C magazine #5 aprile 2014

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ARTE

C U L T U RA

COSTUME

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SOCIETÁ


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C magazine Anno 7 Aprile 2014 Mensile Straybop di arte, cultura, politica, costume e società registrato al Tribunale di Reggio Calabria aut. N.5 del 19/03/2007

Fondato da: S.La.M. Project

Direttore Responsabile: Ginaski Wop

Art director: S.La.M. Project Redazione: via Pasquale Andiloro 41/g · 89128 Reggio Calabria tel. e fax 0965.29828

Hanno collaborato a questo numero:

AlteriA - Federico Bonelli - Silvia Cinti Erika Grapes - Jan Hassermann - Alfonso Russo Ruben Toms - Alfonso Tramontana - Agnese Trocchi - Enrico Tromba Foto cover by: Karen Natasja Wikstrand

Concept del mese: Bar & Barrio

Editore: Farandula s.a.s. via Pasquale Andiloro 41/g · 89128 Reggio Calabria tel. 0965.29828

Progetto grafico: S.La.M. Project per Officine Farandula

Pubblicità: Farandula Editore - luisrizzo.cmag@gmail.com

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma senza l’autorizzazione scritta dell’editore. ©Farandula. Chiuso in redazione il 31 Marzo 2014 alle ore 20:30


#Editoriale

S

e le città, alcune in particolare, possono essere universali, i quartieri invece sono universi. L’esistenza dell’essere-vivente-medio si muove e si articola di rione in rione, di dialetto in dialetto, di connotazione in connotazione. In parte, sei il rione in cui vivi. Ed in parte, il rione in cui vivi diventa chi lo abita. L’uomo si lascia annusare e assorbire dal marciapiede sotto casa, e nell’inconscio voyeurismo, si lascia spogliare e conoscere da occhi di finestre e orecchie di balconi. Un quartiere appartiene a chi lo ha scelto. Un quartiere, in taluni casi, si lascia scegliere e sciogliere come melassa. E le storie e le vicende che si articolano intorno a poche centinaia di metri, scivolano via senza che nessuno se ne accorga, oppure diventano arte! Medesimo parametro per quanto riguarda un elemento imprescindibile che ogni quartiere deve annoverare fra le sue caratteristiche: il Bar! - Oltre al barbiere, il fruttarolo, l’edicolante e il macellaio, of course. Nel Bar, e attraverso esso, l’aggregazione emotiva e/o la disgregazione esistenziale del singolo si compone fra le note di chi sa già cosa e come accondiscendere il solito cliente che prende il solito, alla solita ora. Etica da quartiere. Etica da bar. Antropologia pre e post social. Bar e quartiere, duplice elemento che fa da confessionale e da confessione stessa. Una verità (sovra)esposta fra portoni e insegne luminose. Fra banconi e balconi. Fra Verità misconosciute e menzogne folk che concretizzano in fondo la necessità del branco, dell’appartenenza in essere ad una solitudine condivisa o ad un individualismo cameratesco. La verità che passa fra i vizi e i tic e i volti che gravitano intorno a questi miracoli che l’uomo ancora non ha distrutto, grazie chissà a quale Dio: il Rione e il bancone di un bar. Il concept di questo mese sarà appunto una lunga passeggiata di quartiere, con qualche sosta dissetante, più o meno lunga, al bar. Ovunque esista un quartiere c’è un bar, ed ogni bancone, in fondo, è un quartiere… Cheers!

Ginaski Wop


AlteriA

zioni

a cura e di

AlteriA


R

icordo bene il mio primo acquisto musicale. Ricordo un piovoso pomeriggio di Settembre e mio padre che mi accompagna all’unico negozio di dischi di Rho...ridente cittadina alle porte di Milano. Comprai “The Scores” dei Fugees. Che roba! La cassettina, il libretto dentro e via.. ore ed ore in ripetizione nel walkman fino a quando iniziava a suonare più lentamente: pile scariche. Ok. Oggi sono nostalgica. Necessariamente nostalgica, dato che mi trovo a riflettere su come è cambiato lo scenario musicale ora che è tutto accessibile e non localizzato. Su internet, per intenderci, ogni mondo è paese e ogni paese è mondo. Posso sentirmi parte della comunità “hard rockers forever in Canada” pur essendo per metà Rhodense e per metà siciliana. Eppure qualche tempo fa, nemmeno cosi tanto tempo fa (ueh.. io sono una ragazzina!!) non era cosi. Qualche tempo fa la musica si viveva, se non volendo esagerare nel proprio quartiere, nella propria città si. L’iniziazione alla musica avveniva all’incirca cosi: qualche compagno di classe, magari grazie ad un fratello o ad una sorella maggiore, arrivava millantando una musicassetta di un qualche artista. Ricordo bene quei primi ascolti che, verso i 14 anni, mi hanno aperto un mondo: -1996 “Cosi Com’è” Articolo 31 (si, avete letto bene!) -1997 “Mondi Sommersi” Litfiba ...e da li la disperata corsa all’indietro alla ricerca di ogni canzone di Piero e Ghigo e l’acquisto quindi di tutta la loro discografia dall’85’ in poi. (apro una parentesi... vado fuori tema perdonatemi: curioso che le prime band ascoltate in adolescenza siano capitanate dagli attuali giudici di “The Voice”... della serie, qui si va davvero a rotoli!) Comunque... Una volta copiato il nastro del proprio compagnio di classe, con tanto di scotch sulle fessurine della cassetta (ricordate?) , un mio istinto primordiale, una mia tendenza a concentrarmi sulla voce, mi obbligava a fare stop e play, come una pazza maniaca assatanata di parole, per poter scrivere sul mio quadernino i testi di ogni canzone . Bella vita oggi: Google, titolo canzone, cerca lyric...taaaaac. Stampa e leggi. Quasi sempre, chi faceva parte del gruppetto nerd di appassionati di musica, a quel punto sentiva stretto come luogo di confronto e scambio solo la scuola e quasi sempre nasceva la voglia di tentare di riprodurre quelle canzoni. Ed ecco che ci si buttava in sala prove. Senza troppo pensarci, almeno all’inizio, ci si ritrovava uno strumento in mano: “Oh, Cecco tu hai la faccia da chitarrista!Ti va?” “Ciccio.. ci provi tu con il basso?” “Oh vabbe, io rimango fuori mi metto alla batteria” ... il tastierista in genere sempre il più sfigato, arrivava dalle lezioni imposte dai genitori di pianoforte classico e si ritrovava a doversi inventare chissà quale arrangiamento su 2020 dei Timoria...alla fine faceva finta di suonare, giusto per esserci. E poi bhe... la voce. Quello più intonato si piazzava al micofono, non sentiva mai nulla di quello che cantava, i volumi degli altri strumenti sovrastavano tutto, nessuno ero in grado di regolare mixer, volumi.. Rock ‘n’ Roll diciamo. La sala prove di Rho, il Magilla, era punto di ritrovo di tuuuuuuttiiiii i musicisti. Quel luogo era l’attuale “gruppo” di

Facebook. Non dovevi cliccare “Mi Piace” su nessuno, male che vada se qualcuno ti stava sul culo, lanciavi occhiate antipatiche. Si suonava, si fumavano le prime sigarette di nascosto, giusto per atteggiarsi meglio a Rockers, ci si scambiava spartiti, accordi, testi e ci si dava appuntamento per assistere ai primi concerti assieme. Concertini perlopiù. Amici più grandi, che ai nostri occhi apparivano INNARRIVABILI, che si esibivano al Boccadillos : “ Cazzoooo! Ma il pub quello in pieno centro!? Che roba!!!” Eventi creati su Fb? Scarica l’applicazione, quella che serve per invitare tutti i tuoi contatti automaticamente? Ma va! Passaparola selvaggio! “Buongiorno signora, sono Stefania! Si, Stefania Bianchi la compagna di Gloria, ma la può passare? Grazie ! ....... Oh Glo, Sabato andiamo a sentire le MoscheLosches al Bocca? “ Telefonate, locandini, volantini, bigliettini. Che meraviglia. Stavo provando a ricordare il mio primo concertino. E mi è venuto in mente, per quanto credo di aver fatto di tutto per rimuoverlo dalla memoria! Cantai come corista, avevo persino un nome d’arte (Fly MC!!!) , con quello che era considerato il rapper del quartiere più figo, Zeus. Il luogo dell’esibizione era un Motel. Sì! Un Motel. Purtroppo non riesco proprio a ricordare il nome ma so solo che era in località straniera: ben 1 Km fuori Rho, a Terrazzano. E poi ancora ricordo l’aria di sfida che si creava tra le band dei diversi licei o degli oratori. Ogni quartiere, ogni rione aveva la propria band di rappresentanza... Non si caricavano video su YouTube, non si usava Soundcloud e non potevi scrivere sulla tua bacheca cattiverie su quella band che tanto ti stava sulle palle. Se volevi saperne di più, ti toccava uscire, chiedere il permesso ai genitori di andare al San Carlo quel pomeriggio “Dai ma’! Studio domani, tranquilla. Ci vanno tutti oggi a sentire i Rhock” (notare l’incredibile gioco di parole..Rho, Rock...che genialità!) Potrei andare avanti pagine portando a galla ricordi legati al mio paese e alla musica: il festival estivo RockinRho, la prima band che fece il proprio sito internet creando dello sgomento generale, quelle band che sono riuscite a farsi conoscere anche fuori di casa, ma mi devo fermare. C’è tempo per il mio primo romanzo, non mi sento ancora pronta;) Non si può chiudere una lista di ricordi con una morale, non c’è morale ma posso tentare di trarre una conclusione, una mia personale opinione. Rione Vs Internet : non riesco a decretare il vincitore. Troppi pro e contro. Sarebbe bello trovare il giusto equilibrio. Sarebbe bello uscire di casa il venerdì sera e trovare amici, vecchi e non, riversarsi nei locali per godere non solo di musica, ma anche della compagnia delle persone, la compagnia “calorosa” e non quella freddina dei social, cosi come è bellissimo potersi vedere l’intero live dei Nine Inch Nails in HD su VEVO, dato che hanno suonato a Los Angeles e purtroppo avevo la cena dai miei e non son potuta andare. ;) Equilibrio. YouTube e Spotify sono un tesoro, uan risorsa meravigliosa: poter scoprire ogni artista di ogni posto del mondo. Ma che bello anche scoprire band della propria zona, seguirle, scoprirne la storia, vederle magari anche crescere e migliorarsi. Equilibrio. Più rione per tutti e forse un pò meno Internet. Che ne dite?


Vuoti di Memoria...

È il Rock ‘n’ Roll Bellezza!


#Musica

Pino Scotto è il Rock ‘n’ Roll! dai Vanadium ai Fire Trails dalla conduzione di un programma di Rock Tv “Database” alla realizzazione di nove album da solista, Pino Scotto è colui che cavalcata un’ onda non la lascia più… Prodotto dalla Valery Records e in distribuzione dal 22 Aprile “Vuoti di Memoria” è l’ennesimo lavoro di Pino Scotto, un disco che esce a distanza di due dopo “Codici Kappaò”, un nuovo progetto ambizioso che richiama all’ordine la cultura del paese e smuove le coscienze di tutti.

Testo Silvia Cinti


N

el disco sono contemplate cinque cover in italiano con un brano inedito e altre cinque chicche internazionali con un inedito in inglese. Un viaggio nella memoria in cui s’incontrano brani con testi importanti scritti oltre mezzo secolo fa, interpretati da artisti come Renato Rascel, Luigi Tenco, Battiato, Graziani, Celentano, Elvis, Muddy Waters, Gary Moore, Ted Nugent e per finire, dai mitici Motörhead. Anche in questo lavoro collaborazioni tra amici e conoscenti del grande leader che affascina e smuove anche i sassi silenziosi. Sono tutti pronti a calcare l’onda del successo con lui o meglio come lui, perché per Pino l’onda di celebrità c’è e c’è ancora, e proseguirà nonostante la crisi si faccia sentire ancora di più. Pino non teme la tempesta, ma la affronta!

Vuoti di memoria o riempire la memoria, questo disco è ricco di spunti presi dal passato e rappresenta una possibilità per alcuni di ritrovare vecchi brani intramontabili e per altri invece scoprirli per la prima volta. È stato questo il senso del tuo disco? Musica e cultura sono le due facce di questo album da solista, una sorta di acculturamento per le menti svuotate degli adolescenti che ti seguono che sono fagocitati da tante nefandezze che circolano in tv e sul web… Assolutamente sì. Ho scelto delle cover vecchissime. La mia intenzione era fare una semi operazione di musica-cultura, questo era l’obiettivo da cui partivo e spero di esserci riuscito anche per far conoscere a queste nuove generazioni dei pezzi storici importanti.

“Rock ‘n‘ roll core”. Com’ è avvenuta la selezione delle cover, hai fatto tutto da solo? Io mi prendo il merito di tutto e a me andranno anche le critiche. Perché mi sono reso conto che spesso ho sentito i consigli degli altri, ma poi mi sono pentito e allora ho scelto io così poi se la colpa è mia, almeno lo so. La cover non è mai stata una soluzione che tu hai abbracciato o di cui condividevi l’esigenza, spesso e volentieri hai inveito contro le tribute band e le cover band. Che piega hanno preso queste rivisitazioni di questi brani nel tuo disco? Io spero che si capisca che questo non è un cd di cover ma un’operazione culturale vera e propria. In tutti i pezzi ripercorsi e rivisitati è facilmente riscontrabile un atteggiamento da vero rocker, come ci riesci? Come si fa a restare credibile e non essere finto nonostante canti un pezzo che non è di tua creazione? Voglio mantenere la credibilità facendo quello che già faccio sul disco, il live sarà esattamente come il disco. Il sound vero e reale del disco è sano rock ‘n’ roll c’è stata una difficoltà nell’adattare questi pezzi originali del cantautorato italiano al tuo style rock? Il sound è rock ‘n’ roll. Ma la difficoltà non è stata solo quella ma anche rifare tutti gli arrangiamenti. Se facevo un album d’inediti, ci mettevo un quarto del tempo che impiegavo per fare tutto il disco.

C’è del tuo in questo disco e si sente… Naturale ho cercato di dare una veste rock a questi brani. “È In molte delle cover che hai scelto, sono ridondanti certi arrivata la bufera” di Rachel o il brano di Tenco “E se ci dirantemi tra cui: il lavoro, la crisi, i soldi e altri focus ancora. no” non sono facilmente compatibili con un sound rock ma C’è quindi una verità in questi testi e soprattutto un’at- spero di aver fatto un buon lavoro. tualità sconcertante? Il fatto che molti artisti di mezzo secolo fa già scrivevano di queste problematiche fa pensare Di Elvis Presley hai sempre parlato non bene, ma benissia quanto è bloccata la situazione e che non sia facile da mo, belle parole spese anche per i Motörhead da quanto risolvere. È questo il messaggio più forte che viene fuori? è che avevi in mente di costruire un cd con queste strabiEsatto. Anzi, ce ne fossero di persone che dicano come stanno lianti canzoni che tutti dovrebbero conoscere? le cose adesso considerando i problemi gravi e irrisolti pre- Io sono nato con Elvis, e grazie ad un suo pezzo “Jailhouse senti nella nostra società. Vasco Rossi e Ligabue in sostanza Rock” ho visto la luce. Avevo 15 o 16 anni vivevo a Monte parlano sempre delle stesse tematiche… di Procida, un paesino in provincia di Napoli lì quei tempi si ascoltava solo Rita Pavone e Celentano. Un giorno un mio Leggendo i testi dei cantautori si scoprono questioni di un amico che lavorava sulle navi ha portato un 45 giri e ho senticerto rilievo… to quella canzone ed ho capito che c’era musica seria in giro. Sono tutti temi importanti. È il concept dei testi della mia vita da quando ho incominciato a scrivere. C’è una canzone alla quale sei più legato? Una cover che avevi da sempre desiderato realizzare? L’ispirazione per questo disco com’ è arrivata? Un omaggio a Elvis che avevo da sempre voluto fare, ma non Mentre ero in tour con Codici Kappaò (uscito per la Valery ho mai avuto la possibilità, gli devo veramente tanto. Una coRecords due anni fa, ndr) stavo già pensando al nuovo disco ver che ci tenevo a registrare era quella di Gary Moore “Still ed ero in ansia perché mi rendevo conto che tutte le proposte got the blues”. in giro erano vecchie, già risentite mille volte. Poi una sera dopo un concerto, mi trovavo in albergo a Roma ed ho visto Non sarà stato facile scegliere tra tutte queste pietre miun servizio sul fascismo, e il pezzo “È arrivata la bufera” di Re- liari della storia del rock mondiale… nato Rachel che c’è nell’album era stato scritto proprio come Tutte le scelte che ho fatto sono state dettate un po’ dalla rabprotesta contro il fascismo; allora mi sono detto che dovevo bia sociale un po’ per una scelta artistica di persone che mi recuperare questi brani importanti di quei tempi scritti da au- sono sempre piaciute. Anche per i Motörhead, non ho sceltore solenni, così mi sono messo all’opera. to un pezzo famoso ma tratto dal secondo album, il tipo che canta con me è il secondo cantante degli Iron Maiden si chiaNel disco ci sono più cover che brani inediti perché questa ma Blaze Bayley. scelta? Parliamo un attimo dei due brani inediti sono uno in inglese e uno in italiano… In questo disco hanno collaborato Olly Riva, Blaze BaySì esatto, nel disco ci sono due inediti uno in italiano e uno in ley (Iron Maiden) che hai appena citato, Nathaniel Peteringlese. Quello in italiano s’intitola “La resa dei conti” e l’altro son (già bassista di Eric Clapton, John Lee Hooker ecc),


Maurizio Solieri, Ricky Portera, Mario Riso, raccontaci quest’esperienza con questi mostri sacri del rock alcuni di fama internazionale. Ci sono un po’ meno collaborazioni rispetto agli altri album, in realtà ne volevo anche meno però quando ho iniziato c’è stato un po’ il passaparola con amici come Maurizio Solieri, Fabio Treves e così è nato il disco piano piano. Anche nel pezzo “È arrivata la bufera” quello che canta con me è Drupi, uno che in Italia aveva successo trenta anni fa e che invece adesso lavora tantissimo nei paesi dell’Est.

rainbowprojects.it. Adesso stiamo portando avanti una clinica a Cobán in Guatemala. Quindi la prima del mio tour la farò in questo locale dove faccio tutti i concerti per i bambini e quella sera non si pagherà il biglietto. Deve essere una festa. Le altre date già confermate sono indicate nel sito www.pinoscotto.it

Quali sono le reazioni che avrà il tuo pubblico e i tuoi fan? Qualche anticipazione sulle canzoni che saranno presentate ai concerti? Il pubblico si deve aspettare il solito Pino Scotto arrabbiato Come siete finiti insieme in studio di registrazione? con tutta la gente che sta distruggendo il mondo e specialUn giorno ero fuori dallo studio e gli ho detto di venire den- mente l’Italia. tro a cantare un pezzo insieme. Così nascono le cose migliori Il live sarà basato per metà sui nuovi brani anche le cover e senza pensarci. l’altra metà sui classici che faccio da qualche anno. Come al solito il tour sarà ricco di date perché tu sei uno che si sposta parecchio, quanto è importante il live per Pino Scotto? Naturale è in quel momento che si vede chi è il cantante e chi il musicista. Purtroppo adesso non c’è tutta questa trasparenza ed onestà: la gente va a fare i live con le basi registrate…

Qualche retroscena? Nel disco c’è il bassista di Eric Clapton Nathaniel Peterson con cui ho cantato il brano “Hoochie Coochie Man” e con la band Twin Dragons ho fatto io come solista anche delle date nei paesi dell’Est, con noi c’era anche il nuovo chitarrista dei Guns n’ Roses Ron Bumblefoot. Mi dispiace molto che qui in Italia di gente famosa che suona con cantanti affermati non ce Il “Vuoti di memoria Tour” partirà il 4 aprile, il disco in- n’è, non ci sono le stessa disponibilità come all’estero. vece uscirà il 22 aprile per la Valery Records… Il tour parte da Desio in provincia di Milano, in questo locale Insomma Pino nove dischi da solista chissà quanti altri ci faccio anche un progetto per i bambini in Centro Ame- ancora…? rica, altre iniziative le stiamo facendo con la dottoressa Ca- Non lo so vedremo, io non penso mai né a ieri né a domani, terina Vetro con il progetto “Rainbowprojects” http://www. penso solo a oggi.


#Cove


erBeat


I MARCIAPIEDI CI CONOSCONO!

COSTANTINO NOME: VINCENZO ALIAS: CHINASKI : POETA BARDO PROFESSIONE TI IL BAR NON : CITAZIONE I RICORDI A M I D R O C I REGALA R ! PRE AL BAR M E S O N A T R PO

testo

...una

Ginaski Wop

passeggiata ideale fra marciapiedi sapienti ed etica da bar, con Vincenzo Costantino Chinaski, autore del libro: chi e’ è senza peccato non ha un cazzo da raccontare, e del disco: smoke.




#CoverBeat

l

ma a l l ea

ei , m e o n zio sarà c a g o ol ualità m o ’ l al à . L a q , a z ian uantit l g a gu a q onario u l ’ l l l a zi i a inati u t l a o n sti o dest sto riv e d o e m “siam ione, sia rito, il g az me c i f i ss

Mi pare assodato che il Bar è un elemento indispensabile nel (sopra)vivere dell’uomo - Il Bar non ti regala ricordi ma i ricordi ti portano sempre Al Bar. - invece, il Barrio è altrettanto indispensabile? Il Bar non è essenziale, ma visto che esiste diventa un confessionale, un luogo di rifugio sentimentale e quando lo si scambia per una arena si crea confusione. Il quartiere è invece la tutela dei sentimenti, è il grembo …indispensabile.

youtube ma non compra più cd. Tu hai fatto un disco - bellissimo oltretutto - in cui leggi tue poesie su sottofondo/contorno musicale… non hai capito un cazzo oppure in fondo sei un inguaribile ottimista nonostante tutto? Sono un inguaribile romantico perché non ho capito un cazzo , ma ho capito che le cose le fai a prescindere dalla quantità. non mi interessa quanto vende il mio disco, ma chi ha il coraggio di acquistarlo.

Per te, da cosa è rappresentato il Barrio? Dai luoghi del quartiere che mi concedono tregua e accoglien- L’Uomo riuscirà a salvare l’Uomo? za, così come la gente del quartiere. Solo se riuscirà a capire e amare la donna. Credi ci sia stato un piano studiato dai cosiddetti poteri forti atto a farci chiudere tutti in casa a chattare nella nostra solitudine evitando dunque di popolare le strade? Non credo nei piani prestabiliti, ma nell’indole umana a non riconoscere mai o quasi mai ,l’oltre l’altrove e l’importanza che hanno le impronte che si lasciano camminando.

I marciapiedi ci riconoscono? No, ci conoscono, sono i custodi delle nostre solitudini. Per un poeta Bardo, qual’è oggi il gesto più epico? Sopravvivere di poesia.

Perché Ulisse ti è sempre stato sul cazzo? Perché rappresenta il furbo, l’intelligenza al servizio del più Il nuovo trend pare sia quello di prendersi molta cura di forte. sé… smettere di fumare perché nuoce gravemente alla salute; fare jogging o andare in palestra; bere Responsabil- Credi in Dio? E se si, come te lo immagini? mente; una dieta equilibrata… Credo nell’azzardo e nella scommessa e ho scommesso che Siamo destinati a diventare un popolo di sani oppure sem- qualcosa o qualcuno c’è, e se c’è plicemente moriremo sani? me lo immagino Donna, con peli pubici e ascellari bleu. Siamo destinati all’uguaglianza, all’omologazione, alla massificazione, siamo destinati alla quantità. La qualità sarà come il merito, il gesto rivoluzionario. Pedro Juan Gutierrez sostiene che sia un tempo molto difficile per i poeti, perché non c’è nulla di bello di cui cantaAnni fa ho intervistato Capossela. Lui mi disse che tu sei re o scrivere. quell’amico che conosce ed insegna le cose veramente in- È possibile trovare lirismo nella “monnezza”. Ma, dove dispensabili nella vita, ad esempio: “quando è opportuno credi che oggi si possa trovare la bellezza? ubriacarsi e quando non lo è.” Non mi riguarda, perché è relativo. Non cerco la bellezza ma Puoi spiegarmi questo aspetto? Quando NON è opportu- solo vita, che mi faccia ridere o piangere per poi restituirla a no e quando invece lo è particolarmente? chi non se ne accorge. Ne parlo solo con gli amici, e in privato. Sai quante lacrime e sorrisi sono andati persi e invece avrebbero potuto salvare le giornate. La discografia e la letteratura rappresentano un mercato particolarmente in crisi al momento. La gente è sempre Grazie per il tempo che mi hai dedicato. più informata ma legge sempre meno, e ascolta musica su Prego.


Andrea G. Pinketts: scrittore, giornalista, drammaturgo e opinionista tra i più noti esponenti della letteratura italiana noir.

Vincitore di numerosi premi letterari, ha alternato la carriera di scrittore a quella di giornalista investigativo, conducendo inchieste per conto di numerose riviste ed infiltrandosi in prima persona in svariate realtà, anche criminali.

Celebri i suoi reportage per Esquire e Panorama grazie ai quali ha, tra le altre cose, contribuito all’arresto di numerosi camorristi nella cittadina di Cattolica, all’incriminazione della setta dei Bambini di Satana a Bologna ed a suggerire il profilo di Luigi Chiatti, detto il “mostro di Foligno” È autore di molti romanzi in bilico tra noir e grottesco, molti dei quali incentrati sulla figura di Lazzaro Santandrea, suo alter ego e protagonista di bizzarre avventure nella

Milano contemporanea. La sua

peculiare prosa, contraddistinta da un uso del linguaggio originale e dissacrante, ha attirato l’attenzione della critica, che lo ha definito uno scrittore “post-moderno”.

Esce questo mese il

Ho una tresca con la tipa nella vasca (di cui parleremo in seguito). Noi, però, l’abbiamo incontrato, in un bar di Milano, per parlare del libro precedente Mi piace il Bar, di Milano e degli animali sociali che la popolano.

suo nuovo libro


A Milano di notte c’è il mare! intervista ad

Andrea G. Pinketts

testo

Erika Grapes



Mi piace il bar è il titolo del tuo libro più recente... ne vuoi parlare? Mi piace il bar è il mio penultimo libro, ed è una sorta di indagine fra ricordi e constatazioni di una biografia etilica, che mi ha permesso di raccontare i cambiamenti dell’atteggiamento nei confronti del bar delle persone

sociale si è spostata nel virtuale… Quel che dici è terribile. Io ad esempio non uso internet. Lo faccio usare a un gruppo di religiose pagane che si chiamano le devote di Pinketts, che mi svolgono le eventuali ricerche o mi sbrigano le pratiche, ma certo secondo me non è la forma di comunicazione che preferisco. Se voglio raccontare qualcosa, scrivo un racconto rigorosamente a penna o se devo dire una cosa te la dico di persona possibilmente nel bar, perché il bar è il luogo in cui le storie che siano vere o inventate sono più affascinanti. Internet invece è un bluff della comunicazione. Cioè se io ti volessi bene, cosa che non è esclusa in futuro, non ti scriverei mai TVB!

Una biografia dell’avventore del bar in generale o di un personaggio specifico? La biografia mia, ma inevitabilmente sono un osservatore, ragion per cui lo scrittore è anche un descrittore, per questo motivo senza ombra di vino, senza ombra di dubbio, racconto i cambiamenti che sono avvenuti nei bar che ho frequentato… che sono epocali: i bar di fine anni 70, 80, 90 e anni zero, Tu sei nato a Milano, sei cresciuto in un quartiere in parcon teste diverse e spiriti diversi nell’approccio alla frequen- ticolare che ha segnato il tuo percorso? tazione del bar Io sono nato in una clinica La Madonnina, poi la mia infanzia l’ho trascorsa in viale Piave di fronte ai giardini pubblici di La decade migliore? Porta Venezia. Successivamente, dopo la morte di mio padre, Forse gli anni 80. Che erano appunto anni di plastica, per cui con il trasferimento di mia madre che all’epoca era medico all’uscita dalla discoteca, nota che non ballo… io ci andavo scolastico, siamo andati ad abitare al Giambellino. E quindi per rimorchiare modelle americane… eran di moda… ti da- io da bambino della Milano bene mi sono ritrovato in quel vano un bicchiere di plastica che conteneva un cuba libre… quartiere che allora era una sorta di far west, per me… in fatperò era bello stare fuori dall’ Amnesy con queste che veniva- ti mi son divertito un sacco. perché son passato dai giardini no dal Wisconsin piuttosto che dalla Pennsylvania e che non pubblici frequentati dai “bambini bene” quale ero io, ai “bamcapivano nulla di ciò che dicevo loro, non perché non parlassi bini male”… inglese ma proprio perché non capivano… Non esistono bambini male… Non capivano il contenuto? Hai ragione, non esistono bambini male. No, il contenuto era contenuto appunto in un bicchiere di pla- Diciamo bambini della mala, figli di famiglie Mala. Non tutti stica… quello era l’unico contenuto che avevamo in comune. ovviamente, c’erano anche brave persone, ma quelli preponderanti, aggressivi, erano figli di famiglie che radicavano la Quando vai in un bar, che cosa cerchi, al di la dei perso- loro cultura nell’onore del crimine, e quindi io ho dovuto dinaggi per i tuoi libri? Qual è lo spirito che cerchi? mostrare di essere alla loro altezza. Intanto il bere è cultura.. come racconto in “Mi piace il bar”: il bere è aggregazione, non è una cosa solitaria, quella da casa- Hai appreso dei valori positivi? linga frustrata, o da alcolista. Assolutamente si. In realtà il bere a me, fa venire in mente Noè che viene salvato da Dio che gli annuncia l’arrivo del diluvio, dopo che ha Estinte una mala buona? superato il diluvio e trova una terra ferma, la prima cosa che La criminalità non è mai buona, però ci suono delle persone fa è creare un altare per ringraziare Dio che lo ha avvisato buone costrette per ragioni se vuoi dinastiche o addirittura - dicendoglielo in un orecchio - e la seconda è piantare una caratteriali a cui la microcriminalità è quasi imposta. vigna; quindi metaforicamente la Chiesa nata dall’altare così come la vigna che genererà l’osteria sono i luoghi di incontro, Questo numerò di C magazine è incentrato sul concetto di comunicazione… E rimarranno sempre così, a dispetto del- di stanzialità. Il quartiere quasi come identità in cui un la fede e a dispetto del tipo di bar sono luoghi di aggregazione, gruppo di persone assorbono lo stesso tipo di spirito… quindi sia il bere che la fede hanno una funzione sociale. quindi è stato il Giambellino che ti ha segnato di più o ce ne sono altri? L’essere umano è un animale sociale ed è quindi animale Tutti in realtà: Brera, quando c’era il vecchio Le Trottoir. Io ma anche un essere che cerca il divino attraverso qualco- credo che una persona si lascia coinvolgere ma coinvolga ansa che è diverso dalla natura, perché l’alterazione del fer- che la zona che decide di frammentare. Per cui non sei tu che mento ti porta ad un’alterazione della percezione… piombi o scendi dal cielo fra un gruppo di sconosciuti, sei tu Che è la stessa alterazione che possiamo attribuire alla fede. che ti adatti o che fai si che loro si adattino a te, che è il mio Solo che una è indotta chimicamente, così come se uno si beve caso. 10 gin tonic può anche iniziare a credere che esiste dio. Non dimenticare che il cristianesimo è una delle religioni fon- Esiste un solo codice comportamentale nei vari quartieri date sul vino… e nei bar, o ne esistono diversi? Esistono luoghi in comune, regole non scritte? Così come anche i baccanali… La cosa importante è l’educazione. Il rispetto, anche nel senso Ah beh, certo, ma delle due l’unica rimasta è il cristianesimo, malavitoso del termine. E poi forse fondamentale è la nascita applicato dal cattolicesimo. di improbabilissime amicizie con persone che sono all’opposto di te… e allora scopri che sei un animale sociale. La dimensione viscerale e istintiva dell’essere umano che è anche per istinto in parte animale, non solo essere razio- Improbabili amicizie dici: ad esempio? nale, pensante e sognatore, ha necessita di un luogo che Uno su tutti: Giank la Bestia, che adesso è agli arresti domipuò essere il quartiere ben definito in cui conosce tutte le ciliari, e che è l’uomo più indistruttibile che abbia mai visto. persone accanto oppure può esprimersi anche attraverso L’ho conosciuto appunto in una bar del Giambellino e abbiala solitudine, visto che ormai viviamo in tempi in cui ci si mo simpatizzato perché è una persona brillante, ma è verachiude e il quartiere diventa anche un sito internet, la vita mente un animale. Molti anni fa la sera andavo a prendere le


entreneuse nei night clubs e le scortavamo a casa, e venivamo L’importanza del soprannome... hai citato Giank La Bestia pagati… per tutelarle, come servizio di sicurezza. Poi purtrop- ha ancora un valore. La riconoscibilità è ancora importanpo lui ha scelto la scorciatoia del crimine ed io invece no. te? Ora c’è il nickname. A volte i soprannomi nascono per scherQuando hai capito di essere uno scrittore? Sei partito zo: Pogo il Dritto è un mio compagno di liceo che si chiamava come giornalista o già scrivevi? Pogliaghi e lo associavo al biscotto Togo. Molti soprannomi Per me fare il giornalista è stato importante quando facevo le hanno poi generato dei cognomi. inchieste. Mi calavo in realtà che non mi appartenevano. Ho Il mio vero cognome è Pinketts ma è stato naturalizzato sotto fatto il barbone alla stazione centrale, ho incastrato i satanisti il fascismo in Pinchetti. Poi ho recuperato il mio cognome di di Bologna… e lì mi piaceva. Però in realtà ho iniziato con origine irlandese e ho conservato entrambi. Onda Tv, che non esiste più, in cui essendo l’ultima ruota del carro intervistavo le vallette. Però per me allora in piena tem- Hai quindi origini irlandesi... pesta ormonale fra intervistare una valletta misconosciuta o Sì e da qui si spiega l’amore per la birra e la mia natura rissointervistare Pippo Baudo non avrei avuto esitazioni… (ride). sa. Ho anche scritto un saggio a proposito delle vallette “La valletta dell’Eden”. Che cosa ti fa arrabbiare? Ti cito una battuta del film Il Pistolero “Non sopporto inE cosa hai imparato dal mondo delle vallette? giustizie, non sopporto insulti, non sopporto prepotenze. Se La provvisorietà della vita. qualcuno mi offende o mi tradisce, prima o poi si aspetti la mia vendetta.” La precarietà di una vita basata sull’apparenza? La maggior parte delle vallette che frequentavo studiavano… La tua rabbia deriva quindi da un senso di giustizia, non In fondo è un rito di passaggio prima di arrivare a conosce- dalla follia o dall’orgoglio È quindi un valore che deriva re i tuoi reali obbiettivi, non parlo di vallette da vallettopoli, dalla difesa del più debole? Fammi qualche esempio di sibensì delle hostess della fiera… Io sono un grande esperto di tuazioni ingiuste hostess. Io quando mi inalbero sono chirurgico, non mi va mai il sangue alla testa. Io ho fatto sia boxe che Kendo. Con la boxe Che cosa sa un grande esperto di Hostess che altri non impari a valutare l’avversario di cui hai rispetto. Poi la dusanno? rata del match dura poco. Invece il Kendo che nasce dal più Conosci il climax, un termometro per capire le situazioni e le grande spadaccino Giapponese è fatto anche di attese perché persone. La fiera è un’assoluta commedia umana. tu aspetti la mossa dell’avversario. Lo studio assoluto. Io non sono per la violenza bruta, sono per la forza applicata. Quanto gli esseri umani recitano e quanto sono sé stessi nella quotidianità Sono importanti le regole? Risposta Pirandelliana: uno in realtà non lo sa quanto sta reci- No. In generale no. Ma nello sport sì. tando e quanto no, perché se è entrato totalmente nella parte Nello sport le regole implicano un senso di correttezza, di rinon se ne rende conto. conoscimento del valore dell’avversario mentre nella vita delle regole ci sono imposte e non sono necessariamente etiche. Nei tuoi libri cerchi le caratteristiche del personaggio nel- Sono imposte quindi puoi violarle quando vuoi. le persone o descrivi persone che hai visto? Una combinazione delle due cose? Quindi è la legge morale dentro di te ad essere importanTutte e due in realtà. Nel prossimo libro ad esempio “Ho una te? Il buon senso? tresca con la tipa nella vasca”, che esce ad aprile per Monda- Buon senso è una definizione che non mi piace, da vecchio. dori, è un libro sulla tresca in cui l’autore è innamorato delle È più importante trasmettere l’esempio. La saggezza non si Muse, quindi è poligamo. ogni storia è una storia diversa. Il trasmette. protagonista si innamora ad esempio, nella prima un camor- Pensa a Pulp Fiction, quando Samuel Jackson dice “Sono in rista diciottenne costretto a rifugiarsi in Danimarca perché una fase di transizione” Perché lui avrebbe ammazzato subito ha insidiato la moglie del boss e si innamora della Sirenetta di quei due (secondo l’istinto) e invece.. Copenhagen, ma proprio della statua che è alta 130 cm e pesa 160 kg. Una donna tutta d’un pezzo...non so...io non l’avrei Ha fatto bene a dare ascolto a questa voce? mai fatto. Sono storie diverse, surreali. Sì certo. Io sono contro la violenza. Però se uno merita un sacco di botte non mi tiro indietro. L’umorismo nasce dal surreale, quando la realtà incontra l’improbabile. L’ultima domanda: che tipo di sigaro toscano fumi e quanIo sono sempre stato il cantore dell’improbabile, Quando il to la legge contro il fumo ha inibito l’aggregazione sociale paradosso che è reale passa dalla tragedia alla farsa con una nei locali estrema duttilità e senza accorgersi. Ho scritto insieme a Paul De Sury a Cuba “La mistica del sigaro”, sui sigari cubani, i puros. Io preferisco i toscani, ToscaLa società ideale di Andrea G. Pinketts no Extra Vecchio, anche perché il puro è più impegnativo. Non credo che esista. Penso a Utopia di Thomas More, a La realtà assoluta è che il sigaro al contrario della sigaretta, mondi apparentemente perfetti e il mondo non lo è per nul- ti permette di raggiungere improvvisamente con il pensiero la. e non solo: l’imperfezione dona caratteristiche singolari ad realtà lontane. ogni tipo di mondo. Certo, sarebbe bello se fossimo tutti belli come noi due, tutti bravi, intelligenti, possibilmente ricchi... Un po’ come la marijuana? però ci annoieremmo a morte. La marijuana falsifica la realtà. Il sigaro invece la qualifica. la sceglie, la controlla senza controllarla. È come una seduta Il mondo è bello perché è vario? spiritica. Il mondo è brutto perché ingiusto. Però è interessante. Per rispondere alla seconda parte della domanda secondo me


la legge contro il fumo “Legge Sirchia” a mio avviso andrebbe chiamata “Legge Minchia” perché è inaccettabile. Mi pare che fosse il 5 gennaio 2005 che è stata applicata ed io e Paul de Sury ci siamo messi a fumare in un luogo pubblico in segno di disapprovazione verso questa legge. È stato un gesto un po’ punk il vostro... No! E’ stato un gesto Pink! Domanda sulla città di Milano. Milano è un grande paesone? Tutte le città, a parte Los Angeles, sono dei paesoni, perché ogni quartiere vive una vita propria. Io ho avuto modo di innamorarmi di parti diversissime di Milano, ad esempio quan-

do il Trottoir era a Brera io ero il re di Brera. Poi i quartieri sono cambiati. Ad esempio il Giambellino adesso è un posto di kebab, non è più il Giambellino di Ceruti Gino, le canzoni della malavita. Adesso c’è una criminalità diversa, i drammi si consumano all’interno delle famiglie. Figli che uccidono genitori e viceversa. Se potessi descrivere Milano a chi non la conosce cosa diresti? L’ho già fatto in un libro: a Milano, secondo me, di notte c’è il mare. A Genova il mare è evidente, mentre a Milano il mare si sente di notte.


Barrio L

uddisti della domenica piangono lacrime e sangue, sbrodolando sulla stampa prezzolata, o nei diametri rigorosi e spassionati dei loro profili facebook, liriche sulla mania della rete sociale, che detta all’ammerekano si dice “Social Network”. E allora si capisce di cosa parli, non come in italiano, che sembra una cosa da compagni e non da seri capital - consumisti radical - chic, quelli che poi si imboscano alle Feste di Liberazione. Il social è ora - come prima internet - ciò che tutti amano odiare. Si dice che ti avrebbe scompigliato le carte, che ti assorbe più della tv, ti fa passare la voglia di fare sesso su youporn, che ti viene l’orchite alle dita del piede mentre ti masturbi. Dice che la malafemmina poi, se si sposta sulla rete, ti si mangia, che il testosterone cattivo, secondo questi vigliacchi dello spirito, morde, e se non stai attento, poi ti aspetta nel buio del portone di un blog qualsiasi, alle 4 del mattino e diventa il Troll dei tuoi incubi… Noi del Barrio Digital con le vostre paure categorizzate facciamo collane di denti ridenti e pie colonne di teschi davanti alle porte dei nostri palazzi anonimi, costruiti sulle vostre speculazioni edilizie migliori. Capitale in conto apocalisse. Io non ho paura della rete e esco solo la sera. Cammino per questa serie di mondi paralleli e reali in modo differente da prima, ma concreto, dannatamente concreto. La Calabrifornia che vedo con i piedi dell’amico genio e disperato che sa cosa beve e ha smesso di fumare. Peggio Calabria, New York di un altro amico pazzo che suona nel deserto del Jersey musica digitale in scatole per nerds. Palermo, nera, aguzza, tentennante, piena di storie che mi saranno per sempre proibite, perché ho il sangue rosso e non nero. Milano, incisa sotto le unghie della sua periferia senza risorse, chiusa dietro una porta aperta, case cose di mura sottili e di sberle promesse e date, urlate, nel buio assordante di un si-

lenzio complice. Amsterdam, con le sue vie gialle xeon nella notte, riflessi d’acqua e di finestre che ridono con lampade al tungsteno. Case borghesi. E neon, se si tratta di un kebab qualsiasi. E anche Maribor, Anversa, Genova, Montefiascone, Montalbano, Madrid. Il mio Barrio, la sua gente. Viva. Ho camminato a lungo di notte a Berlino, alla ricerca di una festa spostata in periferia a cui sono arrivato tardi e presto allo stesso tempo. La notte era sottile come un foglio di carta velina e ero solo, senza neppure un posto in cui rintanarmi a dormire e con il telefono scarico. Ma ero per tre quarti altre persone e non ho avuto paura: ero a casa mia. La periferia di Berlino può essere dannatamente vuota, e non hai nessuna mappa in testa che ti dica che scarpe sia meglio metterti per correre. Eppure alla fine abbiamo sviluppato altri sensi inventati e improbabili e sentiamo la rete, su cui navigare, cadere, o nascondersi. L’incorporeo digitale che può diventare corporeo. Come una casa di architetto pazzo e omosessuale prima vuota e poi riempita di profughi italiani del design in fame chimica, dove mastico formaggio pecorino sotto a una copia del David di gesso a grandezza naturale con il sesso viola. Esco spesso, fino a notte fonda, e viaggio, alle volta fino a mattina. Cammino parecchio, alle volte sui piedi altre sulle dita, e sono mille persone sole come me, e unite da una letteratura interpersonale, formidabile, anche se inevitabilmente fragile, e figlia-spia del gran dio Mammona, dio del danaro e della pubblicità. Queste persone che incontro mentre cammino sono per metà reali e per metà un misto di me, di loro stesse, e dei nostri profili facebook, twitter. Hanno le anime nella chat, nell’email, nella foto fatta da solo, o dell’ultimo giochino sull’arte o sulla musica preferita. Twitter per aforismi che ho composto in haiku e non so più distinguere da quelli del


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Digital

XV secolo composti da qualche giapponese che non sono neppure certo di avere mai letto. Foto visioni e esibizionismo incluso. Poi, l’arma migliore del pusher d’amore in rete, o del rabdomante è la semeiotica. La vostra seduzione funziona con gli scarabocchi di un visionario non più a causa di immagini graziose, ma grazie ai riferimenti significanti nascosti nell’immagine stessa a vostra insaputa dal grande inconscio digitale. La grande, incredibilmente poetica risorsa dell’analogia, come la magia nera, diretta e cruda, stride tra una parola detta e una sussurrata in chat con il senso dell’insieme. Stiamo. Ci sono siti nel quartiere che sono bar d’angolo e altri sono parrocchie. Con la loro chiesa scura e l’odore di candele steariche, con le beghine in prima fila, e dietro nella penombra della navata Nessuno che ci fa paura. C’è l’officina collettiva, c’è la più grande delle biblioteche per i libri veri, ce n’è un’altra ancora più grande per quelli mai scritti e un’altra ancora, infinita, per quelli inutili. Nel quartiere digitale, fatto di tempo, di materia e di carne, piangono il sindaco e l’assessore, mentre le loro costose campagne elettorali sono tagliate via da un filtro di Chrome e sbiadiscono in terra, sotto una pioggia di grigio fumo. Ci sono le notizie false che girano e mutano in altre più vere di quelle vere, e le tracce di merda della propaganda-colpo-di-mortaio tra i passanti. Un bidone di chiodi esploso su chi faceva solo la coda per il pane. Qui nei nostri giardinetti è ancora pieno di gatti: in tutte le porte ce ne sono almeno dieci milioni. Lappano latte e lische di pesce che si litigano con vecchie signore stanche che postano notizie incredibili, che per cortesia tutti commentiamo con garbo, e che copiano fandonie sulla nostra attenzione marmellata. Sanno verità sugli alieni o su qualcos’altro,

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Fedrico Bonelli

le hanno trasformate in macchie di colore incerto: i blog. E assieme a loro, che in un quartiere del XX secolo e non del nostro sarebbero dimenticabili incontri alla cassa del supermercato, attiriamo grosse e grasse mosche, che come miele di favo o merda di vacca spingono a craniate enormi bottoni blu con scritto “lekkami”. Il mio barrio digitale è, ovviamente, pieno di donne. Tutte belle e misteriose mi parlano di fronte e di profilo, credendomi bellissimo, perché ho la forza di toccare oltre i loro muri e di spingermi nei loro giardini preziosi con coraggio e follia disperata. C’è la taverna in cui danzano, quella in cui parlano d’amore, quella dove si fanno leggere i tarocchi. E l’angolo buio di sottoscala dove si lasciano baciare. Ci sono anche uomini che sono donne, che sono disincarnati, amanti a ore, rimbalzi sul fosforo asfalto del nostro monitor piazzale, camminano con i tacchi a spillo e gli stivali da cowboy. Nel Barrio, non c’è maggior soddisfazione che sapere usare le armi del nemico e noi lo facciamo benissimo: ninja armati di buio. Sparire, rompere, farsi sentire e poi di nuovo sparire, accorpare, distruggere. Con grandi gesti liberatori possiamo popolarci di parole e concetti che non portano più ovunque, ma in combinazioni improbabili di singolarità rintracciabili con tre click. Proprio adesso che scrivo del mio quartiere immaginario e di pietra, in cui cammino preoccupato come un bianconiglio ritardatario, sta diventando reale, concepito, ripassato all’esistenza tangibile da una scrivania-portaerei che non vola. Potrebbe essere stampato, immaginato e realizzato in ogni momento. Il bavoso incerto becero sbrilluccichio di provincia infinita in cui vivete voi scompare, irrilevante, mentre noi, pochi eletti formati già di moltitudini, camminiamo nel nostro barrio digital. Realtà concreta e amplificata da tutto ciò che so, vivo e immagino in punta di lingua.


#CoverBeat

Storie senza centro testo

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Erika Grapes

ella via dove sono cresciuta, a Sesto San Giovanni, nell’hinterland milanese, quando ci ero arrivata all’inizio degli anni ‘80, c’era solo il mio condominio (una casa popolare dei primi del ‘900) e un’altra palazzina alla fine della via. Di fronte, un muro ci divideva dalla ferrovia. All’inizio la strada non era nemmeno perfettamente asfaltata. Nelle grandi città non esiste il concetto di quartiere: spesso si frequenta la scuola in un altro comune, poi l’università, il posto di lavoro e gli amici. Per la maggior parte dei casi le uniche cose che sai dei tuoi vicini di casa sono il cognome sul citofono e qualche sparuto pettegolezzo da pianerottolo. Man mano, con il passare degli anni, sono spuntati nuovi palazzi in via Acciaierie: 9 - 12 piani e un giardinetto con muretto d’ordinanza che ha offerto lo spazio a vari adolescenti della città di ritrovarsi proprio in quella via, misteriosamente soprannominata “le villette”. Storie d’amore, micro quartieri, con abitanti, però, che venivano da altre vie, altri luoghi. Il vantaggio del vivere in una città con decine di migliaia di abitanti confinante con Milano e con altre distese di cemento per chilometri e chilometri, sono proprio le decine, centinaia di migliaia di persone diverse con cui puoi entrare in contatto facilmente: chiunque abbia interessi particolari, può trovare coetanei che condividono le stesse passioni e frequentarli senza per forza adattarsi alle “regole del barrio”. Anche perché se escludiamo le riunioni di condominio, di regole del barrio non ce ne sono proprio. Il barrio, nelle grandi città è spesso una via, o al limite un isolato: centinaia di famiglie inscatolate in verticale. Una grande concentrazione di emozioni, drammi, amori, televisori accesi e ultimamente anche reti wi-fi. Il barrio-via delle metropoli di periferia cambia faccia più velocemente delle mode: cambiano i vicini di casa, aprono e chiudono i negozi, gente nuova arriva, resta sconosciuta per anni e poi se ne va. Ci si incrocia correndo verso la metropolitana al mattino, al rientro alla sera. Le periferie poi sono l’eccellenza della multi-culturalità.

Sono il vero luogo aperto dove lo spazio viene condiviso con persone di etnie diverse. In un certo senso sono più autentiche dei centri cittadini, più tradizionali, meno dinamici, meno pericolosi. Nelle vie delle periferie delle metropoli si cammina velocemente. Ma non per la fretta: per la paura. Dopo la grande crisi economica è cambiata anche la faccia di questi micro quartieri. Pubblici esercizi chiusi, vie buie, strade più dissestate, persone rintanate in casa, rapine in pieno giorno per mano di perfetti sconosciuti, gente che arriva magari da un altro micro-barrio, di un’altra città o provincia o paese o continente..non importa. Crescendo in questi luoghi è difficile parlare di tradizione. La cultura la si pesca altrove, le chiacchierate con persone anziane del vicinato sono sporadiche, ogni famiglia fa per sé, la diffidenza, volente o nolente, regna. Multiculturalità che ti porta però anche a scegliere: cosa mi appartiene? A che tipo di ideali appartengo? Sesto San Giovanni non è il Bronx e non è nemmeno una delle cittadine messe peggio nel milanese: di bande alla “Guerrieri della Notte” non ce ne sono. Gli episodi di cronaca nera, spesso efferati, arrivano dalla gelosia, dalla follia, dalla violenza. A pochi metri intorno a te (in orizzontale, al piano di sotto, al piano di sopra) può attuarsi uno stupro, una proposta di matrimonio, un suicidio, una partita di calcio, una puntata di Beautiful con la minestrina sul fuoco. Il barrio non partecipa a questi eventi. Non ne è razionalmente consapevole. Non celebra il vicinato. A volte, se sente delle urla, non interviene. Ordinaria amministrazione. Eppure siamo tutti esseri viventi capaci di sentimenti. Ci si commuove, si condividono le esperienze ed i racconti con le famiglie estese che si sceglie di crearsi, con gli amici, indipendentemente da dove essi vivano. Ora, con internet, i confini sono ancora più larghi. Con la globalizzazione il barrio della periferia si estende, mangia tutto il verde che è rimasto a rifocillare i nostri esanimi polmoni, ingloba con il suo individualistico senso porzioni sempre maggiori di territorio, invade i centri, cancella la storia. Senza la storia esistono le storie. Storie senza centro, come trame di una tela variopinta.


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IL PIGNETO CASA-BASE DI IERI E DOMANI


#CoverBeat

testo e foto

I

l Pigneto, quartiere romano situato alle spalle di Porta Maggiore, è un rione che non può essere lasciato in disparte. Chi non lo conosce e vive nella Capitale da un po’ deve documentarsi e, chi invece non ha mai avuto l’occasione di sentire questo ‘simpatico’ nome per la prima volta può proseguire questa lettura, che non vi tedierà, è una promessa. Il titolo suggerisce che questo luogo, sconosciuto per alcuni, è invece casa-base per altri; un universo sottostante la grande bellezza di Roma che, attraverso tutto quello che questa città può mostrare al suo pubblico, non solo composto da turisti e passanti, non deve essere dimenticato, anzi è carico di storia. Questo rione racchiude un significato evocativo. Chi è nato qui converrà con queste parole: al Pigneto ne sono passati di grandi personalità di spicco che hanno passeggiato e conquistato una parte di questo quartiere che una volta era pieno di pini (da qui il nome Pigneto) e che adesso è un luogo che vanta copiose presenze indimenticabili. Giusto un paio di indizi: Pier Paolo Pasolini e Rossellini con il suo film Roma Città Aperta. Questo storico quartiere delimitato come un triangolo dalla Casilina, la Prenestina e l’Acqua Bullicante, famoso soprattutto per aver ospitato le esplorazioni periferiche di Pasolini negli anni ‘60, adesso sta vivendo un periodo di fermento sociale e culturale. Il fatto curioso è che gli abitanti storici del Pigneto e i nuovi arrivati si mescolano con discrezione a chi nel quartiere è nato. Questo fenomeno prende il nome di gentrificazione (in inglese, gentrification, deriva da “gentry”, termine che indica la piccola nobiltà inglese) appunto la gentrification del Pigneto con la quale si indicano, da gentrification, i cambiamenti socio-culturali in un’area, risultanti dall’acquisto di beni immobili da parte di una fascia di popolazione benestante in una comunità meno ricca. Dall’esempio lampante di Londra, questi cambiamenti si verificano nelle periferie urbane, come il Pigneto, nelle zone con un certo degrado da un punto di vista edilizio e con costi abitativi bassi. Nel momento in cui queste zone vengono sottoposte a restauro e miglioramento urbano, tendono a far affluire su di loro nuovi abitanti ad alto reddito e ad espellere i vecchi abitanti a basso reddito, i quali non possono più permettersi di risiedervi. Il problema del Pigneto è il il tumore che lo sta velocemente degradando: lo “spaccio”. Il rione strettamente denso di dinamiche commerciali, mette in moto dinamiche sociali ben note storicamente ai militanti politici di sinistra. Il quartiere pasoliniano è caratterizzato da una doppia realtà, da una parte un proletariato fatto di lavoratori dipendenti, piccoli artigiani e altrettanto piccoli commercianti, e una malavita inserita nel contesto sociale, una sorta di popolo del substrato del Pigneto. Negli ultimi anni il Pigneto ha subito la progressiva trasformazione da quartiere popolare a zona ricercata, “cool”, con nuovi residenti spesso politicamente schierati a sinistra. La moltiplicazione dei locali ha favorito inoltre la concentrazione serale e notturna di una popolazione di visitatori “occasionali, ma tendenzialmente stabili” fatta soprattutto di studenti, con qualche sostanziosa propaggine di sbandati, “tossici”, alcolizzati e pazzi cronici. Non ci sono infatti, a Roma, molte altre “isole così, senza regole, e dove l’orario non è mai stato un problema”. Facendo un passo indietro e ricordando la sua cultura popolare antica, seppure disperatamente e in

Silvia Cinti

forme un po’ retro, si respira aria buona e per niente malata. Questo luogo è ricco di retroscena infatti era stato scelto come scenario significativo per alcuni dei più importanti film del Neorealismo e non solo: da “Roma Città Aperta” (Rossellini, ‘45) a “Bellissima” (Visconti, ‘51); da “Domenica della brava gente” (Majano, ‘53) a “Il Ferroviere” (Germi, ‘55); da “Audace colpo dei soliti ignoti” (Loy, ‘60) per arrivare ad “Accattone” di Pasolini (‘60). Perché il Pigneto? Forse per la particolarità della storia che nelle sue vie si è stratificata: un intreccio fatto di gente semplice, umile, ferrovieri, operai, botteghe artigianali che pullulavano in una periferia sorta a pochi passi dal centro di Roma. Questo luogo, che affettuosamente lo stesso Pasolini chiamava “La corona di spine che cinge la città di Dio”, è proprio il Pigneto: vera e propria isola urbana, una piccola città nella città. Le storie dei residenti storici si plasmano con le voci dei nuovi abitanti, attratti in massa dal carattere così inusuale del quartiere, dal suo passato così presente. Da ieri a oggi si osserva l’incredibile commistione di lingue, stili di vita, compresenze, modalità relazionali e stratificazioni di senso presenti ovunque nelle vie del Pigneto. Là, Pasolini aveva voluto girare Accattone, il suo primo film: “Erano giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, nel cuore del Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma”. Nel Pigneto quindi vive questo doppia anima, una malata e irrisolta e l’altra carica di cultura e di bei ricordi. Qui, c’è movimento, sub-culture, divertimento, e sì, anche droga. Lo spacciatore dietro l’angolo e il punkabbestia con il fedele cane, che non ti vuole solo offrire una birra o chiederti gli spiccioli per prenderla, sono solo alcuni soggetti che si possono incrociare, ma c’è bella gente, bella con l’accezione di particolare. Se più verso la via Roberto Malatesta che taglia la parte tranquilla del quartiere, sorgono case residenziali per le famiglie cordiali, verso il Pigneto, dal fantomatico ponticello in poi che attraversa i binari della stazione e lascia alle spalle la Circonvallazione Casilina, ci addentriamo nel clou del rione. Dai cani sciolti ai murales colorati, dalla puzza di birra ai tavolini fuori che ti invitano a fermarti a bere un cocktail con gusto, dalle bancarelle sfiziose di qualche commerciante di strada ai simpatici vucumprà che ormai vendono di tutto. Quello che stupisce è come questo luogo di ritrovo dei giovani sia pieno anzi colmo di locali. La formula è vincente e crescono come funghi. Dai posti storici, a pochi passi dall’isola pedonale, Necci - una vera e propria istituzione del quartiere, un posto da segnarsi in agenda, con un ampio giardino e l’interno arredato in stile vintage - alla piacevole Bottiglieria dove puoi comodamente leggere un libro in compagnia di musica lounge, dal nuovo Birstrò, che sforna birre artigianali di propria produzione, a locali figli di questa zona in evoluzione, come l’Alvarado, al Pigneto. Il solo baccano che si sente dalla strada, fa intendere come suoni bene la musica al Pigneto. Quindi non solo birra a fiumi scorre in questo rione, ma cascate di musica di tutti i generi. Qui quello che cerchi lo trovi e ne resti a volte soddisfatto altre volte sei inebriato, e non dalla droga, ma decidi di restarci o, per i più fortunati, di venirci a vivere....

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Alvarado testo

Silvia Cinti

...io quello che cercavo l’ho trovato all’Alvarado Street, club in cui ho voluto dare un’occhiata dall’interno: le coordinate del GPS segnano Via Attilio Mori, 27 e quello che traspira suona più o meno così: Più realtà ricreate nello stesso spazio dal pub al club dove suona la musica più variegata e dinamica della scena culturale underground, diviso in due piani, questo locale offre diverse iniziative oltre alla musica dal vivo…


#CoverBeat Perché Alvarado? Centra con la citazione di Bukowski che compare nel vostro sito web? Perché sappilo: un buon locale, non si giudica solo dalla birra che offre e, anche se detto dall’ubriacone Bukowski non è comunque abbastanza… Ovviamente il nome Alvarado Street è il nostro omaggio a quel vecchio beone di Hank! La citazione che hai visto sul quadro è presa dal suo romanzo “donne” e Alvarado Street è la via dove lo scrittore C.B. era solito bere e folleggiare nelle sue lunghe e folli notti.

All’Alvarado suonano band, si beve ottima birra e soprattutto si incontra gente con cui scambiare opinione e si dibatte; è un punto di forza di un club quello di accomunare teste diverse sotto un unico tetto per far partorire qualcosa di creativo? Assolutamente sì! Questo mix creativo è un’arma buona che dà sapore a quello che facciamo e ci sprona a continuare nella direzione che abbiamo intrapreso. Penso che lo scambio tra persone apparentemente “differenti” sia senza dubbio un punto di forza.

In che anno è incominciata la vostra attività e soprattutto perché avete scelto il Pigneto come zona romana; c’è una ragione particolare e strategica oppure è capitato per caso? La scelta è stata assolutamente mirata. Quando abbiamo aperto il locale, due anni fa, abbiamo puntato su questo quartiere perché è un luogo che offre tante possibilità dal punto di vista culturale e della vita notturna. Abbiamo cercato di miscelare questi due aspetti e la scelta è stata azzeccata. Come siete subentrati nella gestione del Round Midnight e quali difficoltà avete incontrato? Venendo tutti e due (Carlo e Giulio) da esperienze precedenti l’impatto è stato alquanto “soft” e positivo sin dal principio. Vivere la notte fa parte di noi e ci piace come scelta. Qualcuno tra i gestori del locale è storicamente appartenuto alla vita del Pigneto, quindi in un certo senso si sente a casa, oppure già l’Alvarado è una casa vera e propria per voi? Nessuno dei due viveva o abitava o faceva parte della “scena del Pigneto”, ma ci siamo trovati benissimo sin dall’inizio. Inutile dirti che l’ Alvarado è ormai la nostra casa visto che passiamo qui la maggior parte delle nostre giornate e ne siamo contenti. Qui è tutto davvero molto bello, di chi è stata l’idea? Nostra, abbiamo impiegato parecchio tempo per tirare su il tutto poiché prima non c’era un locale qui! Quello che vedi è frutto della nostra inventiva. La concorrenza è spietata e nemica dei locali affollati che alimentano l’isola del Pigneto. Come pensate di reagire a questa problematica? In sostanza cosa offre il vostro pub/ club di più degli altri? La presenza di parecchi locali in zona non è assolutamente qualcosa di negativo per noi, anzi. Una zona come questa richiama parecchie persone e poi ognuno sceglie. Certamente il nostro punto di forza è la continua programmazione dal punto di vista della musica live che svaria su tutti i generi che abbiano a che fare con il rock nell’accezione più ampia del termine. Oltre a questo abbiamo anche un’ottima scelta dal punto di vista birrario (con un’ampia proposta di prodotti artigianali), dei distillati in genere e l’offerta di cibi vari tra cui anche quelli vegetariani. Quelli che frequentano Alvarado sono ragazzi e ragazze di quale fascia di età? Vi è tra loro lo skater, lo streetwriter, il nostalgico dallo stile indie-rock, oppure c’è semplicemente tanta gente normale? Te lo chiedo perché al Pigneto di gente normale neanche l’ombra… La nostra clientela è molto variegata e solitamente è differente da serata a serata secondo il live che proponiamo. C’è da dire che una buona fetta di aficionados è rappresentata dai ragazzi della scena punkrock/punk/hc romana perché è questa tipologia che caratterizza il locale e rispecchia maggiormente i nostri gusti.

Non c’è una vera e propria gerarchia. Qui abbiamo ospitato concerti dei più svariati generi: dal punk al folk, dal metal all’elettronica Hai parlato di musica dal vivo: è una carta vincente per il vostro locale? Ci sono prospettive o evoluzioni future? Sì, è la NOSTRA carta vincente! A proposito di prospettive, approfitto per parlarti del nostro primo Festival che si terrà nei giorni 4 e 5 di Aprile. Il nome dell’evento è “BANNED IN PIGNETO” ed è il 1° fest punk hc che organizziamo in prima persona: dieci band provenienti da panorami nazionali e internazionali e due giorni di musica. Info https://www.facebook. com/events/274090599422017/?fref=ts Raccontaci qualche concerto/evento che è stato particolarmente importante per la crescita non solo economica ma anche del nome Alvarado? Viste le premesse precedenti (siamo amanti del punk hc) sicuramente un evento che ci ha gratificati parecchio è stato il concerto dei “LA CRISI”, storica band della scena punk hc: stesso tetto insomma. Ai vostri concerti c’è qualche band che supera l’altra, nel senso che nel locale premiate più un genere musicale oppure siete della filosofia più ce n’è meglio è? Non c’è una vera e propria gerarchia. Qui abbiamo ospitato concerti dei più svariati generi: dal punk al folk, dal metal all’elettronica, dal dark all’hardcore ecc. Quindi, com’è lavorare all’Alvarado? Una bomba! Tanti nuovi amici e buona musica nel nostro locale, il tutto condito da ottima birra! Quale lavoro potremmo desiderare se non questo?

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#Usi&Abusi

#Usi e JAN MICHEL BASQUIAT

Il James Dean dell’arte moderna “Io non penso all’arte quando lavoro, io tento di pensare alla vita.”

testo

Alfonso Russo


Se si pensa al Graffitismo Newyorkese, importante fenomeno culturale nato dal movimento hip-hop negli anni settanta per raggiungere dieci anni dopo il massimo fulgore, saltano subito alla mente i nomi di Keith Haring e Jan Michel Basquiat, quasi fossero naturali sinonimi dello stesso. Ma è proprio il secondo che probabilmente meglio rappresenta la valenza sovversiva, lo spleen emotivo che attraversavano il mondo dell’arte nella New York di quel periodo. È proprio Basquiat ad impersonare la trasgressione e la smodatezza che pulsano nel ventre profondo della “Grande Mela”. Genialità, vibrato dissenso; un grimaldello per violare le regole del perbenismo, dell’ipocrisia, un’altro per dischiudere le porte dell’immaginifico, per esplorare i propri confini in quella esplosiva implosione che brucia, cullando le confortanti molecole degli alcaloidi, dilatandosi nelle distorsioni lisergiche, l’intera esistenza. Graffiti stilati da un’io ipertrofico e visionario al contempo campeggiano spaziando in un mondo refrattario, rimbalzando dalle subway ai vernissage logorroici dei pagliacci del centro. Dal fermento caldo delle trame suburbane ai loft minimalisti che ne esaltano il vigore. Talento precoce quello di Basquiat, curioso fin dalla prima infanzia di immagini, di colori e di cartoon. Ispirato dalla madre che lo accompagna spesso a visitare i musei d’arte di New York, interiorizza immagini destinate presto a coagularsi per esplodere poi nella sua creatività. All’età di otto anni, durante una degenza in ospedale, a seguito di un grave incidente che gli costerà l’asportazione della milza riceve in regalo dalla madre un libro che segnerà profondamente il suo percorso artistico: Grays anatomy. Gray sarà infatti il nome del gruppo musicale che fonderà successivamente insieme all’amico Vincent Gallo. E numerosi richiami anatomici saranno in seguito presenti in molte sue opere. Straordinariamente intelligente, tanto da parlare e scrivere in tre lingue già ad undici anni; nutre molteplici interessi tra cui la boxe che diventerà per lui una filosofia, uno stile di vita. Nel 1983 si concretizza una profonda ami-

cizia con Andy Warhol, frutto di un incontro casuale avvenuto qualche anno prima in un ristorante dove Jan Michel era entrato per vendere i suoi disegni. Questo incontro cambierà la sua vita aprendogli le porte ad pubblico più vasto e consegnando l’artista ad una notorietà nuova e sconosciuta, tanto da essere definito” fenomeno mondiale emergente”. L’accesso alla “factory” del Re della pop art gli dà modo di frequentare i più importanti circoli ritrovo di artisti, e di confrontarsi con i nomi più noti della scena Newyorkese. Èproprio in quel periodo infatti che conosce Keith Haring e stringe con lui una profonda amicizia che durerà per tutta la vita. Nel 1984, su commissione, inizia una collaborazione artistica di dipinti a sei mani con Andy Warhol e Francesco Clemente, in seguito insieme a Warhol realizza più di cento quadri allestendo una mostra il cui manifesto divulgativo evoca il mondo della boxe che egli stesso paragona a quello della pittura. La sperimentazione nell’arte di Basquiat rappresenta la ricerca di un mondo “altro”, un viaggio nei limbi traslucidi dello spazio-tempo sublimato dalla coscienza di un relativismo,cui gli acidi lisergici danno corpo e colore per approdare alla libertà di figure e tinte dai risvolti inquietanti, sulfurei. Intanto l’uso massiccio di eroina ed alcune critiche malevole che lo fanno sentire incompreso, come un articolo del N.Y. Times, che lo definisce “mascotte di Warhol”; innescano in lui dei veri e propri disturbi psichici che sfoceranno presto in violenti attacchi paranoici anche a danno dei suoi amici che invano cercano di aiutarlo a smettere. Nel 1987 a seguito di una malcurata malattia alla cistifellea, Andy Warhol muore e l’uso di eroina che Basquiat assumeva già da troppo tempo cresce in modo esponenziale fino a divenire insostenibile per il suo fisico così a lungo provato. Basquiat muore per una grave overdose di eroina nel 1988. È definito il James Dean dell’arte moderna per la sua carriera folgorante e breve. Forse uno come lui non poteva resistere più a lungo in un mondo così avulso dalla sua siderale diversità.


Ladre di dettagli intervista a Karen Natasja Wikstrand testo

K

Agnese Trocchi - foto Karen Natasja Wikstrand

aren Natasja Wikstrand abita nella campagna romana, accanto al parco degli acquedotti, in un casa antica immersa nell’oscurità. L’intervista con Karen si è svolta di fronte al caminetto, con un buon bicchiere di vino rosso. Un’atmosfera della Roma rinascimentale, fuori dal tempo. Le sue foto, scattate con un oggetto di un futuro che viviamo quotidianamente, lo smartphone, appese ai muri di una magione antica. Ho intervistato Karen per indagare insieme a lei e attraverso il suo lavoro, il modo in cui il telefono cellulare si è trasformato in uno strumento di strada con il quale è possibile raccontare creativamente per immagini la realtà cittadina fatta di piccoli dettagli urbani. La fanciulla, svedese di nascita ma romana di adozione, racconta così il presente del mondo. Ecco le sue parole:



Ho letto nella tua biografia che hai fatto molte cose, ti sei dedicata alla pittura e al teatro, quando è che hai deciso di dedicarti alla fotografia? È stato più o meno tre anni fa ma inconsapevolmente. Ho iniziato a utilizzare il telefono, che avevo sempre a portata di mano, per raccontare un po’ quello che mi accadeva intorno. All’inizio l’ho fatto solo per gioco, le classiche foto tra amici, poi ho iniziato a rendermi conto che quando non scrivevo mi completava molto; scrivevo e poi vedevo delle cose e mi piaceva lasciare sui social network qualcosa di visivo oltre che di scritto. Ho capito che potevo utilizzare questo strumento per raccontare e ad un tratto mi hanno iniziato a dire, ma lo sai che sei brava? Mi hanno spronato a farci qualcosa che si è trasformato inizialmente in una mia presenza ad un foto festival in Danimarca nel giugno 2013. Mi hanno chiesto di partecipare con una foto nella sezione Instagram e dunque ho fatto una versione Instagram della foto, e poi nel dicembre 2013 ho partecipato a “I Luoghi dell’Anima”, una mostra di arte contemporanea su Genova a cui partecipavano anche altri artisti, scultori e videomaker, ed io ero l’unica fotografa.

Che tipo di programmi usi per i filtri? In genere uso Instagram e poi mi trovo molto bene anche con altri programmi come Pixlromatic. Ne esistono molti e con il passar del tempo ho capito quali sono quelli che preferisco. Già so quella foto come la voglio lavorare, so quale applicazione usare. Ultimamente sto lavorando anche con un bianco e nero che ha qualche sfumatura di avorio e che mi piace moltissimo.

Che importanza ha il luogo dove vivi nelle foto che fai? Direi che forse è pari all’importanza che ha avuto il luogo dove sono vissuta e io ho cambiato casa tantissime volte. Sono nata e cresciuta in Svezia e dunque ho anche un modo di vedere scandinavo. Credo che mi abbia influenzato tantissimo questo. Una persona che lavora nel campo del cinema ha visto alcune foto mie e ha detto: “Ma qui c’è lo zampino di Ingmar Bergman. Questi chiaroscuro così contrastati, così forti.” Non posso dire di aver visto molti film di Ingmar Bergman ma sicuramente da piccola aver vissuto in quel posto e aver avuto tutti input di quel tipo in qualche modo mi ha influenzato. Dunque sono importanti sia tutti i luoghi che ho vissuto e che trattengo dentro di me, sia sicuramente Quindi questo lavoro con la fotografia a partire dall’utilizzo del cel- il posto dove vivo. Credo che sia un matrimonio tra le due cose: vite lulare è iniziato quando hai avuto il primo smartphone? passate tra varie città e la città in cui vivo adesso, Roma. Ho iniziato la Sì, più o meno sì, assolutamente. Non è stato un caso che ho ripreso scorsa estate a fotografare molto San Lorenzo perché mi trovavo lì per questa forma di espressione perché la fotografia mi è sempre piaciuta un lavoro, stavo facendo da assistente ad un regista internazionale, e ma l’ultima macchina fotografica risaliva forse al 2000, e quindi non mi sono detta: “Sarebbe bello se mi concentrassi sui vari rioni, Rione avevo scattato per molto tempo. Sono stata fidanzata con un fotografo Monti, San Lorenzo, e facessi delle foto e poi le presentassi in alcuni che sicuramente mi ha ispirato, mi ha dato la voglia di iniziare questo locali tipici di quel posto. A Monti me lo hanno chiesto. percorso. Oltre che fargli da modella gli facevo anche un po’ da assistente. Lui scattava e io dentro di me pensavo: “Ma io avrei scattato Il cellulare in qualche modo è uno strumento di strada come poquesto, avrei fatto questa foto.” trebbe essere la bomboletta per il writer. Sì, sono d’accordo, il cellulare si presta moltissimo alla fotografia street. L’immediatezza che ha il fare le foto con lo smartphone rispetto ai Vedi qualcosa di particolare, tiri fuori il cellulare, può sembrare anche tempi dello sviluppo fotografico, ed il fatto che le puoi subito con- che stai mandando un messaggio. È abbastanza anonimo. Se tiri fuori dividere, ha una rilevanza nel tuo percorso artistico? una macchina fotografica si vede di più e la gente comincia un po’ a Sì, direi di sì, perché voglio raccontare, mi piace raccontare quello che stranirsi. Io di solito tolgo il rumore dello scatto perché se si sente lo mi accade. A volte ci sono delle piccole storie. Poterle lavorare diretta- scatto la gente tende a girarsi, mi piace non dare fastidio alle persone, mente (uso dei piccoli programmi che ho sul cellulare) e presentarle lo mi piace rubare gli attimi, questo è vero, sugli autobus, in giro per le stesso giorno, anche dopo cinque minuti, sicuramente è più facile che strade. Certo se hai una bomboletta in mano ti capita un muro, una riportarle sul computer e doverle lavorare. C’è un processo molto più parete libera e se nessuno ti viene a rompere le scatole, ti metti a lavolungo se si usa la macchina fotografica. È anche vero che con lo smar- rare subito e il cellulare in questo è molto più immediato che la mactphone che uso io (uno smartphone semplicissimo, i pixel sono pochi) china fotografica, che è anche più ingombrante. C’è anche da dire che l’unico problema è che non si possono poi fare delle grandi stampe. la macchina fotografica ha un universo di cose interessanti rispetto ad


#ContemporaryArt uno smartphone che è più limitato. Non sono cose che si possono paragonare alla fine. I grandi fotografi non fanno le foto con i cellulari. La mia idea è far vedere che si possono fare cose interessanti, diverse dai soliti autoritratti, si possono anche fare delle foto con un certo spessore. Voglio puntualizzare che i grandi fotografi sono altri, a me piace considerarmi una storyteller, una che racconta qualcosa che ha vissuto e che ha visto, o che ha rubato. Lo spessore dipende dallo sguardo, dal modo in cui guardi. Fare foto di un certo spessore con lo smartphone dipende dal modo in cui guardi quel momento, quell’istante. Sì credo che bisogna essere un po’ attenti, bisogna avere un ottavo senso. Magari quello che io noto non lo nota la persona che sta accanto a me quindi stare attenti ai piccoli dettagli e avere anche un occhio, quello sicuramente aiuta. Io non ho tecniche particolari, non ho fatto scuole, non ho fatto corsi, ho visto tantissimi film, sono una grande appassionata di film. Un po’ di bagaglio ce l’ho, rubato anche quello, esperienze di vita.

e sta prendendo il sole è un momento quasi magico. L’ho trovato molto romantico ed intimo. Raccontare ad altri quello che ho visto. Questa foto faceva parte della mostra “I luoghi dell’anima” del dicembre 2013 a Genova. Hai colto dei momenti nei rioni genovesi? Le foto in mostra che riguardano Genova sono uno studio della città, ero molto curiosa. Ero stata a Genova prima ma non la conoscevo poi una volta che uno si arma dello strumento diventa interessante cercare delle cose in particolare e sono stata nei luoghi un po’ più difficili dove è difficile scattare. Se ti vedono con qualcosa in mano si arrabbiano. Mi è piaciuto moltissimo fare delle foto per un progetto che ho chiamato We are all shadows,: ogni mattina alle 9.30 mi affacciavo alla finestra che dava proprio su via del campo e c’era una fascia di luce per un breve momento, 15 minuti, mi piaceva moltissimo osservare le persone che passavano e fotografarle dall’alto perché poi dietro di loro c’erano le loro ombre che le seguivano. Era divertente vedere vari personaggi che facevano ombre diverse. Quel momento mi è piaciuto tanto ed era diventato una routine ogni mattina. Ho fotografato molto il porto e la parte vecchia di Genova. Ho scattato attimi di signore alla finestra che stendevano panni, preti che parlavano con i negozianti, signore che aspettavano a braccia conserte fuori da una chiesa, era molto bello poter fermare momenti dove c’era una relazione tra l’essere umano e la città.

Taggare con una bomboletta è un modo per segnare il territorio. Fare degli scatti con lo smartphone è anche questo un modo per appropriarsi di qualcosa, per segnare il territorio? Credo molto meno. A meno che poi non li utilizzi per fare qualche cosa come una mostra, qualcosa di più grande. Come dicevano gli indiani d’America, uno ruba l’anima facendo le foto. Perché no. Magari ti appro- Continuerai a lavorare esplorando le possibilità che ti da lo smarpri di qualche cosa che appartiene a qualcun’altro e metti la tua firma. tphone? Sì, ho ripreso in mano la macchina fotografica che però uso meno di Quando rubi uno scatto in strada cosa è che desideri? Cosa cerchi? quanto uso il cellulare. Di fotografi ce ne sono veramente tanti che, non Cosa ti anima? solo sanno usare bene la macchina fotografica, ma sanno anche fare Un po’ l’idea di averlo fatto mio, poi se è una cosa particolarmente bella bene i lavori in post-produzione e quindi è un mercato molto vasto. che ha a che fare con i sentimenti mi piace poterla condividere. Come Mi piace l’idea di essermi creata questo mondo che si avvicina moltissiquesta foto che si chiama Love at second sight - (nella foto in alto): c’era mo alla città e all’immediatezza delle cose e della vita. questa coppia di una certa età ed io ho colto un momento in cui lui la Sì, continuerò ad usare il cellulare per realizzare progetti che mostrino guarda e per me l’espressione sua mentre la donna ha gli occhi socchiusi come con mezzi normali, di uso quotidiano, si possa creare.

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La letteratura è una sfida

intervista allo scrittore iracheno Hassan Blasim testo

Agnese Trocchi - traduzione Barbara Teresi


#Books “Agli inviti dei pochi amici critici rispondeva citando lo scrittore ungherese Béla Hamvas: “In casa impari a conoscere il mondo, mentre in viaggio impari a conoscere te stesso.” A quasi cinquantasette anni, Khaled al-Hamràny non aveva mai lasciato la sua citta.” (Hassan Blasim, Il Mercato delle Storie in Il Matto di Piazza della Libertà, il Sirente ed.)

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e Khaled al-Hamràny, personaggio del racconto Il Mercato delle Storie, non si è mai mosso dalla piazza del mercato della sua città, lo stesso non si può dire del suo autore, lo scrittore iracheno Hassan Blasim.

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assan Blasim, che oggi ha poco più di 40 anni, è fuggito dal proprio paese natale, l’Iraq in seguito alla realizzazione del film The Wounded Camera e nel 2004 è giunto come rifugiato in Finlandia, dove tutt’ora vive. Vincitore nel 2012 del premio Writers in Translation del Pen International grazie alla raccolta di storie brevi tradotta in inglese da Jonathan Wright con il titolo The Iraqi Christ, Hassan Blasim ha un solo libro tradotto in italiano: Il Matto di Piazza della Libertà. Il Matto di Piazza della Libertà è una raccolta di racconti edita in Italia da il Sirente nel 2012. Una mostra delle atrocità narrate con l’occhio lucido e visionario di chi sa che al di là delle differenze culturali, religiose, razziali, siamo tutti sulla stessa barca in un viaggio il cui fine non è altro che il viaggio stesso. Racconti dell’assurdo dalle tinte noir ed ironiche che descrivono un mondo onirico e reale al tempo stesso. Il sogno, il viaggio, la violenza e gli orrori della guerra sono i temi portanti dei racconti di Blasim che parlano di persone comuni che il più delle volte, come nel caso de il protagonista di Il Mercato delle Storie, non si sono mai mossi dal loro quartiere o che, come Carlos Fuentes, emigrato iracheno in Olanda nel racconto Gli Incubi di Carlos Fuentes, non sono mai riusciti a liberarsi dai fantasmi del loro “rione”. La mia intervista con Hassan Blasim è avvenuta via e-mail grazie alla traduttrice in italiano di Il Matto di Piazza della Libertà, Barbara Teresi. Dove sei nato? Che ricordi hai del quartiere dove sei cresciuto e quando lo hai lasciato? Sono nato a Baghdad e all’età di cinque anni mi sono trasferito con la mia famiglia nella città di Kirkuk. Quando è scoppiata la Guerra Iran - Iraq, avevo sei anni e ho iniziato le elementari. Kirkuk era una città in tumulto per via della resistenza curda oltre che della guerra. A scuola, nell’ora di educazione artistica, ci facevano disegnare carri armati e soldati che sparavano a Khomeyni e alla sua barba. E non ci insegnavano i nomi dei fiori che sbocciavano intorno a noi, in città. Fiori selvatici di diverse forme e colori. L’insegnante di matematica frustava gli alunni con la cintura dei pantaloni. E mio padre faceva violenza a mia madre in modo sistematico e per le ragioni più sciocche. Assistevamo alle esecuzioni capitali. Ne ho parlato in uno dei miei racconti. C’era una piazza polverosa accanto al quartiere in cui abitavamo. Noi ci giocavamo a calcio. In quella piazza giustiziavano, sotto gli occhi di tutti, i soldati disertori e i partigiani della resistenza curda. E, per spaventare tutti gli altri, lasciavano lì i pali di legno su cui avevano legato i condannati a morte. Noi bambini li prendevamo per farci le porte del nostro campo di calcio. In un rione o vicinato spesso le differenze convivono all’interno della stessa comunità. Pensi che la società irachena e quella europea stiano perdendo il tesoro della diversità culturale? La città di Kirkuk era caratterizzata da una straordinaria multietnicità: turkmeni, curdi, arabi, assiri cristiani. Purtroppo oggi i politici corrotti non hanno abbastanza immaginazione né volontà per conservare questa ricca, incredibile eterogeneità. È vero che il dittatore ha creato alla città moltissimi problemi, ma è pur vero che i politici iracheni oggi

sono impegnati a rubare gli ingenti capitali del petrolio e alimentano le ostilità tra gruppi etnici e religiosi per il proprio tornaconto personale e per via di una limitata coscienza politica. La multiculturalità è l’unica opzione che abbiamo per poter vivere in pace in questo mondo, tanto più perché possediamo un patrimonio umano condiviso . Bisognerebbe esercitare una maggiore pressione sui politici e su chi ha potere decisionale, ovunque nel mondo, per consolidare il principio di multiculturalità nei diversi settori dello sviluppo e per mezzo di politiche sociali. In ogni quartiere di solito c’è “il matto del villaggio”. Il Matto è una figura che ritorna di frequente nei tuoi racconti, spesso ne è addirittura il protagonista. Cosa rappresenta il Matto per te? Gran parte della violenza in Iraq è follia, isteria delle generazioni vissute sotto il pugno duro del dittatore. E oggi, purtroppo, una nuova generazione sta crescendo all’insegna delle milizie religiose e del terrorismo. In alcuni miei racconti la follia è forse la sola idea in grado di muoversi agilmente nella terrificante realtà dell’odierno Iraq: una cella di dolore e sangue. Cosa succede ad una persona quando viene strappata dalle proprie radici? A mio parere lo sradicamento è il miglior regalo che si possa fare alla conoscenza e alla riscoperta di sé. Che importanza ha il linguaggio di strada nella tua scrittura? Sulla questione della diglossia nei paesi arabi mi sono espresso in passato in più di un’occasione. Io stesso continuo a scrivere in arabo classico, ma cerco di epurarlo dalla retorica, dai simbolismi e dal gergo giornalistico e di usare molto l’arabo iracheno nei dialoghi. E nei miei prossimi scritti cercherò di usarlo ancora di più. Del resto tutti i bambini del mondo, quando vanno a scuola, hanno diritto a imparare la loro lingua materna. Noi invece andiamo a scuola e ci scontriamo con la lingua araba, che ci appare come una lingua straniera: le parole “casa”, “tavolo” o “lampada” non sono le stesse che usiamo a casa, e la maggior parte delle parole suonano estranee alle orecchie di un bambino delle elementari. L’arabo classico è una delle prigioni del mondo arabo. Tu impari qualcosa che appartiene al passato, mentre le tue emozioni e la tua immaginazione si muovono nel contesto della lingua parlata, quella usata oggi. Bisognerebbe pensare seriamente a rinnovare la lingua araba. Che relazione c’è tra il linguaggio in cui scrivi e quello in cui sogni? È un perenne conflitto. Ma nonostante tutto è possibile fare in modo che la lingua letteraria obbedisca all’immaginazione e ai sogni. I sogni sono sempre una parte molto importante dei tuoi racconti, molti dei tuoi personaggi vivono contemporaneamente nel mondo reale e nel mondo onirico. Pensi che ci sia qualcosa di simile ad un “vicinato”, ad un rione, anche nel mondo onirico? Uno spazio che condividiamo con gli altri? Sì, è vero, do molta importanza ai sogni, perché il sogno è un terreno fertile, misterioso e stupefacente su cui ancora sappiamo poco. Il mondo continua senz’altro a indagare a fondo nei dettagli del sogno, ma non è ancora arrivato a captarne l’essenza segreta. La gente sogna ovunque e questa è una caratteristica meravigliosa che ci contraddistingue in quanto esseri umani. Credo che nel mio prossimo romanzo tratterò il tema del sogno dal mio personale punto di vista, cosa di cui non posso parlarvi qui così di fretta. Può un quartiere contenere l’intero universo di storie possibili come spiega Khaled_al_Hamràni in Il Mercato delle storie? A dire il vero, l’idea de lI mercato delle storie mi è venuta dopo aver letto più di un’intervista a un autore iracheno che sostiene che scrivere dell’Iraq oggi sia molto difficile perché la spaventosa realtà del Paese “supera” ciò che su di essa possiamo scrivere. Secondo me questa è un’assurdità. La letteratura è una sfida. E oltretutto non ha a che fare soltanto con gli avvenimenti del presente neppure quando affronta temi d’attualità. La violenza in Iraq, per esempio, è un’estensione della violenza che l’uomo esercita dai tempi delle caverne e fino ai nostri giorni, con i missili intelligenti americani. Analizzare la realtà in questo modo è tra i compiti della letteratura. Il racconto Il mercato delle storie è uno dei modi possibili per sfidare la violenza. Persino il più semplice particolare di un mercato popolare può diventare una storia universale ed esprimere le nostre inquietudini, le nostre gioie, il nostro essere smarriti in questo mondo.

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#RiservaUrbana

TRIS! a cura e di

Ruben Toms

T

re book, stavolta la Riserva Urbana fa tris. E se ai lettori che seguono questa rubrica dovesse venire il prurito di leggerli, magari in contemporanea, assicuro dosi massicce di coraggio, altruismo e fantasia.

“Storie” di Robert McKee, edito da Omero Edizioni. Ho avuto la fortuna anni fa di partecipare ad uno stage con lui: ancora mi fischiano le orecchie. I suoi contenuti, la struttura, lo stile, i principi per la sceneggiatura e per l’arte di scrivere una storia, fateli vostri, prendeteli a morsi, masticateli bene e, una volta digeriti, provate a scrivere una sceneggiatura basandovi su questa domanda che ho letto su un muro a Napoli: E se fosse finito il nostro turno di fare gli Occidentali? McKee consiglia di fare molta attenzione alla forma e di lasciar perdere le formule. Ti fa vedere più di cento film e ti snocciola altrettanti esempi. La sua filosofia è di non basarsi su rigide regole, ma piuttosto sui principi su cui una storia si fonda. “A Lakota War Book from the Little Bighorn. The Pictographic Autobiography of Half Moon” di Castle McLaughlin, pubblicato dalla Harvard Library di Cambridge, Massachusetts. Per quelli che, come il sottoscritto, parteggiano per gli Indiani d’America, è un libro che ti manda in visibilio. La battaglia di Little Bighorn vista dal punto di vista dei Lakota, dei Cheyenne, degli Arapaho: i guerrieri che sconfissero il 7° cavalleggeri del vanaglorioso Custer. I disegni dei Nativi Americani ritrovati nella tomba di un capo indiano raccontano una versione differente da quella raccontata dai film statunitensi. E poiché per me hanno ragione i Figli delle grandi pianure e torto i blue soldiers, guardate le immagini, ascoltatele: esse parlano più forte delle parole scritte con inchiostro biforcuto dall’Uomo Bianco. Bellissima l’introduzione di Chief Joseph Brings Plenty. “Daisaku Ikeda, idee per il futuro dell’Umanità” è un libro necessario, destinato a diventare fondamentale non solo per i buddisti. Ringrazio Antonio La Spina per averlo scritto e naturalmente anche tutti quelli che hanno collaborato con lui e gli Editori Internazionali Riuniti che l’hanno pubblicato. Daisaku Ikeda, filosofo e scrittore, attraverso la Soka Gakkai Internazional è il Maestro spirituale di oltre 12 milioni di donne e uomini e, particolare niente affatto trascurabile, è il mio Maestro. Nei suoi scritti, tradotti in trenta lingue, si è misurato con le grandi sfide che oggi più che mai, il genere umano ha di fronte. Dal disarmo nucleare alla riforma delle istituzioni di governo mondiale, per non dire poi dei diritti umani e dell’evidente deterioramento dell’ambiente naturale. Daisaku Ikeda, insieme al Dalai Lama e a Thich Nhat Hanh, è uno dei principali leader buddisti del Pianeta. La prefazione è di Adolfo Perez Esquivel, un autentico e vero Premio Nobel per la Pace.


#Poetry

‘Round Midnight testo

Jan Hassermann

Miedo!

D

igeriamo il mondo, stanotte, dal binario deforme di un treno sgretolato. Marmi e locuste occultano l’ovattato calore che ci spinse, che ci dannò all’urlo stupito: derelitto, ansante bagordo d’estate. Tragico, umano, alquanto indigesto, un moto d’ira tinge il livido assenso del poi, trama, pervade. Inesorabili arabeschi, arcani riposti nei meandri del se, si profilano avidamente protervi, mutevolmente deformi come custodi di archivi contornati di demenza. Logge, bastioni protesi al baratro danzano evanescenti. Pallidi vulcani annunciano tramonti di zolfo. Fuliggine. Antracite. Amniotico vagare.... Miedo matador??

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#About

La Sosta ...La disintegrazione del tempo! testo

Ginaski Wop


nel

1981 a Villa San Giovanni apre la sosta.

da allora, le porte del jazz club hanno visto passare fior fiore di jazzisti di fama mondiale e la sosta ha rappresentato un meltin pot per tutti coloro che hanno deciso e decidono di raccontarsi e riconoscersi fra sound e voglia di vita, in una dimensione atemporale. incontro mimmo: mente, braccia e cuore del club... ci conosciamo da una vita, ma, vuoi per il livello di rum e birra che abbiamo in corpo, o forse semplicemente per prenderci gioco di chissà chi o cosa, decidiamo di dare un tono iperformale all’intervista dandoci del

Lei!

Benvenuti a La Sosta... Cheers! Com’è nata l’idea del jazz? E soprattutto come è nata l’idea di fare del jazz in un luogo in cui il jazz era inseistente... L’idea è nata dal fatto che amo molto la vita ed il concetto fondamentale del vivere; e a mio avviso il jazz è un buon modo per amarla.

Perché come logo per La Sosta ha deciso di adottare il simbolo dell’anarchia? Era conforme ai tempi in cui ho aperto la Sosta. Adesso invece indica un luogo dove puoi fermarti, dove stare bene, in libertà emotiva… E poi di base io sono così, mi sento così, è un simbolo che mi identifica. Il concept di questo numero di C magazine è incentrato sull’idea di Mi viene in mente il concetto di mano destra e mano sinistra: la mano Bar e Barrio… un locale puà essere un quartiere? sinistra è la mano del cuore, la destra invece ti dice che se vuoi andare a Il locale prevede un contesto notturno e di conseguenza nel corso degli lavorare vai... fanciullo! Ma nell’opinione logica del concetto del vivere, anni diventa una sorta di confessionale. In tanti vengono qui al bancone non dovrebbe esistere né mano sinistra né mano destra… muoversi solo e mi raccontano le loro storie. Una cosa spettacolare! Io faccio da me- in un sentiero Altro. diatore attraverso la musica e l’alcol… posso far dimenticare o far gioire chi in quel momento ho davanti e mi racconta la sua vita. E alla fine ci Il jazz può lenire la follia? si conosce un po’ tutti, proprio come in un rione. Sono un esaltatore di Assolutamente si! Il corpo è fatto di sensi… e la musica ti sposta dal tuo emozioni. In fondo tutti cerchiamo la felicità… quotidiano. E qual’è l’etica del Suo “rione”? La mia etica è che due occhi, un naso, una bocca, un corpo… fanno più di qualsiasi parola! Qui alla Sosta hanno suonato tanti jazzisti di fama internazionale, e anche tanti cantautori della scena italiana, ricordo un Cammariere pre successo sanremese, Capossela... chi fra tutti Le è più rimasto nel cuore? Sicuramente Claudio Lolli! Lolli, è un Guru. È uno che esprime in modo vero quel che sente e vive. Anche Vinicio è un grande… ma Claudio Lolli è quello che mi ha lasciato di più, anche perché non si è mai allontanato dalla sua linea che è cercare di scardinare il vivere, cercare di far capire che la vita e troppo carina per lasciarcisi fottere da essa. La gente si è allontana dal jazz o il jazz si è allontanato dalla gente? Domanda da 100.000.000 di dollari…. Credo che un po’ in tutta Europa si stia perdendo il concetto culturale in generale. Poi dovremmo capire il perché. In fondo, cade Pompei, ma qualcuno l’ha fatta cadere… mi spiego? Le racconto una storia: tempo fa, qui vicino, c’erano delle palme bellissime, che sono state tagliate… arrivata la primavera le rondini dovevano nidificare. Stormi incantevoli di rondini… Non avendo dove andare si sono spostate su altri alberi poco più distanti da qui. Alcune persone si sono lamentate del rumore causato dalla rondini, quindi sono stati tagliati anche gli altri alberi… La musica e la cultura in fondo, non sono alberi in un concetto metafisico? Se tu mi tagli via i rami, gli uomini dove andranno a deporre il nido?! Dal Suo bancone passano tutti… persone di ogni estrazione sociale e culturale. Lei, inevitabilmente, ne assorbe ogni aspetto… la mattina dopo, quando si guarda allo specchio, chi o cosa è diventato? Io tendo a non guardarmi allo specchio…. perché a volte non ho voglia di vedermi. Credo non esista comunque un espressione in quanto tale. Ritengo che, come dice il detto, quando stiamo seduti sul cesso siamo chiunque!

Quindi meno manicomi e più jazz club? Assolutamente! La musica è un superamento. Chi cantava blues cantava nelle risaie… La musica ti restituisce un po’ ciò che il mondo non ti ha dato! Il bancone della sosta rappresenta una libreria spezzata in due. Forse l’aggegrazione rimette insieme i pezzi? In senso filosofico si... e mi approprio della parola “filosofico”. Però l’idea originaria era di disintegrare il tempo. Perché la vita può essere anche altro… ad esempio, liberarsi. Il fatto che nei bagni del Suo locale - e lo so per certo ovviamente, si siano consumati amplessi, La rende un po’ padre del piacere? Ho amato questa cosa e la amo ancora. Amo la gente che durante la notte può lasciare una calza o una mutanda nel bagno. Non conosco la vita di queste persone o quel che fanno una volta che tornano a casa… ma quello che so, è che per una notte, nel mio locale, lei o lui hanno vissuto un momento spettacolare! La Sosta percepisce finanziamenti pubblici per la stagione jazz? Assolutamente no! Faccio tutto a spese mie, senza ricevere nulla di pubblico e istituzionale. È tutto autofinanziato, frutto del mio pane quotidiano. Affinchè la mia vita non sia mai un leccarci imperiale. Una Sua definizione di club e di alcool Stare bene nel mondo. Una definizione che può essere associata a qualunque cosa che ti fa stare bene. Puoi trovare questa condizione nella musica, nel cibo, in altri luoghi. Il club è un luogo in cui la gente si racconta.. un gioco di esistenze. Nel frattempo Le ho scroccato 3 Marlboro… quanto Le devo? mmmhh… 500 euro, anzi 300… anzi… quanto cazzo mi vuoi dare? (ride) Chiudiamo così: consigli un brano da ascoltare a fine intervista, come se adesso fosse Lei a trasmetterlo ai lettori Un brano di Luigi Tenco che si chiama Vedrai Vedrai…


L’Uomo d ESERGO post-temporale Conobbi Beto nel 2004, a Centro Habana. All’epoca, a Cuba, avere un cellulare era ancora un lusso. Lui, andava in giro con un porta-cellulare nella cintura che fungeva da fontina per il suo serramanico... 10 anni dopo tornai a vivere a Centro Habana... Beto non aveva più il suo serramanico e andava in giro con un cellulare di ultima generazione... Rapidamente mi fu chiaro che qualcosa era cambiato in quel Barrio!

testo

Ginaski Wop

B

eto era l’uomo del Barrio. Quarantacinque anni, capelli leggermente mossi, brizzolati, pettinati all’indietro, fronte spaziosa, occhi castani leggermente accinati, carnagione olivastra, labbra sottili e voce roca e profonda. Quando parlava lasciava scivolare da ogni ultima vocale un leggero vibrato, come fosse il retrogusto delle parole. Sempre molto profumato, indossava delle camicie fasciate, sbottonate fino al petto facendo intravedere una sottile catena d’oro con un crocifisso. Pantaloni a tre quarti di giorno e jeans nord americani di notte. Aveva una gran cura del suo look, tranne che per le scarpe. Amava indossare delle vecchie ciabatte estive che io avevo abbandonato nel ripostiglio di casa in quanto ormai le davo per distrutte. Lui era riuscito a ripararle e renderle come nuove, e da allora non se ne sbarazzava mai, come fossero un bottino pregiato. Non aveva nemmeno dovuto rubarle effettivamente, anzi, aveva compiuto un’ ottima e ben riuscita opera di riciclaggio. Una grande cicatrice sul polso della mano destra, in ricordo di una vecchia rissa scoppiata quando lavorava presso il Cabaret Palermo come barman, giusto per sbarcare il lunario in maniera più o meno legale, finita con un colpo di machete inferto da una giovane mano inesperta che per fortuna non aveva avuto il tempo di affondare bene il colpo che avrebbe causato altrimenti un’inevitabile amputazione. “E pensare che l’ho cresciuto io quello stronzo. Io gli ho insegnato i trucchi della strada, e guarda un po’ come mi ha ripagato”, ripeteva più volte mentre esercitava i tendini stringendo e aprendo la mano. Era abilissimo a soddisfare i desideri dei turisti rincoglioniti, che in fondo lui vedeva solo come un business da spremere e intimamente disprezzare, che arrivavano in cerca di sballo e donne giovani poco costose, immaginando di aver trovato il tanto ambito paradiso terrestre. Quel paradiso che avrebbero poi salutato dopo qualche settimana per tornare nei loro squallidi uffici, nel loro squallido Paese e fra le braccia di una famiglia della quale forse non avevano poi così tanta stima. Uno degli optional di cui andava più fiero era un porta cellulare in cuoio con le cuciture fatte a mano, di quelli che si

possono agganciare alla cintura dei pantaloni. Non sono mai riuscito a sapere dove lo avesse recuperato. Il fatto è che Beto non possedeva un cellulare, usava quell’oggetto come fondina per il suo serramanico. Quante volte di ritorno da una bevuta l’ho sentito dire: “Fratello, non sarà un cellulare di ultima generazione, ma ti assicuro che in certi casi con questo si comunica benissimo!”. Quando ancora lavorava al Cabaret Palermo, spesso andavamo a trovarlo, e dopo la chiusura potevamo godere del privilegio di un club tutto per noi, con uno dei banconi circolari più grandi del mondo costruito intorno agli anni ’50, invitare un po’ di donne e fare gli Humphrey Bogart alle spese dell’ignaro gestore. Sarà per questo che dopo qualche mese Beto venne licenziato. “Ma chi se ne frega – ripeteva - tanto io lo facevo solo per dimostrare agli sbirri che un lavoro ce l’ho, altrimenti in questo periodo di repressione verrebbero a rompermi le palle chiedendomi come faccio a mantenermi realmente, visto che sono un disoccupato con precedenti penali. Vediamo che mi invento adesso”. Era attento e riusciva a carpire in pochi minuti la personalità delle persone che aveva davanti agli occhi. Lui lo fiutava al volo se eri un cagasotto, un debosciato, un pervertito, uno in cerca di qualche striscia e un po’ di sesso, o se eri uno a posto, uno da rispettare. In genere bevevamo rum, del resto per noi era semplicissimo, a cento metri da casa c’era il nostro El Dorado: La Casa Del Ron! Entravi e tutte le pareti erano composte da bottiglie di rum provenienti da tutti i Paesi del mondo. Le scansie piene di


#About

del Barrio

stecche di sigarette e sigari. Noi compravamo giornalmente tre o quattro bottiglie di Ron Añejo Oro, due pacchetti di Popular senza filtro per me e due pacchetti di Hollywood Blue per lui. Quell’Añejo Oro era una goduria, ti faceva sentire disteso, aumentava la strafottenza e

rendeva il dialogo più fluido. Si parlava di musica, di donne, delle nostre rispettive famiglie, un po’ di tutto. Ma i temi che stavano più a cuore a Beto erano politica, fica e alcool. Lui ricordava i tempi d’oro, quando i soldi non mancavano e quando con una manciata di dollari poteva riservare una bella suite in uno dei più prestigiosi hotel a cinque stelle della città per andarci con una bella donna e bere cockatil preparati ad arte fra un coito e l’altro. Nonostante amasse sorseggiare rum e mangiare boniato fritto, alle volte si lamentava del fatto che si fosse stancato di bere sempre la stessa roba: “è una vita che bevo rum, questo Añejo Oro sarà anche ottimo ma ci vorrebbe qualcosa di diverso ogni tanto. Cazzo! Dove sono i russi? Che tornino i sovietici e portino Vodka a fiumi. Ormai nemmeno ricordo che gusto abbia”. Io invece sentivo nostalgia del Gin. Era difficile reperirlo, specialmente se cercavi del buon Gin di marca. Oppure dovevi andare al bar di qualche rinomato hotel e pagare un capitale per bere una dose servita col contagocce. “Dovresti provare il Beefeater, Beto. Quello si che è un vero Gin. Ma quanto prima me ne farò mandare una bottiglia e ti preparo io dei cocktail che non te li scordi più!”. Ormai il Beefeater era diventato leggenda. Gli avevo anche descritto l’etichetta e a lui faceva sorridere che ci fosse raffigurata una guardia inglese: “Se una guardia deve vigilarmi

anche mentre bevo preferisco sia straniera, così se mi arresta mi porta via da questo cesso”. La sua voglia di emigrare era sconsiderata ed io vinto dalla curiosità un giorno gli chiesi come mai non avesse mai tentato la fuga come tanti suoi connazionali. Lui senza batter ciglio mi rispose: “Compadre, se vado via non mi interessa andare dagli Yuma, io cerco qualcosa che mi possa arricchire. Anche se non ho studiato, io ho la scuola della strada e sono certo di aver appreso molto più di quei rimbambiti che vanno all’università per studiare ciò che il capo gli impone da cinquant’anni. Con la cultura che mi son fatto, frequentando turisti, puttane e studiando la strada, credo che il vecchio continente sia il mio posto. Io vorrei vedere l’ Europa. Ho talento e se mai andrò via di qui vorrò cambiar vita. Negli Stati Uniti non potrei mai, sarei visto come l’ultimo dei Tony Montana. Il mio posto è l’Europa!” diceva, mentre io pensavo “il mio posto è proprio qui”. Per una volta ero in disaccordo con il mio amico. Era da un po’ di giorni che nel Barrio non si vedeva Beto, finché una mattina bussano alla porta. Apro e me lo ritrovo davanti. Eccolo, nella sua posa immancabile: una mano sul fianco destro leggermente inclinato, le sue (mie) ciabatte, pantaloni a tre quarti, camicia sbottonata, il suo inconfondibile profumo. “Dov’ eri finito Beto?” “Mi era arrivata voce che un tipo che fa il cameriere al Cohiba ha rubato una fornitura di alcolici. Mi son precipitato e guarda un po’ cosa ho qui per te. Mi è costata 15 verdoni fratello”. Eccolo lì, l’uomo del Barrio con una bottiglia di Beefeater tappo blu. Chiamammo subito il Duvi, mio fratello si mise al piano intonando tutte le canzoni nostalgiche che ci rendevano felici. Decidemmo di non sciupare un tale regalo mixandolo con succhi di frutta, acqua tonica, lemon o quant’altro. Lo mandammo giù liscio. Senza ghiaccio. A metà bottiglia andammo di fronte all’hotel Inglaterra, seduti all’ombra di un albero al Parque Central e guardando le finestre delle stanze abitate dai turisti continuammo a bere, certi di essere felici. Molto più felici di loro, almeno fino alla fine della bottiglia.


Of ficin£

EDIZIONI

Il cocktail giusto per le tue esigenze. 1/3: progetti grafici e comunicazione creativa per la pubblicità ed il marketing. 1/3: editoria, produzioni, stampa di: libri, CD, DVD, brouchure, leaflet, manifesti, locandine, biglietti da visita. 1/3: produzione e postproduzione video.

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E

PRO

Artists for art


#Wellness

Omeopatia da Barrio e da Bar testo

Alfonso Tramontana

“ci sono state due grandi rivelazioni nella mia vita. la prima è stata il bebop, la seconda l’omeopatia” - Dizzy Gillespie -

T

utti forse avremmo bisogno di un Barrio, di un quartiere dove c’è la nostra casa, in cui tutti i vicini ci conoscono e ci riconoscono, dove “la coscienza di ciò che si è diventa collettiva, sociale e non individuale...” Un luogo nel quale ritornare dopo una lunga giornata di lavoro a contatto con estranei e rivedere volti e luoghi noti. Forse per andare nel solito bar, quasi come una seduta psicologica nel corso della quale il barman è il tuo psicologo perchè “legge” la tua stanchezza e ti serve il “solito” come medicina per rilassarti. Lì puoi essere più te stesso, mantieni sempre la tua connotazione sociale ma la arricchisci dei tuoi pensieri e della tua identità. Metti in stretta correlazione il barrio esteriore con il tuo barrio interiore: la tua anima. Se non c’è un barrio come centro di autoriconoscimento che ti fa sentire parte di qualcosa e non c’è un bar in cui accomodarsi si genera la sterilità di un’esistenza in cui l’identità non trova un corrispettivo con la collettività. Ci si sente mortificati nell’ esigenza di essere parte di qualcosa, di essere riconosciuti come talento qualsiasi esso sia e si ricade nella frustrazione, nella noia, nella nostalgia. Nessuna medicina può studiare quale sia la cura farmacologica per queste noxe patogene potentissime. A mia parere la noia, la nostalgia e la frutrazione sono alla base della maggior parte delle patologie di un essere pensante. Per curare tali impostori della salute spesso si ricorre in maniera compulsiva al bar distorcendone lo stesso concetto prima enunciato, sostituendo all’esigenza di tornare a casa il sentimento perverso di deturpare la propria anima per renderla irriconoscibile a noi stessi essendo non riconosciuta in nessun barrio. Quasi violentare la propria anima colpevole di non essere come sono tutte le speudo anime che ci circondano e per questo non ci riconosco-

no o non lo vogliono fare. Come dicevo prima non vi sono cure farmacologiche che riescano da sole ad eradicare la noia, la nostalgia e la frustrazione di chi non ha un barrio e un bar, forse le può curare l’unica scienza che le ha descritte nelle infinite forme e che le ha raccontante nell’evoluzione dell’uomo: la letteratura. In aggiunta quindi ad un buon libro ecco qualche rimedio omeopatico per aiutarsi nel sentirsi meno “orfani” del quartiere e per rispondere a “bevute” incontrollate al tavolo del bar: Pulsatilla: il classico rimedio di chi si sente abbandonato. Soggetti fantasiosi, timidi, spesso di carnagione molto chiara ed occhi verdi, con lentigini e capelli tendenti al chiaro (ovviamente vi sono tantissimi “tipi” pulsatilla mori con i capelli ricci, in medicina olistica le regole generali vanno sempre contestualizzate in quadri più complessi). Il corredo di sintomi di questo rimedio è molto ampio, in questa rubrica ci limitiamo ad annoverarlo come rimedio per chi si sente abbandonato ed ha bisogno di abbracci e carezze Magnesia carbonica: È anche denominato il “rimedio dell’orfano”. Sono quei soggetti che si sentono quasi rifiutati da tutti, stanno spesso in disparte e sono molto chiusi in se stessi Nux vomica: il rimedio del post sbronza. Se gira la testa e si hanno spasmi all’apparato digerente dopo una notte di eccessi, ricorrere alla nux vomica per trovare un rapido sollievo Tabacum e China: Aiutano a morigerare la nausea dopo eccessi da bar Conium maculatum: Sindromi vertiginose ed eccessi anche sessuali dopo una lunga astinenza. 45


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