Fanta-storie

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II A e III A della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania

FANTA - storie -

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Antologia di racconti di fantascienza e fantasy 2018/19



Fantastorie Antologia di racconti fantasy e fantascientifici

A.S. 2018-2019 D.S. dell’I.C. “Cavour”, Catania, Prof.ssa Concetta Mosca. Coordinatrice di progetto: Prof.ssa Cinzia Di Mauro. Autori: tutti gli alunni della II A e della III A.


Fantasy


Alberto Anastasi - Gaetano Ferrara - Michela Fichera Maria Lucia Mangiameli - Francesco Zuccarello

Magic World


Tanto tempo fa, tra le sperdute montagne ai confini del mondo c’era un piccolo paesino di nome Gilory. Sopra un promontorio vi era un convento di suore che accoglievano i bambini orfani. Una notte piena di stelle, suor Clarissa sentì bussare alla porta, spaventata andò a chiamare la madre Badessa. Chi poteva essere a quell’ora? Ma ecco che un’altra volta il batacchio del portone sbatté. Con timore le sorelle compatte in formazione di testuggine come una legione romana andarono a controllare, ma con stupore non c’era nessuno. Ad un tratto un vagito attrasse la loro attenzione: c’erano due fagottini che si muovevano ai loro piedi ed accanto a loro luccicavano due paia di sci. Le sorelle accolsero i bambini nella loro grande famiglia e li fecero crescere con tanto amore. La bambina che chiamarono Mary divenne una bella biondina, snella e agile e John un ragazzino bruno, con i riccioli e gli occhi vispi e curiosi, ma soprattutto entrambi abilissimi nell’uso degli sci, anche grazie agli insegnamenti di suor Clarissa che li aveva cresciuti come fossero figli suoi. Vicino al paesino c’era una foresta, fitta di alberi, che ve-

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niva chiamata foresta incantata, perché la leggenda narrava che in essa vivessero piante e creature fantastiche. Più volte suor Clarissa aveva detto ai ragazzi di non avventurarvisi perché mai nessuno ne era ritornato, come quasi inghiottito da un buco nero. Ma un bel giorno ai due ragazzi venne voglia di fare un fuori pista con gli sci e andando sempre più veloci si ritrovarono senza accorgersene proprio all’interno della foresta incantata. Dapprima cercarono la via d’uscita, ma proseguendo a piedi con gli sci sulle spalle furono affascinati da alberi dalle forme più strane, dagli uccelli variopinti e dagli animaletti del bosco. Senza volerlo si erano addentrati sempre più e adesso la vegetazione si faceva sempre più fitta e ombrosa, strani esserini si muovevano intorno a loro e a volte sembrava che facessero dei ridolini sinistri. Mary cominciò ad avere paura e chiese a John di tornare, ma quello, curioso del posto, continuava a proseguire. Per non restare indietro Mary lo seguiva, sempre più supplicandolo di tornare indietro. Ad un tratto lei inciampò nelle radici intricate di una pianta e, sebbene coraggiosa, a questo punto si mise a piangere. John l’aiutò a rialzarsi e nel silenzio che adesso regnava intorno a loro udirono dei singhiozzi da dietro uno di quegli alberi. Chi era mai? Con circospezione si sporsero e videro un elfo, proprio uno di quelli vestiti di verde e alti come un fiammifero che piangeva a dirotto. - Mi chiamo Bill - disse – sono un abitante della foresta. Mary e John chiesero all’elfo: - Sai, Bill, siamo molto curiosi di sapere perché stai piangendo così tanto. Allora lui rispose: - Tanto tempo fa alla morte del nostro

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sovrano, ovvero il re Gilorion, un potente stregone, di nome Jake Dook, prese il controllo del nostro mondo: Magic World. Esso, con il tempo lo corruppe sempre di più fino a farlo diventare più brutto e malinconico. Questo potrà essere fermato solamente con le quattro Spade della Verità che hanno il potere di eliminare ogni essere malvagio. Finito il discorso i due ragazzi, per compassione, dissero che volevano aiutarlo a salvare il suo mondo. Dopo poco, l’elfo era diventato felicissimo e disse: - Grazie Mary e John, vi voglio tanto bene e per incominciare l’avventura dovrete bere la pozione Restrictus, che vi farà rimpicciolire a tutte e due, compresi gli sci. I due giovani accettarono l’iniziativa e Bill chiamò la sua amica fata, che preparò una pozione di colore verde marcio. Poi Mary e John, disgustati, bevvero l’intruglio, così dopo un formicolio si ritrovarono alla stessa altezza di Bill. A quel punto, tutti si misero in cammino per raggiungere l’Albero Magno, chiamato così perché era altissimo e alla sua base vi era una piccola porta con una frase incisa: “Da qui entrerete in Magic World”. Al loro ingresso filarono giù per uno scivolo molto lungo, tanto che Mary e John pensavano che fosse infinito. Aveva grandi buchi, che di tanto in tanto facevano sprofondare fino a tre metri i nostri protagonisti. Arrivati i due ragazzi, come primo impatto, videro un mondo arido, triste, con case distrutte. In mezzo alla strada c’erano creature magiche di ogni tipo: elfi, fate, gnomi, farfalle parlanti, topi giganti, dinosauri alati e infine il più straordinario, un coniglio parlante dalle molteplici capacità. Questi lavoravano ininterrottamente e venivano frustati da scimmie volanti. Finito l’effetto del filtro magico, ritornarono alle loro di-

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mensioni naturali e Bill chiamò a sé tre cavalcature fatate: uno strano falco di nome Francis Drake con un becco potente e delle zampe dotate di artigli eleganti, Tornado un cavallo alato di colore azzurro, con occhi d’argento, e Marina, un’affascinante sirena dai capelli rossi, occhi azzurri con la coda dorata. Questi ultimi illustrarono ai fanciulli il modo di spezzare il sortilegio che aveva scatenato la guerra cruenta, e subito tutti insieme si misero alla ricerca dei quattro manufatti per formare le quattro spade della verità. Gli oggetti da trovare erano lo Smeraldo della Speranza, i Manici della Saggezza, la Polvere delle Anti-bugie e le Lame della Verità. I primi erano delle pietre leggere che quando venivano messe nelle mani, scoppiavano dando una prospettiva più ampia degli spazi. Per i secondi si trattava di pezzi di legno, che si ponevano in una parte del corpo, in particolare sulla testa, e consentiva loro di ragionare in modo più complesso e di leggere nella mente degli altri. Infine, la polvere, se ingoiata fungeva da siero della verità. Il primo artefatto da cercare, ovvero lo Smeraldo della Speranza, era custodito in cima, appunto, alla Montagna della Speranza. Essi, appena saliti in vetta, si trovarono di fronte ad un cofanetto protetto da tre corvi neri. Per aprirlo dovevano trovare la soluzione al seguente anagramma: ODLAREMS. Dopo alcuni attimi di silenzio Mary esclamò prontamente: - SMERALDO! Ed ecco che il magico cofanetto si aprì rivelando al suo interno una pietra che emanava un’abbagliante luce verde e la presero. I Manici della Saggezza erano incastonati nella Colonna del Fuoco Perenne che si spegneva solamente se si pronunciavano dei suoni ben definiti. I cinque amici dopo essersi re-

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cati in quel luogo dove vi era di conseguenza un caldo asfissiante, non riuscivano a capire come recuperarli. Bill, non avendo altre idee, provò a leggere le lettere che apparivano sulla colonna a voce alta ed improvvisamente il fuoco cessò, permettendo ai ragazzi di impadronirsi dei famosi manici. Una strega chiamata Strega Gentile, che dimorava nell’antro di una grotta deteneva, invece, la polvere magica. Quando i nostri eroi varcarono la soglia di quella caverna oscura la videro e si avvicinarono con cautela e la Strega gentile si stagliò davanti a loro. Era alta, robusta, vestiva abiti trasandati ed indossava un cappello nero con una fibbia d’oro. Decise di accoglierli, vista la sua gentilezza, e li ascoltò attentamente. La compagnia era lusingata, ma anche un po’ basita del comportamento di quell’essere, così l’elfo Bill decise di farsi avanti e chiese se lei avrebbe potuto prestare loro un po’ della polvere magica. La strega, nonostante non ne avesse molta, decise di donargliela tutta. A questo punto, perché la missione fosse compiuta mancava un unico oggetto: le Lame della Verità e le possedevano solamente gli eredi del re. Al loro ritorno, furono catturati da orchetti del malvagio stregone e portati nelle celle del suo castello. Era un edificio enorme, freddo, che incuteva paura e che fiaccava gli animi. Mary e John furono separati dal resto della compagnia e condotti in una cella umida e buia, con una finestra che dava su di un fiume. C’erano dei teschi e corpi di persone morte o decapitate. Nel tempo trascorso lì, i due si arrovellarono sull’ultimo enigma. Essi non sapevano dove e chi fossero gli eredi del re. Allo stesso tempo contemplando i propri sci ebbero un’intuizione: gli sci erano le Lame della Verità! Compresero così che il re di Gilory, Gilarion, altri non era che il loro pa-

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dre, caduto in guerra durante quella battaglia terribile. Prima della sua morte furono affidati agli elfi per essere trasportati nel mondo reale dove potevano cosĂŹ essere al sicuro. Dopo avere unito tutti gli oggetti, i loro sci formarono le Quattro Spade della VeritĂ . Grazie a queste, scapparono dalla cella e liberarono i loro amici. Insieme sfidarono Jack lo Storpio e vinsero. Poco dopo essere saliti al trono, i due ragazzini riportarono allo splendore Magic World e lo fecero restare cosĂŹ per sempre.

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Jacopo Cristaldi - Taira De Castro - Ilenia Ferro Carlotta Terrizzi - Giuseppe Vitale

Il malvagio Zorbo


Era una splendida e soleggiata mattina di marzo quando Ron un ragazzo di quattordici anni si incamminò per andare a scuola. Egli era di bell’aspetto, alto, magro, con i capelli neri col ciuffo e aveva gli occhi di colore azzurro. Viveva a Roma dove frequentava il liceo scientifico. Di carattere affabile, gli piaceva molto parlare con i suoi coetanei con i quali discuteva allegramente e animatamente di calcio e motociclette. La sua famiglia era composta da lui e i suoi genitori, aveva buone disponibilità economiche dato che il padre era un magistrato dell’alta Corte di Giustizia di Roma. Anche la madre era molto impegnata, infatti era una cardiologa molto conosciuta in città. Dei suoi nonni non sapeva nulla, tranne che erano morti diversi anni prima. Ron aveva anche una ragazza dal carattere non molto socievole di nome Ginevra. Quella mattina all’uscita da scuola, inspiegabilmente, sentì lo zaino diventare sempre più pesante, come un grandissimo masso, tanto da sfondare il terreno e cadere nel vuoto, insieme a lui. Ron, precipitando, si trovò in una grande e fresca Sala del Trono, dove il vecchio re dei Troll, Sibelius, sembrava aspettarlo. Era un omaccione con la pelle verde scuro e un

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neo altrettanto grosso. Non si lavava e non si radeva da quando era rimasto vedovo (da circa seicento anni! Lui di anni ne aveva tra i mille e i duemila). Era il capo di un vasto regno che poteva contare su ottocentomila guerrieri fedeli fino alla morte. Possedeva anche tre bellissimi unicorni molto vanitosi (potevano sempre servire). Era evidente che si trattava di un re saggio e severo. Sibelius con la sua voce rauca e cavernosa fece a Ron un discorso quasi filosofico: - Il malvagio Zorbo, con l’aiuto dei suoi schiavi, creature fantastiche, vuole distruggere il mio pacifico regno. - e dopo una lunga pausa continuò - Vuoi guidare il mio esercito per difendere il regno dei Troll? - Ma io ... - cominciò a rispondere Ron. Tutti (compreso Ron) stiamo pensando: perché proprio lui? Una spiegazione c’è: suo nonno, George, morto nel 1913, aveva combattuto con la stirpe Zorbus, uccidendo alla fine Zurbi, figlio di Zorbo XIV. E Sibelius glielo chiarì. - Ma io... caro re, accetto con orgoglio l’incarico che mi dai. Sibelius, finalmente, gli donò una strana e appuntita bacchetta magica, proprio quella appartenuta a suo nonno George. All’improvviso Ron si sentì trascinare vorticosamente giù come se qualcuno o qualcosa lo stesse tirando per le gambe tanto che lo stomaco gli sembrò arrivare in gola per la forte velocità. Finalmente la discesa, che sembrava interminabile, si interruppe e il ragazzo si accorse di essere caduto su giganteschi funghi. Questi di un rosso brillante avevano una superficie rimbalzante come un tappeto elastico, obbligandolo a

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dei saltelli, ognuno dei quali produceva un suono simile a note musicali. Il suo saltellare non si interruppe facilmente anche perché questo mondo era diverso dalla normale realtà. Infatti i suoi movimenti, grazie alla bacchetta, riuscivano a smuovere tutto ciò che era attorno a lui in modo goffo e casuale. Dopo un ultimo atterraggio Ron realizzò che di magia non sapeva nulla e, data la grande responsabilità che aveva ricevuto dai Troll, iniziò a sentirsi sperduto. Quando sembrava non aver alcuna via d’uscita, ingabbiato nella disperazione più assoluta, apparve George, suo nonno defunto, sotto forma di fantasma traslucido. Era basso e magro, con lunga barba magica da cui fuoriuscivano fulmini e dalle pupille che sparavano laser letali. Aveva i capelli lunghi di color azzurro-cielo, gli occhi neri e sembrava fisicamente molto più giovane della sua età. L’anziano, così, accorse in aiuto del nipote insegnandogli le antiche arti di Retus e guidandolo nella pericolosa impresa. Ron, quindi, col fantasma del nonno, attraversò la Valle del Dolore. Durante la strada si misero a parlare. - Quindi… com’è che sei resuscitato? - cominciò Ron. - Beh, è stato un viaggetto dopo la morte, AHAHAH, avrei dovuto calcolare la trasformazione in fantasma. Ma vedi ora? Sono tutto muscoli! - replicò lo spirito. - WOW! - Già... ma i muscoli non sono capaci di colmare il vuoto che ho nel cuore… sapessi quanto mi manca tua nonna! Era così alta e magra, con quei capelli lunghi e neri che le incorniciavano il viso di luce! E non so descrivere la sua solarità, la gentilezza... era la donna perfetta per me: sapeva intuire ogni mio desiderio o problema solo guardandomi negli occhi. - spiegò - Ma basta parlare! Quel puzzolente è la che ci

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aspetta! Muoviamoci! - ordinò infine. Attraversare il deserto fu un problema più difficile del previsto. Enormi dune di sabbia si susseguivano davanti al loro sguardo e rendevano arduo il percorso, nascondendo i temibili scorpioni e gli striscianti rettili, pronti a paralizzare i nemici. La luce abbagliante del sole accecava e stordiva, rendendo irreale qualsiasi visione anche quella dei neri avvoltoi che cominciavano a disegnare cerchi invisibili sopra le teste delle loro possibili prede. Giunsero, allora, alle Cascate del Terrore che precipitavano in una grande giungla. A differenza degli altri comuni corsi d’acqua esse straripavano di acido mortale, aggiunto dal brutale. Infine arrivarono all’Altopiano delle Urla, una valle desolata ai piedi del vulcano Rinus. Era punteggiato di trappole piazzate dal malefico, che, prevedendo il futuro con la sua sfera di cristallo prodigiosa, sapeva già dell’arrivo dell’avventuriero. Approdarono finalmente all’alto, rosso e cupo castello del nefasto. Poco illuminato com’era, era abitato da una miriade di pipistrelli e di ragni. Lavoravano lì circa tremila schiavi che posizionavano trappole senza mai stancarsi (o così si pensava) e cavalcavano draghi e orsi giganti, pronti ad aspettare le prossime vittime. Ron entrò nel castello e disse: - Zorbo, io ti sconfiggerò! Zorbo rispose: - Tu sconfiggere me? Non ci riuscirai mai! Zorbo e Ron cominciarono a lottare all’interno del suo castello. Zorbo disse: - Sei proprio uno sciocco! Faresti meglio a rinunciare, non fare lo stesso sbaglio di tuo nonno. Ritirati e nessuno si farà male. Ron non volendo arrendersi controbatté: - No mai, vendi-

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cherò mio nonno. E tu non potrai fermarmi! I due usarono tutte le formule magiche di loro conoscenza. Zorbo mise in pratica tutte le formule magiche più potenti per difendersi e per vendicare suo figlio Zirbo. Ron che aveva letto il diario di suo nonno George, dove vi erano scritti i punti deboli: la morte dei troll lo indeboliva, la musica dandogli fastidio poteva anche farli esplodere, l’acqua lo bruciava, ma ce n’era un’altra cioè un incantesimo che George non potè provare, così potente che avrebbe potuto abbattere mille Troll dieci volte più forti. Ron in fretta pronunciò le parole magiche: - Eversor mundi il tuo castello imploderà! Zorbo e i suoi Troll morirono a causa della forte esplosione. Ron cadde svenuto. Il giorno seguente si ritrovò nel suo letto dimentico l’accaduto. Il fantasma del nonno che l’aveva salvato lo baciò in fronte per l’ultima volta, provocandogli un brivido freddo, prima di ritirarsi per sempre.

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Clelia Crisafulli - Andrea DavĂŹ - Edoardo Menghini Sergio Motta - Maria Lidia Noto

La Fenice di Kollmandia


In una terra lontana e sperduta nel tempo, Kollmandia, il paesaggio era magico e affascinante, diverso dalle verdi valli e le azzurre acque tipiche della Terra. Gli animali potevano ancora vivere senza doversi preoccupare di essere cacciati. Le piante erano ricche di fiori di vari colori e alcune specie, invece di far crescere fiori o frutti, producevano minerali preziosi. In mezzo a tutta questa natura si innalzavano delle mura molte alte che racchiudevano l’intero villaggio ed il palazzo reale. Le mura erano magiche, cambiavano di colore in base alla luce del giorno o della notte. Diventavano color argento il giorno e rosse la notte. Il popolo viveva di agricoltura e pastorizia, ma all’occasione anche di prodi guerrieri. Proprio l’esercito era formato dai giovani più valorosi del villaggio, tra i quali spiccava Isoontos Ozlota, il più alto e prestante dei ragazzi del villaggio. I suoi capelli lunghi, ricci, di colore verde smeraldo gli ricadevano sulle spalle larghe e muscolose. Gli occhi di colore nero risplendevano di una luce magnetica e attiravano la curiosità di chiunque incrociasse il suo sguardo. Era adorato e amato da tutti, di carattere simpatico, era sempre pronto e disponibile ad aiutare chiunque fos-

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se in difficoltà. Non amava, però, essere al centro dell’attenzione e nonostante la sua disponibilità era timido. Adorava il suo paese e la natura, fare passeggiate nel bosco e sentirne l’odore, scoprire sempre nuove paesaggi, giocare con gli animali, sempre in compagnia del suo cavallo. Isoontos viveva lì da migliaia di anni insieme a sua madre, la regina. Corinta Ozlota era alta anch’essa, con capelli molto lunghi e lisci, di colore rosso, magra ma ben proporzionata. Pur somigliando molto al figlio, il suo viso era impreziosito dai occhi azzurri cielo che ispiravano dolcezza. Era precisa ed ossessiva nei dettagli ma era molto giusta ed imparziale. Amava la verità e non sapeva mentire. Le piaceva ricamare, dipingere e tutte le forme d’arte. Non disdegnava organizzare numerosi banchetti al castello, dove si lasciava andare a danze e balli per tutta la serata. Isoontos aveva anche un fratello, Karoontos, un ragazzo alto quasi come lui, con capelli corti e ondulati di colore biondo platino, muscoloso, con occhi grigi freddi e lo sguardo tremendo. Caratterialmente scontroso e iroso, era invidioso di suo fratello. Litigava spesso con le persone, rendendosi protagonista di parecchie risse, era solito bere tanti alcolici. Di lui non si avevano notizie da anni. Era sparito dopo la morte del padre probabilmente rifugiandosi in un’altra dimensione. Il re, padre di Isoontos, era morto quando lo stesso Isoontos era piccolo. Qualcuno gli aveva teso un’imboscata, ma nonostante le indagini, i colpevoli non erano mai stati individuati. Dopo la morte del Re, suo marito, Corinta fu costretta, vista la tenera età dei figli a sposare l’orco Ipototosos con un matrimonio forzato. Infatti il regno, per le leggi dei padri fondatori della patria, poteva essere guidato solo da un maschio maggiorenne.

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L’orco Ipototosos era alto e grasso, con la pelle di colore verde, muscoloso, con gli occhi di colore nero, irsuto, stupido e violento, regnava in modo iniquo e arrogante e proprio per questo suo modo di fare litigava spesso con la regina. La sua crudeltà nei confronti dei nemici era rinomata e amava cibarsi di animali vivi, specialmente della fenice, un’animale rarissimo e in via di estinzione. Improvvisamente un giorno Isoontos, mentre passeggiava nel grande bosco di Kollmandia, si imbatté in uno strano portale ornato esternamente da fiori ed al suo interno rivestito da una sostanza collosa ed attaccato al terreno da vomito di unicorno e gioielli preziosi. Questo era protetto da un guardiano di nome Colossos, un orco alto e segaligno, tatuato, con capelli corti e biondi, occhi verdi e dal carattere buono e saggio. Isoontos decise di attraversare il portale e gli disse: - Caro orco, io sono il figlio della tua regina e quindi mi farai oltrepassare il portale, io te lo ordino! Colossos rispose: - Non mi importa chi tu sia, non potrai passare né ora né mai! Isoontos replicò: - Puoi dirmi ciò che vuoi, ma io lo devo passare! Allora Colossos gli pose un indovinello che doveva risolvere per poter accedervi. Ad un certo punto, però Colossos fu distratto da un unicorno che attaccava un centauro e dovette intervenire, così lascio incustodito il passaggio ed Isoontos poté entrare. Si ritrovò catapultato in un mondo diverso dal suo, pieno di grattacieli e di robot giganti. Appena arrivò vide davanti a lui un gruppo di gente spaventata dal suo improvviso ingresso. Tutte queste persone, dalla paura, volevano attaccarlo con


i loro grossi robot meccanici e lo rincorsero. Allora Isontoos scappò in un vicolo lì vicino, dove si scontrò con dure ragazzi del luogo Benjiro e Ayko. Benjiro era un giovane basso, ciccione, pelato con un codino nero liscio al centro della testa, con occhi neri, all’apparenza privi di intelligenza. Ayko era invece una fanciulla bassa, magra, dai capelli a caschetto neri e con occhi marroni. Veniva definita affettuosamente chiamata “la secchiona della situazione”. Entrambi praticavano l’arte marziale del kungfu. I due giovani quasi all’unisono gli chiesero: - Ragazzo chi sei? Da dove vieni? Non sei del nostro paese? Ayko aggiunse: - Qui siamo in Giappone, sembri un po’ smarrito… Isoontos effettivamente frastornato rispose: - Io non so chi voi siate ma so solo una cosa, non sono più nel mio regno, Kollmandia! Per un po’ di tempo il ragazzo visse nel tentativo di ritornare nel suo mondo, ma, quando capì che sembrava impossibile, decise di esplorare il territorio in cui si trovava. Grazie ai suoi nuovi amici scoprì nuove tecnologie e imparò le tradizioni e le abitudini di quel nuovo e misterioso luogo. Intanto a Kollmandia fece ritorno il fratello disperso, il quale scatenò una guerra che durò nove settimane in cui morirono centinaia di migliaia di persone. Karoontos infatti, venuto a conoscenza della scomparsa del fratello, voleva impadronirsi del trono quale legittimo erede, al posto dell’orco usurpatore, come lo definiva. Karoontos, quindi, si introdusse nella sala reale. Quest’ultima era grande, con tavoli lunghissimi, dove si sedeva il popolo, con sedie, posate e piatti molto eleganti col bordo d’oro; le tende alle finestre erano rosse

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con la “K” di Kollmandia. Il trono era stato costruito in oro, aveva ornamenti con diamanti, smeraldi e pietre preziose di ogni genere, era grande il doppio di una normale sedia ed era posta al centro della sala. Karoontos trovò il patrigno seduto sullo scranno e lo uccise con un proiettile sparato nel collo. Poi rinchiuse la madre disperata, piangente e spaventata nelle segrete, luoghi molto oscuri, umidi, pieni di scheletri, ragnatele e storie inquietanti che si tramandavano di famiglia in famiglia. La costrinse a rivelargli con violenza, torture e ricatti dove si trovasse l’arma più potente del suo mondo, la Fenice di Kollmandia. Era una spada, su cui per l’appunto spiccava in bassorilievo una fenice, l’animale sacro del regno, ornata con oro, diamanti e realizzata con una lega che la faceva brillare come una stella e dava poteri inimmaginabili. Karoontos andò nel luogo indicato e lì dovette lottare contro uno dei guardiani più potenti di sempre, Colossos. Dopo colpi andati a vuoto Karoontos finse pentimento dicendo: - Mi arrendo, abbi pietà. Non riuscirò mai a batterti, sono sfinito. Colossos rispose: - E sia! Basta che tu mi prometta di non infrangere più nessuna regola di questo regno. Per un attimo l’orco abbassò la guardia. Così il feroce Karoontos sferrò l’attacco decisivo e si impossessò della potentissima spada. Isoontos nottetempo scoprì della guerra. I suoi sogni si popolarono di una netta visione che mostrava le condizioni devastate del suo regno: case distrutte, uomini del regno che giacevano a terra senza vita e la madre imprigionata. Sempre nel sogno, Isoontos si imbatté in una grotta dove era seduto un vecchio signore il quale parlava in modo animato con un

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giovane prestante e biondo. - Portami quella maledettissima spada! LA VOGLIO! - urlava il vecchio. E il ragazzo piangendo diceva: - Non voglio! Dopo aver ascoltato la riposta del giovane, il vecchio gli diede una boccetta contenente liquido azzurro. Il ragazzo scattò in piedi, si girò e Isoontos riconobbe in lui il fratello. Aveva assunto strani comportamenti nei confronti dell’interlocutore e allora Isoontos capì che il fratello Karoontos agiva in modo così violento perché era vittima di una pozione del più potente mago di tutti i tempi, Asmodeus. Si ricordò di quel mago per il suo aspetto molto bizzarro: aveva una lunga barba bianca e dei folti e lunghi capelli grigi. Era noto anche per la sua grande furbizia, il suo egoismo e la smodata smania di potere. Al risveglio dal sogno Isoontos decise di prepararsi allo scontro finale, aiutato dagli amici giapponesi. Per due mesi si allenò insieme agli amici giorno e notte con la sua nuova arma, una katana, e costruì un’armatura per difendersi. Un giorno, durante l’allenamento, Isoontos fu investito da una luce intensa e magica. La luce pian piano si affievolì, arretrò da lui e si tramutò in un varco, accanto al quale si trovava Colossos, il protettore delle spade, pieno di ferite e sanguinante. L’orco gli disse: - Devi tornare, Isoontos, la tua terrà ha bisogno di te. Isoontos gli rispose: - Sono pronto a ritornare e ad affrontare mio fratello. Quindi prese la katana e l’armatura e, seguito da Benjro e Aiko, attraversò il varco. Giunto a Kollmandia, capì che non bisognava perdere

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neanche un momento e corse, insieme ai terrestri, per l’occasione vestiti in abiti tradizionali da samurai, verso il covo del mago che Colossos gli aveva indicato. Lì trovò anche il fratello che teneva in mano la spada di Kollmandia. Iniziò la battaglia. Fu un susseguirsi di colpi di spada, antichi colpi giapponesi, acrobazie, calci sferrati al volo, pugni in pieno volto. Isoontos, ferito, riuscì, alla fine del feroce combattimento, a neutralizzare il potente mago Asmodeus. Poi lo consegnò a Colossos che lo imprigionò per sempre nella torre. Karoontos, avendo il fratello spezzato la maledizione, tornò il giovane che era sempre stato, più pentito che mai delle sue azioni involontarie, ma anche delle sue invidie. I due fratelli, riunitisi, liberarono la loro madre e riposero al sicuro la Fenice di Kollmandia. Finalmente tutti insieme festeggiarono il ritorno del fratello, riconquistando la pace nel regno. Isoontos acclamato dal popolo che amava la sua bontà d’animo, alzò in cielo la Fenice di Kollmandia, ricevendo il meritato titolo di Re. Agli stranieri fu riconosciuto l’onore di diventare Protettori del Regno. Benjiro e Aiko, conclusi i festeggiamenti, furono ricondotti al portale per riportare sulla Terra il ricordo imperituro dei loro amici.

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Martina Calogero - Roberta Dell’Erba - Bianca Moncada Paternò - Costanza Rosso - Matilde Ortoleva

Le ombre di Tenebroo


Nella terra lontana di Fantasy, piena di alberi, fiori molto colorati e animali, tutte le persone vivevano in pace a armonia. Erano infatti socievoli, rispettosi, pacifici e molto legati alla famiglia reale. Nessuno osava fare del male ai propri concittadini. Era un luogo felice dove ognuno poteva esprimersi con grande libertà, tutti si volevano bene e ogni bambino che nasceva legava con tutti. In particolare ciò che univa tutti i cittadini era la danza, praticata già dall’infanzia. Durante il mese della fondazione della città si preparava una grande festa con balli e banchetti governati dal re Cronos, un uomo alto, magro, con i capelli corti, lisci e neri e gli occhi marroni e dalla regina Penelope, una donna alta, magra, con i capelli lunghi, ricci di color rame e dagli occhi azzurri. In quell’occasione venivano onorati gli unicorni, animali fantastici che rendevano tutto magico e splendente, infatti brillava sempre il sole e sembrava ci fosse un’eterna primavera colorata. Gli unicorni che avevano sempre fatto compagnia agli abitanti, avevano un simbolo corrispondente al loro potere. Alcuni avevano un cuoricino che trasmetteva agli altri amicizia e amore. Altri ancora avevano la Torre Eiffel che portava in tutto il loro pianeta pace. Invece ce n’erano altri

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che rappresentavano mele, dolcetti e palloncini, come caratteristica delle loro passioni. L’unicorno del re e della regina, Electra, era diverso da tutti gli altri. Aveva la criniera lunga e color arcobaleno, un corpo bianco e come elemento distintivo una corona che portava positività. Nel venticinquesimo anniversario della fondazione del regno il re e la regina diedero alla luce una bambina e la chiamarono Armida. Era molto carina, aveva sempre il sorriso sulle labbra, grandi occhi azzurri e luminosi, capelli lunghi e biondi, e un corpo esile da danzatrice. Il suo carattere dolce e amorevole la rendeva sempre generosa con i bambini che la venivano a trovare al castello. Amava donare loro dolcetti deliziosi e fazzolettini ricamati a mano appositamente per loro. I suoi genitori le avevano regalato uno splendido esemplare di unicorno tutto per lei. Lo aveva chiamato Rainbow. Era stupendo, aveva la criniera e la coda colore arcobaleno con una treccia lunghissima, aveva un tatuaggio per riconoscerlo a forma di arcobaleno che gli dava poteri magici con le ali color oro, aveva un corno bianco perlato sulla fronte che si illuminava la notte. Era così puro che solo una persona dall’animo candido come lei poteva avvicinarlo e cavalcarlo. Il giorno del suo decimo compleanno la bambina chiese all’unicorno di accompagnarla in città per unirsi alle danze della sua popolazione. Durante la camminata nel bosco l’animale inciampò, perse molto sangue e anche il suo corno si spezzò. La bambina impaurita fuggì e riuscì a trovare la strada per tornare al castello ma da quel momento fu colpita da una potente maledizione secondo la quale non poteva più legarsi agli abitanti di Fantasy. Si sentì molto agitata ed ebbe una strana sensazione. Ebbe l’impressione di ascoltare una voce che diceva: - E

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tu chi sei? Come ti chiami? Il tuo posto non è più qui, nel tuo cuore c’è solo durezza e arroganza. La principessa aveva sentito bene: tutto stava per cambiare. Non si dava pace, ma in realtà si accorgeva di essere sempre triste e di non riuscire al sorridere. Era sempre sgarbata e umiliava tutti quelli che provavano a rivolgerle la parola con gentilezza. Anche i bambini che venivano a trovarla erano impicci e li cacciava via. Modificò anche il suo modo di vestire e ordinò alla servitù di gettare via tutti i suoi vestititi colorati del suo splendido guardaroba e di portarle solo abiti scuri. Così dopo un certo numero di anni si isolò da tutto e tutti; si creò un suo regno dove non si sorrideva chiamandolo Tenebroo. Le case erano diroccate, gli alberi rinsecchiti e su tutto dominava un lugubre castello. Vi regnava il buio e tutti gli abitanti erano zombie, esseri dell’oltretomba, scheletri ed insetti giganti condannati ad una danza infinita fra i lamenti. Nella foresta si sentivano passi di animali misteriosi e volavano pipistrelli sopra le teste dei fantasmi. Ma lei non aveva paura, il suo era il cammino delle tenebre. Contemporaneamente nel regno di Fantasy giunse il quarantesimo anniversario. In occasione di questa ricorrenza Armida decise di invadere il regno con il suo esercito di zombie. La principessa aveva solo quindici anni, era alta e magra, capelli lisci e neri, occhi azzurri in contrasto con la carnagione scura, era molto bella, ma la sua qualità principale era la determinazione: voleva, infatti, conquistare Fantasy e così accadde. Da quel momento quello stesso luogo fino ad allora colorato ed incantevole divenne buio ed oscuro, i fiori e le piante appassirono e gli unicorni lasciarono posto a creature malvagie e pipistrelli raccapriccianti. Le ombre di Tenebroo

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erano calate inesorabilmente e da quel luogo macabro, dove si era ritirata nuovamente, la regina governava con i suoi arcani malefici. In mezzo all’oscurità più desolante, dopo cinque lustri, apparve una luce magica. Questa avvisò gli abitanti che il regno avrebbe potuto essere salvato solo da una ballerina il cui eccezionale talento avrebbe riportato il regno al suo antico splendore. Questo compito spettò a Clara, una ragazza di quindici anni dai lunghi capelli biondi, gli occhi verdi come il mare, ma soprattutto un innato talento per la danza tanto da poter essere l’unica ad intraprendere il viaggio per liberare il regno di Fantasy. Dopo giorni di cammino arrivò a Tenebroo. Chi andava lì non tornava più indietro. Qui dovette combattere con Armida, ormai donna di quarant’anni. Il tempo, la sua cupezza e prepotenza l’avevano trasformata anche nel fisico magro più che snello con uno sguardo torvo solcato da profonde occhiaie. Anche gli occhi, prima di un azzurro limpido, ora sembravano di ghiaccio. Era tuttavia rimasta una bellissima e capacissima ballerina. Con lei Clara dovette scontrarsi in una difficile battaglia di ballo: c’era in gioco il destino del suo popolo, da sempre socievole, pacifico, rispettoso e legato alla famiglia reale. Inoltre, se avesse vinto la gara avrebbe potuto salvare Armida dalla maledizione che l’aveva portata a tutto questo e riportarla alla generosità e gentilezza originaria, anche se non priva di testardaggine. Clara nella prima prova doveva effettuare una piroetta di cinque giri e la vinse compiendone altri due. Nella seconda si richiedeva di eseguire il grand jeté in maniera impeccabile, ma la regina sembrò rimanere sospesa in aria come priva di

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peso. Nella terza si richiedeva di stare più a lungo possibile in equilibrio in arabesque e anche in questo caso Armida, forse per magia, restò a fluttuare su quell’esile gamba per un tempo che parve eterno. Era in vantaggio di due gare, ma l’ultima avrebbe avuto un doppio peso: qui avrebbe vinto l’originalità della coreografia più emozionante. Sfinita dopo aver concluso l’ultima prova di ballo, Clara si accasciò a terra. Era convinta di aver ballato come mai nella sua vita, sfidando ogni limite e vincendo ogni timore. In questo le scarpette magiche, le erano state di grande aiuto. Era stato come se, quando proprio era sul punto di cedere e di rinunciare alla sua missione, quelle scarpe le avessero trasferito la volontà e la forza di andare avanti e superare se stessa. Erano tramandate da generazioni nel regno di Fantasy, ogni re e regina avevano avuto cura di donarle al compimento del diciottesimo anno di età alla propria figlia, perché anch’ella potesse fare lo stesso. Sfortunatamente questa tradizione si era interrotta con la maledizione che aveva colpito la giovane Armida, ma ora c’era lei, Clara, che stava per riportare tutto al suo posto... La giuria, composta da tutti gli unicorni della valle, applaudì a lungo l’esibizione di Clara. Immediatamente il buio venne interrotto da alcune chiazze di colore che cominciarono ad apparire qua e là, prima sulle pareti della sala da ballo, poi sul soffitto, ed in breve tutto il salone fu nuovamente illuminato. I candelabri emanavano un chiarore caldo e soffuso e dai lampadari si irradiava invece una luce decisa e splendente che faceva ritornare tutto agli antichi splendori. Affacciatisi alle finestre, tutti gli spettatori alla prova di ballo si accorsero che i prati erano di nuovo verdi, il cielo azzurro e soprattutto il sole brillava in alto ed accanto un arcobaleno irradiava tutti

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i colori attorno. Le tenebre che per lunghissimi anni avevano regnato si stavano ritirando, lasciando al loro posto una natura ricca di fiori, frutti e tanti animali. In breve Tenebroo stava sparendo, dissolvendosi velocemente, e, come per magia, tutti si ritrovarono nel regno di Fantasy, dove brillava la luce e la felicità accompagnava tutti lungo la loro giornata. Clara, per il suo coraggio, venne proclamata regina della danza e protettrice degli unicorni. Fu la stessa Armida che, ritrovato il sorriso e la gioia di vivere, la incoronò, e, riconoscente per quanto Clara aveva fatto per riportare al regno di Fantasy la sua principessa, la mise a parte del suo progetto: donare al popolo la statua di un unicorno gigante! Fu così che Clara ed Armida iniziarono a realizzare la statua, pietra su pietra, con tanta felicità ed allegria, danzando e cantando per la ritrovata allegria e amicizia persi in questi anni. Quando questa fu pronta, il popolo festeggiò per giorni interi la sua consegna, richiamando gente da tutte le valli vicine, e fu proclamata una settimana di festa ogni anno in occasione dell’anniversario della liberazione di Fantasy. Clara e Armida, ormai inseparabili, dominavano sul regno rendendolo il più felice al mondo.

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Vittorio Carrano - Manlio Centamore - Guglielmo Dell’Aria - Carmen Messina - Aurora Padellaro

Polvere di fata


Era un sabato pomeriggio e, dopo una settimana di scuola molto impegnativa per via dei numerosi compiti ed interrogazioni di fine trimestre, si decise di andare a fare una partita a calcio nel campetto vicino la scuola per scaricarsi un po’. Quel giorno, i compagni di classe invitarono a giocare anche Gianmarco, un ragazzo un po’ impacciato e lento ma solo perché era molto timido. Aveva i capelli castani, occhi verdi coperti da occhiali che gli avvolgevano parte del viso paffutello e con qualche brufolo sul naso. Aveva labbra carnose rese ancora più sporgenti dall’apparecchio per i denti, che desiderava togliere quanto prima, per assistere al miracolo di un sorriso perfetto. Gianmarco giocava nel ruolo di difensore perché preferiva non farsi notare a causa delle sue prestazioni atletiche non molto brillanti. Dopo circa mezz’ora di gioco, sentendosi stanco si appoggiò con la schiena al tronco di un albero che delimitava l’area del campo. Si stiracchiò e alzò le braccia per riprendere fiato, ma, involontariamente, premette un pulsante mimetizzato, nascosto sotto la corteccia della quercia secolare. Si aprì un varco sotto i suoi piedi che lo catapultò istantaneamente in un mondo sotterraneo.

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Inizialmente confuso e spaventato, rimase sbigottito nel trovarsi in un ambiente umido ma stranamente ben illuminato da grandi lampioni. Ben presto, girovagando senza una meta precisa, si accorse che si trattava di una grande città. Non era, tuttavia, una capitale come quelle che si vedevano in televisione, ma una molto speciale e strana: si rese conto, immediatamente, che non era presente la forza di gravità. Si ritrovò a ondeggiare in un cielo limpido e senza nuvole e se inizialmente ebbe una sensazione di angoscia e paura per l’assenza di peso, perché non riusciva a controllare i movimenti del suo corpo, pian piano si sentì quasi a suo agio quando ebbe l’intuizione di rilassarsi; il turbamento si trasformò in eccitazione ed entusiasmo per un evento fuori dal comune, irripetibile e mai provato fino ad allora. Le case con i loro giardini ben curati e rigogliosi, i palazzi dalle forme antiche ed alcuni ultramoderni dalle facciate colorate e variopinte, le chiese (almeno così gli sembrarono per la presenza di campane di bronzo che scandivano il tempo con il loro suono) e tutti i monumenti, erano sospesi in aria e fluttuavano nel cielo secondo un ordine preciso. La cosa impressionante era che questa metropoli era popolata da personaggi fantastici e surreali cioè da fate dalle ali dorate ed evanescenti che potevano essere riconosciute dai cappelli a punta e dalle bacchette magiche che tenevano in mano. In cielo si potevano distinguere anche elfi volanti che consegnavano la posta a tutte le abitazioni. Mentre si guardava intorno intravide un oggetto luccicante, simile ad una moneta d’oro a terra e, quando gli si avvicinò, lo toccò e svenne. Al suo risveglio, completamente intontito, comprese di essere in un luogo differente dal precedente, un bosco, e iniziò a esplorarlo. Fitto di alberi e con

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un laghetto quasi nascosto, sentì il bisogno di bervi un sorso, così vi attinse dell’acqua e quando gli si inginocchiò notò subito che non si rifletteva e stupito prese una foglia per vedere se essa riusciva a vedersi. Solo lui non si specchiava! Pensò così di essere invisibile e continuò a provare finché non confermò la sua teoria. Chissà se aveva altri poteri. Cominciò, perciò, per prima cosa a sollevare un albero dicendo fra sé e sé: - Alzati, dai! Perché non ti sollevi?! - ma capì di non avere la super forza. In seguitò provò a volare, si mise in posizione con il braccio destro sollevato verso il cielo e disse: - Adesso volo, uno, due e.. tre. - fece un salto e cadde a terra. Tentò di nuovo; stavolta si mise su una pietra e cominciò a bisbigliare: - Perché non riesco a volare? Adesso riprovo e… verso l’infinito e oltre! - per l’ennesima volta fu un niente di fatto. Allora testò la telecinesi e mise il braccio in avanti con la mano aperta e iniziò a recitare: -Adesso, tu foglia, verrai da me in men che non si dica. E… ci riuscì! Se la ritrovò in mano. - Sììì! Ho questo super potere! Felice decise di provare con la super velocità. Si mise in posizione e iniziò a correre più veloce che poteva e in quasi tre secondi arrivò dall’altra parte del bosco. - Non ci credo! È pazzesco, ditemi che non è un sogno! Esausto non provò più altri poteri: era già soddisfatto di avere l’invisibilità, la telecinesi e la super velocità. Si riposò un attimo e poi riprese immediatamente a giocare con le sue abilità, fantasticando che sarebbe diventato un supereroe e che avrebbe salvato il mondo.

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Finalmente, si allontanò in volo dalla foresta in direzione della città. Mentre la esplorava, si imbatté in un grande palazzo di vetro che era sede di un’importante assemblea cittadina. Entrando nella sala grande riccamente addobbata di affreschi e arazzi disse: - Buongiorno a tutti, mi chiamo Gianmarco. Un uomo piuttosto basso e cicciottello si avvicinò a lui dicendo: - Ciao Gianmarco, io mi chiamo Felipe e sono il rappresentante del popolo. - ci fu un attimo di silenzio e ricominciò a parlare - A nome di tutto il popolo ti affido un compito importantissimo. - e porgendogli un coltello continuò Quello di uccidere lo stregone con questo pugnale magico. Gianmarco esitò: - E perché mai dovrei ucciderlo? Il rappresentante si sentì imbarazzato. Aveva dimenticato di spiegarglielo e allora come se nulla fosse continuò: Devi uccidere questo malvagio stregone, di nome Tedeo, che da tempo prende in ostaggio nel suo palazzo le fate che poi utilizza per produrre la polvere necessaria per volare. Così facendo le fate perdono la loro magia e hanno solo sessanta secondi di vita. Al ragazzo tale chiarimento era bastato e fece un cenno di approvazione con la testa. Felipe lo condusse all’uscita dandogli delle indicazioni per arrivare al palazzo dello stregone e una sua foto e disse: - Tieni, così che potrai riconoscerlo. Si salutarono e andò via. Gianmarco cominciò ad osservare lo stregone: era magro, portava una tunica nera e aveva il naso aquilino. Arrivato davanti al palazzo di Tedeo, fece un respiro profondo e vi entrò. Lì incontrò tre fate che erano riuscite a fuggire dalle loro gabbie. La prima che cominciò a parlare con lui si chiamava Giovanna. Era bassina e cicciot-

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tella, indossava un vestito di colore rosso e non sembrava per niente socievole. - Chi sei tu e cosa vuoi? Stai in guarda. Non torcere un capello né a me né alle mie amiche o te ne potrai pentire. disse lei con un timbro di voce che si mescolava tra rabbia e paura. - No, no. Non oserei neanche pensare una cosa simile. Comunque io mi chiamo Gianmarco. - rispose. La fata che parlò dopo si chiamava Azzurra, era alta, snella e aveva un sorriso stampato sul viso: - Devi scusare Giovanna ma, come potrai ben immaginare, siamo scappate dal crudele Tedeo. Io mi chiamo Azzurra e lei è Giovanna. Mentre la fata che si sta nascondendo da tutto il tempo dietro di noi, è Violetta - disse lei con voce amichevole, calma e dolce. Poi Violetta uscì dal suo nascondiglio: - C-ciao. - disse. Era molto insicura, aveva un abito viola e non era né troppo bassa né troppo alta. - E tu invece che fai qui? È molto pericoloso, scappa, va’ via da qui! - disse Azzurra. Lui le raccontò tutto e le tre fatine andarono via di lì di corsa per paura che Tedeo potesse di nuovo rapirle. Mentre il ragazzo le salutava, Tedeo, che nel frattempo le stava cercando, lo trovò, si avvicinò a lui di soppiatto e lo rapì. Lo mise in una grossa sporta, se lo mise sopra una spalla come un sacco di patate e si incamminò verso le prigioni. Camminando lo stregone fece sbattere la testa contro il muro al ragazzo che perse i sensi. Quando Gianmarco si svegliò si ritrovò in una cella. Il giovane, allora, usò l’invisibilità. Le guardie, temendo che lui fosse scappato, aprirono le sbarre e proprio in quel momento lui si dileguò. S’incamminò verso il nascondiglio

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segreto dello stregone per affrontarlo. Si trattava di una delle stanze sotterranee del più antico e fortificato castello della città, raggiungibile solo dopo aver attraversato la foresta proibita. Mentre la percorreva, fece un incontro particolare. Infatti, venne aggredito da un centauro che in realtà era solo preoccupato e spaventato. Tuttavia il ragazzo riuscì a fargli capire di essere buono e che il suo unico scopo era quello di difendere il loro regno dal potente stregone. Così, il centauro di nome Oliver, che era di norma un essere amichevole e gentile, decise di unirsi alla nobile causa, pur non amando lo scontro. Inoltre, pensò di chiamare anche il suo amico Damien, un cucciolo di drago, il quale apparve subito scontroso e diffidente nei confronti di Gianmarco, tuttavia si fidò di Oliver. I tre così arrivarono al castello e si diressero immediatamente dal potente Tedeo, che vedendoli lanciò contro di loro vari incantesimi. Nello scontro quest’ultimo ebbe la meglio e il ragazzo e i suoi due nuovi amici si ritrovarono chiusi in una camera di vetro dentro la prigione della città. Lo stregone, però, non conosceva tutti i poteri del giovane, che infatti non appena il malvagio si fu allontanato per andare in città a prendere nuove prede, trovò il modo di aprire la gabbia. Questa volta utilizzò la telecinesi con cui richiamò le chiavi cadute ai guardiani all’ingresso della prigione, precedentemente messi al tappeto dal centauro. In quel momento Damien capì le buone intenzioni del ragazzo e decise di aiutarlo senza più riserve. Tutti e tre partirono alla ricerca dello stregone. Arrivati in città, insieme all’aiuto delle tre fate più coraggiose Azzurra, Violetta e Giovanna, colpirono Tedeo. Tuttavia lo stregone si difese scagliando un potentissimo incante-

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simo mortale che colpì in pieno petto il povero Damien, che fece da scudo per proteggere tutti i suoi amici, cadendo così morto a terra. A quel punto Gianmarco, con l’invisibilità e la super velocità avvolse Tedeo con una catena e grazie al centauro e le tre fate lo rinchiuse in una torre alta e inaccessibile. Quando Gianmarco tornò dalla grande battaglia, il popolo, avendo saputo della vittoria, lo ringraziò e gli fece molti regali tra cui una piccola casetta dove poter abitare e una targa per ricordarsi del suo atto eroico. Inoltre, avrebbero voluto nominarlo Gran Visir, ma lui rifiutò la proposta poiché, nonostante apprezzasse molto i doni e i ringraziamenti, quell’universo sotterraneo non era il suo luogo di appartenenza. Salutò quindi le tre fate, abbracciò tutti quelli che lo avevano aiutato a compiere la sua missione, ringraziò il centauro Oliver e disse anche una preghiera per il povero cucciolo di drago che si era sacrificato per lui. A quel punto, attraverso un portale magico tornò nel mondo reale dove tutto ebbe inizio. Lui si ritrovò davanti all’albero che lo trasportò in quel mondo sotterraneo. Tornato, tentò di vedere se aveva ancora i superpoteri ma, si accorse, di averli perduti. Entrò in casa e guardò il grande orologio a pendolo nella sua cucina e notò che erano passati solamente cinque minuti. In quei momenti era molto confuso e voleva raccontare la sua esperienza con tutti i particolari, perciò scrisse un libro che appassionò molte persone. Dopo la sua avventura, Gianmarco non era più timido e impacciato, ma più sicuro di sé e con un forte desiderio di viverne o raccontarne altre, nuove ed emozionanti.

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Erika Cancilleri - Antonino Caruso - Giulia De Angelis - Bianca La Porta - Federico Zerbo

AP-1: una nuova era


Diario di Bob 27 gennaio 2076 In questi ultimi anni, la Terra non è più quella di una volta, avendo subito notevoli mutamenti climatici a causa della disattenzione dell’uomo per gli effetti dell’allargamento del buco dell’ozono e dell’eccessivo effetto serra. Essa si presenta per una buona parte desertica dove non vi è alcuna forma di vita. Nell’altra parte, invece, vive, in una situazione di sovraffollamento, il genere umano il quale, grazie alle sempre nuove scoperte scientifiche, è arrivato a 15 miliardi di abitanti, ognuno dei quali è servito e riverito da sofisticati robot tanto da non essersi mai vista una tecnologia così avanzata. Ogni giorno vi sono nuove problematiche da affrontare legate alla sopravvivenza del pianeta e degli uomini ed attraverso sempre nuovi e complessi software. Noi uomini riusciamo a trovare le soluzioni ad ogni genere di problematica. Tutti, dunque, corrono ai ripari dai danni causati nel tempo da noi stessi cercando nuove soluzioni sempre più efficienti e tecnologicamente avanzate. Nelle enormi città del mondo gli uomini finanziariamente

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potenti dai loro superattici fanno da mecenati al fine egoistico di ottenere in anteprima sistemi e macchine sofisticate in grado di soddisfare tutte le loro esigenze, perfino quelle più futili, ma soprattutto il loro smisurato ego. Infatti ognuno di loro aspira ad essere lo scopritore del talento ingegneristico che inventerà l’androide perfetto. A tal fine vengono da essi organizzati sempre nuove selezioni di giovani scienziati. Io, Robert Smith, sono tra essi e credo di essere arrivato dopo anni e anni di ricerche alla soluzione per la costruzione dell’androide perfetto. Un arido giorno di febbraio, il ricco imprenditore statunitense Jim Walton, uomo dalle fattezze adipose, con capelli grigi come il fumo che usciva sempre dalla sua pipa e occhi di ghiaccio come la sua anima, era seduto nello studio del suo superattico, quando la voce del suo computer lo informò che un giovane e brillante ingegnere, Robert Smith del Missouri, del quale era il mecenate, aveva inventato “l’androide perfetto”. Mentre ascoltava, l’uomo non riusciva a credere a quello che udiva ed emozionato pensava all’importanza di quella scoperta. Finalmente avrebbe potuto soddisfare la propria vanità! Il computer parlò ancora attirando ancora una volta l’attenzione dell’uomo ingordo: - Il robot è fatto di una lega metallica quasi indistruttibile con una forza nelle sue braccia meccaniche mai vista. Esso ha un rivestimento di metallo indistruttibile di colore argento che lo ricopre da capo a testa, ma la cosa più spettacolare è il suo cervello visibile all’occhio umano perché il metallo posto sul cranio è invece di un materiale trasparente. Quell’encefalo spettacolare a vedersi rende l’androide speciale un’I.A. in grado di pensare, non di

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eseguire solamente degli ordini e dunque agire come meglio crede, in modo quasi del tutto autonomo dal padrone. Il giovane ed ingenuo Bob non era però a conoscenza di quale fosse il vero scopo del robot e della volontà di uomini avidi e molto potenti di utilizzare l’androide perfetto per la costruzione di un esercito invincibile in grado di controllare il mondo. Era un pomeriggio come tanti, Bob si trovava nel laboratorio con i suoi collaboratori per ultimare gli ultimi dettagli del suo robot, quando il telefono squillò più volte. Egli si affrettò a rispondere: - Pronto, chi parla? - Mister Diamond ed io con chi ho il piacere di parlare? - Sono Bob, il responsabile dell’Androide AP-1, in cosa posso aiutarla? Diamond, con tono piuttosto acceso rispose: - Telefono per comunicarle che siete in forte ritardo per la consegna. Desidero avere immancabilmente il robot pronto all’uso per domani mattina, altrimenti i finanziamenti verranno sospesi e voi sarete rimossi dall’incarico. A quelle parole Bob rimase sconvolto e preso dall’ansia iniziò nervosamente a cercare gli ultimi chip che mancavano per finire il lavoro. Ne provò tanti, tutti quelli che gli venivano fra le mani, ma nessuno andava bene. Era proprio scoraggiato, andò in bagno, iniziò a disperarsi e a chiarirsi le idee su come si poteva risolvere il problema. I collaboratori, per conto loro, erano alla ricerca di una soluzione possibile. Yum, che stava sperimentando un drone e per il quale aveva creato un chip nuovo, propose di provarlo nel robot per vedere se andava bene. Bob non avendo niente per le mani che lo soddisfacesse ascoltò il suggerimento e inserì il pezzo nel robot cercando di metterlo in funzione.

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Dopo diversi tentativi di fallimento alla fine si accese e diede qualche lieve segno di vita. Ciò stupì e convinse tutti. Ogni componente del gruppo iniziò a fare la sua ipotesi risolutiva di utilizzo del nuovo chip. Le idee erano tante e tutte positive, Bob decise di analizzarle una ad una per scegliere quella migliore che non avesse alcuna possibilità di guasti. Lavorarono tutta la notte senza sosta e all’alba finalmente individuarono la giusta soluzione. Finirono il lavoro e provarono più volte il robot per verificarne il funzionamento. Tutto era perfettamente in ordine, AP-1 poteva essere recapitato. I tecnici lasciarono il laboratorio per andare a riposare qualche minuto prima della cerimonia prevista nella tarda mattinata. Giunta l’ora Mister Diamond si presentò per ritirare l’AP-1 e disse ai presenti che erano tutti invitati alla riunione organizzata per la consegna ufficiale. Si recarono al Pentagono, furono accolti in una grande sala dove c’era il Capo ad attenderli. Seduti intorno ad un imponente tavolo ascoltarono le parole garbate ma solenni che egli pronunciava per ringraziarli del lavoro svolto. Quando stava per concludere esclamò: - la Nazione vi sarà eternamente grata perché con la vostra opera ha raggiunto l’obiettivo: possedere un’arma segreta invincibile. AP-1 sarà il nostro asso nella manica in caso di attacchi da parte di altri paesi. Ne creerete tantissimi, essi formeranno un esercito imbattibile capace di distruggere i nostri nemici. A quelle parole Bob rimase basito e spaventato, trattenne ogni movimento del volto per non far trapelare il suo stato d’animo. La sua paura divenne sempre più grande fino a diventare panico quando udì che, in breve tempo, dovevano costruirne diecimila. Terminato l’incontro il finanziatore chiese di vedere in

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azione AP-1 per rendersi conto della sua validità. Così avvenne. A malincuore Bob lo attivò. Il robot, che aveva sembianze umane, di colore grigio metallico, con degli occhi luminosi rossi, mosse le braccia, le dita, girò la testa, gli occhi, e guardò Bob che lesse in quello sguardo non solo la freddezza tipica di un essere meccanico, ma anche cattiveria e determinazione. Mister Diamond, dopo averlo osservato attentamente, con voce enfatica: - Bravi!!!! Avete fatto un ottimo lavoro, “lui” sarà l’artefice della nostra gloria in campo. In una frazione di secondo il robot si alzò, prese per il collo Bob e lo sollevò con un’espressione che si sarebbe potuta definire annoiata. Il robot iniziò a parlare con un tono di voce metallico: Ciao! Io sono AP-1, grazie per avermi dato la vita e anche questa straordinaria mente capace di ragionare. - poi continuò - Ma scommetto che non sai il mio scopo principale. Proprio in quel momento entrarono gli altri generali. Senza dare loro nemmeno il tempo di rendersi conto, li trucidò con il suo laser. Poi fornì la sua spiegazione a quell’atto scellerato. - Il mio scopo principale era quello di duplicarmi e creare un esercito invincibile guidato da tanti AP-1 identici a lui comandati dai capi del suo magnate. Volevo, però, anche agire secondo le direttive del mio creatore, cioè le tue, che erano quelle di migliorare le condizioni di vita sul pianeta. E io so già che mi chiederai come farò, ma io ho già la risposta pronta. Il mio nuovo obiettivo è di risollevare il nostro mondo dalla situazione attuale, sull’orlo del baratro, con le risorse quasi esaurite e il problema della sovrappopolazione. Risolveremo tutto questo, eliminando la società malata corrotta

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di oggi, eliminando il cancro dell’uomo malvagio e corretto, creando una nuova società, forte, equilibrata, né ricchi né poveri, niente inquinamento, né sfruttamento minorile, né razzismo e altro schifo del genere. Ma ovviamente lo scienziato non stava dalla sua parte, ma non ebbe nemmeno il tempo di dire qualcosa che il robot lo colpì alla tempia. Bob svenne. Quando si risvegliò dopo il colpo datogli dal robot, si trovò immobilizzato su un lettino piccolo e rovinato in una stanza bassa con le pareti, un tempo bianche, piene di macchie nere, con una luce accecante dritta proprio in faccia dentro un edificio fatiscente che quasi cadeva a pezzi sulla sua testa, simile ad un ospedale. Accanto a lui c’erano altri, circa dieci lettini identici, dove giacevano altrettante persone di diverse etnie, che, pur sembrandogli familiari, non riuscì subito ad identificare. Quando si riprese del tutto li riconobbe: erano alcuni dei più grandi e stimati scienziati del pianeta. - Quel folle deve averli rapiti per assecondare il suo malefico piano, - pensò - cioè quello di eliminare la gente come dire “inutile”. Poi, si accorse che il maligno androide era lì proprio davanti a lui. Anzi, erano due, no, erano in tre. - Santo cielo, si è duplicato. Devo andarmene via da qui. Dopo tanti tentativi riuscì a liberarsi dal letto, ma uno degli androidi lo bloccò e lo trascinò dagli altri due. Questi decisero di portarlo dal loro capo, il primo androide perfetto, che lo ricevette dicendo la classica frase: - Ti stavo aspettando. – con un freddo ghigno sul volto. Bob venne trascinato dai due robot fino all’ascensore e da lì al piano sotterraneo più protetto. La porta dell’ascensore si aprì e venne portato fuori. Alla

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fine dello stretto e claustrofobico corridoio vi era la porta corazzata, tanto pesante che veniva l’ernia al solo guardarla, con le due guardie metalliche armate di fucile. Aperta la porta, entrarono nell’ex-studio di mr. Diamond, ora di proprietà di AP-1, che seduto alla scrivania, li guardava entrare, sorridendo. Si era completamente trasformato: non era più di nudo metallo, ma aveva una maschera che lo faceva sembrare umano, la pelle chiarissima, dei capelli castano scuro, persino due finti bulbi oculari (seppur le pupille brillassero ancora di rosso); era identico al suo creatore. Il giovane Robert, appena vide quel sorriso inquietante, capì che il suo folle piano del genocidio dell’umanità si stava realizzando. Rosso di rabbia, urlò: - Cos’hai fatto? Cos’hai fatto, lurido ammasso di ferraglia?!! - Calmati, ragazzo. - disse lui, calmo - Io sto solo cercando di aiutare il tuo pianeta. E poi, dovresti incolpare il tuo ricco amico. - le rosse pupille brillarono – Aveva “amicizie” piuttosto in alto. Il giovane non capiva. Poi, intuì: amici degli amici. - Si arriva fino al presidente... - mormorò. - Esatto! Credi sia stato difficile per i miei fratelli prendere il posto suo e di altri elementi? E pensi fosse complicato alimentare l’illogico odio tra i popoli? - Tu... vuoi una guerra! Una guerra così terribile da distruggere la razza umana! Ma...nessuno si salverà... come potrai... - È semplice, amico mio. Da giorni ormai, i miei doppi rapiscono e prendono il posto dei meritevoli. Cosa, secondo te tengo nei magazzini di questa e di mie altre basi, se non umani ed animali, che, verranno rimessi in libertà quando

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tutto sarà finito? Poi, sotto il mio controllo, l’umanità risorgerà con qualche centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, il quale potrà risollevarsi dalle disastrose condizioni in cui lo avete lasciato. Preso dall’ira, Bob si liberò dalla stretta dei due, saltò sul tavolo e cominciò a prendere a pugni AP-1, che rimase impassibile di fronte alla furia del giovane, che smise solo quando cominciarono a sanguinargli le mani. - Bah, - disse l’androide con sguardo sdegnato – per quanto tu possa essere intelligente, resti sempre un essere inferiore, irragionevole ed emotivo. La tua mentalità ottusa non ti consente di comprendere la magnificenza della mia opera... - AP-1, - si sentì rispondere solo - sei un mostro! Il robot poi rivolto alle guardie disse: - Portatelo via! Legatelo bene e sedatelo! Risvegliatelo quando vi darò l’ordine! Le due guardie corazzate portarono via il giovane, gemente dal dolore alle mani. La porta si chiuse con un tonfo. AP-1 accese la Tv 3D e guardò compiaciuto l’OLOTG, che annunciava il primo scoppio del conflitto. Spense l’apparecchio e, nel silenzio, con il suo freddo e sinistro ghigno pensò. Pensò che era in arrivo una nuova, splendida era.

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Aurora CalĂŹ - Giovanna Cosentino - Eugenia Gambino - Giada Mucimarra - Vittorio Ritrovato Andrea Signer

Natura 2200


Nel 2170 finalmente gli scienziati riuscirono a trovare una soluzione contro l’inquinamento che ormai studiavano da più di 500 anni. In precedenza per contrastare questo processo, si pensò di sostituire i CFC con il Freon, e i combustibili fossili con le fonti rinnovabili ma, queste non servirono a molto. Il nuovo progetto invece consisteva nel lanciare nell’atmosfera sostanze chimiche con l’intento di catturare ed eliminare le molecole di gas nocivi, principalmente CO2 e CFC, in modo da “purificare” l’aria. Nel 2180 tutto sembrava andare secondo i piani e che l’effetto serra stesse per svanire. Ma solo cinque anni dopo, il mondo iniziò a cambiare, le piante e gli animali iniziarono a mutare il loro ciclo. Alcuni scienziati dopo aver analizzato campioni d’aria arrivarono alla conclusione che i prodotti immessi nell’aria, per renderla più pulita, dopo aver adempiuto al loro scopo, si depositassero su flora e fauna cambiandone lo sviluppo. Già nel 2200 le piante continuarono a crescere in maniera smisurata trasformandosi in veri e propri mutanti. Costrette ad espandersi invasero pian piano tutte le città. Le foreste diventarono molto più fitte e cupe a causa degli enormi alberi

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che impedivano la penetrazione della luce, il suolo fu ricoperto da un tappeto di muschio e i funghi furono così grandi da poter essere usati come abitazioni. Anche gli animali cominciarono a mutare cambiando completamente le loro caratteristiche fisiche. Aumentarono il loro aspetto a tal punto che dei piccoli insetti assunsero le dimensioni di gatti. I mutanti animali aggredivano tutte le popolazioni della Terra causando la morte di circa quattro miliardi di persone. Le città erano sotto assedio ed i governi crollarono. Si crearono città fortificate in parte coperte da cupole (che coprivano solo i quartieri dei ricchi), per proteggersi dai pericolosi attacchi che col passare degli anni diventarono sempre più intensi. Gli animali infatti, dotati di dimensioni gigantesche erano capaci di danneggiare facilmente le costruzioni. In particolare i maggiori attacchi furono da parte dei topi giganti e dagli stormi di violentissimi gabbiani che attaccavano anche direttamente la gente. I ricchi inoltre si fecero sostituire parti del corpo, per la maggior parte gli arti inferiori e superiori, con protesi bioniche in ferro e circuiti che, dando maggiore forza, abilità ed anche evitando malattie alla pelle, servivano a farli uscire all’esterno senza troppi rischi. I poveri invece erano costretti a stare nelle parti più esterne della città (quelle che, se attaccate, sarebbero state più a rischio essendo senza la protezione della cupola) per tutta la vita e quindi quasi ogni giorno si contavano delle vittime. Per questa ragione furono organizzate molte manifestazioni, sia dai poveri ma anche da una piccola parte di alto borghesi. Questi ultimi, per il fatto di essersi uniti a queste rivolte furono giudicati traditori del proprio ceto sociale e vennero espulsi dalle cupole per essere accolti dalla popolazione più povera. Lo scopo di queste proteste, che avvenivano lungo le stra-

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de della città coperta, era quello di ottenere delle abitazioni più sicure e di poter utilizzare i dispositivi che avevano i ricchi. Mesi di proteste furono però inutili dato che i ricchi non avevano nessuna intenzione di cedere o condividere le proprie case, anche se disabitate, e nemmeno di dare un aiuto economico agli altri. Si viveva quindi nella paura, nel terrore e nella totale diffidenza altrui. Nella città di Nuova Londra i problemi della natura si stavano aggravando, fino ad arrivare alla perdita della figlia del possente governatore, un uomo paffuto con dei lunghi baffi bianchi un po’ alla turca, occhi marroni e una veste d’orata in segno di potenza. Proprio lui aveva perso la sua unica figlia, Joanna, una ragazza di sedici anni un po’ viziata, ma allo stesso tempo docile e bella. Aveva, infatti, dei capelli mai visti prima, ovvero color acciaio, dei grandi occhi neri come vortici e indossava un largo vestito color rosso vermiglio. La giovane in quei giorni si stava recando in viaggio a Edimburgo scortata da tre guardie del corpo. Il padre, arrivata la sera, tentò di contattarla, ma il suo telefono era spento come quelli delle guardie. Molto preoccupato e preso dalla furia decise di mandare in soccorso una squadra di cinque soldati bionici e sei ragazzini volontari dei quartieri poveri che decisero di accettare l’impresa, sperando di essere liberati dalla povertà. Erano: James Arthur, di diciassette anni, biondo, con gli occhi verdi, William Bolton sedici anni, capelli neri e ricci e occhi castani, Katries Blossom quindici anni, capelli corti e bruni e occhi azzurri, Andrews Jonson, tredici anni, abbastanza alto per la sua età, Eleonor

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Macmillan la ragazza più grande di diciotto anni, bionda e occhi azzurri e infine il più forzuto tra tutti Christopher Douglas diciannove anni, alto, capelli bianchi e occhi color ghiaccio. Mentre i soldati erano Harry Barret con braccio e occhi bionici, Joanna Parker che aveva arti inferiori e superiori totalmente bionici, Neyl Meta con una scatola cranica rinforzata in acciaio, Matthew Paper che aveva braccio e orecchie bioniche, avendo un udito amplificato riusciva a percepire il suono ancora prima che avvenisse. Il loro cammino iniziò dall’ultimo luogo da cui era arrivato il segnale GPS della figlia. Era foresta costituita da alti alberi, un tappeto di muschio morbidissimo e dei grandissimi funghi, tanto che loro in confronto erano dei piccoli gnomi. Incantati da questo posto così strano vennero bloccati da un maestoso gatto selvatico grande quattro metri da seduto, che aveva il manto fasciato bruno, dei lunghi denti affilati e degli occhi rossi. Tutta la paura veniva procurata dal suo sguardo che riusciva a perforarti l’anima. A uno dei soldati venne staccato un braccio bionico a causa della dentatura possente del felino. Spaventati e disgustati da questa scena proseguirono fino ad una palude tra fitte mangrovie. Proprio quando il piccolo manipolo si trovava al di sopra di una ninfea gigante e tutto sembrava quieto, vennero sbalzati in aria da un gigantesco serpente nero con riflessi verdi, la testa triangolare e numerose zanne all’interno della bocca. Dopo il grande salto ripiombarono in acqua, cercavano di nuotare il più in fretta possibile, ma la belva era veloce e molto estesa. I soldati l’attaccavano con i propri organi bionici, ma la sua pelle era troppo robusta. Finalmente dopo tanti sforzi uscirono delle acque fangose, videro una piccola caverna illuminata, subito si diressero verso di essa e si ritrovarono sul picco delle

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montagne. I ragazzi non appena iniziarono quel lungo tragitto si trovarono ad attraversare un’immensa foresta piena di piante e arbusti giganti, di ogni tipo e mutanti molto aggressivi, e proprio uno di questi decise di attaccarli d’improvviso. I soldati per questa missione indossavano una divisa mimetica che lasciava fuori solo le parti bioniche e la tuta si completava con stivali molto pesanti. Loro riuscirono a scappare, ma uno di loro tentando di distrarre il mutante perse uno dei suoi bracci bionici. Attraversato qualche metro immersero in una buia e tenebrosa palude. I soldati quindi accesero le loro lanterne, proprio quando videro muoversi un’ombra dietro i lunghi arbusti: un enorme serpente velenoso. A questo punto l’esercito cominciò a scappare, ma sapevano che il mutante prima o poi li avrebbe raggiunti. Così uno dei soldati disse: - Ragazzi, ho un’idea, ascoltatemi! Decise di spegnere le torce e nascondere le borse e tutte le cose a loro appartenenti, dietro diverse piante, in modo da far perdere le tracce del loro odore. Una volta sfuggiti al serpente mutante, arrivarono presso alti pendii rocciosi. Qui però furono attaccati da enormi gufi, anche questi mutanti. Per salvarsi diedero in pasto due dei loro ragazzi e il soldato senza braccio, quest’ultimo ormai considerato inutile nella missione. Arrivati al luogo dove pensavano fosse stata rapita la giovane figlia del Governatore, vennero presi da un gruppo di mercenari che li sequestrarono e li portarono al loro covo. Questo era molto buio e sporco ed era illuminato da qualche lampada ed era soprattutto pieno di esplosivi e armi. Una ragazza parlò: - Noi siamo della Hood! Un’istituzione che da anni si batte per le vite persone.

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Eleanor mugugnò qualcosa come “assassini” o “terroristi”. Uno dei soldati della Hood avanzò dalla penombra e rubò dei fogli dalla tasca di Matthew, sferrandogli un calcio in pancia. Andrew notò che il soldato aveva capelli grigi e una barba incolta, dal viso rugoso e secco deduceva che non usava il sapone da molto tempo. - Siete dei mostri! - urlò Eleanor in lacrime, mentre un soldato le puntava un coltello alla gola. - Noi saremmo dei mostri… non i vostri compagni qui presenti? - urlò di risposta il soldato anziano; incominciò ad aprire le carte ingiallite rubate a Matthew, si schiarì la voce e incominciò a leggere – Fedeli soldati. Quel branco di idioti analfabeti che vi accompagna è un insulto a me e a voi. Io ho concesso a questi individui di partire con voi solo per poter permettere a voi di sopravvivere; questi ragazzi sono carne da cannone. Usateli per avere meno perdite possibili: non devono tornare indietro. Non ho intenzione di sprecare delle ricchezze per premiare degli esseri che moriranno nel fango, ubriachi, come di solito capita alla gente di quella zona. Ahimè, se loro dovessero tornare indietro e io non dovessi pagarli, aizzerebbero quei pezzenti dei loro concittadini contro di me, e non mi serve che sfoltiscano il numero della mia forza lavoro per una becera rivolta, gli animali mutati hanno fatto abbastanza morti. Detto questo spero che voi riusciate a eliminarli tutti, infondo, anche i mutanti animali devono mangiare. Firmato: Il Governatore di Nuova Londra. All’udire queste parole Andrew sentì le viscere rivoltarsi e attorcigliarsi dentro di lui, voleva urlare, ma non ne aveva la forza, non aveva neanche lacrime da versare… provava solo una rabbia viscerale.

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- BASTARDI! – urlò Christopher, sputando in faccia a Joanna. Andrew sentì un soldato spingerlo in avanti e la pressione delle corde allentarsi e finalmente liberarsi. Riuscì ad alzarsi in piedi e si massaggiò i polsi arrossati, si guardò in torno e vide che i suoi amici erano liberi e in piedi come lui. Il soldato anziano allargò le braccia, come un predicatore che parla ai suoi fedeli: - Noi della Hood combattiamo contro il fatto che i ricchi vi costringano a una vita di stenti… - Se voi mi torcete un capello mio padre, il Governatore di Nuova Londra, vi farà impiccare! È ovvio che i soldi ti diano potere, le persone che vivono in quelle baracche sono solo pigri, sono solo troppo ubriachi per alzare il sedere e lavorare! – urlò la ragazza disturbando il soldato. Lui si avvicinò e si piegò per guardarla negli occhi: - Abbiamo fatto detonare la cupola e le mura dei quartieri ricchi, il mondo che conosci non esiste più! Poi si alzò. Andrew non poteva crederci… erano tutti morti. Aveva sempre voluto essere lì, e ora? L’uomo (che a quel punto Andrew pensò che fosse il capo) fece portare un televisore. - Un televisore? - si domandò Andrew - è da centotrent’anni che non se ne vede uno. Lo schermo venne acceso e Andrew non riuscì a credere ai suoi occhi. Si videro delle riprese (evidentemente fatte con un drone) dell’attacco degli animali. Molti morivano attaccati da mutanti mostruosi, altri morivano per le esplosioni delle bombe. Ma una scena gli diede un’enorme soddisfazione: vide quel porco del Governatore scappare e inciampare sul suo vestito dorato. Mentre giaceva a terra, un pipistrello nero grande quanto un piccolo aereo che Andrew vide schiantato

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a terra, si lanciò sul grasso Governatore mostrando le sue lunghe zanne. L’enorme creatura coprì con le sue ali il Governatore… e lo sbranò. I sequestratori, infatti, facevano parte di un’associazione la “Hood” che voleva annullare il potere dei ricchi sui poveri, distruggendo il simbolo di questa disuguaglianza sociale. Infatti, i quartieri abbienti di Nuova Londra facevano vivere senza nessuna preoccupazione i suoi abitanti, esentandoli da tutti i problemi sociali che le persone più povere dovevano affrontare nascondendosi in edifici abbandonati o in grotte. Dopo il discorso fatto ai sequestrati, i membri della “Hood” discussero ed esaminarono le possibili soluzioni su cosa fare dei ragazzi. Uno di loro, un uomo robusto con una lunga barba, disse: Uccidiamoli, devono fare la stessa sorte che faranno i soldati. Ma subito dopo un ragazzo con i capelli neri e occhi azzurri prese parola e disse: - Lasciamoli liberi, questi ragazzi sono stati ingannati per soldi. Così terminata la riunione decisero di lasciarli liberi a patto che fossero scappati il più lontano possibile e che non avessero rivelato a nessuno da chi erano stati catturati e dove. Poco dopo i terroristi mandarono un video a tutti i capi di stato e nei televisori degli abitanti di Nuova Londra dove giustiziavano i soldati bionici e la figlia del Governatore, definendoli esempi di corruzione della società. Alla fine del video al posto dei soldati, appariva la figlia del Governatore scomparsa che esponeva alla videocamera la sua idea politica ispirata dal padre basata sul dominio delle persone benestanti. Il governatore così fece rintracciare la posizione della base in cui era stato girato il video, ma quando i soldati arrivarono al bunker trovarono soltanto i corpi straziati dei soldati e

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della ragazza. Gli adolescenti dopo il rapimento si diressero verso l’isola di Azzan intrufolandosi in un’imbarcazione piena di scorte alimentari. Durante il tragitto iniziarono a confidarsi le proprie ambizioni e i propri segreti, creando così un gruppo molto affiatato. Una volta sbarcati si diressero nell’isola indicata dalla Hood, libera da questa ideologia e con meno attacchi animaleschi, dove trascorrere finalmente un’esistenza più serena.

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Kornell AlĂŹ - Samuele Deni - Guglielmo Fassari Alessio Gibilaro - Emma Lo Stimolo - Luca Zappulla

Il trionfo delle idee


“L’AUSTRIA HA DICHIARATO GUERRA ALLA SERBIA: Grandi preoccupazioni per la pace europea”. Era questo il genere di titolo che in quel periodo regnava sui giornali. Io, Giancarlo Matteotti, ero allora un bimbetto di cinque anni con folti capelli castani e occhi del medesimo colore, che seduto sulle gambe di mio padre Giacomo fingevo di comprendere, di essere alla sua altezza. Gli ponevo domande non so quanto pertinenti fino a quando... - Giacomo! Quante volte ti ho detto che a tavola non si parla di politica? Era Velia Titta, mia madre, una donna non molto alta, con un vecchio grembiule bianco, capelli color caffè legati in una crocchia disordinata e due limpidi occhi azzurri. Continuò: - Sono dei bambini, non capiscono nulla di quello che dici. In effetti con noi, seduto che pranzava, c’era anche mio fratello Matteo che con i suoi quattro anni deteneva il ruolo di piccolo di casa, e che adesso ci guardava con occhi confusi. - È proprio questo il punto, devono essere istruiti sin da bambini. - Ma non su questo! - Punti di vista. Ormai a casa mia funzionava così, papà essendo un deputato era molto stressato, parlava spesso di ciò che accadeva in campo politico e leggeva il giornale tutti i giorni; a mamma chiaramente non piaceva e faceva di tutto per allontanarci dai pericoli che potevano esserci, visto il lavoro di nostro padre. Noi, dal nostro canto, non capivamo granché, come tutti, in tempo di guerra. Dormivo tranquillo nella mia stanzetta buia quando, improvvisamente, le luci si accesero.

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Era mia madre che mi chiese dolcemente: - Tesoro, ti svegli per favore? Devi andare a scuola! - Lasciami dormire ancora un po’, mammina. Dopo io ovviamente non mi volevo alzare e sentendo mia madre che non mi chiedeva di andare a scuola mi ero tranquillizzato. Mia madre non si arrendeva facilmente e soprattutto aveva in questo caso un’arma segreta: chiamò in aiuto mio padre, che senza pietà mi tolse la coperta. Io ero stato invaso dal freddo e subito dopo mi sollevò di peso portandomi in cucina. Trenta minuti più tardi, mi ritrovai già sulla via di scuola, da solo, felice di essere diventato “grande”. Durante il tragitto ricordavo che la sera prima i miei genitori avevano parlato di tante cose che io per lo più non avevo capito. Ero davvero un po’ confuso: nella mia testa avevo un mucchio di parole e frasi complicate, ma ero felice di sapere qualcosa in più dei miei compagni. Ero sicuro che quelle nozioni mi sarebbero tornate utili: Dopo tutte le cose che ho sentito ieri ora farò una gran bella figura! Entrai pronto e speravo che quella fantomatica cartina, di cui avevano in passato parlato i bidelli, fosse arrivata per darci un’occhiata. Tutto teso entrai e vidi la cartina in bella mostra appesa al muro, tirai un sospiro di sollievo e mi precipitai su di essa curioso, cercando nomi di quelle lontane nazioni di cui aveva sentito parlare. - Vediamo dov’è quella Russia... ah eccola! Oh guarda, qui c’è l’Italia. Ad un certo punto entrò il maestro, si sedette in cattedra e aprì il giornale L’Avanti sorseggiando un caffè. Notai la scritta Benito Mussolini sul giornale e ricordai che i genitori

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avevano parlato di quell’uomo in modo diffidente. - Ah Benito Mussolini! Me lo ricordo, ne avevano parlato i miei genitori, però non ho capito bene chi sia. Di certo non sta per niente simpatico a papà... Il maestro, dopo aver letto qualche riga ripose il giornale sulla cattedra, bevve un altro po’ di caffè e guardò con aria tesa noi alunni dicendo: - Bambini, sapete che cosa sta succedendo nel nostro paese? Noi bambini lo guardammo straniti, perché non capivamo a cosa si riferisse il maestro. Poco dopo il maestro riprese: - Beh il fatto è che c’è un clima di tensione internazionale e, per esempio in Italia, ci sono alcuni scontri ideologici; in particolare tra interventisti e neutralisti. Gli interventisti sostengono che si deve entrare in guerra per ottenere il Trentino, il Friuli e la Dalmazia o chiedere territori a potenze come Francia e Inghilterra, mentre i socialisti sostengono di seguire il modello bolscevico e abolire la monarchia. Forse i vostri genitori ne avranno parlato. Noi eravamo sempre più confusi, non capivamo cosa volesse dire il nostro maestro, che in effetti stava ripetendo a se stesso le preoccupazioni per la strada che intraprendeva il suo “Bel Paese”. Disinteressandosi di quanto raccontava il maestro, i miei compagni cominciarono a fare chiasso, giocare tra di loro, lasciando il maestro da solo con i suoi discorsi incomprensibili. Uno solo tra loro lo guardava fisso, ricollegando il discorso del maestro con quanto detto la sera prima dai suoi genitori. Quello ero io; mi volevo distinguere dalla massa, interessarmi a qualcosa di nuovo. Ora c’eravamo solo io e il maestro, avevamo creato una sintonia. Tutto attorno a noi si azzerava: il tempo, il silenzio… non ero mai stato così attento

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a un discorso di politica che, anche se non capivo benissimo, mi piaceva. Ci guardavamo dritti negli occhi con un segno d’intesa. Il maestro era fiero di se stesso; il messaggio era arrivato ad almeno una di quelle piccole testoline. Era arrivato proprio a me. Poi arrivò il momento delle prove di evacuazione, simulando non un terremoto, ma un attacco aereo. Il maestro ci preparò prima, per non farci spaventare, disse che a breve avremmo sentito la sirena e saremmo dovuti scendere nel bunker. Io alzai la mano e chiesi: - Maestro, scusi, ma a che serve uscire in un momento delle lezioni e andare in una casa sotto terra? Per caso è un gioco per riposarsi? Il maestro, con uno sguardo tenero rispose: - No, non dobbiamo riposarci, serve per esercitarci, per diventare sempre più bravi e veloci in caso di una nostra entrata in guerra. Così ci possiamo riparare da eventuali bombardamenti. Io non intesi esattamente le sue parole, ma sapevo benissimo che era un bravo maestro, non volevo chiedergli altro, perché non ce n’era il tempo. Avrei chiesto maggiori informazioni a mia madre. Dopo qualche mese da questi eventi, mio padre mi condusse di prima mattina alle urne per il referendum. Era la prima volta che mettevo piede in una scuola svuotata di alunni e piena di adulti. Qualcuno degli amici di papà mi scompigliò i capelli. Mio padre disse: - Dobbiamo vincere a tutti i costi questo referendum. L’Italia non deve entrare in guerra! Il socialista rispose: - Sono fiducioso, compagno Giacomo, ce la faremo. - Per l’Italia e la causa. - ribatté mio padre e alzò il pugno,

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come anche il suo amico. Così il 24 maggio del 1915 gli italiani votarono per far rimanere l’Italia neutrale. Il presidente del consiglio Salandra, che si dichiarò interventista, si dimise e ritornò a ricoprire l’incarico Giolitti. Questi incassò l’appoggio della Chiesa e anche dei socialisti, per i quali il conflitto era la guerra dei padroni, iniziata per ragioni imperialistiche e interessi capitalistici del tutto in contrasto con gli ideali internazionali della classe lavoratrice. Finì la scuola e la mia famiglia lasciò la casa di Roma per passare l’estate a Fratta dai nonni. Dopo qualche settimana dal nostro arrivo, però, verso il tardo pomeriggio giunse una macchina che si fermò sul vialetto di casa. Scese un uomo che s’incamminò verso di noi. Papà ed io stavamo bevendo una limonata, quell’uomo presto ci raggiunse e papà si accorse che si trattava di Turati. Appena lo vide si alzò subito in piedi e gli chiese: - Filippo, come mai sei qui? Filippo rispose: - Giacomo, sono qui per comunicarti che Mussolini è stato cacciato dall’Avanti. - Veramente? - C’è una situazione di confusione e hanno deciso che devi essere tu il nuovo direttore, devi tornare a Roma con me. - Va bene, - gli disse mio padre - dammi solo un momento. Mio padre mi guardò dispiaciuto, perché purtroppo la nostra giornata di pesca e di caccia alle rane doveva saltare. Mi abbracciò e disse: - Devi avere pazienza, Giancarlo, presto tornerò. - Va bene, papà. - risposi, ma avevo le lacrime agli occhi per la delusione. Mio nonno Girolamo intervenne dicendomi: - Sono un ot-

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timo pescatore e un abile cacciatore di rane, andremo insieme, tu ed io, ci divertiremo tantissimo. - Certo nonno! - urlai dalla gioia. Papà salì in macchina e lo salutai con la mano fino a che l’autovettura non sparì dalla mia vista. Passai una bellissima giornata di pesca e di caccia alle rane con il nonno, ma pensai che sarebbe stato più bello con il mio papà. Trascorsero tre anni. Eravamo nel 1917 ancora in periodo di guerra. L’Italia si trovava in una posizione importante perché grazie alle sue scelte era diventata la nazione più forte del momento. Potenziò al meglio le sue industrie di lavorazione dei metalli, delle armi (soprattutto carri armati e aerei) ma anche le industrie alimentari e sanitarie, così da portare l’Italia alla prosperità. Vendevamo questi prodotti alle nazioni belligeranti, ottenendone altre risorse da noi meno reperibili, come il nickel e la seta finora solo in paesi colonizzatori. Il nostro Paese inoltre costruì stazioni e ponti, portandoci ai più alti standard europei. In particolare, mio padre e il partito socialista riuscirono ad ottenere una serie di diritti agli operai, alle ferie più prolungate, alla malattia e al riposo, alla maternità. Anche i salari crebbero per i più volenterosi e i meno abbienti (mostrando apposite carte). Così gli operai erano sempre contenti e soddisfatti. La stima nei confronti di mio padre aumentava a vista d’occhio. Io ero sempre con lui ed ero fiero di quel che faceva, di come la gente lo guardava e ci guardava. Il 1° maggio una parata chiamava gli operai alla vittoria il cui motto era proprio “Operai a lavoro. Italia al potere”. Eravamo un superbo esempio per molti paesi dove invece, a causa della guerra e della crisi, gli operai non lavoravano e l’economia languiva. Arrivammo così al 1924. Era una mattina come tutte le

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altre, mi svegliai e mi preparai in fretta mettendomi l’uniforme della scuola con i pantaloni e la camicia bianca uguale a quella dei compagni. Dopo aver fatto colazione mi incamminai verso il liceo ginnasio statale ‘Terenzio Mamiani’ l’istituzione scolastica per eccellenza per i ragazzi della mia età, in quegli anni a Roma. Varcando la soglia della scuola tutti gli allievi borbottavano tra di loro come se era successo qualcosa. Dopo cinque minuti arrivò il preside e come per incantesimo tutti si ammutolirono. Io e i miei compagni ci recammo ordinatamente nelle rispettive aule. La mia aula era grande, esposta a sud-est e la mattina era del tutto illuminata naturalmente. Mi piaceva particolarmente l’edificio della mia scuola, costruito di recente, secondo i principi funzionali dell’architettura razionalista. Entrai in classe e mi sedetti senza fare il minimo rumore. La classe era già al completo quando giunse il professore, tutti ci alzammo compostamente in segno di saluto. Il professore Vincenzo era un uomo di quarant’anni alto, con i capelli neri, un po’ robusto, di carattere mite ma con idee interventiste. Dopo che invitò a sederci si girò verso lavagna e, dandoci le spalle, iniziò la spiegazione sul periodo francese. Mentre seguivo la lezione mi arrivò una pallina di carta e lo sguardo eloquente di Benito mi invitava ad aprirla. Il professore era ancora alle prese con la sua spiegazione, così, timidamente, aprii e lessi che nella notte la polizia aveva arrestato Benito Mussolini, un facinoroso ex socialista e altri violenti fanatici che facevano parte delle cosiddette squadracce. In quell’istante mi ricordai dei discorsi dei miei genitori, appena sveglio. Ero così immerso nel leggere quella notizia che non mi accorsi che il professore mi stava richiamando e quindi mi disse di portargli il biglietto.

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Il professore capì subito di cosa si trattava e ne parlò con la classe dicendo che secondo lui la polizia aveva esagerato ad arrestarli e che non ce n’era motivo. Io ascoltavo il professore molto incuriosito, perché avevo sentito parlare di quegli argomenti a casa da mio padre ed i suoi amici. Ed ero certo che mio padre non concordasse con il pensiero del maestro. Finite le lezioni, all’uscita feci strada con i miei amici e parlavamo soltanto di quel che era accaduto durante la notte. Mentre stavamo tornando ci fermammo a villa Borghese per un po’, il mio amico Benito si sedette sulla panchina a leggere il giornale mentre io e gli altri due miei amici stavamo pensando di organizzare il volantinaggio. Benito lesse ad alta voce la notizia sulle prossime elezioni e che il partito fascista di Mussolini era stato dichiarato illegale per le azioni violente dei suoi capi ed aderenti. Ero sempre più convinto a sostenere mio padre, le sue idee e la sua correttezza avrebbe potuto dare un contributo fondamentale alla risoluzione dei tanti e importanti problemi che affliggevano il nostro debole paese. Quindi era il momento di intensificare la mia attività di volantinaggio e di coinvolgere più compagni e amici dei compagni. Non appena arrivato a casa, lo dissi a papà poiché già si era candidato alle elezioni per il partito socialista. Nel pomeriggio mio padre mi vide organizzare la distribuzione di volantini. Non sembrava avesse un’aria arrabbiata, in genere non perdeva mai la calma e in quei giorni sembrava molto concentrato e focalizzato sul suo lavoro. Più che altro era mia madre che si preoccupava che potessi essere coinvolto in qualche agguato delle squadracce. Quei giorni di fervente attività da parte di tutti si conclusero con le elezioni del ’24 con le quali i socialisti presero il trenta per cento e mio padre Giacomo Matteotti fu scelto Presidente del Consiglio.

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Lorenza Armenio - Susanna Belfiore Giulia Campisi - Giada Giammona Rula Norzi - Andrea Panascia

Nello spazio infinito


La giovane astrofisica Daisy Dillart si era da poco trasferita a New York. Il suo appartamento sito al quinto piano era piccolo ed angusto ma conteneva tutto ciò di cui la giovane aveva bisogno. Sicuramente dopo aver abitato in una fattoria sperduta fra le campagne del Maine, vivere nella Grande Mela rappresentava per lei un sogno che pian piano si avverava. Infatti era passato del tempo da quando, ragazzina , seduta sulla riva del fiume che rifletteva il suo biondo platino e i suoi occhi azzurri, il faccino delicato e liscio come le sue labbra piccoline, pensava al suo futuro, al suo grande sogno, alla grande passione della sua vita: lo spazio e il suo mistero. Per questo aveva studiato e rinunciato a tanti svaghi e sacrificato ogni istante libero per raggiungere prima possibile il suo obbiettivo. La sua famiglia desiderava per lei un futuro da moglie, madre di famiglia e supporto fisico nel lavoro dei campi, ma lei aveva la passione dei pianeti e della fisica e non si vedeva affatto fra pecore, caprette, mucche e produzioni artigianali. A soli sedici anni, contro il volere dei genitori, si era recato ad Agusta, una bellissima cittadina degli USA e precisamente nel Maine, a casa della zia, sorella della madre da dove non

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era andata più via fino al conseguimento della laurea. Ovviamente le opportunità lavorative erano arrivate già dal primo anno di studi universitari, ma Daisy non desiderava perdere di vista il suo progetto finale e concluse il suo percorso celermente e con la lode. Daisy si trovava ora in questa metropoli, per diventare un’astronauta. Infatti, era stata assunta da un laboratorio della NASA, ente di ricerca specializzata in viaggi nello spazio. La sede era enorme, l’entrata era fatta di vetro con i sensori tattili sulla maniglia per l’accesso. All’interno c’erano le pareti che presentavano fantasie stellari e pavimento e tetto erano neri, come lo spazio più profondo. La giovane era stata chiamata per dirigere una missione per iniziare una colonizzazione di Marte. Lei era conosciuta per le sue tesi e le sue competenze, dimostrate a diversi congressi, per le quali era stata contattata dall’ente un anno prima. Prima della partenza lei si allenava ogni giorno. Il colonnello, che aveva il compito di allenarla per farla diventare una brava astronauta, si chiamava Jeorge Volder, aveva quarantadue anni, era ispano americano, aveva una carnagione mulatta, era alto e in carne, moro con occhi scuri e aveva i capelli ricci. La sua formazione era durata diversi mesi con un lavoro durissimo per abituarsi al clima spaziale. Il giorno della partenza si avvicinava e la paura si faceva sentire sempre di più. Faceva da un po’ di tempo un sogno abbastanza bizzarro, con lei in un pianeta diverso dalla Terra tutto azzurro. Non ne capiva il significato, ma secondo lei non prometteva nulla di buono. Comunque stava per realizzare il suo più grande sogno, viaggiare nello spazio, e non se lo sarebbe fatto scappare così facilmente, benché il pensiero di essere da sola, solo lei

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e lo spazio, non le arrideva per nulla. Si trattava di una missione tecnica preparatoria per avviare il processo di fotosintesi e quindi la produzione di ossigeno e acqua. Dopo due anni sarebbe stata raggiunta dalla “colonia”, ma intanto avrebbe avuto solo comunicazioni con Houston. Doveva essere pronta a tutto sia fisicamente che mentalmente. Si allenava tutti giorni: la mattina faceva una dieta ben precisa, esercizio fisico, si sottoponeva a MAC 5, a forti pressioni, alla rarefazione dell’aria, dedicando tutto il pomeriggio ai suoi studi, finché stremata andava a letto presto. Continuò così fino a qualche settimana prima del decollo. Allora si stabilì a Cape Canaveral per prendere padronanza piena della sua navicella e non di un dettagliato simulatore. Mancavano solo due settimane e non stava più nella pelle, ormai faceva due anche tre simulazioni al giorno. Con ciò le sembrava quasi di essere già partita almeno trenta volte, ma sapeva bene che non era assolutamente la stessa cosa. Aveva immaginato molta tensione, ma non fino a questo punto. Il giorno della partenza correvano tutti. Daisy registrò sul suo diario: Io ero letteralmente terrorizzata, mentre tutti mi auguravano buona fortuna avevo quel sorriso istupidito perché non riuscivo a mantenere nessun’altra emozione. Ero pietrificata, ringraziavo tutti. Mi avrebbero anche potuto fare una domanda ma avrei comunque risposto con “grazie”. Quando mancavano pochi minuti al lancio, ripresi pieno possesso della mia lucidità, ero carica, pronta. Alcuni ingegneri uscirono dall’astronave confermando che tutto funzionava. Allora lei entrò e si sedette. Tutto taceva. Poi si sentì “5 ,4, 3, 2, 1, 0… e via!”. Su, su, su! Era un po’ agitata, ma aveva tutto sotto controllo. Dopo qualche

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minuto il cielo divenne sempre più scuro ed eccolo lo spazio così magico e così grande da farti sentire impotente. Aveva tutto sotto controllo. Tuttavia mentre guidava serenamente la navicella un frammento di meteorite finì nella sua traiettoria e colpì bruscamente la navicella, causando uno squarcio nella parte anteriore. All’improvviso suonò l’allarme che indicava il guasto causato dal meteorite. Chiamò Houston per segnalare il problema, ma il messaggio di ritorno sarebbe giunto non prima di mezz’ora. Attivò il protocollo di emergenza e, mentre il robot riparatore si metteva in funzione per dividere la folla, si trovò di fronte a un buco nero. Era impossibile all’interno del sistema solare, ma quel vortice nero che inghiottiva meteoriti e stava attirando la sua astronave non poteva essere definito altrimenti. Richiese ai motori una spinta contraria, ma veniva inesorabilmente risucchiata all’interno, perdendo il controllo del razzo. Questo roteò vorticosamente e Daisy perse i sensi. Si riprese, non avrebbe saputo dire dopo quanto tempo, non riconoscendo nulla intorno a sé, neppure la grande stella luminosa che non era il sole. Un pianeta era a poca distanza. Per sopravvivere doveva atterrare e si diresse verso di esso. Il pianeta aveva uno strano colore viola che sembrava da una parte più chiaro e dall’altra più scuro; aveva una forma ovale a lei sconosciuta. Daisy era spaventata, la fronte le gocciolava di sudore per la paura: non conoscendo il corpo celeste non sapeva dire se l’aria era respirabile e la gravità accettabile, ma non aveva scelta. Si fece coraggio e pilotò manualmente la navicella fino a scendere su quel misterioso pianeta. La navicella non aveva subito un buon atterraggio, vi erano pezzi di ovunque. Daisy non sapeva cosa fare. Si trovava in un pianeta del quale prima di allora non conosceva

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l’esistenza, e inoltre non aveva idea di come riparare la sua astronave in questo pianeta apparentemente vuoto e privo di vita. Provò più volte a contattare la Terra, rimanendo pazientemente in attesa di risposta. Dopo qualche ora, quando le fu chiaro che nessun segnale sarebbe giunto da Cape Canaveral, Daisy decise di uscire dalla navicella, per esplorare questo nuovo pianeta, e magari chiedere aiuto. Camminò per tanto tempo, e per lei sembrava di essere sempre nello stesso punto. Ebbe modo però, di notare che aveva due lune, esattamente identiche. Aveva tutto lo stesso colore, un viola intenso, e il terreno non presentava cambiamenti radicali che le facessero capire di star cambiando strada, ma aveva soltanto dei dislivelli molto simili, un po’ ovunque. Dopo un pò di strada quindi, vide un cartello in legno, fissato sul terreno. Quest’ultimo era poco chiaro, per cui decise di avvicinarsi ulteriormente. Era sporco di sabbia viola, ma quando lo ripulì riuscì a leggere la parola “ALTOLA’” con alcuni disegni strani attorno. Le sembrava il nome di una città, ma quel pianeta era solo un “mare” viola con un vento carico di sabbia che offuscava ogni cosa. Pensierosa, rilesse il nome, stavolta a voce alta, a quel punto, dietro di lei s’innalzarono delle bandiere strane con il nome precedente. Daisy era completamente confusa, non sapeva in che modo reagire a quello che era appena successo, se essere spaventata e iniziare ad urlare, farsi prendere dall’euforia e iniziare a ballare, oppure, visto che aveva avuto un viaggio lungo ed era molto stanca, sedersi vicino a una di queste bandiere. Alle conseguenze ci avrebbe pensato dopo. Sapeva poco sul riparare le navicelle, ma ricordava qualcosa al riguardo. Nella sua testa rimbombavano tutti i consi-

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gli che le avevano dato, che però le sembravano abbastanza inutili considerando la situazione in cui si trovava. Ad un tratto ricordò un discorso che Jorge Valdez aveva avuto con uno dei suoi superiori. Parlavano di uno strano materiale, che avevano appena trovato su un meteorite, che aveva grandi capacità di isolamento, quindi avrebbe potuto benissimo potuto saldare una crepa. Però non aveva idea di come trovare quell’elemento lì, ma almeno in lei si accese un lume di speranza, che si spense quando guardò nuovamente nella direzione del cartello. Il vento si era placato, lasciando sullo sfondo una magnifica città molto grande, e delle piccole creature umanoidi. Queste ultime avevano un solo braccio, con due dita sole nella mano, indice e pollice, con un occhio molto grande vicino al naso e uno più piccolo accanto all’orecchio. La fissavano in modo inquietante. Corse subito al razzo per mandare l’SOS, chiedendosi cosa altro le sarebbe successo. Infine fece quel che poteva per chiudere quel maledetto buco. Era talmente concentrata ad armeggiare attrezzi con nomi troppo lunghi da ricordare, che quasi non si accorse delle sagome umanoidi che la sovrastavano. Si girò con una velocità che non pensava minimamente di avere. Osservò il loro gruppo, ma erano troppo numerosi per opporre resistenza, quindi alzò le mani in aria. Ma purtroppo lo presero come un gesto minaccioso, a cui risposero con dei fischi molto acuti. La pungolarono con le loro armi affinché affrettasse il passo verso il centro della cittadina. Vedeva degli alieni nascondersi al suo passaggio: avevano paura di lei. Infine fu portata ad un enorme palazzo. All’ingresso notava moltissimi piedistalli con delle strane statuine sopra, probabilmente piazzate in quel posto per qual-

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che strano motivo religioso. Scoprì che era stata portata dal capo delle creature. La cosa che vide era orripilante e il sentimento sembrava reciproco. Lui la squadrava dondolando il capo ed era chiaramente pensieroso. In seguito comunicò alle sue guardie una serie di suoni strascicati. Improvvisamente venne nuovamente catturata e portata nei sotterranei del palazzo e chiusa in una prigione. Però notò che le celle non erano normali: le sbarre erano spesse quanto colonne e di un materiale che al tatto era simile al polistirolo. I muri e i pavimenti erano grigi e non c’erano molti prigionieri. Dopo qualche ora provò a tastare il muro e con sua grande sorpresa un mattone si mosse. Tentò con le sbarre e riuscì a staccarle. Decise di andarsene prima che gli extraterrestri notassero quel che stava facendo. Dopo essere uscita col materiale dei pilastri corse più veloce che poteva, però era stata scoperta. Già vedeva dei plotoni di guardie che la seguivano con le loro armi. Tornata al razzo avvicinò il materiale alla crepa e questo si applicò da solo per chiudere il buco. Così, con le creature alle spalle, scappò dal pianeta. Ma sarebbe mai riuscita a ritrovare la via di casa?

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Sofia Balsamo - Federico Corda - Ginevra LaganĂ - Matteo Liuzzo - Alfio Sicurella Simone Spampinato

Contagio


Prologo Il mondo è totalmente cambiato e con esso anche la mente. Il pianeta non è più come lo conosciamo noi e neanche l’essere umano si comporta più come una volta. Un virus sconosciuto alla scienza, che iniziò a diffondersi nel 2257, infettò tutto il bestiame e, senza che nessuno se ne accorgesse, uccise molti animali. Questi, quando venivano contaminati, non manifestavano nessun sintomo che potesse far pensare ad una malattia. Infatti, fino a quando non iniziarono a morire uno dopo l’altro, sembravano sani. A causa dell’epidemia, le risorse cominciarono a scarseggiare e ogni giorno avvenivano manifestazioni violente contro i Governi. Si era caduti in un’anarchia totale, le prigioni erano piene e le forze dell’ordine non sapevano più come arginare le rivolte. Per fronteggiare la carestia, gli Stati decisero di procedere alla riproduzione del bestiame mediante clonazione, ritenendo che la procreazione naturale fosse troppo pericolosa per il rischio di diffusione del virus. Tale decisione era stata osteggiata da molte associazioni che avevano manifestato contro questa procedura, ma i Governi non se ne curarono e le diedero il via.

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Purtroppo, il ricorso alla clonazione non soltanto non risolse il problema, ma peggiorò la situazione, perché il virus era invisibile anche alle analisi più accurate e dunque si procedette alla duplicazione anche di animali infetti, in tal modo diffondendolo ancor più. E quando gli scienziati si accorsero di cosa stesse accadendo, era ormai troppo tardi. Non c’era più nulla da fare. Tra l’altro, proprio a causa delle innumerevoli clonazioni eseguite sugli animali, il virus non soltanto si era diffuso, ma era diventando più forte e intelligente, capace di assumere forme diverse nelle differenti specie animali che man mano infettava. Tutti gli scienziati più importanti del mondo si misero alla ricerca di una cura per cercare di debellare il “Livestock Virus”, ma ogni tentativo di creare un vaccino si rivelò un fallimento, in quanto il virus era diventato mutante, nel senso che reagiva e si adattava ad ogni cura approntata dagli scienziati. Dopo alcuni anni, senza un apparente motivo, il virus iniziò a regredire ed in breve non si registrarono più casi di infezione animale, tanto che l’umanità aveva lentamente e faticosamente ripreso il suo cammino. Ma, in realtà, il virus non era scomparso, ma aveva subito l’ennesima mutazione, entrando in uno stato quiescente per alcuni anni, salvo poi “risvegliarsi” e iniziare ad attaccare, questa volta, gli esseri umani. All’inizio, si manifestò con una semplice febbre che non sembrava destare particolare allarme. Tuttavia, non riuscendo ancora una volta a trovarvi una cura, ben presto i sintomi si aggravarono (giramenti di testa, nausea, svenimenti improvvisi, emorragie interne) portando alle prime morti, che nel giro di pochi mesi divennero migliaia e poi milioni, tanto da decimare la popolazione dell’intero pianeta. Sembrava che fosse giunto il giorno del giudizio ed anche le

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persone più razionali iniziarono a pensare che quell’apocalisse avesse origini ultraterrene e che fosse una punizione per l’arroganza umana. Nel tentativo di cercare una soluzione esoterica all’epidemia, si diffusero in tutto il mondo numerose sette religiose che, convinte che il virus fosse una punizione per avere cercato l’uomo con l’uso della tecnologia di sostituirsi a Dio, iniziarono a rinnegare ogni forma di progresso scientifico e addirittura ad offrire sacrifici umani per placare l’ira divina. Le poche persone scampate all’infezione erano diventate paranoiche, nessuno si fidava più di nessuno e tutti accusavano tutti di essere degli “untori” e di diffondere il virus. E così, chi non veniva ucciso dall’infezione, spesso veniva ucciso da altri esseri umani non più capaci di comportarsi ed agire razionalmente. Era il caos più totale. L’umanità superstite era precipitata all’età della pietra, senza internet, trasporti, computer: semplicemente senza civiltà. Le città erano oramai deserte, le strade vuote e gli unici esseri viventi che si vedevano avventurarsi in giro erano cani randagi, topi di fogna e predoni. Questi ultimi erano persone senza scrupoli, riuniti in bande, che distruggevano e saccheggiavano ogni cosa ed assaltavano i miseri e pochi accampamenti rimasti di persone sane, continuando così l’uomo a distruggersi e annientarsi da solo, con continue lotte tra bande che da allora non avrebbero mai trovato fine. Bjorn Lopez ex cittadino americano di ormai quarantasette anni nacque durante lo sviluppo dell’epidemia. Fu contagiato da piccolo, ma lui era uno dei sopravvissuti, il suo sistema immunitario riuscì a sconfiggere il virus, ed era immune. Veniva guardato come un “miracolato” e alcuni dottori furono tentati di

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trasformarlo in una cavia da laboratorio. Bjorn però sapeva che questi scienziati volevano solo arricchirsi e non pensavano proprio alla salvezza della razza umana, quindi scappò. Nel corso degli anni si era abituato a vivere così e aveva anche una confraternita Leeth che offriva un rifugio ai sopravvissuti al virus. The Tower era la nuova capitale del mondo costruita sopra New York e prendeva il nome dalla torre più alta della città. Bjorn era a capo della difesa e non lasciava mai i suoi fidati in combattimento: Jack Williams e John Thompson. Con Jack aveva passato i momenti dell’infanzia e della comparsa del virus, ma erano stati sempre insieme come fratelli. John invece era stato adottato da Bjorn. Durante una guerra contro gli Ashuweki Bjorn stava attraversando il fronte nemico e in una casa si accorse di un ragazzino che era sotto le macerie, con molte ferite. Lo portò a casa sua, dove assieme alla moglie Wayne se ne presero cura come di un figlio. Ora John aveva diciannove anni e, nonostante la sua giovane età, era uno dei guerrieri più esperti dell’esercito dei Leeth. La sua gratitudine e il suo affetto per Bjorn e lo “zio” Jack, gli dava la forza di combattere e non arrendersi mai. Un giorno, davanti alle mura di The Tower comparve una ragazzina di nome Evelyn, magrissima e molto pallida in volto, che a stento riusciva a reggersi in piedi. Bjorn decise di portarla al centro medico della città. Dopo vari accurati esami, si scoprì che la ragazza era una portatrice sana del virus. Fu un’ottima notizia! Se Bjorn e la sua confraternita fossero riusciti a portare Evelyn nei moderni laboratori Californiani, molto probabilmente si sarebbe potuto trovare una cura, ponendo fine all’epidemia in corso da più di un secolo. Evelyn capì immediatamente che non aveva scelta.

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La sua vita e quella dell’umanità dipendevano da quel viaggio. Tutti erano consapevoli che avrebbero corso dei rischi, ma questo non li fermò. Dopo settimane di cammino senza sosta, quando ormai le scorte di acqua e di cibo cominciarono a scarseggiare, oltrepassarono il confine del Kentucky. Improvvisamente si levò in aria una nube di fumo e povere e non si vide più nulla, bruciando gli occhi e la gola dei presenti. Quando il nugolo si dissolse, Bjorn e i suoi compagni si trovarono accerchiati da una trentina di uomini armati di pistole e coltelli. Indossavano una divisa blu notte e avevano il viso coperto da una maschera nera. Tutti tranne uno. Bjorn non fece fatica a capire che si trattava di Grace Milner, noto predone, celebre per la sua bravura e astuzia negli agguati. Il suo tratto distintivo, una profonda cicatrice sull’occhio destro. Si avvicinò con fare minaccioso, mentre Evelyn cominciò a supplicarlo di non ucciderli urlando con le poche forze che le erano rimaste in corpo. A quel punto intervenne Bjorn che promise a Milner che se fossero riusciti a trovare la cura per il virus, i primi a beneficiarne sarebbero stati proprio Milner e i compagni. Milner si mostrò interessato alla proposta ma, non fidandosi di Bjorn, decise di seguire la sua carovana fino in California. Né John né Jack furono in grado di opporsi. Appena arrivarono in Colorado, intravidero un accampamento di predoni Ashuweki che, però, non sembravano offensivi, tanto è vero che concessero loro il permesso di accamparsi in quella zona fin quando avessero voluto rimanere. Bjorn discusse con Grace, John e Jack sul fatto che non sarebbero rimasti a lungo. Successivamente gli Ashuweki aiutarono la povera e giovane Evelyn, perché loro erano un popolo molto gentile e accoglien-

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te.

Mentre i quattro discutevano, John esplorò il villaggio primitivo e dopo un paio di minuti incontrò un giovane ragazzo di nome Ian Smith che stava cucinando. John si presentò, lo salutò e gli chiese: - Stai bene, Ian? Così lui rispose: - Certo che sto bene, ma ho una domanda da farti, che tenevo per me perché pensavo non fosse opportuna. - Ok sentiamo. - disse. - Perché voi siete qui? - domandò. - Siamo venuti per portare Evelyn in California per poter trovare una cura per il Livestock virus e poi perché ce l’ha ordinato Bjorn, mio padre. - Posso farti un’ultima domanda? - disse Ian - Bjorn è il tuo vero padre? Non vi assomigliate per nulla. - No, non l’ho è. In realtà non so chi sia il mio vero padre, però so che era un predone Ashuweki. Dopo lunghe ore passate a parlare, Ian indicò a John una ragazza che aveva avuto un passato simile a quello di John e lui gli chiese di fargliela conoscere perché colpito dalla sua storia. Si chiamava Kinsley, e subito lo colpì perché aveva qualcosa che gli ricordava sé stesso. - È strano: abbiamo gli stessi occhi azzurri, capelli castani e pelle bianca. - L’ho notato anch’io. E in effetti non so molto sulla mia vera famiglia, che mi ha abbandonato e questi predoni Ashuweki mi hanno trovato. Così John capì che era sua sorella, ma dopo qualche decina di minuti Bjorn disse a Ian che stavano partendo e allora Ian gli disse: - Lei è mia sorella e non voglio lasciarla. Pensavo di rimanere qui, tanto ormai sono grande. Bjorn così prima di ripartire diede alla nuova famiglia che si

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era appena creata la vecchia pistola di suo nonno come ringraziamento per tutto quello che John aveva fatto per la sua vita. - John, purtroppo devo andarmene per salvare Evelyn e l’intero mondo. - disse Bjorn. - Lo capisco e, quando tornerai con la cura, tornerò a trovarti. Quindi, Bjorn e la sua squadra si misero in cammino subito a tutta velocità per arrivare il prima possibile in California e porre fine alle disgrazie che stava causando il virus Livestock. Ad un certo punto Miller iniziò a grattarsi la pelle quasi fino a sanguinare, e cominciò anche a tossire. Purtroppo tutti si accorsero che era stato contagiato. Incapaci di trovare una soluzione efficace decisero solamente di andare ancora più veloci con la speranza di arrivare in tempo. - Ma è troppo rischioso portarlo con noi, potrebbe contagiare qualcuno. - disse Evelyn. - No. Non possiamo lasciarlo morire! Lo porteremo con noi e troveremo la cura per salvarlo. - disse Bjorn. La carovana cominciò ad accelerare sempre di più, ma i sintomi finali del povero Miller si fecero sempre più evidenti. Ormai non riusciva più neanche a muoversi o a comunicare. Arrivati in Nevada a pochi chilometri dalla destinazione, Miller morì. La carovana si fermò per organizzargli un funerale degno dell’uomo che era. Dopo essere ripartita, la “ciurma” venne attaccata dai predoni della costa occidentale. John e i suoi uomini combatterono con tutte le loro forze. Purtroppo persero molti membri proteggendo Evelyn che, nonostante i loro sforzi, venne ferita gravemente. A quel punto il loro viaggio divenne una vera e propria corsa contro il tempo. Finalmente in California, portarono subito Evelyn nel labora-

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torio degli scienziati, dove venne subito accolta. La portarono in un laboratorio dove verificarono se la ragazza fosse veramente immune al virus. Quando ne ebbero la certezza, le prelevarono il sangue, mettendolo in cultura come un vaccino. All’inizio si credeva che questa prova fosse fallita, che il virus fosse immune a tutto e che tutta l’umanità fosse ormai finita. Ma dopo un po’ di tempo si notarono numerosi progressi, le persone ricominciavano a sentirsi bene. Il virus era ormai scomparso, il sangue di Evelyn era finalmente la cura esatta: la ragazza aveva salvato il mondo intero! Dopo un bel po’ di anni la civiltà ritornò ad essere fiorente, le persone ricominciarono a muoversi con le automobili con tutti gli altri mezzi di trasporto. Il continente conobbe la pace, com’era prima che si diffondesse questo virus. Tutti naturalmente acclamarono Bjorn come un eroe. Successivamente si costituì una nuova confederazione di Stati Americani e Bjorn ne fu il primo Presidente.

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Una storia speciale

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Marco Marotta

Una giornata allo zoo


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Ringraziamenti Ringrazio il Dirigente Scolastico dell’I.C. Cavour di Catania, Prof.ssa Concetta Mosca, per la fiducia al progetto; e tutti gli autori, anche giovanissimi, che hanno messo tutta la loro creativitĂ e passione nel lavoro.  

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Postfazione

Ritorna il nostro appuntamento con la scrittura collettiva. Al di là di antecedenti letterari di fama da cui trarre ispirazione, il mio obiettivo era ed è rimasto quello di far scrivere, anche ai più giovani e inesperti, dei racconti lunghi, ispirando loro la passione per la letteratura. Quest’anno, si inaugura la collana sulla fantascienza e il fantasy, argomenti per eccellenza amati dagli adolescenti ed erroneamente relegati a letteratura di genere. Siamo partiti, perciò, dalla lettura e analisi, da un lato de La Svastica sul Sole di Philip Dick, capolavoro ucronico su una realtà in cui i nazisti hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e dall’altro di Harry Potter e la pietra filosofale, la famosa saga del maghetto di Hogwarts. In particolare, la prima parte raccoglie racconti sui mondi fantasy, toccando le corde dell’epico, intrise di magia, con personaggi provenienti dalle leggende greche e celtiche. Tra portali, centauri e unicorni navighiamo nell’universo della pura fantasia. La seconda parte è, invece, dedicata alla terza, a cui ho reso il percorso un po’ più complesso. Si tratta per l’appunto di alunni che da un lato scrivono insieme a me da più di due anni. A loro ho chiesto di proporre cinque tipologie, precedentemente spiegate, di fantascienza: la sociologica, la cyberpunk, dei robot, dei viaggi spaziali e l’ucronia. Detto ciò, le fasi di elaborazione sono state quelle delle edizioni precedenti. Ovvero, per prima cosa ho lanciato un concorso di idee, sui temi e le tecniche stabilite. A seguire i partecipanti hanno elaborato

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una sceneggiatura dettagliata, suddivisa in tanti episodi quanti erano gli scrittori. Successivamente i ragazzi hanno lavorato insieme per le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi comuni. Quindi, ho assegnato a ciascuno un episodio da redigere per una lunghezza media di una facciata A4 in times new roman 12, (qui ridotto a “11” per necessità di stampa) con scelta narratologica della terza persona onnisciente al passato remoto. Unica eccezione è stata Il trionfo delle idee, un’ucronia, falsa autobiografia del figlio di Giacomo Matteotti, scritta in prima persona. I ragazzi sono stati poi guidati nell’autocorrezione formale o di incoerenze contenutistiche. Non ultima hanno affrontato anche l’ardua prova della ricerca di un titolo: evocativo, ma non rivelatore. Infine, i loro lavori limati sono stati corredati anche di copertine, da loro stessi progettate e realizzate. Un discorso a parte merita la terza parte contenente un racconto di un ragazzo speciale che, attraverso un strumento differente è riuscito ugualmente a narrare una Giornata allo zoo. Insieme all’insegnante di sostegno si è scelto un gioco di magneti che consente di visualizzare personaggi umani e animali e di creare piccole scenette. Assecondando i desideri di Marco, questo si è trasformato in una narrazione accompagnata da immagini e commenti scritti. Un modo questo per farlo approcciare con semplicità e divertendosi ai concetti di sequenza narrativa, facendo al contempo esprimere la sua fantasia. Insomma, questi ragazzi tra i dodici e i tredici anni hanno dimostrato di possedere originalità, metodo e capacità di scrittura non indifferenti, raggiungendo un altro traguardo da lodare tanto da parte mia quanto da voi lettori. Cinzia Di Mauro

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INDICE Fantastorie 1 Antologia di racconti fantasy e fantascientifici

Fantasy 2 Magic World 3 Il malvagio Zorbo 10 La Fenice di Kollmandia 16 Le ombre di Tenebroo 24 Polvere di fata 31 Fantascienza 39 AP-1: una nuova era 40 Natura 2200 49 Il trionfo delle idee 59 Nello spazio infinito 68 Contagio 76 Una storia speciale 85 Una giornata allo zoo 86 Ringraziamenti 92 Postfazione 93

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In tutti i tempi la capacità di esprimere i nostri sogni, le nostre fantasie, l’affabulazione è stato il primo veicolo della nostra cultura. E oggi come allora sentiamo la necessità di liberarci dal peso della quotidianità raccontando storie che toccano le corde del sovrumano, dell’eccezionale, del lontano da noi. Allora ecco che la fantascienza e il fantasy si rivelano strumenti salvivici per i nostri obblighi e impegni routinari. Così, nulla di meglio che rilassarci con stregoni malvagi, con principesse consacrate all’oscurità, con quest di spade e oggetti magici che finalmente riporteranno la pace e la serenità nel mondo. D’altronde il futuro prossimo o lontano cosa ci riserverà se continueremo a inquinare il nostro pianeta? Sarà la natura stessa a ribellarsi o forse robot da noi costruiti? Lo spazio sarà un’opportunità o un’inutile fallimentare avventura? Infine, rivolgendoci al passato, se avesse vinto la ragionevolezza e l’Italia non avesse partecipato alla Prima Guerra Mondiale né fosse diventata fascista? Lasciatevi conquistare, dunque, dal quinto potere, l’immaginazione!

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