Mfl31 ott 2013 lr

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Un’installazione del Shanghai museum of glass

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paragonata alla cinghia stretta che vive l’arte nel mondo occidentale. Tanti gli industriali che finanziano queste iniziative. Non ultimi quelli della Shanghai glass company, principale sponsor, ça va sans dire, del Shanghai museum of glass: una sequenza di installazioni ed esibizioni con lo scopo di: «Condividere gli infiniti utilizzi del vetro». Gli spazi sono bellissimi, mastodontici, creati da architetti famosi (di poche settimane, il premio portato a casa da Jean Nouvel, che si è aggiudicato il concorso per disegnare il National art museum of China, ndr). Hanno strutture adeguate ad ospitare file di visitatori. Ma, dentro? Ecco, qui arrivano i problemi. Dentro, molte volte, non c’è niente. Le scatole sono meravigliose, immaginifiche. Il Museo dell’Ordos, palazzo disegnato dal collettivo Mad architects, sorge ancora vuoto nel deserto del Gobi. Ed è così da due anni. I problemi sono tanti: le collezioni private hanno portato via molti degli artefatti storici locali. I saccheggi hanno fat-

to il resto. La censura, anche, ha dato una grossa mano. La furia cinese moderna ha sviluppato, così, un rapporto non semplice con la sua storia millenaria. Che fare allora? Ci si arrangia, un po’. Come all’inizio delle rivoluzioni culturali. Anche rischiando figure non proprio rispettabili. Wei Yingjun, consulente del Jibaozhai museum di Jizhou, ha dovuto ammettere che soltanto circa 80 pezzi, su 40 mila artefatti storici esposti nel museo, sono risultati originali. Gli altri? Falsi, evidenti, con errori storici giganteschi. Tanto da far chiudere lo spazio, costato oltre 7 milioni di euro appena tre anni fa. Perché, è la domanda che sorge spontanea. Forse, è semplicemente il figlio di una cultura troppo chiusa nel tempo che non ha ancora sviluppato basi abbastanza solide per approcciare con rispetto l’arte e la propria storia. E che prova costruirsi un passato almeno verosimile. Matteo Zampollo


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