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editoriale
Crediamo nel futuro della mobilità
MAURO COLOMBO DIRETTORE GENERALE CONAFRTIGIANATO IMPRESE VARESE
AVANZATA Ottomila auto elettriche e ibride circolanti, una forte vocazione al mondo dei trasporti, una manifattura solida e con elevata propensione all’innovazione e centri di ricerca, pubblici e privati, già oggi operanti nel settore. C’è tanta mobilità avanzata nel tessuto produttivo della provincia di Varese e, stando ai dati di previsione, il futuro ne porterà sempre di più. Per cogliere a pieno il trend, e trasformarlo in una opportunità economica e produttiva, abbiamo scelto di proseguire il cammino di analisi delle prospettive di sviluppo affidando a The European House Ambrosetti uno “Studio per l’individuazione delle condizioni operative e di contesto funzionali al consolidamento di un cluster manifatturiero, di servizio e della ricerca per la mobilità sostenibile”. Immagineremo, insieme a partner aziendali, istituzionali e afferenti al mondo della ricerca, una “rivoluzione industriale sostenibile dei trasporti” in grado di sfruttare competenze e know how già presenti sul territorio e nella sua “area vasta” e di anticipare i tempi di una riconversione produttiva e di servizio che pare inevitabile. Si tratta di un obiettivo ambizioso, non rinviabile alla luce della crescente attenzione alla sostenibilità ambientale e a fronte delle criticità legate al trasporto tradizionale che, ad ogni inverno, si presentano puntuali. L’iniziativa si inserisce nel solco della ricerca “La Provincia di Varese, scenari di futuro” ed è da considerarsi un investimento sul nostro tessuto socio-produttivo, al fine di trasformarlo in un polo di riferimento e di attrattività nazionale. Sono molteplici le ragioni della scelta: innanzitutto, ne “La Provincia di Varese, scenari di futuro” il filone della mobilità avanzata è stato evidenziato come benchmark di rilievo nazionale, anche per la presenza di imprese già operanti nel settore e di centri di ricerca ad esso orientati. In secondo luo-
go, si avverte una forte propensione alla e-mobility, rilevata dai numeri: oggi le quasi ottomila auto elettriche e ibride in circolazione posizionano la Varese al quarto posto in classifica nazionale. Varese è quarta anche per numero di mezzi elettrici e ibridi in rapporto al parco auto totale (13,4 ogni mille, preceduta solo da Bologna, Milano e Trento) ed è un unicum italiano per la presenza di un’auto su dieci tra le elettriche e ibride in Regione. Non è tutto: già oggi, circa la metà delle imprese e del fatturato della filiera della mobilità elettrica si concentrano nel Nord Ovest del Paese, a riprova della strategicità di Varese nel cuore dell’asse della mobilità che si snoda tra Milano e Torino. Non potevamo prescindere da queste e altre riflessioni e non potevamo ignorare la crisi di parte della manifattura, che ha registrato una contrazione occupazionale del 16% dal 2008 a oggi. La mobilità avanzata cambierà i connotati di molte delle imprese manifatturiere che oggi operano nella filiera dell’automotive (il 30% della filiera della mobilità elettrica è composto da imprese manifatturiere, specie Pmi, ndr) e delle imprese di servizio (meccanici ed elettrauto), oltre che delle aziende operanti nella logistica (mezzi pesanti). Dobbiamo prepararci per tempo, prevenire il rischio di sofferenza o contrazione delle attività dovute alle nuove richieste di mercato. Meglio affrontare ora il cambiamento per dare alle aziende e al territorio i giusti tempi di adeguamento. Non dimentichiamo, infatti, che l’avvio di nuove attività prevede la riconversione delle competenze e l’innesto di nuove professionalità, da costruire in sinergia con gli istituti di formazione tecnica superiore e con le università. Le premesse per diventare polo nazionale della filiera industriale della mobilità avanzata ci sono. Ora non resta che crederci, aprire il confronto e investire sul futuro.
SOMMARIO editoriale CREDIAMO NEL FUTURO DELLA MOBILITÀ AVANZATA_______________________________________03
primo piano
A TU PER TU CON FRANCESCO PROFUMO________________________________________________05 LA LEGALITÀ SIAMO NOI_______________________________________________________________08 SIAMO IN RITARDO. IN AULA È IL MOMENTO DI PORTARE L’INNOVAZIONE_____________________ 10
punti di vista
PLASTICA SOTTO ATTACCO. LE ALTERNATIVE SONO UNA VERA SOLUZIONE?_________________ 12 ENERGETICAMENTE__________________________________________________________________ 14 NON SOLO ELETTRICA. LA NUOVA MOBILITÀ SARÀ AVANZATA E CONDIVISA__________________ 16 PERIFERIE SMART. IL MODELLO REPLICABILE CHE ATTIRA LE IMPRESE E PIACE ALL’AMBIENTE__ 18
approfondimenti
LE OLIMPIADI SI VINCONO DOMANI_____________________________________________________20 ALL’OMBRA DEI GIGANTI______________________________________________________________22 IMPROVVISARE FA MALE ALL’EXPORT____________________________________________________24
storie di impresa
DA BOUTIQUE A GIGANTE CON UN SEGRETO: L’IDENTITÀ__________________________________26 DI PADRE IN FIGLIO. LA “COTTURA LENTA” DI RISO GALLO_________________________________28 LA DIGIWOMAN HA 18 ANNI E IN AZIENDA PUNTA SULLA CURIOSITÀ___________________________30 NON PONETEVI LIMITI MA OBIETTIVI_____________________________________________________32 LA TECNOLOGIA È DA INCORNICIARE___________________________________________________34 LA LEZIONE DEI KISS (E DEL BOSS). ESPERIENZA BATTE PRODTTO_________________________36
consigli per le imprese
STORYTELLING PER L’IMMAGINE. FATTI E DIPENDENTI PER LA REPUTAZIONE_________________38 LE RADICI DELLE RETI________________________________________________________________40
rubriche
CONDIVISIONE, DELEGA E RELAZIONE___________________________________________________42
Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese - Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli
Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico e impaginazione - Confartigianato Imprese Varese Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.800 copie - Chiuso il 26 Novembre 2019 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali
primo piano
A tu per tu con Francesco Profumo Insegniamo a imparare
LA CONOSCENZA È VITA
Il presidente della Compagnia di San Paolo di Torino, già ministro dell’Istruzione e Rettore del Politecnico di Torino: «In passato si restava per un periodo molto lungo nella stessa azienda, un periodo legato alla durata della conoscenza e al sistema educativo pensati in forma industriale, nella prima parte della vita. Oggi sono cambiati i paradigmi di base»
FRANCESCO PROFUMO PRESIDENTE DELLA COMPAGNIA DI SAN PAOLO DI TORINO
primo piano
«Si potrebbe sviluppare una filiera di docenze a partire dalle secondarie di secondo grado, che preveda delle competenze ma anche valutazioni e premialità correlate a obiettivi diversi da quelli dell’insegnamento tradizionale. Perché insegnare a imparare lo si può fare dal punto di vista teorico-intellettuale ma insegnare a imparare un mestiere è un’altra cosa»
6 | imprese e territorio
Il lavoro del futuro? Ha bisogno di una nuova formazione. «Serve un ciclo educativo per la vita, perché la conoscenza oggi deve essere adeguata negli anni. Questa dovrebbe essere la priorità di una generazione di governi». Il professor Francesco Profumo, attualmente presidente della Compagnia di San Paolo di Torino, già ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca del governo Monti, dopo essere stato Rettore del Politecnico di Torino, ci spiega come adeguare il sistema dell’istruzione alle nuove modalità di lavoro smart e flessibili. Un cambiamento che si basa su tre parole chiave: «Incertezza, perché non sappiamo quello che succederà ma dobbiamo provare a tracciare dei percorsi; rapidità, in quanto i processi oggi sono velocissimi in politica, nella tecnologia, nella società, mentre una volta i cambiamenti si potevano ammortizzare in tempi più lunghi; e agilità». Il sistema dell’istruzione oggi non è più al passo con i tempi? I sistemi formativi di oggi sono figli della rivoluzione industriale. Assomigliano a piccole fabbriche in cui ci sono le materie prime (gli studenti), chi opera per trasformarle (gli insegnanti) e il prodotto finale, che sono i cittadini di domani. E la conoscenza, che nel nostro Paese è devalorizzata e arranca,
primo piano
LA NOSTRA INTERVISTA
mentre altri Paesi hanno avuto la capacità di investire e l’intuizione di quanto sia importante oggi la conoscenza. Anche la conoscenza cambia? Se in passato c’era una corrispondenza tra la durata della conoscenza e la forma in cui veniva costituita, dalla scuola, oggi le rivoluzioni sono sempre più rapide: perciò serve un adattamento della conoscenza diverso rispetto al passato. Anche il lavoro sta cambiando: sempre più smart e flessibile… La transizione nel mondo del lavoro avverrà “enne” volte nella vita delle persone. In passato, si permaneva per un periodo molto lungo nella stessa attività, un periodo legato alla durata della conoscenza e al sistema educativo, pensati in forma industriale, nella prima parte della vita. Oggi, essendo cambiati i paradigmi di base, dato che è cambiata la domanda, è necessario ripensare le forme di educazione formazione per un Paese moderno. Serve un ciclo educativo per la vita, non più in forma industriale, per 18 anni. L’obiettivo primario deve essere insegnare ad imparare, perché sarebbe troppo costoso imparare ad imparare. Come si concretizza questo concetto? Con una maggiore attenzione per le soft skills e con ritorni successivi a scuola per la riqualificazione delle competenze. Questa sarebbe la politica numero uno di una generazione di governi, una vera rivoluzione per il nostro Paese, che ha un deficit di connessione sui temi della domanda di lavoro e di nuovo lavoro. Prendiamo esempio dai Paesi nordici. Nello specifico cosa intende? In Danimarca ogni nuovo nato riceve una carta d’identità, una identità digitale e un voucher per l’educazione, flessibile nell’utilizzo. Definito un punto di partenza, è un sistema agile e flessibile. In Italia invece nello zainetto della vita di ogni nuovo nato mettiamo 40mila euro di debito pubblico. Riflettiamoci». Il reddito di cittadinanza non è una risposta adeguata? Pensiamo al modello della Svezia, dove è il datore di lavoro che deve chiudere la posizione lavorativa a gestire la transizione verso una nuova occupazione, con una partecipazione attiva del lavoratore, motivato a costruire il suo futuro, men-
tre lo Stato interviene nella formazione e riqualificazione, in stretta connessione tra domanda e offerta. Con questo approccio, il risultato si ottiene mediamente in 120 giorni, non in 18 mesi. E il sistema duale, che ruolo può giocare in questa rivoluzione? Sono profondamente convinto che siano necessari dei ponti anticipatori di relazione tra il mondo della formazione e le realtà socio-economiche in senso lato. È chiaro che ci sono alcuni Paesi, in particolare la Svizzera, la Germania e la Francia, che hanno una storia lunga da questo punto di vista, di buon successo, perché attraverso questo sistema è possibile anche indirizzare o re-indirizzare i ragazzi che non hanno idea di dove orientarsi. Se a tutto questo si collegasse anche un tema della formazione tecnica, sia a livello intermedio che a livello superiore, valorizzandola e non devalorizzandola, credo che potremo dare al nostro Paese un indirizzo per l’educazione, ma in fondo anche una risposta a una domanda di un Paese che in termini di industria e di servizi è uno dei grandi del mondo. Teniamo conto che in Italia il mismatch è del 25%. Serve ancora più vicinanza tra sistema dell’istruzione e delle imprese? Bisogna aiutare le Pmi, che sono il nocciolo del nostro sistema produttivo. Ma è una questione complessa, anche perché c’è un tema di governance a monte: quei Paesi hanno ormai consolidato nel tempo una prassi secondo cui, per esempio, nell’ambito della formazione delle scuole tecniche i docenti sono selezionati in una forma diversa rispetto a quella dei docenti universitari. Noi che insegniamo negli atenei siamo tuttora selezionati sulla base della nostra capacità di produzione di ricerca scientifica, su cui veniamo valutati ed eventualmente premiati. Però noi non siamo capaci ad insegnare un mestiere. Ecco che si potrebbe sviluppare una filiera di docenza, che a me piacerebbe che fosse anche in forma di “academy”, a partire dalle secondarie di secondo grado, che preveda delle competenze ma anche delle valutazioni e conseguenti premialità che siano correlate ad obiettivi diversi rispetti a quelli dell’insegnamento tradizionale. Perché insegnare ad imparare lo si può fare dal punto di vista teorico-intellettuale ma insegnare a imparare un mestiere è un’altra cosa. Ed è una declinazione molto più interessante di quanto si possa pensare. imprese e territorio | 7
primo piano
La
LEGALITÀ
siamo NOI
«Il senso della legalità riguarda tutti e se non iniziamo dal basso con i nostri comportamenti e con le denunce di quello che capita vicino a noi, la tendenza non si invertirà»
8 | imprese e territorio
primo piano
IL TEMA CALDO DELLA GIUSTIZIA
GUSTAVO ZAGREBELSKY GIURISTA E ACCADEMICO, GIÀ PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
«La legalità? Un fatto culturale e di coscienza prima ancora che di legge. Se la normalità è l’illegalità, la sanzione appare come ingiusta». Uno dei grandi paradossi del nostro Paese per Gustavo Zagrebelsky, giurista e accademico, già presidente della Corte Costituzionale, che invoca una forte presa di coscienza civile per combattere fenomeni di malcostume diffuso, come l’evasione fiscale, il lavoro nero e gli appalti truccati. Altrimenti c’è il rischio che «chi rispetta le regole e si comporta correttamente finisca per chiedersi come potrebbe anch’egli aggirare le norme». Per ristabilire un principio di concorrenza. Vale per i cittadini così come per le imprese. La legalità infatti «è un discorso culturale», che fa sì che «prima che si riscontrino effetti concreti dei provvedimenti legislativi, questi hanno bisogno di maturare nelle coscienze dei cittadini». Insomma, non bastano giri di vite e leggi restrittive per diffondere la legalità tra i cittadini e le imprese, occorre agire sulla coscienza civile di un popolo. «La legalità non è solo questione che tocca da vicino i magistrati e la classe politica, ma riguarda ciascuno di noi, ciascun cittadino» rimarca Zagrebelsky. Anche perché la giustizia in Italia non è in buona salute, anzi: «L’opinione corrente è quella di chi dice che la salute della giustizia sia malferma - ammette il giurista - è un tema che deve riguardare tutti, altrimenti si rischia di aprire la strada agli abusi e a chi vuol fare un uso deviato del diritto».
tadino c’è un’idea elastica, come possiamo noi reagire culturalmente con chi sta più in alto nelle istituzioni?». Insomma, l’illegalità «è molto diffusa, e diventa molto difficile colpire gli atti singoli, perché la legalità stessa finisce per apparire come un abuso, in presenza di una illegalità diffusa». È questo, dunque, uno dei grandi paradossi italiani. L’obiettivo che ci si deve porre è che «le norme funzionino in situazione di normalità, visto che norma e normalità - mette in evidenza il giurista - sono due termini che hanno la stessa radice. Ma se la normalità e l’illegalità, l’intervento sanzionatorio appare ingiusto». Siamo sempre al para-
«Fatto culturale dosso, che induce una sorta di malcostume e di coscienza prima difensivo, portando l’illegalità a diffondersi a macchia d’olio, in un circolo vizioso che diche di legge: se l’illegalità viene vissuta venta sempre più difficile da spezzare. «Se l’evasione fiscale è la regola, così come il come normalità, lavoro in nero, quando chi compie questi rela sanzione appare ati viene colpito sente di essere oggetto di ingiusta» denuncia il ingiustizia - afferma Gustavo Zagrebelsky giurista e accademico chi paga le imposte come dovrebbe si chiede Gustavo Zagrebelsky come potrebbe evadere. Come per una sorta di principio di uguaglianza nella illegalità. Ad esempio, quando tutti i candidati sono raccomandati anche persone insospettabili finiscono per cercare una raccomandazione». Si tratta di quello che il giurista definisce «la capacità espansiva dell’illegalità e della corruzione, che
Il tema è assai complesso, e si gioca sul filo della correttezza formale. Perché in realtà, fa notare Zagrebelsky, «le peggiori forme di malcostume - come ad esempio gli appalti truccati, visto che di regolari se ne trova una quantità limitatissima rispettano la forma con grande scrupolo».
non è l’eccezione».
Il punto di fondo è che nel nostro Paese «c’è un problema di percezione sostanziale del valore della legalità. Se per il cit-
deve coinvolgere ciascun cittadino e ciascuna impresa, e
Come se ne esce? Per Zagrebelsky «il discorso sul senso della legalità riguarda tutti. E se non iniziamo dal basso con i nostri comportamenti e con le denunce di quello che capita vicino a noi, la tendenza non si invertirà». È quindi una battaglia che che non può essere delegata a chi governa. imprese e territorio | 9
primo piano
Siamo in ritardo. In AULA è il momento di portare
L’INNOVAZIONE Microsoft Italia: «L’AI e i robot imporranno a ciascuno di noi di aggiornarsi e ripensare il proprio modo di lavorare: è l’era dell’apprendimento continuo. E le ultime stime ci dicono che il netto, tra lavori che spariranno e nuovi lavori, sarà positivo»
10 | imprese e territorio
primo piano
IL TEMA CALDO DELL’INNOVAZIONE
L’Italia ha fame di digitalizzazione: le innovazioni, come la robotica e l’intelligenza artificiale sono delle opportunità da cogliere, anche per le Pmi, che in futuro grazie alla tecnologia «potranno ragionare per ecosistemi». Lo spiega Barbara Cominelli, direttore marketing di Microsoft Italia, che vede occasioni e speranze di crescita nel futuro digitale. La digitalizzazione in Italia è ancora un problema, perché? Dobbiamo chiederci perché siamo così in fondo alle classifiche: 24esimi a livello di Unione Europea per la digitalizzazione, pur essendo il terzo paese comunitario e la decima potenza economica mondiale. Si parla sia di competenze digitali di base, visto che solo il 44% della popolazione usa servizi digitali avanzati come home banking, spesa online, ecc., sia di competenze digitali avanzate, dato che meno dell’1% dei nostri laureati si formano nelle materie tecnologiche. Quali sono le ragioni di questa “arretratezza digitale”? Innanzitutto, a scuola non si insegna abbastanza coding e robotica, che ormai devono essere parte della “cassetta degli attrezzi” con cui formiamo i bambini, proprio come la matematica. E poi gli insegnanti non sono sufficientemente aggiornati, quindi non sono in grado di insegnare queste materie di base. Eppure, da qui al 2020 si stimano 135mila ragazzi esperti di tecnologia ricercati dalle aziende. E non ci sono? Lo “skill mismatch” è un paradosso dell’Italia, uno spreco di risorse e di talento che ci impedisce di crescere come potremmo, se pensiamo che solo usando le tecnologie disponibili l’Italia potrebbe far crescere il Pil dell’1% all’anno. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale contribuirà alla crescita del paese con 135mila nuovi posti di lavoro Ict vacanti al 2020, più 12% di incremento della produttività lavorativa al 2035, più 15% di valore aggiunto lordo relativo al Pil al 2035. È per questo che Microsoft ha deciso di scendere in campo? Facciamo la nostra parte, con il programma Ambizione Italia, che si pone l’obiettivo di raggiunge due milioni di persone nei programmi digitalizzazione di base, per formarne 500mila e certificarne 50mila. Solo nella scuola 250mila bambini e 150mila insegnanti da formare, con laboratori in oltre 30 hub in cui ci saranno formatori di corsi di base. Diamo strumenti per creare: si scatena la creatività e la tecnologia diventa un’opzione per il futuro dei ragazzi. Del resto, basta un’ora per accendere una lampadina sulla tecnologia. Abbiamo bisogno di più ragazzi che vogliano formarsi negli indirizzi tecnologici… L’obiettivo di queste iniziative è anche demistificare il concetto che la tecnologia sia per pochi. E poi chiarire che non basta saper usare Instagram e WhatsApp, bisogna anche capire come funziona. C’è fame di queste iniziative, perché funzionano e si
possono fare. Uno dei problemi è anche la transizione dal mondo della scuola al mondo del lavoro? Noi crediamo che si debba creare un ponte tra le università e aziende, integrando i laboratori nei percorsi accademici, in ambiti come le data sciences, per utilizzare la tecnologia che si usa nelle aziende. E poi c’è il tema del reskilling, aggiornare le competenze della persona. Di fronte al timore che l’automazione e i robot possano rubare il lavoro, noi con Adecco abbiamo sviluppato una piattaforma per permettere a ciascun lavoratore di capire come è messo con le competenze digitale: un indice di occupabilità per capire quanto siamo pronti per il futuro e quali corsi si possono fare per formarsi. Ma come sarà il lavoro del futuro? Lo storytelling secondo cui i robot e l’intelligenza artificiale ci domineranno è uno scenario che noi francamente non vediamo. Su questo tema serve pragmatismo, non science fiction. L’AI e i robot porteranno a far sì che ognuno di noi debba aggiornarsi, ripensare al proprio modo di lavorare: non è più il “vecchio mondo”, ma l’era dell’apprendimento continuo, magari più un po’ faticoso ma stimolante. Le ultime stime ci dicono che il totale, tra lavori che spariranno e nuovi lavori, sarà positivo. Bisogna mettersi in discussione, ma il bicchiere è mezzo pieno: l’innovazione tecnologica ci farà crescere. Nel vostro programma sono previste anche azioni specifiche per il mondo della piccola e media impresa? Stiamo partendo con un progetto di educational legato anche alle Pmi, dato che il loro livello di digitalizzazione purtroppo è ancora molto basso e questo rappresenta un’opportunità da cogliere per le imprese che hanno intenzione di crescere. Nel futuro le nuove tecnologie che si stanno affacciando favoriranno la concentrazione nelle grandi imprese o consentiranno alle piccole di continuare a svilupparsi? Nel futuro c’è grande spazio per le Pmi. Possono lavorare per ecosistemi, non solo a livello territoriale ma anche ad un livello più ampio. La digitalizzazione rappresenta un’opportunità. Anche se ci sono molti timori diffusi? Le tecnologie a disposizione possono essere “tools” o “weapons”, strumenti o armi. L’intelligenza artificiale è il massimo di questi esempi: è un altro strumento a nostra disposizione, come l’elettricità. Va utilizzato responsabilmente, ma è uno strumento di automazione come altri. Prendiamo l’esempio della tecnologia per il riconoscimento facciale: con un governo non democratico può creare dei problemi. Oppure l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la selezione del personale: io, in quanto donna, probabilmente non sarei mai stata raccomandata per un ruolo prevalentemente maschile. Tocca al governo dare degli input su un uso responsabile di questi strumenti, l’esempio è il Gdpr che ha dato indicazioni. imprese e territorio | 11
punti di vista
PLASTICA
SOTTO ATTACCO Ma le ALTERNATIVE sono la vera SOLUZIONE?
«L’Italia è tra i maggiori produttori di imballaggi al mondo, quindi scegliere di tagliare tout court la plastica significa scatenare un terremoto nel sistema economico nazionale». Prima di procedere meglio mettere in campo un piano di investimenti da destinare alla riconversione della produzione aziendale 12 | imprese e territorio
Sono in molti a pensarlo: la plastica è sotto attacco. Ma, se non condotta con cautela o affrontata nel modo giusto, la guerra scatenata per tutelare l’ambiente dalle “isole delle bottigliette abbandonate” rischia di lasciare sul tappeto sia la vittima più illustre che una parte consistente del nostro sistema economico, quello legato all’importantissima filiera produttiva della plastica (che in Italia conta cinquemila imprese) e al suo indotto. Ecco perché non usa mezzi termini Davide Baldi, esperto del Settore Ambiente di Confartigianato Imprese Varese, nell’affrontare un tema bollente e d’attualità ma spesso vittima di “fake news” e falsi miti: «La plastica è sotto attacco – conferma – ed è sotto attacco in una logica consumistica alternativa, non per quello che la plastica è in sé». Un esempio per tutti: le bottiglie di plastica abbandonate arrecano sì un danno, perché hanno un tempo di decadimento di almeno 100 anni, galleggiano e si possono ritrovare più o meno dappertutto. «Ma – dice Baldi – la bottiglia di plastica, in sé, non è “il” problema. Tanto più che è riciclabile nell’ambito di
punti di vista
pensare controcorrente/1
Il tema è bollente. Parla l’esperto del Settore Ambiente di Confartigianato Varese, Davide Baldi: «La plastica non è “il” problema, “il” problema piuttosto si chiama abbandono». E le alternative hanno tutte delle controindicazioni una filiera molto ben sviluppata, frutto di campagne sul riciclo che in Italia sono partite nel 1997, con il primo decreto Ronchi». “Il problema”, piuttosto, si chiama abbandono ed è un male curabile con campagne informative e formative estese e impattanti da rivolgere in particolare a quei Paesi dove la plastica monouso ha risolto il dramma sanitario dell’assenza di acqua potabile ma ha prodotto numerosi “abusi” non adeguatamente frenati. Tra l’altro, anche le alternative alla plastica monouso rischiano di avere controindicazioni di portata simile, se non superiore, a quelle arrecate dal problema originario. Per capirci: oggi, i surrogati alla bottiglietta sono le bioplastiche, le “borracce” (i contenitori in acciaio o vetro) e la cellulosa. Una scelta, anziché l’altra, «può spostare il problema – sostiene Baldi – ma non è detto che riesca a risolverlo». Cerchiamo di capire il perché. La bioplastica non ha impatto zero: ha certamente vantaggi dal punto di vista dell’impatto ambientale, poiché impiega da uno a quattro anni a decadere «ma deriva dal cibo, tipicamente mais e canna da zucchero, e dobbiamo chiederci se non si rischi di stressare eccessivamente l’agricoltura, e quindi l’ambiente, nel tentativo di produrne a sufficienza per sostituire integralmente l’altra». Mais geneticamente modificato e abusi agricoli possono generare, infatti, un danno ambientale serio. E poi, che dire della tanto decantata biodiversità? Analogo ragionamento vale per la bottiglietta d’acciaio che, come la plastica, deriva da una risorsa finita (fossile) non rinnovabile e ha un ciclo produttivo che inquina al pari di quello della plastica: «La differenza evidente è solo il costo. Poiché questo oggetto lo si paga di più, si finisce per non buttarlo con analoga facilità». A questa stregua, basterebbe “riusare” la bottiglia di plastica per ottenere il medesimo risultato. Capitolo cellulosa: in quanti sanno quale sia l’impatto ambientale di una azienda produttrice di carta? Inoltre, poiché la produzione in Italia è stata abbandonata in seguito alla crisi, per soddisfare i bisogni del mercato bisognerebbe attingere a piene mani dall’importazione, con conseguente impiego di combustibile fossile per i trasporti tale da generare un bilancio energetico equivalente a quello dei piatti di plastica. «Ecco
perché – tira le somme l’esperto di Confartigianato Varese – è fondamentale basare le scelte ambientali su rigorosi bilanci energetici e non sulle reazioni emotive alle immagini dei disastri ambientali. Altrimenti finiremo soltanto per sostare il danno altrove, più lontano dai nostri occhi». Una cosa già accaduta ai tempi della lotta all’ozono, condotta a suon di diffusione dei cosiddetti gas ecologici. «Oggi il risultato di quelle scelte è la diffusione della Co2, che noi stessi contribuiamo ad alimentare con la diffusione dei climatizzatori di cui nessuno è più disposto a fare a meno». Sfatata qualche fake news, veniamo al cuore del problema: come affrontare con coscienza il problema dell’abbandono della plastica monouso, che tanti danni arreca al Pianeta. «Il primo intervento deve essere culturale: le prassi del buon utilizzo e del corretto smaltimento sono in cima all’elenco di quelle da mettere in atto diffusamente». A seguire, una premessa: «L’Italia – ricorda Baldi – è tra i maggiori produttori di imballaggi al mondo, quindi scegliere di tagliare tout court la plastica significa scatenare un terremoto nel sistema economico nazionale». Prima di procedere, meglio mettere in campo un vero piano di investimenti da destinare alla riconversione della produzione aziendale (come ha già fatto la Germania, mettendo sul piatto la cifra-monstre di 100 miliardi di euro) o allungare i tempi di trasformazione della filiera per dare tempo alle imprese di adeguarsi autonomamente. Altre soluzioni, all’orizzonte, non ce ne sono: «Il Green News Deal, così come è stato pensato fino a oggi in Italia, è invece un accorgimento per spostare i consumi e incrementarli in modo nuovo: manca una vera visione ecologica». Tanto più che il rischio, già spiegato nel dettaglio, è di lasciare tante aziende ferite sul campo di battaglia. Per concludere: le aziende sono pronte ad assecondare il mercato, ma compito dei decisori è fare scelte oculate, approntare adeguate iniziative culturali e accompagnare il cambiamento, riconversione compresa, attraverso investimenti proporzionati, per evitare di impoverire uno dei pilastri dell’economia nazionale e tutto il suo indotto. «Dobbiamo iniziare a parlare di ecologia». Il mondo va salvato con la concretezza, non spostando il problema o, peggio, infilandolo sotto al tappeto. imprese e territorio | 13
punti di vista
Prima di immaginare un futuro completamente elettrico, dobbiamo chiederci se sarà davvero possibile e come: non tutto è scontato, dicono gli esperti
Energetica
14 | imprese e territorio
MENTE
punti di vista
pensare controcorrente/2
Fra trent’anni riusciremo a essere completamente elettrici, senza dipendere da fuori? Il futuro è l’energia rinnovabile, ma il presente ci impone di guardarci dentro e ammettere le contraddizioni disseminate lungo questa strada. Per poterle sciogliere e proseguire con meno impaccio. Al Forum su Energia e Sostenibilità della Rcs Academy a Milano recentemente si è messo a fuoco il tema delle città di domani, con grandi società come Terna, Snam, Eni e A2A. Consapevoli che se la tecnologia arriva in soccorso con progressi sempre più rapidi, è prima di tutto il nostro stile di vita, con i suoi gesti grandi e piccoli ad accelerare questo percorso.
to Res (ovvero soltanto con fonti energetiche rinnovabili?). Il riferimento è quello previsto dalla Strategia energetica nazionale, quindi 420 TWh (cento in più di quella attuale). Questo scenario prevede l’elettrificazione dei settori che attualmente sono “spinti” ancora dall’energia fossile, dunque carburanti e gas con tutte le implicazioni sull’ambiente. Ma quest’operazione sui trasporti pubblici e su quelli privati, richiede un’aggiunta di 150 TWh. Anche il riscaldamento (che sappiamo non meno cruciale del trasporto, anzi anche più invasivo e subdolo per impatto ambientale) contribuirebbe, richiedendo altri 80 TWh. Risultato, l’Italia avrebbe bisogno tra i 500 e i 550 TWh.
A questo proposito un’analisi del professor Giuseppe Zollino la dice lunga su ciò che sta accadendo e ciò che potrà avvenire. In base ai dati Terna, la domanda elettrica e la produzione concentrate in dieci giorni del 2018 si possono così ricostruire: un fabbisogno elettrico di 320 TWh, con import di 44, quindi una quota non proprio indifferente di dipendenza dall’esterno da parte del nostro Paese. E qui si innesta anche il dibattito su come venga prodotta tale energia, visto che su suolo straniero può provenire da fonti non proprio pulite. Per quanto riguarda l’eolico – prosegue intanto la ricerca - risultano 10 GW, il doppio per il fotovoltaico. Uno dei grandi dilemmi di oggi è proprio questo: va bene, l’elettrico è amico dell’ambiente. Che musica armoniosa, “emissioni zero”. Ma siamo sicuri che sia veramente così? Perché quell’energia va appunto prodotta. Ecco allora l’ammissione scientifica: oggi non è possibile soddisfare la domanda unicamente con fonti rinnovabili. Anche aumentando sia la capacità eolica sia quella fotovoltaica, non sarebbe sufficiente. Il Consorzio Rfx dell’Università di Padova ha ipotizzato una strategia ottimizzata, che prevede un mix tra idroelettrico a bacino, impianti a biogas, pompaggi e batterie: in dieci giorni del mese di giugno non occorre nemmeno attivare i primi due. Il punto, tuttavia, è guardare avanti, molto avanti: ad esempio fra trent’anni. Che cosa potrebbe portare un 2050 tutto firma-
Per far sì che sia possibile attuare questo scenario senza far “saltare” il delicato sistema, occorre parlare lo stesso linguaggio, quello della condivisione tra zone differenti, per esigenze, clima e infrastrutture. Anzi, per dirla con le parole usate nella ricerca del docente al Dipartimento di Ingegneria che è anche direttore del Centro ricerche fusione dell’ateneo e componente del consiglio di amministrazione del consorzio Rfx (fondato più di vent’anni fa per promuovere la collaborazione tra ricerca e aziende), bisogna portare avanti le connessioni all’interno del Paese.
Il segreto per l’autonomia dalle fonti rinnovabili è la connessione. Si tratta di un disegno che mette a fuoco le necessità delle regioni in modo che una possa sostenere l’altra nel periodo di sofferenza
Che cosa vuol dire? La capacità di trasmissione dev’essere rafforzata. Si fa un esempio per mostrare come funzioni. Si distribuiscono gli impianti fotovoltaici in proporzione al carico quindi ipoteticamente per metà al Nord: in questa maniera le interconnessioni vanno maggiorate al 50%. Se invece le si concentra al Sud, bisogna accrescere la portata di 2,5 volte. Si tratta insomma di un disegno che mette a fuoco le necessità delle regioni italiane e ne intreccia anche le capacità di risposta, in modo che uno possa sostenere l’altro nel periodo di sofferenza di domanda. Ma soprattutto è un sistema di dialogo che aiuta più che mai a capire come in questo percorso si possa solo camminare insieme per non perdersi. imprese e territorio | 15
punti di vista
Non solo
ELETTRICA La nuova mobilità sarà AVANZATA e CONDIVISA
E-mobility e mobilità avanzata, la rivoluzione è iniziata. Ora bisogna attrezzarsi. Secondo le previsioni, nei prossimi 20 anni le auto elettriche rappresenteranno il 55% delle vendite del nuovo e toccheranno il tetto del 33% della flotta globale. Ci sarà poi tutto il capitolo delle nuove, e alternative forme di alimentazione. Tutti i Paesi europei, ad eccezione della Norvegia, si trovano in una fase iniziale di adozione della mobilità elettrica in cui non si è ancora affermato un modello di business vincente in termini assoluti e si sta ancora sperimentando l’uso in parallelo di modelli diversi caratterizzati dalla prevalenza di operatori con caratteristiche diverse. Dunque, un settore in rapidissima crescita: «Nel 2018 le vendite sono più che raddoppiate rispetto all’anno precedente, con una tendenza ancora più forte nel 2019. Da qui al 2030, si stima che il fatturato del settore passerà dagli attuali 6 miliardi a 98 miliardi di euro» spiega Paolo Martini di Be Charge, azienda che ha oltre 1.600 punti di ricarica operativi o in costruzione sul territorio nazionale e che ha già pianificato di svilupparne altri quattromila. La presenza di una rete infrastrutturale per la ricarica ancora insufficiente e poco capillare è uno dei
motivi che ostacola la diffusione dei veicoli elettrici, se pensiamo che in Germania ci sono già 1,2 milioni di stazioni contro neanche 20mila stimate nel 2020 in Italia. Un altro dei temi cruciali, afferma il presidente di Arera (l’autorità dell’energia) Stefano Besseghini è quello della «sostituzione, per capire se la congestione di traffico di oggi si replicherà una volta che si diffonderanno i veicoli elettrici di massa, oppure se consentirà di fare un salto di qualità anche in termini di efficienza della mobilità». In questo senso è decisivo il tema della condivisione (car sharing elettrico) e della mobilità collettiva riconvertita all’elettrico. «La transizione deve passare attraverso un cambio di paradigma - rimarca l’assessore all’Ambiente di Regione Lombardia Raffaele Cattaneo - l’auto elettrica deve diventare parte di un nuovo modello di trasporto che riduca il numero di veicoli in circolazione e questo passa inevitabilmente per la condivisione. In questo contesto si innesta anche la modifica dell’uso del veicolo nelle flotte aziendali e il potenziamento del trasporto pubblico locale». È uno degli sforzi su cui sta dirigendo anche
Besseghini (Arera): «Gli operatori convenzionali possono dare una grande spinta, altrimenti c’è il rischio di un fallimento per scarsa capacità di impatto sul sistema esistente». Insomma, la spinta deve essere condivisa
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punti di vista
dove stiamo andando
l’industria. Per Federico Brivio, direttore degli Electrification Customer Projects di Bosch, è fondamentale il «cambiamento dal single vehicle ad un approccio di sistema. La soluzione non è la chiave che ha un singolo, ma è nella collaborazione tra vari attori». E se gli investimenti in questo settore (400 milioni di euro all’anno in Bosch) «stanno pagando», tra le sfide all’orizzonte ci sono quella della connettività internet per la gestione delle flotte e la presenza di «nuovi player sul mercato dell’elettrificazione, che vendono mobilità ma non producono in casa, come gli e-chassis su cui si monta la carrozzeria». Anche la filiera dell’automotive è dunque destinata a cambiare pelle, ma il cambiamento non sarà radicale, visto che aiuteranno a renderlo graduale, ad esempio, «i sistemi mild-hybrid con batterie da 48 Volt», veicoli in cui il motore elettrico entra in funzione solo in alcuni momenti. Le strategie dei grandi player del settore sono ormai votate nella direzione della transizione verso l’elettrico. «Cambierà radicalmente il nostro approccio al cliente e al mercato» fa notare Roberto Di Stefano, responsabile area e-Mobility per la regione Emea in Fca. «La strategia principale è arrivare con un’offerta puntuale per ogni tipo di cliente, associata ad una serie di servizi per poter utilizzare il veicolo nel modo migliore nell’uso quotidiano. Anche nel trasporto commerciale, dove con il Ducato 100%
elettrico puntiamo a mantenere la leadership nei mondi in cui si evolverà verso questa nuova mobilità sostenibile». Il futuro è adesso, anche perché l’auto elettrica «oggi spaventa meno - fa notare Gabriella Favuzza, brand manager veicoli elettrici Renault, uno dei colossi dell’automotive che per primo ha creduto e investito in questo segmento - è il tassello di inediti sistemi di intermodalità dei trasporti, e ormai è uno strumento di transizione energetica, per valorizzare l’energia da fonti rinnovabili verso ecosistemi autonomi». Insomma, non siamo di fronte «solo ad una rivoluzione tecnologica, ma ad un profondo cambiamento della mobilità a 360 gradi». Non tutto però è già scritto, come ammonisce il presidente di Arera Besseghini: «Gli operatori convenzionali possono dare una grande spinta in questo senso, altrimenti c’è il rischio di un fallimento per scarsa capacità di impatto sul sistema esistente». Ecco che una delle sfide in prospettiva più interessanti è quella dello sviluppo dei sistemi di “vehicle to grid”, in grado di trasformare l’auto elettrica in una grande batteria mobile capace, nei momenti di fermo, di interagire con la rete energetica nazionale per stabilizzarla ed evitare che vada al collasso. Rse, con Enel X e Nissan, sta sviluppando un progetto, basato sul fatto che una Leaf è in grado di immagazzinare l’equivalente di tre giorni di energia per la casa, che si propone di sviluppare logiche di controllo per una gestione ottimale e bidirezionale della ricarica. imprese e territorio | 17
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Periferie SMART Il modello replicabile che attira le
IMPRESE Il “Distretto Smart” di Sharing Cities: Milano progetta il suo futuro con i cittadini. Riqualificazione energetica degli edifici, mobilità elettrica e condivisa, parcheggi e lampioni intelligenti. «Un modello pensato per essere replicabile» sintetizza Roberto Nocerino, project manager per il Comune di Milano che sta seguendo questa iniziativa che si concluderà alla fine del 2020. Sharing Cities è un progetto Horizon 2020 cofinanziato dalla Commissione UE con l’assegnazione di 8,5 milioni di euro per il partenariato locale di Milano che, insieme a Londra e Lisbona, è una delle tre municipalità individuate come “città faro”.
rea appositamente vocata ma sul tessuto urbano esistente, con le sue problematiche - spiega Roberto Nocerino - È stata scelta un’area cosiddetta periferica, quella di Porta Romana/ Chiaravalle, di particolare interesse per i fenomeni di rigenerazione e trasformazione urbana. È un’area di frangia tra l’urbanizzato (la zona Corvetto) e la campagna, il parco agricolo sud. Molto ampia, circa 10 milioni di metri quadrati, e già interessata da una serie di progetti di riqualificazione e riutilizzo delle aree ex industriali, come Fondazione Prada e Symbiosis, ma che comprende anche aree su cui si sta ponendo particolare attenzione per i fenomeni sociali, come Porto di Mare, Vaiano Valle, il “bosco della droga” di Rogoredo». Il progetto si fonda su «tre pilastri - prosegue il manager - people, place and platform».
Riqualificazione energetica degli edifici, mobilità elettrica e condivisa, parcheggi e lampioni intelligenti: si chiama Sharing Cities il progetto di Milano che porterà entro la fine del 2020 alla rigenerazione dell’area Porta Romana/Chiaravalle
A loro il compito di «implementare soluzioni di Smart City sul territorio per ispirare le tre città follower e le altre città che vogliono fare “replication” dei progetti attuati». Accolto e finanziato nel 2015, Sharing Cities è entrato nel vivo il primo gennaio 2016 e terminerà il 31 dicembre 2020 (tre anni per l’implementazione degli interventi più due anni per il monitoraggio e la valutazione). «L’obiettivo è creare un Distretto Smart, non su un’a18 | imprese e territorio
e piace all’ambiente
Le persone, in termini di «coinvolgimento dei cittadini sia nell’ottica di behavioral change, verso comportamenti più sostenibili, sia di co-design e di engagement, per co-progettare con i cittadini i nuovi servizi da collocare nei quartieri». I luoghi, attraverso
punti di vista
Esempi da scalare ROBERTO NOCERINO PROJECT MANAGER DI SHARING CITIES MILANO
«misure di riqualificazione energetica degli edifici residenziali pubblici e privati, ottimizzazione energetica con gli energy management systems, lampioni intelligenti per compiere un ulteriore passo dal Led allo Smart, sensori di smart parking, mobilità elettrica e condivisa con stazioni di bike sharing, colonnine di ricarica per le auto elettriche e logistica elettrica condivisa per il trasporto delle merci». Sotto questo punto di vista, una delle esperienze più significative di Sharing Cities è stata quella della coprogettazione degli interventi di riqualificazione energetica degli edifici privati residenziali di multiproprietà, come racconta Roberto Nocerino: «Abbiamo lanciato una call, selezionando 55 proposte a cui abbiamo chiesto di approvare una diagnosi energetica gratuita in assemblea di condominio. Poi sui 20 che hanno accettato abbiamo avviato un processo partecipato di codesign, che si è concluso con l’approvazione di cinque interventi di riqualificazione energetica». Un modello replicabile, che sarebbe interessante trasferire anche a quei soggetti, come le imprese artigiane, che si occupano di questa materia. Infine, la piattaforma per la gestione dei dati provenienti dalla sensoristica e dalle statistiche tradizionali, uno dei lasciti più interessanti del progetto: «La piattaforma di interoperabilità
del Comune di Milano, che prende vita con Sharing Cities ma poi vive di vita propria - la definisce Nocerino - un “data lake” dove tutti questi dati atterranno con l’obiettivo di una migliore comprensione delle dinamiche della città e di una pianificazione di nuovi servizi a valore aggiunto più coerenti con le esigenze che emergono». Sì, perché la “replication”, la scalabilità degli interventi, è una delle mission del progetto, che si propone anche di incrementare l’attrattività del Distretto Smart, con «l’obiettivo ambizioso di attrarre 500 milioni di investimenti complessivi (su tutte le città coinvolte, ndr) sulle misure di progetto». Un primo segnale è già arrivato, con Fastweb che ha spostato le sue sedi nel distretto Symbiosis, proprio all’interno dell’area toccata da Sharing Cities. Di certo, mentre l’attuazione delle misure prosegue, in parallelo con la fase di monitoraggio, «i risultati di progetto, grazie alle competenze degli attori partner, sono stati raggiunti tutti». Uno dei segreti del successo, per Nocerino, sta nel fatto che «le misure implementate fossero tutte nelle corde della strategia complessiva del Comune di Milano». Una coerenza che dice molto sia sulla effettiva replicabilità del progetto in altre realtà che sulle possibilità di trasferimento di know-how ad altre zone della città. imprese e territorio | 19
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Le
La grande sfida per Milano, Cortina e Varese è in prospettiva futura: «Pensate al caso di Barcellona, che prima del 1993 non era neppure una destinazione turistica…»
OLIMPIADI DOMANI si vincono
La prima arma vincente per le Olimpiadi è pensare già al dopo Olimpiadi. Una regola che ha premiato (a lungo) Barcellona e che non bisogna prendere sottogamba neanche per un caso come quello di Milano con Cortina: nonostante la metropoli lombarda arrivi già spinta dall’effetto Expo. Ne è convinto Gianluca Laterza, territory manager di Tripadisor che alla Iuav di Venezia insegna Management and Marketing of Tourist Destinations. Aspettando e poi applaudendo la nomina di Milano-Cortina per le Olimpiadi invernali 2026, gli studi sono fioccati su strategie e ripercussioni. Anche guardando ad altre esperienze all’estero. Un tema importante per le imprese, che si chiedono quanto possano in effetti aspettarsi a livello di impatto economico. La Said Business School dell’Università di Oxford ha analizzato sia le spese dirette connesse all’evento sportivo (dai trasporti al costo del lavoro e alla cerimonia) sia quelle indirette, come il villaggio olimpico. Cinquant’anni di eventi, fino al 2010, sono stati sviscerati con un verdetto non proprio d’oro: rispetto al 20 | imprese e territorio
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Pianifichiamo gli investimenti
GIANLUCA LATERZA IUAV DI VENEZIA
budget le uscite in media sono aumentate del 179%. Torino è tra i casi più virtuosi: +82%. D’altro canto, l’università Ca’ Foscari di Venezia ha ipotizzato un effetto per il prossimo evento quantificabile in 840 milioni sul Pil italiano. Si è anche parlato di 20mila posti di lavoro tra Lombardia, Veneto e Trentino. Altri atenei hanno messo a fuoco ricavi anche fino a tre miliardi. Che cosa succederà realmente, anche nel nostro territorio in una posizione preziosa? Laterza diffida dal concentrarsi sulle previsioni in termini di cifre. «Torino è andata bene all’inizio, si è persa dopo qualche anno – rileva – Ma facciamo una precisazione prima, una divisione tra grandi e piccoli eventi. Questi ultimi servono per creare un certo giro magari in un determinato periodo dell’anno, ad esempio per combattere la stagionalità. I grandi, invece, devono avere un effetto a lungo termine e non bisogna pensare solo nell’immediato. Fungono da acceleratore di quelli che sono i processi di sviluppo o di nascita di una destinazione turistica». Allora Laterza porge un esempio anche più dirompente: «Barcellona prima del 1993 non era destinazione turistica. Veniva utilizzata limitatamente all’aeroporto o per andare in Costa Brava. La differenza l’ha fatta essere oggetto di un grande progetto strategico da prima delle Oimpiadi. Ha accolto l’evento in vista di questo cambiamento, creando i cinque chilometri di cammino commerciale, il suo volto culturale e altro ancora».
dei numeri. Torino ha cominciato così bene, anche sulla scia di quell’esperienza: non a caso nel team fu chiamato Josep Ejarque. Si operò con lo stesso intento, di guardare al dopo e di far scoprire il volto culturale della città. «Hanno anche proseguito bene – afferma Laterza – Come è stato ben realizzato l’ultimo grande evento italiano, ovvero Expo. A Milano. Ci sono stati anche errori, da disorganizzazione a cattiva pubblicità, tuttavia è stato sfruttato anche commercialmente bene. Poi l’immagine di Milano ha continuato a volare, una città globale che voleva essere tra le grandi capitali del mondo. Da grande centro finanziario, è diventata una destinazione culturale. Mentre il declino ha toccato Venezia: oggi lì la gente ci va un giorno e poi dorme a Milano, un tempo avveniva il contrario». Dunque l’abbinamento Milano-Cortina è una mossa importante. Un accostamento benefico tra una località famosa nell’ambito sciistico e la Milano di oggi. Si parla tanto delle infrastrutture necessarie, che certo sono indispensabili: «Come la consapevolezza. Anche dell’importanza della sostenibilità, perché un grande evento deve cambiare il livello di vita di chi abita qui. Far vivere bene chi è qui e agevolare l’interazione tra locali e turisti, oggi cruciale».
La strategia? «Giusto seguire la regola del comico che non aspetta la fine della risata o dell’applauso per fare la battuta successiva»
E il bello è stato “dopo”. Sazi? Mai. «Un piano turistico ha in media una durata di tre, cinque anni – continua Laterza – e da allora con quella frequenza Barcellona ne ha avuti, non si è mai fermata». Laterza ribadisce, ogni destinazione è un prodotto turistico e ha un ciclo di vita, come ogni prodotto che esce da un’azienda: nascita, sviluppo, maturità, declino. Un grande evento serve ad accelerare del processo. E conta la cassa di risonanza, più
Ecco perché i malumori di Barcellona verso i turisti sono un indicatore di come quel modello virtuoso adesso mostri qualche crepa. Come mettere a frutto dunque tutte le potenzialità delle Olimpiadi? Laterza lo ribadisce: «Si è lavorato bene su Milano, adesso farlo ancora senza aspettare che il prodotto vada in declino, seguendo la regola fondamentale del comico che non aspetta la fine della risata o dell’applauso per fare la prossima battuta». Lavoro di squadra, altro requisito importante? «Sì, e per ora non ho dubbi su questo. L’unico elemento che potrebbe rovinare tutto, lo ripeto, è fermarsi. Mai, mai farlo». imprese e territorio | 21
approfondimenti
Pmi all’ombra dei
GIGANTI Per l’export targato Alibaba, Amazon, eBay e Instagram il 2019 sarà ricordato come l’anno della svolta. Ma l’Italia è in ritardo sul resto del mondo
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approfondimenti
Nuove strade per il business/1
Nello scontro tra titani, minuscola può apparire l’Europa. Ancora di più, le Pmi che guardano agli equilibri delle piattaforme commerciali mondiali, tra Cina e Usa. C’è spazio oggi per le piccole imprese, per la loro produzione e una commercializzazione in cui possano davvero dire la loro? Oppure non si potrà più fare a meno di Alibaba e Amazon? Uno degli ultimi casi che ha colpito è quello di Moschino: dopo un anno dal debutto sulla prima piattaforma con la presenza su Tmall luxury Pavilion (Gruppo Alibaba), ha visto aumentare gli affari in Cina quasi del 14%. Il gruppo asiatico ha messo a fuoco dati che possono fare gola alle nostre aziende: l’acquirente online di beni di lusso ha un’età media di 28 anni e parte per la stragrande maggioranza dei casi dalle app locali, Tmall in testa. E qui è chiaro l’abisso con i nostri consumatori, ancora in parte attaccati ai pc e a una ricerca che passa frequentemente da Google o almeno da lì decolla. Nel nostro Paese tuttavia altro fa gola, come rilevava lo scorso anno Christina Fontana, Business Development Director di Alibaba Italia al Luxury Summit del Sole24Ore: «C’è una grande necessità di società italiane per raggiungere i clienti cinesi. Questo è il nostro focus, portare il bello a questi consumatori».
volgendo la questione, in Europa il 68% della popolazione acquista online (nel Nord anche l’80%); in Italia il 44%. Moda ed elettronica guidano il trend. C’è un’altra visione ancora che viene messa a fuoco: l’export è l’ossigeno delle imprese italiane, ma incontra tutti gli ostacoli che conosciamo. Quello attraverso l’e-commerce cresce più del 16% annualmente. Ed ecco la risposta al dubbio iniziale: chi tira le fila? I marketplace appunto come AliExpress, Zalando e Farfetch. Ci sono poi retailer che sono divenuti piattaforme come Macys.com. Quel 10% di imprese italiane che vendono online significa l’ultimo posto in termini di competitività in questo settore, secondo il presidente di Netcomm Roberto Liscia. Come se ne esce? Sempre secondo questo consorzio attraverso la formazione, oltre che gli investimenti. In questo senso il 2019 è l’anno chiave. Da notare che sempre in un’indagine Netcomm con Diennea oggi il 27% degli acquisti online passa da email, sms e notifiche via app. La visita nel negozio pesa per il 18,4%. Ora, l’estate si è rivelata calda anche per lo scontro tra i due colossi Alibaba e Amazon (senza dimenticare il peso però di altri player a partire da eBay), sui media che si chiedevano chi sarebbe stato il vincitore. Intanto però ci sono anche movimenti, come quello della piattaforma Instagram che cerca di conquistarsi sempre più spazio (leggi, affari). Si è indicata anche come una minaccia ad Amazon. Il programma pilota di vendite dirette è stato lanciato a marzo con una ventina di brand e usando PayPal per il pagamento. Di fatto Instagram (come del resto Facebook) apriva già all’e-commerce, ma così l’ha reso più semplice e tutto all’interno della app. E ancora Wish, una app con 90 milioni di utenti mensili, di cui si è parlato molto anche per gli oggetti inconsueti che pubblicizzava.
Quanto spazio c’è per le piccole? Gli esperti non hanno dubbi: A giugno al Fashion Research Italy di Bologna formazione una svolta: il lancio di AliExpress, la piattaforma su cui anche un piccolo brand può apri- e investimenti sono re un negozio online. Già erano stati collegati le parole chiave negozi virtuali e consumatori da 190 Paesi, ora ecco il passo sul suolo italiano. Le offerte: apertura a costo zero, commissioni che vanno dal 5% all’8% a seconda del prodotto sulle transazioni reali, servizi di logistica e marketing compresi. Non si tratta dunque di una gara di volumi, bensì – si è assicurato – della valorizzazione di prodotti di qualità. Dunque, in Cina al lavoro è TMall, fuori AliExpress. Oggi – si è ricordato – l’impero di Alibaba consiste in un miliardo di prodotti in vetrina, 654 milioni di consumatori attivi (che trascorrono 22 minuti a questo scopo sullo smartphone), invio di 69 milioni di pacchi al giorno e un giro di affari di 853 miliardi di dollari. Ma in quell’occasione è emerso anche altro, da Netcomm nel nostro Paese e non solo. Una prospettiva di ciò che potrà (ancora) avvenire. Da qui al 2023 infatti ci si aspetta un incremento di vendite in rete del 9% all’anno. Il confronto però anche interno all’Europa evidenzia le disparità. Solo il 10% delle aziende italiane fa affari online: in Germania sono il doppio e la media europea si aggira sul 17%. Capo-
Riecheggia l’importanza di formarsi e investire. Un caso che fece scuola è la bottega Luisa Via Roma, che ha lavorato molto sulla customer experience, sulla personalizzazione dell’esperienza del cliente, aumentando i ricavi e diventando un modello online. Qui entrano in gioco le tecnologie dell’intelligenza artificiale. E la possibilità di afferrarle, anche all’ombra dei giganti. imprese e territorio | 23
approfondimenti * ANTONIO BELLONI CONSULENTE AZIENDALE E SAGGISTA
IMPROVVISARE
FA MALE ALL’EXPORT
DI ANTONIO BELLONI *
All’estero abbiamo preso brutte abitudini. Riparati dietro al racconto reale ma indulgente sulle Pmi reattive, resilienti e veloci, improvvisiamo. Ma anche per l’export, e così per altre azioni che decidono le sorti dell’impresa, come il passaggio generazionale, la pianificazione è decisiva. Troppa improvvisazione fa male, lo sanno anche le imprese che partono con ottimi propositi: l’anno prossimo si punta sull’Europa dell’Est, tra sei mesi correggiamo la rotta verso la Cina e nel 2021 magari torniamo in Svizzera. Tutto bene, fino al primo imprevisto. Il cliente che paga un pezzo per volta e vai fuori di testa, la consegna importante che salta perché il fornitore è in ritardo e ti trovi a caricare i bancali il sabato mattina, il tal mercato che scompare da un giorno all’altro per ragioni politiche o normative: tutte le promesse sui tempi e metodi finiscono nel frullatore, e la pianificazione si riduce a un nodo al fazzoletto perso chissà dove; finché una domenica mattina dell’anno dopo si riesce a rimettere tutto sul tavolo per riprendere il filo. Ma è tardi, il mondo è già cambiato. Ormai l’instabilità è una costante, in una settimana spariscono dalla scrivania interi mercati, alcuni clienti finiscono nel cestino e le coordinate con cui sei mesi fa avevamo fatto le nostre scelte, sono introvabili. Per questo non possiamo più contare sulla nostra pur eccezionale capacità di adattarci. Ogni pmi che voglia avvicinarsi all’export o migliorarlo, ha a di24 | imprese e territorio
sposizione poche operazioni: » Fiere (light o con stand fisici); » Incontri (B2B) con clienti, distributori, importatori; » Visite spot a un singolo mercato/cliente; » Attività di eCommerce e marketing; » Assistenza di consulenti; » Assunzioni di professionisti dell’export. Scelti i paesi/mercati/clienti sulla base dei propri prodotti, la programmazione dell’utilizzo di questi strumenti incrocia un altro vincolo oggettivo: le quasi-sempre-scarse risorse da investire. Sono queste le ragioni interne per cui è indispensabile pianificare l’export, ma ce ne sono di esterne che sfuggono al controllo dell’impresa. Ci sono eventi brevi con conseguenze immediate, visibili e spesso rumorosi, che modificano le traiettorie dei nostri prodotti e delle nostre azioni (le Primavere Arabe, la guerra in Crimea con i dazi verso la Russia, le proteste ad Hong Kong…). Aggiungiamo pure l’accidente dei dazi Usa sull’agroalimentare, anche se ce ne sono di positivi, come l’accordo Ceta con il Canada o quello con il Giappone, che in breve hanno fatto bene – in termini di prezzi – alle nostre imprese. Ci sono poi eventi “lunghi”, perché lanciano segnali deboli molto prima di manifestarsi e hanno poi conseguenze profonde e
approfondimenti
Nuove strade per il business/2
«Pianificare non significa prevedere gli eventi ma prendere fiato, ignorare gli acronimi dei mercati più in voga, e sforzarsi per tradurre il percorso che abbiamo davanti in piccole tappe programmate» durature; quasi invisibili, segnano il destino dei bilanci di alcuni anni, con ricavi che spariscono e costi che spuntano dal nulla. Anche questi dirottano i voli dell’export, ma è più difficile vederli e ponderarne gli effetti.
quali degli assett intangibili è prioritario investire: brand, softwa-
Negli ultimi dieci anni la quantità di prodotti esportati nel mondo è diminuita; aumenta l’autoconsumo e i Paesi cercano maggior indipendenza produttiva?
protezionismo, che sta portando i paesi a rivolgersi verso mer-
Solo il 18% delle merci scambiate passa da un paese a basso costo del lavoro ad un paese ad alto; quindi l’arbitraggio del costo del lavoro è meno importante?
spetto alla salita del prezzo di Parmigiano e mozzarella.
Un terzo del valore dell’export globale è generato in un paese diverso da quello del produttore finale del bene; quindi il 33% dei paesi coinvolti nell’interscambio globale è un intermediario?
non significa prevederli, ma prendere fiato, ignorare gli acroni-
Aumenta il commercio estero tra regioni; significa che l’interscambio ha come priorità la prossimità (magari politica) e la velocità distributiva?
Un percorso lungo almeno qualche anno, da non fare mai in
Aumentano le quote di commercio estero fatto di servizi; su
ha un altro passaporto.
re, processi operativi o proprietà intellettuale? Molti di questi casi potrebbero indicarci la lunga traiettoria del cati interni o che fanno parte di una stessa regione di influenza politica, e questo è un segnale più complesso da valutare riCi sono piccoli-grandi eventi che sembrano lontani, eppure ognuno condiziona a modo suo le scelte sull’export. Pianificare mi dei mercati più in voga, e sforzarsi per tradurre il percorso che abbiamo davanti in piccole tappe programmate. solitaria. Imparando dai buoni esempi e dalle esperienze altrui, e costruendo con il cliente un rapporto duraturo, anche quando
ESEMPIO DI PIANIFICAZIONE ATTIVITÀ EXPORT PAESE
ATTIVITÀ
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SVIZZERA
Consulenza affiancamento fiera Fiera con stand Incontro cliente/distributore Sviluppo commerciale
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Fiera con stand Fiera light Assistenza per sviluppo commerciale Fiera light Missione (B2B) Investimento marketing per eCommerce Incontro con cliente/distributore
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storie d’impresa
“Società anonima S.Venchi & C, capitale lire 3.000.000 Torino. Primo stabilimento italiano per la fabbricazione di cioccolato, cacao, boligomma, liquirizia. Esportazione mondiale”: è in questa insegna che campeggia nell’ufficio di Giovanni Battista Mantelli, detto GB, direttore, responsabile ricerca e innovazione, e socio della Venchi, uno dei segreti del successo di questa azien-
vità vivendo tutte le difficoltà quotidiane che si hanno nel gestire una piccola attività. Questo ci ha permesso di orientare gli assortimenti e i gusti dei consumatori ai quali ci rivolgiamo interpretando le loro richieste e offrendo il piacere di vivere l’esperienza del cioccolato a 360 gradi. Cosa è cambiato?
Da
BOUTIQUE L’IDENTITÀ a GIGANTE con un segreto:
da di Castelletto Stura, in provincia di Cuneo, che da piccolo laboratorio artigianale è arrivato ad una riconoscibilità internazionale che la pone tra i top player globali nel mercato del cioccolato di qualità. Venchi è oggi una delle eccellenze del Made in Italy nel mondo, presente in più di 70 Paesi, anche con una catena di più di 100 negozi monomarca. Ma la sua storia permea ancora tutto, una storia che nasce nell’800, dalla passione di Silvano Venchi, che apre una pasticceria artigianale a Cuneo, una “boutique del cioccolato” che diventa un’azienda nel 1878, con il lancio dell’iconico Gianduiotto. Sembra una favola, ammantata della dolcezza dei cioccolatini che hanno reso il brand celebre in 5 continenti.
La tecnologia ci permette, come per il buon vino ed i grandi chef, di offrire dei prodotti di accurata selezione mantenendone inalterate le caratteristiche, lavorandoli con attenzione e contenendo i lotti di produzione che in moltissimi casi partono ancora da 30 chilogrammi per volta. Non siamo un colosso ma ci teniamo a rappresentare il nostro stile italiano di produrre il cioccolato nei Paesi in cui riteniamo ci possano essere consumatori esigenti e innamorati dei nostri sapori mediterranei.
Faccia a faccia con Giovanni Battista Mantelli, direttore e socio della Venchi, che da piccolo laboratorio artigianale ha conquistato la ribalta internazionale: «Puntiamo sulla qualità della manodopera»
Da attività artigianale nella cioccolateria a colosso globale del settore: in sintesi, come è stata possibile questa evoluzione? Il segreto è non perdere mai l’identità e la visione che si ha avuto fin dall’inizio. Amiamo profondamente il nostro lavoro, il piacere di stupire con ricette genuine ed equilibrate ma che in qualche modo rappresentino il nostro modo di vivere e di apprezzare la vita e tutto quello che ci offre la natura. Siamo partiti come un laboratorio artigianale orientato al mercato d’ingrosso di soli rivenditori specializzati, per poi volerci immedesimare nel ruolo di conduttore dell’atti26 | imprese e territorio
Cosa significa produrre cioccolato? Significa interpretarlo nelle varie forme, consistenze e temperature per essere fedeli alla nostra visione di prodotto. Per questo motivo offriamo una varietà di cioccolatini, cioccolate calde, cioccogelati e creme spalmabili al cioccolato e nocciole Piemonte IGP. Un’offerta che ci porta ad avere un grande laboratorio a Cuneo privo di glutine in cui si utilizzano solo ingredienti del cacao, oli di oliva ed extra vergine d’oliva e frutta secca per prelibati gelati ai Pistacchi di Bronte dop, alle Mandorle Siciliane ed alle Nocciole Piemonte IGP. I monomarca Venchi sono stati la prima formula di franchising nata in Italia nel 1915 e in questi anni nel nostro rilancio del marchio sono invece la prima catena di negozi che gestiamo direttamente noi a difesa e tutela dell’esperienza totale che
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Pensare in grande
GIOVANNI BATTISTA MANTELLI DIRETTORE, RESPONSABILE RICERCA E INNOVAZIONE, E SOCIO DELLA VENCHI
vogliamo offrire. Come funziona la filiera di Venchi? Cuneo si trova ai piedi delle alpi marittime che fanno da cornice alla nostra azienda. Siamo “Nocciolacentrici” e chiaramente questo si identifica con l’utilizzo esclusivo della nostra nocciola piemontese, anche il latte ed il burro per tutte le nostre specialità più rinomate sono di filiera piemontese, acquistati a pochi chilometri da noi. Non ultima, la qualità della straordinaria manodopera di molte signore e ragazzi che lavorano presso di noi contribuiscono a rendere speciale il nostro territorio, che in termini di servizi generali, disponibilità e collaborazione è molto attivo e presente. Venchi è molto orgogliosa della sua “fabbrica di cioccolato”: quanto è importante la manifattura nel food? Sì, siamo molto orgogliosi e non ci sentiamo mai arrivati, continuando ad apportare migliorie sia a livello produttivo che di welfare per chi collabora con noi. La manodopera è determinante, soprattutto quando si ha l’ambizione di voler gestire, come un ristorante stellato, un’attenta produzione di cioccolato. Lavoriamo principalmente sul venduto creando dei cataloghi di ricette autunnali che vengono presentate durante la primavera. Regoliamo le previsioni di acquisto e programmiamo settimanalmente la produzione man mano che si avvicina la stagione dei raccolti. Programmiamo i reparti destinando la tostatura dei semi di cacao centroamericani suddividendoli per origine e varietà,
dalle masse di cacao che invece per modello di sostenibilità riusciamo a far lavorare direttamente sul luogo di origine. Idem con la frutta secca: abbiamo un reparto totalmente dedicato, con staff dedicato alla loro lavorazione. Venchi oggi è un’industria ma rivendica il fatto di lavorare ancora “come gli artigiani”: ci spiega come la dimensione artigianale può coesistere con un “formato” da industria? Se nelle degustazioni professionali, fatte alla cieca, i nostri prodotti superano o si avvicinano con scarto di pochi millesimi a ricette di rinomati artigiani, credo che una parte della risposta sia già qui. Siamo partiti con 30 dipendenti in produzione, con piccoli e medi impianti, ed oggi abbiamo quadruplicato il numero di dipendenti e di piccoli e medi impianti ma con un’efficienza tecnologica nettamente superiore. Se una volta la cottura si verificava a termometri o con metodi oggi considerati rudimentali oggi abbiamo impianti che lavorano sottovuoto, controllano le temperature, temperano in modo molto efficiente il cioccolato, garantendo una naturale stabilità nel tempo senza utilizzo di chimica o conservanti. Innovazione e capitale umano, quanto valgono per Venchi? Sono i prerequisiti per creare passione in chi lavora con noi. Informare, formare, entusiasmare e lavorare al fianco dei propri collaboratori è il valore più nobile che possiamo offrire in un modello in cui la sostenibilità deve essere un principio etico di chi ha un’azienda e non un vessillo di comunicazione da sbandierare. imprese e territorio | 27
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Di padre in figlio La
“COTTURA LENTA”
di RISO GALLO
Il sogno di bambino, la scelta della giusta facoltà universitaria, le esperienze all’estero e in altre aziende, la sfida in Inghilterra. Carlo Preve, amministratore delegato del colosso del riso, racconta come ha preso le redini dell’azienda di famiglia da papà Mario insieme ai fratelli 28 | imprese e territorio
Se li ricorda bene, Carlo Preve, quei sette anni passati nel nord dell’Inghilterra, nello York: «Eravamo in tre: io, una segretaria e un venditore. E lì ho iniziato a vendere il risotto agli inglesi». Ed è piaciuto. Carlo Preve, oggi amministratore delegato della Riso Gallo, è entrato in azienda nel 1999, all’età di ventotto anni. Di continuità generazionale se ne intende, non solo perché lui e gli altri tre fratelli – Emanuele, Riccardo e Eugenio – dal 2016 guidano quest’azienda fondata a Genova nel 1856, ma anche perché la Riso Gallo è arrivata alla sesta generazione. Una storia imprenditoriale per la quale la parola “continuità” sta nei valori di famiglia ma anche nei numeri: 150 dipendenti, un fatturato che supera i 100 milioni di euro, 1,2 milioni di quintali di riso acquistati ogni anno da un migliaio di agricoltori, distribuzione in 80 Paesi e una quota di mercato del 20,5% che rende l’azienda leader del settore in Italia. L’esperienza di Carlo Preve, raccontata in occasione del seminario “Governance e continuità generazionale nelle imprese familiari” organizzato a Gallarate da Confartigianato Varese Artser e The European House Ambrosetti, è un paradigma che può essere utile a tante aziende. Carlo Preve, il passaggio generazionale necessita di una lenta cottura, come un risotto?
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Continuità generazionale
(Sorride) - Le persone devono maturare, devono acquisire le capacità giuste, ci vuole tanta pazienza. La vecchia generazione fa un passo indietro, ma ha il compito di gestire la continuità e di verificare – giustamente - che le cose funzionino. A questa continuità ci ha lavorato nel tempo nostro padre, Mario Preve: prima raccontando dell’azienda a casa, intorno al tavolo mentre si cenava o davanti alla televisione, per creare il “sogno” imprenditoriale, poi con la scelta dell’Università. D’altronde, la Riso Gallo è un’azienda complessa che va gestita. Quando si è accorto di possedere una vocazione all’imprenditoria? Tutti i bambini sono attratti da quello che fa papà - è un sogno che ti crei dentro – anche se magari vorresti fare il pompiere o il calciatore. Poi maturi e ti interessi ad altro. Il momento in cui ti devi porre delle domande serie è quando entri all’università, nel mio caso alla Cattolica di Milano dove mi sono laureato con una tesi in marketing. Ho studiato e dato esami (uno specifico in ricerche di mercato) anche in Spagna, per il progetto Erasmus, alcuni mesi dopo le Olimpiadi di Barcellona.
dre sostiene da sempre che bisogna fare ciò che piace perché al lavoro si sta dalle 8 alle 17. Per entrare in azienda, però, il curriculum universitario deve coincidere con le necessità che in quel momento ci sono nell’impresa. È per questo che Emanuele ha lavorato in Unicredit, Riccardo alla Ferrero ed Eugenio in un fondo di investimento a Londra. Le tue competenze devono servire. La continuità generazionale si basa tanto sulla fiducia. Ma quanto contano i valori di famiglia? La fiducia è fondamentale. Fiducia nelle persone che lavorano in azienda per te e la fiducia della vecchia generazione in quella nuova. Poi i giovani vogliono sempre cambiare qualcosa, ma le tue tesi devono essere argomentate e sostenute dai possibili risultati. I valori di famiglia hanno un certo peso: l’importante è che siano condivisi. Basta che ci sia uno “stare bene insieme”. Ma anche i racconti di famiglia sono serviti, perché ti aiutano a rendere più chiaro quello che fai oggi.
«La fiducia è fondamentale. Fiducia nelle persone che lavorano in azienda per te e la fiducia della vecchia generazione in quella nuova. Poi i giovani vogliono sempre cambiare qualcosa, ma le tesi devono essere argomentate e sostenute dai possibili risultati»
In azienda è entrato dopo? Prima ho passato tre anni alla Unilever, dove ho fatto esperienze importanti nella pubblicità, nelle pubbliche relazioni, nel packaging dei prodotti, nel marketing e nelle ricerche di mercato. Anche con uno stage in Inghilterra: è lì che è si è creata la vera opportunità per entrare nell’azienda di famiglia. Competenze che ho messo al servizio della mia attività all’estero dove ho iniziato a studiare una veste nuova ai risotti per entrare nel mercato inglese: questo è il primo compito che mi è stato affidato. L’esperienza è stata valida, così dopo l’Inghilterra ci siamo concentrati anche su altri Paesi.
Lei è laureato in Economia e Commercio: avrebbe voluto fare altro? Mi sarebbe piaciuta Architettura, ma il pensiero di fare per tutta la vita l’architetto non mi appassionava. Ricorderò sempre quello che mi disse papà: “Segui le tue inclinazioni, se vuoi studia anche musica, ma non rimbalzare da una facoltà all’altra”. Pensai anche a Ingegneria, ma alla fine ho scelto Economia e Commercio. Ho fatto quello che mi piaceva, perché nostro pa-
Suo padre le ha mai raccontato di quando lui entrò in azienda? Erano altri tempi, infatti il nonno obbligò tutti a lavorare in azienda. Mi è stato raccontato che uno dei suoi figli avrebbe voluto insegnare, ed era già negli Stati Uniti quando suo padre decise di raggiungerlo per riportarlo in Italia. Alla Riso Gallo.
Quali sono le regole che sono state poste alla base della continuità generazionale alla Riso Gallo? Possedere una laurea, conoscere tre lingue e avere maturato un’esperienza di due anni in un’impresa esterna. Alla Riso Gallo ormai il passaggio generazionale è stato compiuto, anche se il papà non lo vedi ma c’è. È per questo che lo chiamiamo bonariamente Grande Fratello. In ogni caso, quando noi fratelli siamo d’accordo lo è anche lui. I nostri obiettivi? Internazionalizzare (per arrivare ad un’azienda globale) e puntare sulla managerialità con persone che arrivino da imprese serie e multinazionali. Per una Riso Gallo gestita sempre meno in modo padronale e sempre più in modo professionale. Per quanto riguarda la prossima generazione, ci penseremo: il più grande ha iniziato ora l’università e il più piccolo ha un anno. Abbiamo tutto il tempo. imprese e territorio | 29
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La DIGIWOMAN ha 18 anni E in azienda punta sulla
CURIOSITÀ Un’altra digiwoman è Gabriella Greison che, dopo la laurea in fisica nucleare, ha saputo costruirsi attorno una rete. Ma nulla è improvvisato: «Ho lavorato con registi teatrali, con attori; ho tradotto in linguaggio semplice la fisica e la racconto così a teatro e nei miei romanzi» Accettereste consigli per la vostra impresa da una ragazza di diciotto anni? Noi vi raccomandiamo di sì: Valeria Cagnina, non solo ha fondato una società con Francesco Baldassarre ed è determinatissima, ma è stata indicata come una delle 15 donne più influenti nel digitale in Italia. Le cosiddette Digiwomen 2019, insomma: una selezione dell’universo femminile in tecnologia e innovazione, stilata da Digitalic. Quindici nomi da segnare, settori molto diversi, dal manifatturiero alla fisica, dalla robotica alla comunicazione, tutta la stessa grinta (anche digitale). Sono – oltre a Valeria – Lucrezia Bisignani, Rossella Campaniello, Sabrina Cereseto, Mirella Cerutti, Daniela Collu, Gabriella Greison, Flavia Imperatore, Mariangela Marseglia, Margherita Meg Pagani, Camila Raznovich, Elisabetta Romano, Francesca Rossi, Alessandra Sciutti e Manuela Vitulli. Sicuramente una new entry impressionante è la giovane alessandrina, definita
veterana del mondo tecnologico nonostante appena approdata alla maggiore età. Sì, perché la sua carriera inizia a 11 anni e per la tesina di terza media, realizzata su Facebook, intervista l’astronauta Luca Parmitano nello spazio. A 16 anni fonda la sua scuola – OfpassiON - e inizia a insegnare robotica e tech ai bambini dai tre anni: è tra le 30 under 30 di Forbes.
Il fenomeno si chiama Valeria Cagnina: a 11 anni ha fatto una tesina su Facebook con un’intervista “spaziale”. A 16 ha fondato una scuola. Ora ha un’impresa con Francesco Baldassarre
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«Io ho costruito il mio primo robot a 11 anni, sì – racconta – Per me essere definita una leader digitale è un incentivo per riuscire a fare sempre meglio e trasmettere ad ancora più persone uno dei miei principi, niente è impossibile. Chiunque può raggiungere qualsiasi obiettivo, se non si pone autolimiti. E poi è anche una responsabilità, perché sempre più persone ci guardano, sui social. Dobbiamo trasmettere messaggi concreti e positivi». Anche se lei è una nativa digitale, imparare a comunicare online non è automatico: «Bisogna avere un contenuto e saperlo esprimere. Se si comunica e basta, il castello crolla. Dall’altra parte esistono realtà bellissime che non vengono comunicate e finiscono. Con la nostra azienda, abbiamo sempre puntato sulle competenze, a
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giovani promesse
«La comunicazione digitale? Non tutto è semplice. Bisogna avere un contenuto e saperlo esprimere. Se si comunica e basta il castello crolla. Dall’altra parte esistono realtà bellissime che non vengono comunicate e finiscono»
GABRIELLA GREISON FISICA E LEADER DGITALE
VALERIA CAGNINA IMPRENDITRICE
partire dalla curiosità». Valeria insiste con gli imprenditori che sono tentati di stare alla larga dal digitale: «Anche una grande azienda affermata non può. Altrimenti è destinata a morire. Potrebbe essere superata da un’impresa anche meno valida della sua. Poi si può anche solo puntare sui social: meglio quelli soltanto che avere un sito brutto. Ricordatevi che dal sito si è giudicati». Studiare e lavorare è un must per la giovane, che si è iscritta al Politecnico: studia ingegneria informatica online. Senza perdere la concentrazione sulla sua azienda: «L’obiettivo è farla evolvere sempre. La burocrazia ci spaventa? Rende un po’ complesse le cose, ma la risposta è no». E se pensate che avete un prodotto troppo tecnico per essere comunicato, pensate a Gabriella Greison: nata a Milano, laureata in Fisica nucleare e considerata la rockstar proprio della fisica italiana. Scrive di fisica quantistica e di donne della scienza e tiene speech motivazionali, oltre a essere scrittrice. Che cosa vuol dire per lei essere leader digitale? «Ho creato una rete – risponde - un luogo in cui condividere i miei lavori, con persone che vogliono sapere le storie che racconto. Nell’era digitale si può fare a meno della televisione e dei media tradizionali. Le persone che mi seguono sono le stesse che poi comprano i miei libri, ascoltano i miei podcast, vengono a
teatro a vedermi. Quindi il mondo che mi ruota intorno è reale». E confida: «Io stessa sono affascinata dalla miriade di messaggi che ricevo, dagli stimoli e dalle informazioni che girano intorno a me. C’è un fervore culturale di grande livello». Gabriella spiega di aver adattato le competenze al mondo di oggi: «Racconto storie, lo faccio con i miei romanzi e a teatro. Due luoghi non scontati. Ho cercato dentro di me la voce giusta per farlo, ho studiato come tirarla fuori, e ora sta arrivando tutto il bello. Non c’è niente di improvvisato in quello che faccio, niente è casuale, ma tutto studiato nei minimi dettagli. Sono una narratrice. Avevo la necessità di esprimermi lontano dai luoghi tradizionali, che i giovani non seguono più». Ecco la capacità di parlare alle nuove leve: «Il mio sito web (www.greisonanatomy.com), il mio canale youtube, instagram e i miei social diventati un riferimento per tanti ragazzi». L’arte del racconto si impone: «Sì, è tutto. Per questo ho cambiato il modo di parlare, di muovermi; ho lavorato con registi teatrali, con attori; ho tradotto in linguaggio semplice la fisica e la racconto così a teatro e nei miei romanzi. Il web è stato il mezzo ideale per diffondere tutto questo. Mi diverto tantissimo, e mi esprimo. Ma dietro c’è un lavoro molto intenso, e le persone lo capiscono, vanno oltre». Consigli? «Basta cercare chi sa raccontare storie per trovare interesse. Essere curiosi. E cercare la propria voce...». imprese e territorio | 31
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Non ponetevi limiti ma inseguite
OBIETTIVI CHIARI
Esiste la “ricetta” giusta per trasformare il proprio lavoro in una splendida avventura? E ancora: come comportarsi di fronte agli ostacoli che un mercato sempre più esigente pone davanti? Per maggiori informazioni chiedere allo chef Roberto Conti che, dopo aver riportato al Ristorante Trussardi alla Scala di Milano la Stella Michelin, ha deciso di accettare la proposta del Grand Hotel de la Ville di Parma, di proprietà della famiglia Barilla: è qui che, come nuovo executive chef del ristorante “Parmigianino”, ha deciso di rimettersi in gioco. La sua è la storia di chi, partito dalla provincia - è infatti di Cassolnovo, centro di settemila anime che nel primo Ottocento diede i natali anche a Gaspare Campari - grazie a idee chiare e un carattere non comune non si sente mai arrivato e non teme le sfide. Valori che possono, oggi più che in passato, essere senza dubbio trasferiti anche alle imprese. Chef Conti, come è nata l’idea di trasferirsi a Parma? Ho voluto accettare questa sfida, in primis, perché da Trussardi abbiamo iniziato a pensarla in due direzioni diverse. E, guardandomi intorno, ho trovato questa nuova opportunità. Sono arrivato in una delle case che rappresentano il food ai massimi livelli, non solamente in Italia. Mi hanno contattato perché non hanno mai avuto un livello gourmet che rispecchiasse quanto fatto negli anni nel loro settore. È una realtà diversa, un progetto nuovo: l’hotel è in fase di sviluppo, l’ambizione è quella di renderlo uno dei 10-15 più belli d’Italia, per quanto riguarda il ristorante 32 | imprese e territorio
invece vogliamo arrivare, entro 3-4 anni, a prendere un paio di Stelle Michelin. Una sfida complessa, che ho deciso di sposare. Non che da Trussardi, dove sono arrivato a soli 32 anni (è un classe 1983, ndr), sia stato semplice... Ma a Parma credo possa essere ancora più difficile, non dimenticando che a breve aprirò anche un mio ristorante a Vigevano. Ha raccontato di avere sempre bisogno di adrenalina. È questo il segreto per reggere i grandi ritmi delle cucine di alto livello? Devo ammettere che da quando sono arrivato a Parma, lo scorso 4 marzo, non ho ancora avuto un day off. Sto lavorando sette giorni su sette, arrivo alle sette del mattino e finisco a mezzanotte e mezza. Non c’è problema: tutto ciò fa parte di quella che è sempre stata la mia vita, e se anche dovessi staccare un pomeriggio, la mia testa sarebbe comunque qui. Quindi, in realtà, non sarebbe un reale riposo, e non ne varrebbe la pena. Sicuramente l’adrenalina è un fattore per me importante, così come la forza di volontà e la dedizione nel voler creare ogni giorno qualcosa di nuovo. Credo, poi, che sia importante porsi sempre degli obiettivi: se non lavori in funzione di questi, non hai un punto verso cui tendere. Ogni risultato che ottengo fa sì che io possa pormi il giorno successivo un nuovo obiettivo. Per non sedersi mai occorre avere la spinta giusta. Cosa consigliare a chi vuole sfondare in un mondo altamente
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lezioni di cucina
Chef Roberto Conti dopo aver conquistato la Stella Michelin al Trussardi della Scala di Milano, ha accettato la sfida di ricominciare al Grand Hotel de la Ville di Parma della famiglia Barilla: «Per non sedersi mai occorre avere la spinta giusta»
ROBERTO CONTI CHEF STELLATO
competitivo? A prescindere dal settore in cui si opera, non bisogna mai porsi limiti, ma solo obiettivi chiari. Quando sono arrivato da Trussardi, avevo davanti a me profili di altissimo livello come Andrea Berton e Luigi Taglienti. Crescendo giorno dopo giorno sono diventato prima sous chef di uno e quindi di entrambi. Poi, d’accordo anche con Carlo Cracco, ho fatto il salto avanti... Ed è andata bene. Ho letto che ha mangiato qualcosa come cento lepri “à la royale” per trovare la ricetta giusta e inserirla in menù. È questa la ricetta giusta? Non bisogna mollare mai? Secondo me la vera perfezione non esiste. La perfezione è piuttosto rappresentata dalla ricerca di essa. D’altronde puoi piacere a molti, ma non a tutti. E anche quando arrivi là dove pensi sia giusto per te, se ritieni di aver fatto una cosa in maniera quasi perfetta, non fermarti. Vai avanti a sperimentare, perché si può sempre migliorare. Quando saranno in tantissimi a dire che stai sfiorando la perfezione, allora magari potrai cambiare obiettivo... Ma di certo non bisogna sentirsi arrivati dopo i primi feedback positivi. Sono i prodotti di un territorio ad attirare i grandi chef, o sono piuttosto questi ultimi a rendere “immortali” alcuni piatti? È chiaro che in Italia disponiamo di materie prime che forse non ha nessun altro al mondo. Abbiamo eccellenze non in ogni
regione, ma piuttosto in ogni borgo, in ogni frazione. Oggi io lavoro in quella che viene definita la “food valley”, caratterizzata dalle “tre p” (prosciutto, parmigiano, pomodori), ma qualcuno sa che qui ci sono anche i più grossi produttori di acciughe? Potrà apparire particolare, ma è così. Al tempo stesso, se questa è la “food valley” cosa dobbiamo dire ad esempio di Langhe e Alte Langhe, dove ogni sei chilometri c’è un presidio Slow Food? Basti pensare a Lumaca, Gallina Bianca, Fragola, Tartufo... Solo per citarne alcuni. In ogni zona d’Italia c’è quindi una materia prima di alto livello, ed è chiaro che le nuove tecniche e tecnologie facilitano talvolta il lavoro degli chef: si riducono i consumi, i cali pesi. Certo nel mio lavoro bisogna sempre modernizzarsi, ma per realizzare un piatto di valore non si può non partire dalla materia prima: prendi un gambero rosso, un filo d’olio e di limone ed ecco un grande piatto senza il bisogno di destrutturare il prodotto... In questi casi, poi, la differenza la fa il grande cuoco. Insomma, per avere successo e raggiungere i propri traguardo bisogna in qualche modo “sentirselo dentro”? Esattamente. Nel mio lavoro, ma vale per tutti, ognuno deve potersi esprimere nel contesto a lui ideale. Ciò che è meglio per me può non esserlo per un altro. Devi avere dentro di te quella sensazione speciale. Se così non è, è giusto che tu possa cercare una strada diversa. Non per forza di livello inferiore, ma diversa. imprese e territorio | 33
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La TECNOLOGIA è da
INCORNICIARE WhatsApp e la blockchain? Tecnologie da incorniciare. Per crescere. Roberto Risso, artigiano corniciaio di Chiavari, seconda generazione alla guida dell’impresa di famiglia, ha puntato forte sulla tecnologia per stare al passo con il mercato. E per conquistare nuovi clienti, anche all’estero.
sce a trasmettere in modo più efficace alla sua clientela. Per mettere in luce il valore del suo lavoro ma anche la filosofia, e l’impegno e la passione, che lo accompagnano.
Prima il sito (nel 2001) con configuratore dimensionale, poi l’ecommerce, infine, il digital marketing: questo imprenditore è una case history: «Facciamo entrare il cliente nel nostro laboratorio per mostrargli il “dietro le quinte” di ogni lavoro»
Da Chiavari, cittadina della riviera ligure di Levante che d’estate brulica di turisti che trascorrono le loro vacanze negli alberghi e nelle seconde case, Roberto Risso è arrivato fino a Menlo Park, quartier generale di WhatsApp: nominato testimonial, unico italiano tra quattro piccoli imprenditori di tutto il mondo ad essere stato scelto per raccontare la sua storia di utilizzo della tecnologia WhatsApp Business. Una bella sorpresa per un piccolo laboratorio artigiano di famiglia, Risso Cornici, che si trova in una bottega da 300 metri quadrati in via Bontà a Chiavari. Un’impresa avviata nel 1975 dai genitori di lui, Ada e Giuseppe, per un mestiere che Roberto ha imparato dal padre e che oggi, grazie alla tecnologia, rie34 | imprese e territorio
L’artigiano di Chiavari è sempre stato attento alle novità della tecnologia. Nel 2001 il primo sito web, con un configuratore bidimensionale. Nel 2006 si affaccia sul mondo dell’e-commerce, che ad un certo punto era arrivato ad intercettare il 40% del fatturato, permettendo ai corniciai di Chiavari di vendere in tutto il mondo, principalmente Australia, Finlandia, Inghilterra. Mercati che sarebbero stati irraggiungibili senza l’utilizzo delle tecnologie.
Ma per Risso la priorità non era solo vendere in quantità, ma migliorare la qualità. Così un paio di anni fa decide di rinunciare a qualche serata libera per frequentare un corso di Digital Marketing, dedicato al tema dell’espansione del proprio business attraverso l’uso del web e dei social media. «La paura era quella, essendo noi una
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Pmi digitali
ROBERTO RISSO ARTIGIANO CORNICIAIO DI CHIAVARI
piccola attività, di non poter avere un futuro» ammette Roberto Risso, che grazie all’applicazione WhatsApp Business è riuscito ad “aprire” il suo laboratorio al mondo e alla sua clientela, in modo semplice ma coinvolgente. «Fino ad allora utilizzavamo sistemi tradizionali, come le e-mail e gli Sms, ma con WhatsApp Business siamo riusciti a sfruttare tutta una serie di tecniche e di “trucchi” per diffondere il nostro lavoro ad una clientela più ampia». Come gli aggiornamenti di stato, con cui si possono pubblicare i backstage dei lavori. Con la stessa applicazione i clienti possono visualizzare in chat, tramite foto e video, il processo di costruzione delle cornici, e l’artigiano di Chiavari può dialogare con gli utenti, in modo costante, inviando le creazioni in anteprima grazie ad una applicazione protetta da tecnologia blockchain. «Facciamo entrare il cliente nel nostro laboratorio per mostrargli il “dietro le quinte” di ogni lavoro - racconta Roberto Risso - questa modalità di lavoro ci ha dato un ritorno notevole, i clienti sono molto più formati e informati su quello che facciamo». Il mestiere è «sempre lo stesso. Tradizionale, manuale». Ma i guanti di cotone bianco e gli strumenti del mestiere, come martello, pialla e chiodi, oppure le fasi di creazione di
collanti a base di pigmenti naturali o miscele di oro e gesso per dipingere le cornici, sono diventati elementi familiari a chi gli commissiona i lavori. «Spesso si considera solo l’elemento esterno, che va attorno ad un quadro, ma è la cornice che dà risalto al quadro. Non è solo un elemento estetico, ma è un lavoro che inizia dalla progettazione e che tocca considerazioni di tipo estetico, conservativo ed economico». Anche incorniciare è un’arte. Con la tecnologia e con la blockchain questa peculiarità viene valorizzata e diventa un elemento di competitività per rendere più tangibile al cliente la qualità e la cura di quello che si sta realizzando. «Sono cambiate le dinamiche del commercio e bisogna adeguarsi. Non farci schiacciare dalla tecnologia ma sfruttarla a nostro vantaggio» fa notare Roberto Risso, che ogni settimana comunica con almeno 30 dei suoi clienti esclusivamente su WhatsApp Business e, così facendo, ha registrato un incremento del volume d’affari pari al 5-10%. Strumenti che possono essere utili per crescere e per sfidare una concorrenza sempre più agguerrita. Poi «c’è la passione - rimarca l’artigiano ligure - qui dentro ci rimani dalle 7 di mattina alle 8 di sera». E quella non ha prezzo. imprese e territorio | 35
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La lezione dei
KISS Esperienza batte prodotto
Imprenditori, prendete esempio dalla musica, dice lo scrittore Sebastiano Zanolli, che si ispira all’icona Springsteen e alla pirotecnica band americana: «Un loro concerto è un’esperienza. Vai per quello più che per la musica» 36 | imprese e territorio
(e del Boss)
CONSIGLI PER LE IMPRESE
COSA CI INSEGNA Il rock SEBASTIANO ZANOLLI MANAGER E SCRITTORE
La tua impresa è come il rock. O forse il rock è come un’impresa. Sebastiano Zanolli è un manager e scrittore veneto che sa cosa significhi tenere le redini di un’azienda e portarla nel mare tumultuoso dell’economia odierna. Autore di sette volumi di successo, come “La grande differenza” (2003), “Una soluzione intelligente” (2005), “Paura a parte” (2006), “Io, società a responsabilità illimitata” (2008), “Dovresti tornare a guidare il camion Elvis” (2011), “Aveva ragione Popper, tutta la vita è risolvere problemi” (2014), “Risultati solidi in una società liquida” (2017), editi da Franco Angeli. E ha un must, «fare raggiungere a individui e squadre i propri obiettivi professionali, mantenendo la propria umanità».
mondo. Che cosa può dire di utile la band americana a un imprenditore di casa nostra? «Esperienza batte prodotto – parte Zanolli – Un loro concerto è un’esperienza, vai per quello, più che per la musica e basta, un po’ come un Jova Beach Party». Secondo, diversificare sempre. I Kiss hanno creato e brandizzato pressoché tutto, dalle bambole fino alle bare. Terzo, e non ultimo: conta la squadra. Negli anni Settanta, due musicisti diventarono più un problema che una risorsa, risultato, vennero sostituiti. La band è più importante del singolo: il tutto plasmato da una forte etica del lavoro. Che è anche resistenza alle critiche, a volte pure intrisa di incoscienza.
Perché lui, che ha testa e passione nell’azienda, mette a fuoco due convinzioni per i piccoli imprenditori. «Una delle cose fondamentali è fermarsi a fare il punto – sostiene – capire che tipo di vita vuoi, il tempo da dedicare alla tua attività ad esempio alla famiglia. Devi chiarire le aspettative, anche in casa, e avere obiettivi ragionevoli, destinando risorse alle priorità. Secondo aspetto cruciale, fare attenzione a che gente porti nella tua azienda. La stragrande maggioranza della motivazione, tu la ritrovi in fase di selezione. Se chi ti parla non ha una visione simile alla tua, meglio non portarlo con te». Per confrontarsi con gli imprenditori, però, Zanolli “le suona”. Pure sul suo profilo Linkedin si ispira ai musicisti che possono fornire un esempio. Uno citato di questi tempi anche in omaggio ai suoi settant’anni è Bruce Springsteen. «L’ha premiato la forza della sua visione, la capacità di rimanere attaccato a un messaggio – ricostruisce Zanollini – Simbolo dell’energia delle classi americane, con la sua semplicità concreta nel guardare le cose è diventato un’icona. Ecco, un imprenditore che sa essere interprete di qualcosa e ne diventa la bandiera abbracciando una causa, ha molte più chance di altri».
E capacità di mettersi in gioco da solo. Come Dave Grohl, con i Nirvana sciolti dopo la morte di Kurt Cobain e offerte da parte di altre band. Lui invece decide di crearsi una propria strada. Soltanto una delle cinque lezioni che Zanolli prende da Grohl e le offre agli imprenditori. Le altre? Ad esempio, una solida passione (e sana) oppure sempre la resilienza: «Se la vita ti offre limoni, fai limonate. Grohl nel 2015 si ruppe una gamba, eppure fece concerti lo stesso, si disegnò una sedia che gli permettesse di suonare ugualmente». Da problema a opportunità, quante volte un imprenditore ha potuto fare la differenza. La grande differenza, per usare appunto un’espressione cara a Zanolli: «Puoi essere più piccolo o più grande dei tuoi problemi. Ma per risolverli devi essere più grande». E tornando a ciò che può frenare sulla propria strada anche imprenditoriale, prendete questa sentenza senza appello scritta dai critici mezzo secolo fa proposito di due musicisti: «Uno scrittore di canzoni molto limitato, brani deboli e privi di fantasia… Il canto è poco convincente, sul palco non riesce mai ad emozionare». Signori, stavano parlando di Jimmy Page e Robert Plant, ovvero i Led Zeppelin: «La grande differenza – conclude Zanolli – è sapersi staccare dalle critiche, specie quelle che non tengono a costruire ma soltanto a sminuire i nostri talenti… Le opinioni degli altri sono solo opinioni. La migliore risposta sono i risultati».
Un simbolo? Grohl, che nel 2015 si ruppe una gamba eppure fece concerti lo stesso: «Puoi essere più piccolo o più grande dei tuoi problemi. Ma per risolverli devi essere più grande»
Anche esempi più sorprendenti, o irriverenti, nella musica possono insegnare come fare impresa. Ad esempio, i Kiss, con il loro trucco e gli show pirotecnici in primo piano, che però tradotti in cifre significano: 45 anni di carriera, 30 dischi d’oro, 14 di platino e 3 multiplatino, più di 130 milioni di album venduti nel
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Storytelling per l’immagine Fatti e dipendenti per la
REPUTAZIONE «La reputazione attrae i migliori profili lavorativi in circolazione e nuovi clienti: occorre coltivarla con strategie d’azione e attraverso cambiamenti che possano chiamare in causa le persone e renderle più partecipi, aumentando il grado di soddisfazione e coinvolgimento»
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Essere e apparire
EMANUELE INVERNIZZI DIRETTORE DELL’EXECUTIVE MASTER IN RP D’IMPRESA ALLA IULM
La narrazione come elemento in grado di veicolare un’immagine positiva dell’azienda, certo, ma contestualmente è necessario porre le basi affinché vi sia una reputazione solida e - soprattutto - reale. Perché tra immagine e reputazione corre una differenza da non sottovalutare. A evidenziarlo è il professor Emanuele Invernizzi, direttore dell’Executive Master in RP d’Impresa alla Iulm di Milano: «Possiamo intendere l’immagine come il modo in cui l’azienda appare a prescindere da ciò che in realtà è. Per agire in questa direzione si possono ad esempio sfruttare campagne pubblicitarie e, in senso generale, di relazioni pubbliche. Ma la reputazione, sia chiaro, è un’altra cosa. Si tratta sempre di una forma di percezione, ma legata a ciò che l’azienda è e fa. Di solito la reputazione viene costruita nel tempo, attraverso ciò che si sviluppa nel corso degli anni. Possiamo certamente influire su essa, ma è un processo più complicato che chiama in causa non solamente la comunicazione, ma anche il modo in cui l’azienda stessa opera».
la vive: i dipendenti e i collaboratori. «Oggi, anche grazie ai social media, tutti comunicano. Quindi ciò che i dipendenti dicono dell’azienda è fondamentale. Vogliamo lavorare su questo? È importante comunicare ciò che di buono l’azienda fa, ma non tanto o almeno non solamente con una campagna media, piuttosto con dei cambiamenti che possano per esempio anche chiamare in causa le persone e renderle più partecipi, aumentando il loro grado di soddisfazione e di coinvolgimento. Queste poi agiranno a loro volta da comunicatori verso l’esterno, trasmettendo quella reputazione di cui si ha bisogno. In sintesi, un imprenditore deve chiedersi cosa possa fare per migliorare la sua attività sì dal punto di vista gestionale, ma anche in modo che essa stessa possa comunicare valori positivi attraverso i suoi dipendenti, i suoi negozi se ne ha, il rapporto tra gli eventuali tecnici e i clienti visitati».
Emanuele Invernizzi, direttore dell’Executive Master in RP d’Impresa alla Iulm chiarisce le differenze, fondamentali per l’impresa: «L’immagine è come l’azienda appare, la reputazione è ciò che è e che fa»
I media moderni, e i social network in primis, offrono importanti opportunità per creare uno storytelling affascinante e, si spera, vincente. Ma attenzione - afferma il professor Invernizzi - «perché, come detto, se si agisce solo sulla narrazione senza andare a lavorare su quello che l’azienda è, il rischio è che poi questa differenza possa divenire visibile, con effetti estremamente negativi. Se, quindi, dovessi agire come consulente per un imprenditore, sarei molto chiaro: puoi certamente dare vita a una ben organizzata campagna di relazioni pubbliche, utilizzando anche strumenti come i social media, ma contemporaneamente devi agire anche sull’aspetto più strutturale della tua attività». Non dimenticando il ruolo, potenzialmente decisivo, di chi l’azienda quotidianamente
Occorre perciò instaurare un circolo virtuoso: «Non dimentichiamo, e gli studi sull’argomento lo dimostrano, che la reputazione ha effetti sul risultato economico e incide a vari livelli, attraendo i migliori profili lavorativi in circolazione e nuovi clienti». Si è detto in avvio che costruirsi una solida reputazione è un processo lungo: «Ma non è sufficiente attendere passivamente il passare degli anni - suggerisce Invernizzi - perché ci si può applicare per velocizzare questo processo, non dimenticandosi che sviluppando quelle che vengono definite le “buone pratiche” possiamo poi raccontarle, stavolta sì, in maniera convincente. E ben venga anche la pubblicità». Ecco quindi la ricetta per aumentare la reputazione: «Utilizzo la comunicazione non solo per raccontare la mia azienda ma anche come stimolo per introdurre quei cambiamenti in grado di migliorarla». Semplice? No, senza dubbio. Ma d’altronde le sfide, per chi fa impresa, non finiscono mai. imprese e territorio | 39
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Le
RADICI RETI delle
L’esperto: «Sono reti viventi capaci di sopravvivere a eventi catastrofici senza perdere di funzionalità, organismi molto più resistenti e moderni degli animali»
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la NATURA IN CATTEDRA
Loro non si muovono, o meglio non si spostano: questa è una differenza fondamentale tra noi e le piante. Eppure, questa incapacità di spostamento coincide anche con una serie di abilità che è confermata dai numeri: la quantità di organismi vegetali sulla Terra corrisponde all’85% della biomassa; tutti gli animali, lo 0,3%. Questa diagnosi è di Stefano Mancuso, che ha scritto l’appassionante “Discorso sulle erbe”. Il professore dell’Università di Firenze, che dirige il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale, ha realizzato il libro con il fisico Fritjof Capra. Prima ancora, Mancuso ha pubblicato altri lavori come “La rivoluzione delle piante”. Allora prendiamo ispirazione dalle sue molteplici pagine, ma anche da qualche altra preziosa ricerca per capire come le piante non solo ci permettono di vivere: possono pure aiutare a organizzarci. E offrono lezioni di economia. Una per tutte, alle aziende: in rete è meglio. In effetti per Mancuso e il Laboratorio, gli alberi sono delle vere e proprie muse. Hanno anche ispirato la nascita di imprese. «Sono organismi costruiti su un modello totalmente diverso dal nostro – ha spiegato il professore nelle sue opere – vere e proprie reti viventi, capaci di sopravvivere a eventi catastrofici senza perdere di funzionalità, organismi molto più resistenti e moderni degli animali». Le loro armi vincenti sono un mix strategico tra solidità e flessibilità, e la capacità di adattamento. La loro struttura corporea modulare ha innestato stimoli creativi nell’architettura e molto altro ancora.
individui e le aziende è come sappiano creare reti, appunto.
Come accennavamo, proprio nel Laboratorio grazie alle piante è nata una startup, Pnat o Project Nature. La società sviluppa progetti nati proprio dalla contaminazione tra tecnologia e mondo vegetale. Uno è quello ribattezzato “Jellyfish Barge”: le serre galleggianti, progettate dagli architetti Antonio Girardi e Cristiana Favretto. Un modello di coltivazione che non ha bisogno di consumare terreno o acqua, e si basa su materiale di recupero come il legno: una superficie di settanta metri quadrati su fusti di plastica riciclata, può produrre cibo per due famiglie. E senza spreco alcuno di energia, perché è quella solare a sostenere il funzionamento. Proprio l’approvvigionamento energetico è un campo in cui si possono prendere lezioni importanti dalle piante, come la lotta allo smog. Ma un aspetto particolarmente stimolante per gli
Anche in questo caso si vede come ci sia un lavoro di gruppo,
Guai a pensare che l’albero sia un singolo, casomai una rete di moduli. Anche un bosco è molto più di quanto appare, un super organismo in cui gli alberi si collegano a parecchi, anche centinaia di alberi vicini. Proprio la capacità di collaborare dovrebbe fungere da esempio agli umani nel loro lavoro. Le piante non competono tra singoli, bensì lavorano insieme. Un approccio di cui tenere conto in questo periodo più che mai: si evolve e si superano le crisi, comunicando e impegnandosi insieme. Ma che gli alberi – come gli animali – abbiano da insegnarci parecchio, è convinzione diffusa e che si può
Rappresentano l’85% della biomassa e dalle piante è possibile imparare qualcosa di fondamentale: l’arte della collaborazione
approfondire anche attraverso altri autori. Un libro esemplare in questo senso è “L’orologio della natura” di Peter Wohlleben. Qui si scoprono tutti i modi in cui gli organismi vegetali sanno prevedere il tempo e comprendere le stagioni. Ciascuna ha un proprio metodo, anche se tutto viene messe in rete appunto. C’è chi si richiude captando l’arrivo di un temporale; chi non lo fa, non si “sbaglia”: vuole magari offrire un rifugio agli insetti che temono la pioggia imminente, in modo poi da
portare avanti l’impollinazione.
ciascuno con le proprie peculiarità ma coordinate. Tanto che nel diciottesimo secolo Carl Von Linné, scienziato svedese, creò l’orologio floreale, dove i passanti potevano leggere l’ora a seconda della disposizione, o meglio del comportamento, dei fiori. Prima ancora de “L’orologio della natura”, Wohlleben ha scritto “La vita segreta degli alberi”, scoprendo che non solo essi comunicano tra loro, ma si prendono cura della prole come dei vicini malati; non soltanto provano sensazioni bensì ricordi. Un universo da osservare con attenzione, per questione di rispetto nei confronti di questi preziosi coinquilini e per imparare come vivere su questo pianeta e persino in questo contesto sociale ed economico. imprese e territorio | 41
rUbriche
GESTIONE INTERNA
CONDIVISIONE, DELEGA E RELAZIONE Con i dipendenti comportatevi così
Scegliere i dipendenti giusti, saper delegare, potersi staccare emotivamente dalla propria “creatura aziendale” e privilegiare le riunioni con contatto umano rispetto ai dispersivi gruppi WhatsApp per parlare coi collaboratori. È il mini-decalogo suggerito da Patrizia Bonaca, coach econolistico, un neologismo da lei inventato e che è sostanzialmente un mix per allenare materie umanistiche come l’ascolto, la comunicazione, la gestione dello stress e la motivazione personale. Nei delicati rapporti con i dipendenti, la prima regola da seguire è quella di «non chiedere ai collaboratori – dice Bonaca – di andare oltre le proprie competenze e capacità. È fondamentale quindi mettere le persone al posto giusto e quindi bisogna dare grande importanza alla selezione delle persone e al loro mansionamento. In tal senso, la selezione non può essere delegata a chiunque mentre, spesso, specialmente in una piccola azienda, accade che venga percepito come un compito residuale». In secondo luogo entra in gioco una delle principali caratteristiche del piccolo imprenditore italiano. Quello che in Lombardia viene tradotto col “Ghe pensi mì” che, spesso sfocia nella convinzione per cui solo il fondatore o il capo di un’azienda possa risolvere tutti i problemi. Tradotto in termini più aulici, quello che nota Bonaca è come, «gli imprenditori, a parole, dicono di volersi far aiutare e di delegare ad altri. In realtà non ne sono incapaci. Al contrario, invece, dovrebbero comprendere e accettare un aiuto, anche se si ritengono i migliori. Un’altra persona magari può compiere delle azioni
non perfette, ma la sua estraneità e terzietà al quadro generale, gli permette di portare un obiettivo a termine. Capisco che per i piccoli imprenditori un rallentamento, una delega o un passo di lato è una lotta interiore difficile da compiere, ma spesso si tratta di uno scoglio da superare per il bene dell’azienda». Da ciò deriva un’altra questione: «Quando si è troppo legati emotivamente a un’impresa, com’è normale che sia per il suo fondatore – aggiunge Bonaca – ciò può rendere difficoltoso il buon esito di un’operazione. Inconsciamente si rischia addirittura di sabotarla. Invece, una persona terza riesce a essere più libera e spontanea, perché non si porta dietro un carico emozionale che riguarda anche la propria vita e la famiglia. Capisco: è difficile affidare ad altri ciò che si considera una sorta di figlio ma, talvolta, ciò permette una crescita». Per quanto concerne, infine, l’organizzazione interna, nel mondo in cui ci si parla solo via WhatsApp o via mail anche fra scrivanie confinanti, il coach, rivaluta le riunioni periodiche: «Se non ci si può incontrare fisicamente – spiega – va evitato assolutamente il gruppo WhatsApp, troppo confidenziale e con cui si rischia di perdere la giusta distanza. Se non è possibile vedersi, quindi, suggerisco la videoconferenza, anche tramite applicazioni molto valide come Zoom App. Il rapporto umano coi collaboratori è fondamentale per la crescita dell’azienda: non basta dare benefit o mance, ma serve conoscersi, condividere gli obiettivi per crescere assieme come impresa e come gruppo, attraverso una motivazione comune, umana e culturale».
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