Quando Aspettando Godot è diventato il fantasma a cui dare corpo, la scelta di come lavorare per la sua messa in scena non poteva che essere quella della fedeltà alla scrittura originale, trovando tuttavia i necessari tradimenti per dialogare con il testo”, sottolinea il regista. “Si è aperto così un mondo nuovo in cui vivono antiche domande. Chi sia Godot o che cosa significhi l’attesa sono alcune di queste. Lo spettacolo potrà fare da ponte verso possibili risposte anche se non c’è una vera speranza che ci riscatti dall’assurdità della nostra esistenza. Ogni possibile conclusione sta alla nostra coscienza individuale. Purtroppo, nel 2006, saranno 100 anni da che Samuel Beckett è nato e devo confessare che mi è sembrato uno scherzo del destino quando, una volta che ho deciso di mettere in scena Aspettando Godot, me lo hanno fatto notare. Era ormai troppo tardi per tornare indietro. Pazienza, saremo in buona ed abbondante compagnia: tanti artisti in attesa di tanti Godot. Allora, 100 di questi Godot, Signor Beckett”, conclude Bacci. Biglietto intero 10 euro - ridotto (sotto i 25 e sopra i 60) 7 euro. info 0832.242000. venerdì 23 e sabato 24 / Lo Zì al Teatro Comunale di Bitonto venerdì 23 / Il Processo di Franz Kafka al

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Cinema Elio di Calimera (Le) Continuano gli appuntamenti della Rassegna organizzata da Somnia Theatri a Calimera (Lecce), che propone visione di spettacoli teatrali e stages di formazione attoriale. Sul palco la prima assoluta del Processo di Franz Kafka per la regia di Principio Attivo Teatro. In scena Dario Cadei, Silvia Lodi, Cristina Mileti, Otto Marco Mercante, Daniele Morleo, Fabio Quarante, Giuseppe Semeraro. Come le altre opere Kafkiane, il Processo può essere considerato l’emblema di una nuova epoca - quella della crisi dei valori e della paralisi dell’individuo di fronte alla modernità e alle nuove dinamiche di controllo stabilite dalla “macchina del potere”. Info 0832875283; info@somniatheatri.com. venerdì 30 e sabato 31 / Il teatro comico ai Cantieri Koreja di Lecce I Cantieri Koreja ospitano, in questo nuovo appuntamento della rassegna Strade Maestre, la Compagnia Katzenmacher che ripropone il teatro Comico di Carlo Goldoni. La regia è affidata ad Alfonso Santagata. Tre Attori bravissimi Rossana Gay, Johnny Lodi, Massimiliano Poli, ormai da anni al fianco del regista, che interpretano ruoli diversi moltiplicando i personaggi. Uno spettacolo tra il comico e il commovente, una rilettura del testo di Goldoni intelligente e mai scontata. Biglietto intero 10 euro ridotto (sotto i 25 e sopra i 60) 7 euro. info 0832.242000. venerdì 30 / Lo Zì al Teatro Illiria di Poggiardo (Le) Lo Zì è uno spettacolo, di Mimmo Mancini e Pietro Albino di Pasquale, con Mimmo Mancini, che si propone di mettere in risalto il problema della diversità. Che cosa accadrebbe se un uomo si accorgesse di soffrire di una malattia invalidante? Come dirlo agli altri e come imparare ad accettarsi? Un’ora e un quarto di spettacolo, uno scoppiettante monologo comico in cui l’attore si mette in gioco dando prova di straordinarie capacità interpretative. La rappresentazione di un’opera matura come “Lo Zì” può compiere un grande prodigio: il sorriso. sabato 31 / Lo Zì al Teatro Impero di Brindisi

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CoolClub.it Vi sono fumetti che scuotono le nostre intorpidite coscienze presentandoci gli orrori dell’empietà umana presente, futura e passata; altri ci accompagnano lievemente per mondi nei quali ogni fantasia è realtà. Blankets di Craig Thompson (edito in Italia da Coconino Press) non possiede nessuna di queste qualità: è un’opera che ci accompagna nella poesia del quotidiano, e lo fa attraverso la scelta coraggiosa di narrare il passato autobiografico del suo giovane autore, con struggente tenerezza. Craig, appena adolescente, incontra la coetanea Raina; labbra carnose e morbidi capelli biondi lo seducono, conducendolo in un piacevole labirinto di passioni carnali e sentimenti più alti. I corpi che si sfiorano, le anime che vibrano all’unisono sono alcune delle potenti emozioni che i due ragazzi vivranno durante quella esperienza unica che è il primo amore. Ma Craig e Raina non sono comuni adolescenti: le loro famiglie provengono da una realtà molto diffusa nel Middle West statunitense, quella del fondamentalismo cristiano ed il loro legame li porterà a confrontarsi con tabù e convenzioni arcaici e stolti. Thompson non esprime condanne forti verso tale realtà, semplicemente registra il distacco lento ed inesorabile, che l’ha condotto lontano dalla sua famiglia, per il quale è divenuto un estraneo. Blankets illustra il primo innamoramento del suo autore, oltre a raccontare di una rivoluzione silenziosa,

intimista, compiuta da un individuo che rompe col proprio ambiente; è il diario della presa di coscienza di Craig che grazie all’esperienza amorosa riconsidererà il suo ruolo e le rigide regole in cui la sua religiosità lo ha costretto. Inizia dunque, per lui un processo di formazione che lo condurrà lontano dalla propria casa, verso quel mondo in cui ha sempre temuto e sperato di perdersi e rigenerarsi. Il sentimento per Raina è la chiave d’accesso alle scelte che lo renderanno adulto e lo porteranno a diventare un fumettista. Non è neanche un caso che l’autore abbia scelto l’ateismo, pur non recidendo totalmente i contatti con una famiglia ingombrante ma amata; essa è parte di lui, quanto l’educazione religiosa nella quale s’è formato e non la rinnega. Tuttavia da ciò egli si è allontanato attuando la più grande lotta che l’uomo moderno possa compiere: costruire la propria sfaccettata individualità in tempi di omologazione coercitiva. Blankets è un opera raffinata come i disegni che l’ha incanalano nella struggente ricerca di un senso nuovo della propria esistenza. Le tavole in bianco e nero del giovanissimo fumettista sono raffinate e molto stilizzate, capaci di restituire le atmosfere ora sentimentali, ora più sognanti che caratterizzano il fumetto durante le sue pagine. Roberto Cesano

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