Scrivo in GIALLO e in NERO

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Scrivo in Giallo e in Nero Antologia di racconti gialli e noir

A.S. 2020-2021 Coordinatrice di progetto: Prof.ssa Cinzia Di Mauro Autori: I A e II A secondaria - I.C. Cavour Catania


INDICE

Scrivo in GIALLO e in NERO Antologia di racconti gialli e noir Scrivo in GIALLO Cartellino rosso La Porte de l’Enfer Omicidio a Villa Graziani JFK L’ultima parata La morte del cigno Scrivo in NERO I misteri del villaggio Colombo Il killer silenzioso I fratelli White Rivelazioni Ringraziamenti Postfazione INDICE

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Scrivo in Giallo



Livia Frasca - Salvatore Mangiameli - Pietro Moncada Riccardo Raffone - Beatrice Scravaglieri

Cartellino rosso



"Buonasera a tutti, gente! Come state?! Immagino emozionati per la grande partita che determinerà la fine e il vincitore di questo grande campionato!". Erano queste le frasi che giravano in attesa del grande 30 giugno 2002. La finale dei mondiali di calcio, in effetti, era un grande evento e nessuno voleva perderselo....anche se, purtroppo, non tutti ci riuscirono. Tornando al dunque, questo campionato avrebbe avuto inoltre, la partecipazione delle autorità, per ovviamente sorvegliare il luogo e assicurarsi che non avvenisse nessun fatto spiacevole, che in caso avrebbe creato un grande scandalo. In tutte le tv del mondo, c'era sempre uno spazio per ricordare l'evento e in alcuni casi si supponeva chi avrebbe vinto, c'era anche chi scommetteva diverse cifre e a volte partivano discussioni nel pieno dei programmi televisivi. In sintesi, c'era una grande tensione, ma anche eccitazione in attesa della finale. In particolare tutto questo avveniva a Tokyo, una bellissima città dove alloggiava la squadra del Brasile nell'hotel Omni di 7 stelle con proprietario Derek Brumotti. Era una città piena di posti meravigliosi e un po' per questo, un po' per l'alloggio del Brasile, Tokyo si era riempita di turisti. In effetti Tokyo era un ottimo posto per aspettare l'arrivo del grande 7


evento, era infatti, oltre la capitale del Giappone, una metropoli di 13 milioni abitanti, che vantava attrazioni come la Tokyo Sky Tree e Tokyo Tower o il Rainbow bridge e il Senso-ji. Tutto era perfetto, fin quando non arrivò la cena della squadra del Brasile. Tutti i giocatori, stanchi per l'allenamento di quel giorno, si fecero una doccia, si vestirono in abiti più o meno eleganti e scesero a cena nella lussuosa sala da pranzo dell'hotel. Si sedettero salutando con calore il loro allenatore Aníbal Calatán, che pur essendo benestante, si era vestito con abiti modesti abituato alle sue povere origini. - Buonasera anche a voi, ragazzi. - Ma come si è vestito bene, signore! - disse uno con un mezzo sorriso. - Grazie, anche tutti voi siete molto eleganti, d'altro canto, mi sono abituato troppo a vedervi con la divisa. - Può dirlo forte, per fortuna sappiamo ancora vestirci eleganti! - rispose un altro giocatore. Appena furono tutti seduti, Aníbal disse: - Su ragazzi, ordiniamo, ma vediamo di andarci piano, non scordiamoci della finale eh. Nessuno vuole scambiare i giocatori per le palle di calcio. Ahaha! - Beh, per fortuna lei non gioca, mister. - disse il portiere scherzando. - Davvero molto divertente. - ribatté l'allenatore un po' offeso. Non avrà avuto mica degli addominali scolpiti, ma in fondo si teneva in forma - Bene, dopo questa battutina spiritosa, credo che opteremo tutti per prendere una fettina di pesce, è risaputo, il pesce rende più intelligenti. Ad un certo punto però, tra una battutina e l'altra, uno dei giocatori si rese conto di uno strano fatto che condivise con gli altri: il capo cannoniere, nonché capitano della squadra non era presente… 8

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Appena finita la cena all’hotel, Aníbal andò in bagno a farsi la doccia dopo la dura giornata delle semifinali del mondiale. Nel frattempo i compagni di squadra si preoccuparono che a Jonatan fosse successo qualcosa. - Andiamo a controllare che fa Jonatan. Forse è arrabbiato perché la mammina non gli ha dato la buonanotte. - disse la riserva Michel, così andarono a controllare. Aprendo la porta della stanza 17 trovarono il capitano disteso a terra con un coltello piantato nel fianco destro. - Oh mio Dio, è morto! - disse il portiere della squadra. Michel, avendo una laurea in medicina fortemente voluta dalla famiglia di medici andò a controllare se fosse vivo mettendo due dita sul collo e capì che non c'era più nulla da fare. Cinque minuti dopo arrivò l'ambulanza e con il rumore delle sirene venne l’allenatore con una macchia di sangue sulla scarpa giustificandosi di essersi tagliato al piede. Il presidente del calcio mondiale chiamò un investigatore famosissimo, Mr Johns, per indagare sul caso. All'inizio questi pensò che fosse stato un componente della squadra avversaria ovvero la Francia dato il premio in palio. Parlò, quindi, con il proprietario dell’hotel Omni: Buongiorno, vorrei capire quanto dista questo hotel da quello dei Francesi. - Certo signore, se non vuole l'assoluta precisione direi circa una quarantina di chilometri. Da quella semplice constatazione capì che nessun avversario avesse potuto ammazzare Jonatan Hamendola. Mr Johns, dopo aver posto delle domande a tutti i compagni di squadra ed al sostituto di Jonatan, iniziò a convincersi che fosse stato un componente dello stesso team, anche perché il coltello con cui il capitano era stato ucciso proveniva da una nota fabbrica di spade e coltelli brasiliana, la Halmeida, 9


riservata ai più ricchi. Molti componenti della squadra amavano affilare i loro coltelli, rigorosamente Halmeida, e lanciarli su un manichino, usato come bersaglio, per scaricare la tensione prima delle partite più importanti. Il sospettato maggiore fu il sostituto di Jonatan, Michel Privitora, un uomo basso e tarchiato di trentadue anni, capelli ricci e marroni, veloce come una gazzella, ma spesso destinato alla panchina per favorire il fuoriclasse del momento. Quando Michel fu interrogato da Mr Johns, si comportò in modo molto scontroso e perennemente arrogante, infatti non voleva rispondere alle domande che gli venivano poste. Mr Johns gli chiese infatti: - Quando è stata l’ultima volta che ha visto Jonatan Hamendola? E lui rispose con tono irritante: - Non sono affari suoi. Non crederà forse che essendo il suo sostituto dovessi anche fargli da balia?! Continuando ad indagare, mentre interrogava i compagni di squadra, l’investigatore scoprì che negli allenamenti Michel cercava di sabotare Jonatan, per esempio facendogli sgambetti e dispetti di ogni genere, perché voleva giocare per forza lui la partita. In effetti, reinterrogando i compagni di squadra, anch’essi confermarono i suoi sospetti, ovvero che Michel volesse a tutti i costi il posto da titolare. Mr Johns interrogò anche uno dei difensori, Guilherme Souza, un uomo di media statura, bruno di occhi e capelli: - Lei cosa ricorda della sera prima della scomparsa di Jonatan? Guilherme Souza rispose, con un tono di voce molto calmo e sicuro: - Quella sera prima della scomparsa di Jonatan, Michel provò in tutti i modi a farlo ubriacare, portandogli un drink molto alcolico che Jonatan aveva però rifiutato. Il detective proseguì con le indagini, incominciò dagli spogliatoi, uno degli ultimi posti in cui la vittima era stata vista 10

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ancora viva. Per un po’ non ci furono novità, ma dopo sotto un armadio, vicino a quello dell'assassinato trovò uno strano biglietto minaccioso: "Non meriti la tua fortuna. Presto la pagherai". Dopo andò nella camera della vittima e sotto il letto trovò un biglietto simile e con la stessa scrittura dell’altro. La sua tesi sembrava divenire sempre più certa, confermata anche dai compagni che dissero di aver visto dopo l’allenamento il sostituto recarsi in camera della vittima, con la scusa di aver scambiato gli accappatoi. Inoltre, nella stanza dell’assassinato, si ritrovarono alcune impronte digitali del sostituto, furono trovate prove che negavano un'altra ricostruzione dell'accaduto, sembrava che la vittima avesse tentato di scappare e fosse arrivata in camera dell'assassino. Anche se c'erano dubbi sui fatti e il tempo dell’accaduto, l’unico sospettato era Michel Privitora, quasi sicuramente l’assassino. Il detective dopo aver tentato e ritentato di trovare più indizi sul criminale si fermò e fece un riepilogo di tutto quello che aveva scoperto. Gli apparve quasi tutto chiaro, ma nonostante il movente e l'occasione mancavano delle prove schiaccianti e da lì rimase qualche ora e rifletté sulla sua sedia scricchiolante e dondolando per tutto il tempo. Questa cosa lo aiutò, infatti, guardò sul suo tavolo nell’ufficio il coltello con cui era stata uccisa la vittima e la prima cosa che gli venne in mente fu quella di farlo analizzare di nuovo visto che stranamente la prima volta non fu trovata nessuna impronta; allora pensò che il colpevole l’avesse ripulito, quindi volle insistere per trovare delle impronte. Verso le sei del pomeriggio si recò presso il laboratorio della scientifica portando il coltello con sé. Lo fece analizzare una volta e la scientifica non trovò nulla, però gli dissero di aver analizzato l’asciugamano che il morto teneva

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addosso e di avervi trovato dei capelli... avevano pensato fossero della vittima. Il detective disse: - Grazie, spero che abbiate il pezzo mancante della mia indagine. E dopo aver preso questi capelli, che gli porsero in una bustina di plastica, li portò di corsa lui stesso al laboratorio per l'analisi del DNA. Scoprirono così che tra quei resti biologici, uno apparteneva ad Aníbal Calatán, allenatore della vittima. Il detective disse: - Grazie, avete dato un contributo preziosissimo alla mia indagine; adesso devo solo arrestare il colpevole. - e se ne andò. Prese la sua auto e corse alla casa dell’allenatore. Una volta arrivato gli disse: - Aníbal Calatán ti dichiaro in arresto per l’omicidio di Jonatan Hamendola. L’allenatore non tentò di fuggire perché sapeva che prima o poi l’avrebbero trovato, allora si fece mettere le manette e lo portarono in centrale, dove rimase per una notte. Il giorno dopo, verso le otto del mattino, presero Aníbal dalla sua cella e lo fecero vestire elegante per portarlo in tribunale dove incontrò il gip. L’allenatore si difese: - Non è stata colpa mia, mi hanno costretto! Il giudice disse a sua volta: - Chi sono queste persone che l'hanno convinta? L’allenatore rispose con tono basso: - Qualcuno della squadra avversaria. Il giudice non udì, così gli chiese: - Potresti ridirmelo per favore? Aníbal disse con tono più convinto: - Qualcuno della squadra avversaria mi ha convinto dicendomi che mi avrebbero dato un milione di euro se avessi ucciso il fuoriclasse, e così ho fatto. 12

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Il giudice sfregandosi gli occhi, scosse la testa: - Seguirà un processo a tuo carico, porterai avanti la tua difesa, ma il crimine che hai commesso è talmente efferato che sarai condannato a non meno di trent’anni di galera. I mandanti non furono mai accertati. La partita del Brasile fu rimandata al 2 luglio del 2002, dove poi vinse i campionati mondiali 7-0, anche detta “La migliore partita del Brasile”.

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Saverio Balsamo - Nicola Caponetto - Greta Cosentino Alice Damigella - Fabrizio Viola

La Porte de l’Enfer


La mattina del 31 dicembre 1989 Pierre Dubois, l’addetto alla sicurezza dell’antica Grande Roue di Place de la Concorde, giostra molto frequentata perché, essendo molto alta, si godeva di un magnifico panorama, all’arrivo per il turno di lavoro, si stupì vedendo una gran folla intorno ad essa e domandò: - Ma che succede? - C’è un manichino nella cabina più alta – gli rispose un signore col cappello e dei lunghi baffi. Da giù intravedeva dentro la cabina una figura femminile in abiti da scena appoggiata al finestrino e che sembrava avesse compiuto un grazioso port de bras. - Un manichino! Come può essere successo, la ruota era chiusa e solo io ho le chiavi! – esclamò Dubois - E poi non credo sia un manichino - aggiunse - Accendiamo la ruota, facciamo scendere la cabina. Dopo aver azionato la ruota e portato la cabina a livello della pedana, si fece la macabra scoperta. - Oh mio dio! - gridò il signore con i baffi. - Che orrore! - gridò scioccata la signorina accanto a Dubois - Chi avrà mai fatto questa diavoleria?

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Dubois aveva ragione, infatti, come lui pensava non si trattava di un manichino, ma di un cadavere di donna mancante di gambe. Questa era vestita con un tutù rosa che sembrava assomigliare a quello delle ballerine. Tutti entrarono nel panico e si avvicinarono piano piano alla donna senza gambe, ma Pierre intervenne: - Calmi tutti! Non agitatevi, nessuno la tocchi! - disse spaventato - Dobbiamo chiedere aiuto! Qualcuno chiami la polizia! - disse la signora con il cappellino. Il commissario Jacques Moreau con la sua squadra composta dagli ispettori André Bernard e Philippe Dufoin, una delle migliori per indagare su questo caso, accorse subito. Moreau era un uomo molto attento a tutti i dettagli, sopra la cinquantina, calvo, faccia simpatica, un po' in sovrappeso, alto, occhi grigi e furbi, sorriso aperto. Fecero delimitare la scena del crimine dagli agenti ordinari per impedirne l'accesso, quindi controllarono la cabina. La vittima aveva degli occhi marroni e faccia e orecchie piccole, indossava un tutù rosa e al collo portava una collana con un ciondolo. Fattane una foto, Moreau ordinò ai suoi di diffondere un comunicato alle tv nazionali per cercare i familiari della donna e scoprirne l'identità. Il cadavere che ormai ho trovato da un po’ tu trasportato in un obitorio per essere analizzato Affinché si capisce come era stata uccisa e come erano successivamente trattati i resti. Fu trasmesso in comunicato stampa alle televisioni per rintracciare i parenti delle vittime con la foto della collana. Il signor Dubois uomo molto basso, di una cinquantina d'anni, capelli bianchi, occhi azzurri, venne portato in commissariato per essere interrogato. La prima domanda che gli venne posta fu: - Lei conosceva la vittima? Lui rispose: - No, l'unica volta che l'ho vista è stata ieri. 17


La seconda fu: - Cosa stava facendo intorno alla mezzanotte di ieri? Rispose: - Ero nel mio letto a dormire. Ho finito il turno alle 20.00, ho chiuso la cabina a chiave come ogni giorno e sono tornato a casa da mia moglie che aveva preparato la cena. Già alle dieci dormivo… sono diventato mattiniero con l'età. Venne anche convocata la signora Dubois donna bassa, capelli bianchi e occhi marroni, di carattere calmo, e le vennero poste le stesse domande di suo marito. L'unica risposta diversa fu quella alla prima domanda: - Sì, la conosco, l'ho vista una volta in un supermercato, mi aveva aiutato a prendere un pacco di biscotti da uno scaffale. La sera stessa una donna sulla cinquantina dal fisico asciutto, in evidente stato ansioso, si presentò alla polizia, avendo riconosciuto il ciondolo al telegiornale. Fu condotta alla morgue dove effettivamente riconobbe il cadavere della figlia, Delphine Tours. Raccontò in lacrime: - Il ciondolo gliel'avevo regalato io, quando la mia Dél era andata alla sua prima lezione per diventare una ballerina. Era così talentuosa, sa, stava per diventare una ballerina famosa, proprio come sua mamma. Nel frattempo proprio davanti a un ingresso maestoso dell'Opéra, uno dei teatri più rinomati della Francia l'obiettivo di tutte le ballerine francesi e non, sale molto ampie, ingresso maestoso, un gruppo di ragazze fece un orrido ritrovamento: due gambe femminili; un piede scalzo mostrava le fatiche di duri allenamenti di danza e l'altro calzava una scarpetta rosa. Dopo l'accaduto le ragazze, molto impaurite, avvertirono la polizia. La zona venne subito transennata in modo da impedire il passaggio di curiosi e poter lavorare senza alcun problema. Nelle ore successive vennero analizzati i due arti facendo un esame del DNA così da capire se appartenessero al corpo 18

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ritrovato in passato. La questione venne affidata nuovamente al commissario Jacques Moreau. Il giorno dopo la scientifica lo chiamò: - Commissario, finalmente l'abbiamo raggiunta! - disse l’anatomopatologo che non aspettava altro che parlare con Jacques. - Mi dica... - rispose il commissario. - Abbiamo fatto una grande scoperta. - Sono tutt'orecchi. - disse curioso il commissario. - Potrebbe non gradirla... - Insomma, mi dica!!! - disse furioso il commissario. - D’accordo... i due ritrovamenti non appartengono allo stesso corpo. Sono due diversi cadaveri. - Dunque potrebbe trattarsi di un serial killer. - disse Moreau quasi tra sé e sé trattenendo a stento la paura e chiuse la comunicazione bruscamente senza avvedersene. L’indomani mattina i primi visitatori del museo Rodin entrarono e videro una statua, non presente nella guida, posta davanti all'ingresso, accanto alla scultura incompiuta La Porte de l’Enfer. Si presentava in una forma angelica, di danzatrice senza capo. La signora Rousseau fu colpita dal ciondolo della statua che era uguale a quello del cadavere della ruota panoramica. Essa era un’appassionata di fatti di cronaca. Infatti pensò: - Io già questo ciondolo l’ho visto da qualche parte. Quando La signora Rousseau lo raccontò alle guardie, loro allontanarono i visitatori, perché avevano capito che era un cadavere. Si scatenò il panico, ma fortunatamente riuscirono ad evacuare il museo senza altri incidenti. Le analisi del corpo furono molto difficili perché il serial killer aveva usato sostanze chimiche e ricoperto il corpo con argilla. Tuttavia, fu chiaro anche stavolta che questo corpo apparteneva ad una terza vittima. Da quel momento in poi tutte 19


le ballerine ebbero paura per colpa di questo serial killer che vagava per la città. Dopo aver condotto le ricerche in lungo e in largo in tutta la città di Parigi ed in periferia e aver interrogato diverse persone appartenenti ad ambienti collegati con le vittime, sembrava tutto fermo al punto di partenza. Quel pomeriggio il commissario Jacques Moreau, mentre leggeva e rileggeva le carte riguardanti le indagini attorno agli omicidi, era particolarmente pensieroso e aveva bisogno di qualcosa che lo tirasse su. Quanto aiutava in certi momenti una tazza di tè nero fumante e due macaron, belli e soprattutto buoni! Stava per chiamare il servizio del bar, ma il telefono squillò prima che lui arrivasse ad alzare la cornetta. Il centralino gli stava passando la telefonata di una ragazza che insisteva per parlare con lui, sostenendo di avere informazioni importanti sul caso. Il commissario accettò la chiamata e munito di carta e penna iniziò chiedendole le generalità e dopo di che la fece parlare liberamente. - Dopo aver letto sui giornali di questi orribili fatti mi è ritornato in mente un particolare che potrebbe esserle utile: durante un’audizione a cui partecipai qualche anno fa, prima di decidere che la carriera di ballerina non faceva per me, notai al collo di una delle mie esaminatrici una graziosa collana raffigurante una ballerina – dopo una breve pausa continuò - e potrei giurarci che fosse identica a quelle ritrovate sulle povere ragazze! Allora Moreau esclamò speranzoso: - Grazie signora, ricorda il nome di questa esaminatrice? - No, mi dispiace. - Allora mi sa fornire la data esatta dell’audizione? - chiese lui. - Questo sì, dovrebbe essere stato il 12 settembre 1985. 20

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Il commissario la ringraziò e la salutò, poi si affacciò alla porta ed urlò: - Ispettore! Ispettore Bernard, venga subito qui! e dopo avergli raccontato della telefonata disse - Ora dobbiamo sapere tutto, ma proprio tutto, sui componenti della giuria di quell’esame. Mettiamoci al lavoro. Nelle ore successive consultarono diversi archivi, trovando finalmente oltre ai nomi delle esaminatrici, diversi dettagli sulle loro vite private e lavorative. L’ispettore si era soffermato su una in particolare: Commissario, mi sembra di aver trovato qualcosa di molto interessante. Una giurata è la famosa coreografa Aurélie Mercier, la signora è costretta sulla sedia a rotelle e un articolo spiega come c’è finita quando era ancora ragazza, legga lei stesso. Le Parisien, 01 Janvier 1963 DRAMMATICO INCIDENTE ALLA RUOTA PANORAMICA DI BELVES Attimi di terrore nella graziosa cittadina francese per la rottura dei cavi che ancoravano una delle ceste alla ruota panoramica in movimento. Una ragazza è rimasta gravemente ferita nello schianto. Ieri, intorno alle 20:30, una delle giostre del luna park montato nel centro di Belvès in occasione delle festività natalizie, ha avuto un guasto. Una delle cabine della ruota panoramica si è improvvisamente sganciata da un’altezza di almeno otto metri ed è caduta al suolo. Fortunatamente sotto non passava nessuno, ma la cesta era occupata da una giovane coppia, Aurélie Mercier 17 anni, brillante promessa della danza classica francese, e Jean Bonnet anche lui appena diciottenne. Nell’impatto la ragazza ha riportato gravi ferite alle gambe e alla colonna vertebrale, tanto che si teme per la sua vita e certamente per il seguito della carriera artistica. Il giovane fidanzato 21


sembra invece essere uscito miracolosamente illeso dal tragico volo.

Il commissario e l’ispettore non ebbero bisogno di dirsi altro, perché avevano capito di aver finalmente trovato la chiave del mistero. Cercarono gli indirizzi di entrambi e scoprirono che vivevano nella stessa casa. Appena ottennero il mandato di perquisizione si prepararono a recarsi sul posto. In Rue de la Roquette a due passi da Place de la Bastille, all’ultimo piano di un bel palazzo d’epoca al numero 37, Aurélie Mercier stava sulla sua sedia davanti ad una finestra immersa nei suoi pensieri. Era una donna molto attraente, capelli rossi lunghi e ondulati, occhi grigio ferro. Il compagno, un uomo biondo sulla quarantina alto e muscoloso, invece camminava nervosamente avanti e indietro e ad un tratto disse come tra sé e sé: - Troppi indizi! Troppi indizi abbiamo lasciato! Presto arriveranno a noi! Aurélie allora rispose tranquillamente: - Jean, è giusto che il destino si compia. - e tornò a scrutare lontano. Proprio in quell’istante suonò il campanello: era la polizia che chiedeva di aprire immediatamente. Giunti al piano il commissario e l’ispettore mostrarono il mandato di perquisizione. Aurélie, come se li stesse aspettando, disse loro di accomodarsi. Al commissario l’ambiente sembrò accurato e accogliente e la padrona di casa così gentile tanto che per un attimo pensò di aver sbagliato indirizzo, ma poi notò la collana al collo della donna e tornò alle sue ipotesi. Moreau e Bernard ispezionarono tutta la casa, e nella soffitta trovarono una sega elettrica e sostanze chimiche e poi negli stanzini degli arti sotto spirito e una testa e altre parti di cadaveri nel congelatore. Parve chiaro che era il momento di tirare fuori le manette.

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Aurélie con tono impassibile disse: - Se vuole seguirmi in terrazza le vorrei raccontare la mia storia… - si spostarono all’esterno, il panorama era magnifico e lei cominciò a raccontare - A sedici anni ero ancora una ragazza felice, piena di sogni e un futuro roseo sembrava aspettarmi. Ero stata ammessa all’Opéra de Paris ed ero pronta ad iniziare, nel lontano gennaio del 1963, una carriera da ballerina di danza classica, ma poco prima di partire il mio destino è cambiato. Lei avrà già letto dell’accaduto. - il commissario annuì. - Io non volevo neanche salire sulla ruota perché soffrivo di vertigini, ma Jean, il mio fidanzato, voleva guardare per l’ultima volta dall’alto la nostra città prima della mia partenza e allora io cedetti. Ora le devo dire la verità… - e dopo un sospiro riprese - Lui mi è rimasto sempre accanto e il suo senso di colpa è stata la mia arma per convincerlo a seguirmi in quest’ultimo atto. Con il lavoro di coreografa ho visto la vita, che avrei voluto io, vissuta da mille altre. La mia tragedia era passata inosservata, pensavano di poter ripagare la mia perdita con i soldi dell’assicurazione e mettermi a tacere, ma dopo tanto soffrire è arrivata l’idea. Lei e il detective non dovrete faticare a ricollegare tutti i fatti, con le ragazze non ho nessun legame, erano solo ottime ballerine che rispecchiavano me prima dell’incidente. Tutto è nuovamente iniziato sulla ruota e per simboleggiare la mia perdita lasciai lì solo un busto, poi con un paio di gambe appena fuori dall’Opéra per raffigurare il mancato ingresso ed infine la liberazione della mia anima a La Porte de l’Enfer. Purtroppo non tutti gli esperimenti sono riusciti ed i resti li ha trovati qua. Nel frattempo Jean si torceva le mani e tremava dall’agitazione, continuava a sussurrare: - Doveva succedere a me… - sembrava uscito da un incubo e non opponeva alcuna resistenza. 23


Il commissario allora disse: - Signora Mercier, la dichiaro in arresto, sarà condotta in prigione e sarà sottoposta a processo. Aurelié con la calma che l’aveva accompagnata durante tutto il colloquio rispose: - Caro commissario, ho già attraversato la porta dell’inferno una volta e mi sono ritrovata prigioniera su questa sedia a rotelle per più di vent’anni, adesso sono pronta ad attraversarla di nuovo, perché so che è questo ciò che mi attende, ma stavolta volerò libera. - e detto ciò spinse veloce la sedia verso il basso parapetto…

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Laura Carpinato - Anthony Distefano - Marta Gresta Francesco Merlo

Omicidio a Villa Graziani



Era una mattina, piena di sole, del 4 aprile 2001 a Biancavilla, paese situato valle pendici dell'Etna e appartenente al suo parco. La signora Pina Crisafulli, domestica di cinquant’anni si vestiva per andare a lavorare con un abito nero; era alta, magra, capelli corti marroni e occhi marroni, era simpatica, gentile e sempre pronta al sorriso. Arrivò puntuale come ogni giorno alla villa Graziani, presso cui lavorava. Entrò nel palazzotto di cinque piani, con le chiavi dato che era di casa. Si recò verso la sala da pranzo, giunta lì vide il corpo della signora Rosalba riverso a terra, in una pozza di sangue che partiva dal cuore. Terrorizzata emise un forte urlo e subito dopo chiamò la polizia. Arrivò immediatamente la Scientifica e poco dopo anche il commissario Giuseppe Russo, un uomo alto, con i capelli castani e dagli occhiali da vista blu, che quando vide il corpo chiese alla Scientifica: - Tu che ne pensi di questo decesso? Il capo rispose: - Si tratta di arma a fuoco, ma qualcosa non mi convince. Per darti notizie più precise ci sentiremo nei prossimi giorni, dopo l’autopsia. Russo interrogò innanzitutto la domestica, la quale disse che la sera prima aveva lasciato la signora Graziani a sorseggiare la 27


sua tisana alla melissa e a leggere un libro. Le aveva chiesto se avesse bisogno di qualcos’altro, ma la signora le aveva risposto che era a posto così. La domestica, perciò, si era preparata per tornare alla sua abitazione e tutta la serata era rimasta in casa con la famiglia. Russo allora prese la decisione di chiamare i figli della signora Graziani che vivevano a Catania. La figlia maggiore, Roberta, disse che non vedeva la madre da due giorni e che la sera prima era rimasta in casa perché non si sentiva bene. Aveva parlato al telefono con un’amica e poi era andata a dormire. Disse poi al commissario che suo fratello Giovanni non aveva mai avuto buoni rapporti con la madre perché da giovane le aveva sempre dato problemi in quanto aveva frequentato cattive compagnie, inoltre nel testamento la madre aveva riservato a lei una quota maggiore di eredità e per questo suo fratello era molto arrabbiato. Il figlio fu convocato invece in commissariato. Quando fece entrare il figlio, Russo gli chiese subito dei suoi rapporti con la madre, ma lui molto tranquillamente disse che i loro problemi erano storia vecchia e che ormai andavano d’accordo; inoltre, sua madre, senza dir nulla alla figlia, aveva cambiato il testamento stabilendo nuovamente l’equità tra i due figli. La sera prima era andato in un bar del centro con degli amici che potevano confermare e poi era tornato a casa, dove era rimasto tutta la notte. Il commissario raccolse tutte le testimonianze e poi tornò al comando insieme al suo fidato ispettore Alfio Capobianco. Dopo un’ampia riflessione, decisero che era necessario andare a parlare con il notaio di quel testamento e di tutte le sue modifiche. Uomo alto e con la pancia leggermente gonfia a causa della birra bevuta negli anni, di nobile famiglia, vestito sempre bene anche in casa, capelli ormai bianchi per la vecchiaia Il suo 28

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ufficio era molto ordinato e con mobili antichi e costosi, con i tetti alti e pieni di ornamenti e affreschi. Un po' eccessivo lo giudicò il commissario, uomo di origine umile, che in quel momento si sentiva in imbarazzo e che da bambino a malapena aveva i soldi per comprare una macchinina che avrebbe tanto voluto. Il notaio confermò le dichiarazioni che avevano fatto i figli della signora Graziani alla polizia quando li avevano interrogati: - È vero ciò che dicono i figli, la signora aveva deciso di affidare la maggior parte del testamento alla figlia, che era sempre stata la preferita dati i disguidi con il figlio. Russo e Capobianco che avevano ascoltato dai figli: - Sì, e poi la signora si è pentita ed è ritornata all'equità del testamento, come si dovrebbe fare normalmente. Il notaio rispose: - Giusto, ma in questi ultimi tempi, in quanto amico di famiglia della signora Graziani, ho notato qualche suo dubbio, possibilmente avrebbe voluto cambiare qualcos'altro. Russo e Capobianco decisero allora di ispezionare da cima a fondo la magnifica villa della signora Graziani per scovare qualche particolare indizio. Iniziarono a cercare partendo dalla sala da pranzo: c'erano ancora i piatti sul tavolo preparati dalla domestica la sera dell'omicidio, per la colazione seguente, le posate d'argento e piatti adornati di strisce d'oro con altri mille piattini, porta uova e cose di questo genere; poi salirono le scale a chiocciola al centro della casa e arrivarono in una stanza con qualcosa di strano. Dentro, infatti, trovarono solo una scrivania completamente vuota al di sopra, senza nemmeno un pezzo di carta e con un rialzamento sul legno di appoggio. Così con forza provarono ad aprirlo e dopo svariati tentativi trovarono un vecchio diario color porpora appartenente alla signora, e il commissario iniziò a leggerlo. 29


- Capobianco amico mio, mi sa proprio che abbiamo qualcosa di importante in mano, leggiamo, non so più che fare... i miei figli mi minacciano in continuazione... vogliono denaro... ok, questa è una vera e propria prova e comunque non capisco, ai miei tempi se solo avessi osato a fare una cosa del genere, i miei genitori mi avrebbero conciato per le feste. L'ispettore confermò: - Oh, non lo dica a me! Russo procedette: - Aspetti, continuiamo a leggere penso proprio che... il mio testamento... solo alla domestica... questo si chiama movente, anzi mi correggo un perfetto movente, stiamo arrivando sempre di più alla conclusione. La mattina seguente il capo della Scientifica telefonò con grande ansia a Russo: - Pronto, buongiorno, è una cosa urgente. Il commissario lo incalzò: - Dica! Ha scoperto qualcosa di importante?! Il Capo della Scientifica subito spiegò: - Eh già! Ho appena scoperto che la signora Graziani non è morta con un colpo di pistola, ma bensì per avvelenamento, non sono sicuro del veleno, ma penso sia cianuro, e questo è accaduto circa tre ore prima che le si sparasse in testa. A questo punto bisognò capire chi dei due fratelli avesse agito per primo, e per farlo dovette controllare i loro alibi. Il commissario chiamò la figlia, Roberta, e le chiese il nome dell’amica con cui aveva parlato al telefono la sera del delitto. Quindi per telefono la contattò: - Salve signorina, io sono il commissario Russo. Sto indagando sull'omicidio Graziani e dovrei farle qualche domanda. - Ah sì, la mia amica Roberta mi ha detto… una vera tragedia… Il commissario continuò: - Bene, vorrei andare subito al dunque e le ricordo che sta parlando con un pubblico ufficiale e che sto registrando la nostra conversazione telefonica. 30

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Conferma di essere stata al telefono con la signorina Roberta Graziani la sera del delitto? Può essere certa che fosse in casa? - Sì, confermo tutto, ma non so dire con certezza se durante la telefonata lei fosse a casa… sentivo rumori di strada in effetti. La ragazza sembrò stanca nel parlare ma grazie a questo dettaglio cadde l’alibi della signorina Graziani. Poi iniziò a lavorare con l’alibi del figlio: si fece dare con gentilezza il nome degli amici con cui aveva trascorso quella serata definita da lui “uno sballo” e li portò in centrale. Erano molto strani soprattutto uno che sembrava il più piccolo ma invece era il più grande; erano vestiti tutti e tre allo stesso modo: degli occhiali da sole vistosi, una camicetta bianca, dei pantaloncini blu e delle scarpe che sembravano di legno. Non erano così educati, perciò il commissario dovette aver pazienza e poco mancò che finissero in prigione per oltraggio a pubblico ufficiale. Al termine dell'interrogatorio ricavò la notizia che gli interessava. Filippo Ingrassia dichiarò rendendolo rosso di rabbia: Senti, noi non sappiamo nulla, nonnetto, possiamo dirti solo che lui è stato con noi solo fino alle 23:00. Così anche l’alibi del signor Giovanni Graziani cadde. L’ispettore senza perder tempo decise di chiedere al reparto Telecomunicazioni della Polizia di fare una ricerca sulle celle agganciate dai cellulari dei ragazzi quella sera. Quello della signorina Roberta attaccò la chiamata vicino alla casa della madre alle 23:10 e quello di Giovanni alle 02:36. I colpevoli erano entrambi!

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Paolo Carpinato - Giuliano Di Benedetto - Danilo Di Giacomo - Federica Di Giovanni - Cesare Samperi

JFK L’ultima parata


Era il 22 novembre del 1963. All’aeroporto Dallas-Fort Worth, in Texas, alle ore 11:40 (ora locale), atterrarono il trentacinquesimo presidente degli USA John Fitzgerald Kennedy e sua moglie Jacqueline Bouvier. Lui era nato in una famiglia irlandese cattolica il 29 maggio 1917, si era laureato ad Harvard nel 1937, e aveva poi combattuto valorosamente nella seconda guerra mondiale, per poi candidarsi nel '46 alla Camera dei Rappresentanti e nel '52 al Senato; infine era stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America il 20 gennaio 1961. Lei, la First Lady, era nata il 28 luglio del 1929 e prima di sposarsi con Kennedy lavorava per il The Washington Times. Entrambi erano molto eleganti: il presidente indossava un completo grigio scuro, la moglie un tailleur Chanel rosa, come il suo basco sulle ventitré, la loro figura era molto signorile e composta. Appena a terra, furono accolti dalla folla di paparazzi e di sostenitori. Il governatore John Connally, accompagnato dalla consorte Nellie, aveva già fatto blindare le strade di Dealey Plaza in occasione della parata; erano arrivati tutti i poliziotti armati per bloccare le strade e per calmare la folla. Lo schema della manifestazione fu però improvvisamente cambiato prima dell’arrivo di Kennedy, che sarebbe dovuto 34

I A - Scrivo in nero


giungere a destinazione alle 12:25, per poi arrivare al Trade Mart. Lo stesso JFK, infatti, aveva detto al suo assistente Kennet O’Donnell che voleva che tutti ammirassero Jackie, quindi aveva vietato ai poliziotti di suonare le sirene delle volanti, e aveva proibito che gli agenti in motocicletta affiancassero l’auto. La grande piazza era stracolma di gente. La limousine arrivò all’orario previsto. Jacqueline disse al coniuge: - John, guarda quanta folla! Quanta gente che aspetta soltanto il nostro arrivo! Sono davvero colpita! Lui ribatté: - Aspettano solo di vedere te, cara! Kennedy e la moglie Jacqueline sull’automobile, sul sedile posteriore, insieme a John Connally, governatore del Texas e alla sua consorte. Si salutarono facendo anche qualche battuta. Erano le 12:30. Un cineamatore dilettante di nome Abraham Zapruder non si rese conto di stare per riprendere uno degli eventi più importanti della storia: la morte di JFK. Secondo le ipotesi la macchina del presidente dopo una curva rallentò e in quel momento partì un colpo di fucile. La gente scappò e qualcuno cercava di capire che cosa fosse successo. Due secondi dopo si sentì un secondo sparo: un proiettile colpì il presidente alla schiena. Successivamente un terzo sparo lo colpì alla testa. La moglie presa dal panico chiese aiuto e cercò invano di aiutarlo dicendogli: - Amore svegliati, ti prego, perché ti hanno fatto questo? Scoppiò in lacrime. Un fermo immagine: il suo tailleur rosa, da copertina di Vogue, sporco di sangue come il suo viso di porcellana, mostrò all'America che qualcosa di inconcepibile si stava realizzando, lasciandola attonita. Poi la vita ricominciò a scorrere. Jackie cercò di scappare lasciando suo marito nelle

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braccia delle guardie del corpo, che provarono a portarlo in salvo. Mentre, il governatore Connally ferito e privo di forze gridò disperatamente: - Aiutatemi vi prego, sono ferito da colpi di arma da fuoco! Tutti speravano che JFK rimanesse in vita, ma purtroppo quel terzo sparo si rivelò mortale. La macchina presidenziale si affrettò a portarlo in ospedale, il Parkland Memorial Hospital, dove i migliori dottori avrebbero cercato in qualche modo di salvarlo. Essi vedendo il corpo privo di vita sconvolti dovettero dichiarare il decesso. Per risolvere questo caso si misero a lavoro la CIA, l'FBI e sette dei migliori detective, questi però non vollero rivelare la loro identità, per evitare delle spiacevoli conseguenze. Non si sapeva per certo chi avesse potuto uccidere il presidente, ma la polizia trovò tre principali sospettati. Il primo si chiamava J.D. Tippit e avrebbe sparato da una collinetta poco distante dalla Dealey Plaza. Era un poliziotto texano, trovato morto proprio in quel luogo, ucciso da un ex militare, Oswald. Un informatore dei federali, H. Theodore Lee, aveva sentito dire da alcuni frequentanti un'associazione pro-Cuba che Tippit avrebbe sparato il colpo mortale, e che lui, Oswald e Ruby, un mafioso di Dallas, si sarebbero incontrati la settimana prima dell'omicidio. Questa pista portava al movente dell'odio mafioso verso il presidente, in quanto si era particolarmente impegnato contro quest'organizzazione criminale. Oswald sarebbe stato coinvolto in quanto squilibrato e fanatico castrista, per essere usato come capro espiatorio e messo subito a tacere da Ruby. Infatti, appena due giorni dopo l'arresto di Oswald, questi fu ucciso proprio da Ruby. Tuttavia, mentre si aprivano piste improbabili sulla stessa FBI accusata di essere al corrente di minacce al presidente e di 36

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non averne volutamente tenuto conto e sul governo Messicano mandante di Oswald (infatti ben due mesi prima della morte di Kennedy lui era andato in viaggio in Messico), dall'analisi balistica, tuttavia, i sospetti si restrinsero su Lee Harvey Oswald. Per l'appunto questo ex marines venne avvistato mentre saliva in maniera abbastanza furtiva sul palazzo Sixth Floor Hotel da cui si pensa provenissero i colpi, come se non si volesse far vedere da nessuno. Lui possedeva due pistole una Smith & Wesson con la quale si allenava al poligono di tiro e un fucile di precisione modello Mannlicher-Carcano. Soffriva di una patologia psichiatrica che lo portava a compiere gesti "eroici" come quello del generale Edwin Walker ed il fatto di non essere stato scoperto lo spinse ad alzare il tiro e fu allora che cominciò a pensare all'omicidio di Kennedy che avrebbe potuto renderlo famoso. La mattina del 22 novembre 1963 si svegliò, andò in cantina e prese il suo fucile Carcano e si fece accompagnare al lavoro da un suo vicino di casa, con il fucile smontato. Tutti i movimenti di Oswald dalle 7,10 alle 13,55 furono seguiti da testimoni oculari alla polizia: ore 7:15 Oswald andò al lavoro, ore 8:00 Oswald entrò nell'edificio con la testimonianza di Jack Edwin Dougherty che lo vide entrare nel fabbricato del deposito, ore 12:15 Oswald andò al 2° piano dell'edificio per comprare una Coca Cola e fu visto da Carolyn Arnold, ore 12:15 Arnold Rowland vide un uomo nero con il fucile al 6° piano, 12:30 Howard Brennan vide sparare dalla finestra del 6° piano, ore 12:30 Howard Leslie Brennan vide un uomo che sparava con un fucile al presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy dalla finestra d'angolo del 6° piano. Questi fornì la descrizione dell'uomo magro ed alto circa 1,80 m forse appena trentenne, perfettamente calzante con Oswald. Ore 12:30 37


Oswald era alla finestra del 6° piano visto dai colleghi di lavoro. 12:40 Oswald scese dall'autobus e prese un taxi. Oswald fu arrestato lo stesso pomeriggio. Fu condannato il 18 ottobre del 1963 per l'uccisione di JFK come unico esecutore con il movente della mitomania e dell'odio, in quanto simpatizzante del Ku Klux Klan. Morì due giorni dopo (per mano di Ruby), anche se in quei due giorni di carcere si dichiarò sempre innocente, vittima di un complotto. Epilogo John Fitzgerald Kennedy fu un grande sostenitore del movimento per i diritti civili degli afroamericani, infatti inizialmente, nel 1960 (prima delle sue elezioni), protestò insieme a migliaia di statunitensi di tutte le etnie, e chiamò a protestare anche la moglie dell’imprigionato Martin Luther King.All'inizio della sua breve carriera da presidente durante un congresso, dominato dai democratici del sud, ostacolo la legge sui diritti civili, perché ebbe paura che i vari democratici del sud gli si sarebbero potuti mettere contro. Il risultato fu quello di essere accusato da molti leader dei movimenti per i diritti civili, di non dar loro il sostegno promesso, e che quelle promesse furono solo a scopo elettorale. La fase più importante di questo movimento si sviluppò tra il 1954 e il 1968, cioè la lotta per i diritti civili degli Afroamericani, soprattutto nel sud. A capo dei vari movimenti solitamente vi furono vari afroamericani, ma gran parte del sostegno politico e Þnanziario provenne dai sindacati (guidati da Walter Reuther), da alcune associazioni religiose e da importanti uomini politici bianchi. Alcuni dei sostenitori più importanti del movimento furono: Rosa Parks, Martin Luther King, Malcom X e Robert Kennedy (fratello di JFK). A partire dal 1943, Rosa ader“ al Movimento per i diritti civili statunitensi nel 1943. A metà del 1955 iniziò a frequentare un centro educativo per i diritti dei lavoratori e l'uguaglianza razziale, la Highlander Folk School (fu lÕunica tra i sostenitori elencati prima ad non essere uccisa). Venne arrestata il 1° dicembre del

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1955, perché non cedette il posto ad un passeggero bianco sull’autobus. Martin Luther King fu il leader più importante di questo movimento, fu eletto leader il 14 febbraio 1957 a New Orleans. Proprio lui organizzò la rivolta degli afroamericani.Venne ucciso a Memphis il 4 aprile del 1968:mentre nella veranda in un hotel di Memphis si intrattenne a parlare con dei suoi collaboratori gli vennero sparati alcuni colpi di fucile, cadde riverso sulla ringhiera e morì pochi minuti dopo. Malcolm X fu uno dei più importanti leader afroamericani del secolo. Fu a capo delle "Black Panthers", un'organizzazione che riÞutava la non violenza e favoriva la Self efense l 14 febbraio 1965 Malcolm e la sua famiglia sopravvissero a un attentato contro la loro abitazione l 1 febbraio 19 Malcolm fu assassinato durante un discorso pubblico ad Harlem con sette colpi di arma da fuoco. Robert Kennedy fu a capo del dipartimento di giustizia durante la presidenza del fratello, esso quando venne a sapere della morte di Martin Luther King dichiarò che si doveva raggiungere presto l’uguaglianza tra bianchi e neri. Nella notte tra il 5 giugno e il 6 giugno 1968, nella sala da ballo dell'Ambassador Hotel di Los Angeles, Robert incontrò i suoi sostenitori per festeggiare la vittoria elettorale nelle primarie della alifornia opo il discorso di saluto, mentre Kennedy veniva fatto allontanare dall'hotel attraverso un passaggio delle cucine, alle 00:15 vennero esplosi colpi di pistola contro di lui. Questa scia di morti è stata voluta dagli uomini bianchi che si credevano superiori, ma grazie alle varie proteste gli afroamericani stanno riuscendo ad ottenere i loro diritti. Ma oggi ci sono anche altre forme di discriminazione da combattere, come l'omofobia, il sessimo ecc. È molto sbagliato discriminare le persone per il loro orientamento sessuale, il sesso o la razza, ma molte persone non capiscono ancora.

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Giulio Arena - Eleonora Chimenti - Elena Greco - Salvo Politano - Blasco Scammacca

La morte del cigno


Al teatro Bellini di Catania si sta svolgendo la prova generale del balletto del “Lago dei Cigni”. La prima ballerina era Marta Riva, una giovane di trentacinque anni molto simpatica, che era la moglie del famoso produttore Alfredi Salemi, di quarant’anni, nonché il mio controllore antipatico e maleducato. La seconda ballerina era Cristina Aleo, ragazza di trentun’ anni, super amabile e super educata, fidanzata con il musicista Salvo Miranda, di 32 anni, sempre disponibile e sempre felice aiutare tutti. Arrivati all’atto III dove sarebbe dovuta entrare Marta Riva, lei non entrò in scena. - Ma dove diamine è Marta! - esclamò il regista per poi continuare a lamentarsi - Scusa, la vai a chiamare per favore? - Sì certo la vado a chiamare. - rispose la costumista. Un urlo troppo forte per una semplice caduta proveniente dai camerini destabilizzò i presenti che corsero per capire cosa fosse successo. La costumista aveva trovato il cadavere di Martina Riva! con le mani tremanti e le lacrime agli occhi riuscì a prendere il telefono dalla tasca e chiamò la polizia. A occuparsi di quel caso fu la neo commissaria dai capelli color del fuoco Teresa Russo, che in trentasette anni della sua 42

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vita aveva sviluppato un'incredibile simpatia accompagnata da un po' di timidezza ma sul lavoro era sempre molto seria e professionale, era bassa e formosa e il suo sempre presente eyeliner faceva risaltare i suoi splendidi occhi bruni. Una volta arrivata al teatro si perse un solo attimo per apprezzare quel luogo dimenticando il motivo per cui era lì, pensò distrattamente che doveva andare a teatro più spesso. A riportarla alla triste realtà fu l'insopportabile medico legale che non ha fatto altro che provarci con lei per tutto il tempo anche se il suo era un chiaro no. - Ehi commissario, che dici se ce ne andiamo ai camerini da soli prima di occuparci del caso? - gli apprezzamenti non cessavano. - No grazie, preferisco fare il mio lavoro. - continuava a rispondere la donna. - Dai su, abbiamo tempo. - insisteva lui. - Ho detto di no! - urlò Teresa Russo, azzittendo l'uomo. Lui si accertò della causa della morte della ballerina e capì che la morte non fu naturale così Teresa decise di far portare il corpo all'abitazione per l'autopsia. - Spero di non star facendo errori! È il mio primo caso non voglio sbagliare. - disse tra sé e sé il commissario. Teresa Russo iniziò a interrogare i maggiori sospettati. Il primo fu il produttore, lui aveva una forte ammirazione verso Cristina Aleo, la ballerina in competizione con la vittima, però durante l’accaduto era in compagnia dello scenografo per delle decisioni teatrali. In seguito interrogò proprio lei Cristina Aleo, sfidante di Marta Riva, per essere la protagonista. Lei invece era dietro le quinte a riscaldare i muscoli insieme alle altre ballerine. L’ultimo interrogato fu Salvo Miranda, il fidanzato della seconda ballerina. Salvo durante l’accaduto provava insieme all’orchestra il pezzo da suonare. Teresa rilesse i suoi 43


appunti e notò che i tre sospettati erano innocenti perché ognuno di loro aveva un valido alibi e dei testimoni: il produttore quando ci fu l’accaduto era in compagnia dello scenografo per delle decisioni teatrali, la seconda ballerina si trovava dietro le quinte insieme alle altre ballerine per riscaldare i muscoli, infine il fidanzato della seconda ballerina stava provando insieme all’orchestra il pezzo da suonare. Teresa Russo andò all’obitorio per conoscere il risultato dell’autopsia e chiese con un tono ironico: - Buonasera dottore, ha finito di esaminare il cadavere? Il medico legale rispose: - Sì, ho finito, ora le va di svagarci? Teresa sempre molto fredda disse: - No! Io mi concentro sul mio lavoro, cosa ha trovato facendo l'autopsia? Dopo tale affermazione svariati versi di disapprovazione furono emessi dal medico legale e poi aggiunse: - Nello stomaco ho trovato un liquido che ho esaminato ed è un infuso di una pianta chiamata aconito napello, molto velenosa. Teresa Russo salutò un po' schiva il medico e lui neanche ricambiò. Lei analizzando la bottiglia della vittima scoprì che il veleno era stato introdotto lì dentro. Pensando al caso tutta la giornata, verso le tre di notte iniziò a navigare su internet e trovò una ballerina con capelli grigi, abbastanza giovane e con capelli, abiti e espressioni facciali la fanno sembrare molto più anziana di quanto non sia realmente. Questa si chiamava Elvira Sonna, ballerina rimpiazzata da Marta Riva in uno spettacolo molto importante. L’investigatrice pensò che potesse essere stata lei ad uccidere la vittima dato il suo forte movente. Decise di andare a casa di Elvira l’indomani. Una volta davanti all’edificio ebbe un po’ di timore, ma si fece forza. Bussò alla porta e si ritrovò 44

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in una casa molto particolare, ma allo stesso tempo incredibilmente graziosa con un giardino molto ampio e colmo di piante; proprio tra queste c’era l’aconito napello, sostanza che aveva ucciso la danzatrice. Immediatamente arrestò la signora Sonna e lei non fece resistenza: si era resa conto del torto che aveva fatto. L’ispettrice era molto fiera di lei e anche il medico legale le fece i complimenti per il lavoro svolto con meravigliosa accuratezza e velocità da far invidia. Furono proprio questi gli unici commenti lusinghieri pronunciati da quell’uomo che la fecero inevitabilmente arrossire. Il cigno aveva avuto giustizia.

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Federica Barbirotto - Matteo Coppola - Malindu Liyauluge - Nimsadi Palinhawadana - Francesco Pennisi

I misteri del villaggio Colombo


Nel piccolo villaggio molto popolato di Colombo nello Sri Lanka, viveva una famiglia formata dal padre Robin, uomo alto ed esile, gran lavoratore e persona socievole, la moglie Rosy, donna grassottella, un po' scontrosa e le due figlie, una di tredici e l’altra di diciotto anni di nome Anna e Lucy. La piccola era una bambina molto vivace e dispettosa, Lucy invece era molto riservata. Era molto bella, con degli occhi neri e lunghissimi capelli lucenti come la seta che spesso legava con delle trecce. Il villaggio era composto da graziose capanne fatte in legno, paglia e bambù. Al loro interno c’era un piccolo angolo cottura e dei letti fatti con stuoie di paglia colorate e fatte a mano da Rosy. Oltre alle capanne c’erano i campi dove si coltivava il riso, il tè e tantissimi tipi diversi di spezie profumatissime. Inoltre all’interno del villaggio tanti recinti in cui si allevavano pecore, capre e galline, utilissime per la carne ed il formaggio che si ricavava dal latte, tutti prodotti che gli abitanti si scambiavano. Spesso si riunivano per celebrare matrimoni e far festa. Insomma, nel villaggio Colombo regnava la pace. Tutti andavano d’accordo e si aiutavano a vicenda.

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Robin mattiniero come sempre si mise a portare il suo gregge al pascolo. Nel mezzo del cammino incontrò la signora Amelia, la persona più anziana del villaggio, che stava prendendo l'acqua dal pozzo. Robin tutto contento la salutò: - Buongiorno signora Amelia, adesso come si sente? Amelia si girò di scatto e sorrise quando vide e lo ricambiò: - Buongiorno Robin, mi sento molto bene, la gamba non mi fa più male. - Sono contento. - rispose lui. Mentre le pecore riposavano nel prato i due incominciarono una lunga discussione. Parlando del più e del meno arrivarono a discutere degli strani eventi che erano successi da poco tempo nel villaggio. - Pare che questo essere agisca di notte come mi hanno riferito gli altri e ho sentito da altri contadini che i loro animali stanno cominciando a scomparire a uno a uno. - disse Amelia con la preoccupazione in viso. - Sì, lo so, per fortuna nessuno dei miei animali è ancora scomparso, ma ho timore che possano scomparire anche loro. Se succede, sarebbe un disastro per la mia famiglia, non saprei più come ricavare soldi per sfamarla. - ammise lui tristemente. Amelia cercò di tranquillizzarlo: - Speriamo che dio sia dalla nostra parte e che non succeda qualcosa di brutto. Amelia se ne andò dopo un bel po' e Robin si mise a fare un pisolino e quando si svegliò il sole stava calando e allora radunò tutte le pecore e si mise in marcia verso casa. Durante quella notte di luna piena gli scomparì una gallina ma Robin non ci fece molto caso, la seconda notte gli scomparì una pecora e dato che la fonte di cibo e denaro per il contadino erano le pecore egli iniziò a preoccuparsi. La terza notte sparì un uomo del villaggio e a quel punto Robin era così 51


terrorizzato che quasi non dormiva la notte. Ma da quel momento il rapitore misterioso non si fece più rivedere. Passato un mese il contadino non ebbe più paura e quindi riprese la sua vita quotidiana. Una notte Robin si era addentrato nel bosco vicino a casa sua per raccogliere legna e altri materiali ma ad un certo punto si imbatté in una scena che lo fece diventare pallido dalla paura. Un uomo si stava trasformando in un essere orribile: era molto alto, con occhi rossi, denti aguzzi, le sue braccia diventarono delle lame affilatissime, dalla bocca usciva acido che dissolveva all’istante e al posto delle gambe aveva tentacoli viscidi. Robin scappo via dalla paura. L’essere orribile iniziò a parlare con una voce roca e molto spaventosa alla sua vittima: - Bene, bene, ma chi abbiamo qui, carne fresca, stavi cercando di scappare, eh? A Robin gelava il sangue e con voce tremolante disse: - C... Chi sei? E il mostro rispose: - Io mi aggiro di villaggio in villaggio per mangiarmi a poco a poco ogni suo abitante fino a quando non ne resta neanche un minimo pezzetto. Robin era molto spaventato per la sua famiglia ma il mostro proseguì: - Molto tempo fa ero anch’io un contadino, vivevo in una fattoria su un promontorio ma un giorno molto sfortunato mentre stavo portando al pascolo le mie greggi, arrivò una tribù di indigeni che mi uccise e ora voglio solo vendetta. - ma quanto Robin non sapeva era che si trattava solo uno stratagemma dell’essere per far arrivare i suoi seguaci e così fu. All’improvviso arrivarono altre quattro creature altrettanto spaventose: uno aveva la testa da capra ma vi era un particolare questa era metà normale e metà scheletro ed era di statura alta, un altro era basso con un solo occhio e un solo dente, un altro era di media statura ma il suo corpo era attraversato da una 52

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lama e al posto della testa aveva dei serpenti a sonagli. L’ultimo essere aveva una grande gobba da cui spuntavano delle grosse lame e aveva una testa di cavallo ma non aveva gli occhi. Robin era così terrorizzato che scappò, mentre gli altri si lanciarono al suo inseguimento. L’essere con la testa di serpente disse con una voce sibilante: - Dove sei? Robin si sentiva circondato. Per sua fortuna trovò una caverna per rifugiarsi e lui sapeva che sarebbero ritornati per dargli la caccia. Si addormentò lì e il mattino seguente corse verso il suo villaggio per raccontare tutto, ma nessuno gli credette. Robin aveva provato ad avvertirli ma lo derisero tutti e la gente del villaggio era ignara del pericolo a cui andavano incontro. Quindi andò a rivolgersi al saggio del villaggio che gli disse con voce roca: - Molti anni or sono ho sentito parlare di cinque creature spaventose che si aggiravano da queste parti ma fino ad allora credevo che fosse solo una leggenda. - fece un colpo di tosse e continuò - Ecco a te una guida delle creature leggendarie di questi luoghi. Robin ringrazio e se ne andò via. Tuttavia, quella stessa sera sua figlia Anna uscita fuori casa per prendere l'acqua dal pozzo fu rapita. Ancora una volta Robin non fu creduto e, benché scoraggiato e deluso, non volle arrendersi: era disposto a tutto pur di salvare sua figlia. Durante la notte insonne, pensò e ripensò. All'alba decise di addentrarsi nella foresta. Portò con sé una grossa ascia e un'antica pozione lasciatagli dal saggio. All'improvviso sentì dei rumori, dei lamenti e delle grida, capì subito che era la voce di sua figlia. Robin urlò: - Anna, Anna sto arrivando, ti salverò. In quel momento il mostro uscì fuori dal suo nascondiglio, aveva un aspetto orribile e Robin indietreggiò. 53


Il mostro gli si rivolse con voce cavernosa: - Sei arrivato, adesso tu e tua figlia farete una brutta fine. Era da tanto che aspettavo. - Lascia mia figlia e prendi me, ti prego, lei è solo una bambina. Intanto dalla bocca del mostro usciva uno strano liquido gelatinoso. Anna implorava aiuto, così Robin scagliò la sua ascia contro il mostro. Lo colpì dritto in testa, per un attimo la sua furia si placò, e Robin ne approfittò per strappare Anna dalle sue grinfie. Le sussurrò: - Ti riporterò a casa, Anna. Si nascosero nella stessa caverna che lo aveva riparato la prima volta: era un luogo buio, umido e puzzolente. Anna era sporca, piena di graffi e lividi e avevo una grossa ferita sulla fronte. Ma mentre i due credevano di poter scappare, ecco che arrivò il mostro. Urlò contro di loro: - Non dovevi prenderti gioco di me, ora pagherete con la vita. Afferrò Robin, lo avvolse tra i suoi tentacoli e lo fece volare in aria. Anna cercò di colpirlo con un grosso sasso, ed ecco che anche lei venne avvolta dai tentacoli. - Morirete, morirete entrambi. Avete osato sfidarmi. - e ghignò. Anna, nel frattempo, estrasse dai suoi capelli un fermaglio appuntito e lo conficcò in uno dei tentacoli, il mostro urlò, si dimenò, perse sangue e, mentre quello era in preda al dolore, i due riuscirono a liberarsi cadendo a terra. Robin gridò a sua figlia: - Anna, devi metterti in salvo, subito, scappa via. - Non posso lasciarti da solo papà, lo sconfiggeremo insieme.

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Ma il padre insistette, spingendola fuori dal nascondiglio. Intanto il mostro si riprese, così afferrò Robin per i capelli, lo picchiò, lo colpì con un ferro caldo. Ormai l'uomo era privo di forze, non riusciva a difendersi e si abbandonò al suo destino. Il mostro gli si avvicinò e spalancò la sua bocca grande. Ma prima di finirvi dentro, Robin si giocò la sua ultima carta: estrasse dalla tasca la sua pozione e gliela buttò addosso, sul corpo e sugli occhi. Ma ecco che l'essere mostruoso lo divorò. Robin aveva perso la sua battaglia? Sarebbe riuscita la pozione a far effetto sul mostro? Sarebbe ritornata la serenità nel villaggio Colombo? Questo forse sarebbe rimasto un grande mistero…

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Cristiano Colomba - Qifeng Liu - Iole Paladino - Maria Giulia Vassallo

Il killer silenzioso


Luigi, diciannove anni, un metro e ottanta d'altezza, occhi azzurri ipnotici, avrebbe avuto più di un motivo per essere soddisfatto di sé, eppure non ne trovava nessuno. L'anno precedente si era diplomato, ma non si era né iscritto all'università né aveva cercato lavoro. Degli amici del liceo, a causa della sua ritrosia non glien'era rimasto nessuno, se mai ne avesse avuti. La nonna era la più gentile che potesse mai sperare, però la tragedia che aveva vissuto gli aveva lasciato un vuoto immenso. Il rapporto tra nonna e nipote diventava sempre più forte e intenso, lei era una donna fantastica, vivace e premurosa insomma molto speciale. Pian piano ritornò ad essere una vita regolare, qualcuno finalmente riempiva le sue giornate, sua nonna infatti dedicò a Luigi molto tempo, i momenti furono pieni di chiacchiere e risate. Una sera dopo cena, la nonna vide Luigi pensieroso ed un po' abbattuto e si rivolse a lui dicendogli: - Io sto provando a farti vivere una vita più simile possibile a quella di prima, ma a causa delle mie mancanze economiche non posso permettermi certe cose.

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- Lo so, nonna - disse Luigi - so e vedo che ti stai impegnando ed io ti ringrazio per i sacrifici che stai facendo, solo che mi ossessiona il fatto che non ho neanche potuto salutare i miei genitori prima della loro morte. - Me ne rendo conto. - rispose l’anziana - È già difficile per me, figuriamoci per te, quindi se ne vuoi parlare, puoi raccontarmi quello che pensi e quello che provi. Luigi cominciò a raccontare: - Ero fuori con i miei amici a circa cinquecento metri dall’ufficio dove lavoravano i miei genitori, sentimmo uno scoppio e dopo qualche minuto il fumo che copriva ormai tutto il panorama. Incuriositi, seguimmo la striscia grigia che ci portò direttamente davanti l’ufficio. Preso dalla disperazione e dalla confusione cercai di entrare ma fui frenato dai vigili del fuoco. Dopo qualche ora al telegiornale dissero i nomi degli sfortunati che erano all’interno dell’edificio proprio al momento dell’esplosione e tra quelli c’erano i miei genitori. La nonna impressionata rispose: - Terribile non riesco neanche ad immaginare quello che hai provato, dai, forza e coraggio, è già tardi e ricorda che tutto è meglio alla luce del sole. - Hai ragione, nonna, notte! - Notte a te, nipotino mio. Il giorno seguente, ovvero il 31 dicembre 2019, come erano soliti fare, dopo pranzo, i due si guardarono il TG5, dove ascoltarono la notizia che la Cina avvertiva della diffusione di “Cluster” polmoniti atipiche di origine virale. Dopo qualche settimana si identificò il virus, fu chiamato Covid-19. Passò poco tempo quando si verificarono i primi casi in Italia, in particolare in un quartiere di Codogno, in provincia di Milano, scoppiò un focolaio.

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Era il quartiere dove viveva Luigi con sua nonna, la polmonite interstiziale si diffuse rapidamente, gli ospedali si riempirono di malati, dottori e infermieri si trovarono impreparati di fronte a questa epidemia, mancavano le mascherine e l’ossigeno scarseggiava. I morti furono a centinaia, il Governo Italiano fu costretto a dichiarare un lockdown generale. Luigi si ritrovò ad affrontare una solitudine che lo travolse rendendolo cupo e impaurito. Aveva paura di perdere l’unica persona cara che gli era rimasta. Quasi tutto il suo tempo lo passava a letto, non trovava più la motivazione per affrontare le giornate. L’11 marzo 2020, l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dichiarò il Covid-19 vera e propria pandemia. In quei giorni la nonna di Luigi si ammalò di Coronavirus con sintomi molto gravi. Venne subito trasferita in terapia intensiva nonostante le difficoltà per i pochi posti disponibili, ma non riuscì a superare l’infezione e dopo tre giorni, in completa solitudine e senza la vicinanza di Luigi, che ovviamente non poté darle l’ultimo saluto affettuoso, perse la vita lasciando un ulteriore vuoto nel suo cuore. In quel periodo Luigi era molto depresso e introverso e per questo non riusciva ad avere amici. L’unica persona con cui legò fu una sua vicina di casa, Serena, un’insegnante d’università di trentacinque anni. Al contrario di Luigi, Serena era molto estroversa; inoltre, il suo aspetto fisico contribuiva a renderla attraente, coi capelli lisci e castani e con gli occhi verdi. Un giorno Serena lo incontrò vicino le cassette della posta: Ciao, ti ho salutato altre volte, forse non ci hai fatto caso. Ti ricordi anche tu di me? Mi sono trasferita da poco.

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Lui alzando appena lo sguardo: - Scusa se non ho risposto al tuo saluto, pensavo mi volessi prendere in giro. - Ma no! Non lo farei mai. - gli disse sorridendo. Da quel momento anche in piena pandemia cominciò la loro amicizia. Luigi era più felice e col tempo si confidò con Serena raccontandole dei suoi problemi economici. Invece lei aveva un tenore di vita elevato e Luigi cominciò a provare un po’ di invidia. Aveva degli atteggiamenti un po’ aggressivi e Serena si allontanò perché non sapeva fino a che punto poteva arrivare Luigi. Serena era perfetta, era bella, dolce e solare, Luigi incominciò a provare dei sentimenti per lei e molta gelosia per le sue ricchezze, qualità e amicizie. La vicina invitava spesso amici e ragazzi a casa e il giovane ne soffriva molto. Ogni volta che invitava qualcuno, era sempre lo stesso discorso. Luigi le chiedeva: - Sicura che sono solo amici!? E lei: - Certo, però basta chiederlo sempre, insomma non siamo fidanzati. Ogni giorno il ragazzo si alterava un po’ di più e la sua stanchezza mentale lo portava a ferirsi psicologicamente e fisicamente. Tra sé e sé diceva: “Luigi non piangere, è solo un taglio, del resto è colpa tua!” Ormai Luigi era morto dentro e doveva mostrare la sua debolezza a qualcuno, ma nessuno era al suo fianco, quindi i piccoli furti che commetteva per ottenere qualche soldo diventarono il suo unico metodo di sfogo. Ogni volta che pioveva, lui usciva per commettere qualche furto, in modo che nessuno lo potesse vedere, lui non temeva di essere scoperto e punito, lui voleva apparire come la brava persona che era sempre stata, di cui aveva nostalgia. Se qualcuno avesse visto quel giovane bagnato che sbatteva costantemente le palpebre, che si aggirava per la città, sarebbe rabbrividito. Era pauroso, trasmetteva il suo sconforto e il suo disagio. 61


I mesi passarono, le sue continue uscite misteriose iniziavano ad insospettire alcuni vicini di casa. Luigi, per non rischiare, decise di non commettere più violazioni, ma la sua mente, ormai malvagia, lo supplicava di fare qualcosa di sbagliato. Ormai non sapeva più chi amare o sognare, così iniziò a prendersela costantemente con Serena. Le diceva: - Ti odio, sei veramente insopportabile, sei nata solo per rovinarmi la vita! E la ragazza: - Luigi sono le due di notte! Basta, io non ti ho fatto nulla!! Questo odio insensato diventava ogni giorno più ardente, fino a quando, improvvisamente, Luigi sognò di ucciderla e da quel giorno provò in tutti i modi ad avverare il suo sogno. Dopo poche settimane il piano era pronto, Luigi aveva previsto ogni possibile problema, tranne uno, Serena era risultata positiva al COVID-19 pochi giorni prima e un giorno prima dell’attacco di Luigi, Serena perse la vita in ospedale... Luigi non riusciva a crederci, Serena gli mancava, ma si sentiva ancora una persona inutile per non averla uccisa, era tutto finito, non avrebbe più trovato qualcuno che volesse stare con lui, dato che tutti i suoi vicini avevano capito il suo lato malvagio. Irrisolto, alla fine, la solitudine lo portò alla morte.

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Sophia Giammona - Caterina Magno - Marta Marino Aurelia Politi

I fratelli White


Adam White, Ben White, Tom White, erano i fratelli che vissero all'inizio del 1900, diventati leggenda sia per sfortunati che straordinari eventi. Il maggiore dei tre, Adam, era alto e aveva sia gli occhi che i capelli marroni, era il più ricco e di potere dei tre anche se la sua carriera che il suo potere non fosse per la sua intelligenza. Era facilmente irritabile e se ciò accadeva si isolava nel suo ufficio ed entrava nel suo mondo, il mondo dei soldi perché erano l'unica cosa che lo rendevano felice. Il secondogenito Tom aveva qualche centimetro in più di Adam, i suoi capelli erano lisci corti e castani, invece i suo occhi che erano la cosa che suo fratello maggiore invidiava di più erano verdi. Molto frequentemente si sentiva inadeguato, imbarazzato e inferiore, credeva che se si fosse impegnato di più avrebbe potuto avere successo che aveva avuto suo fratello. Il ragazzo era molto sensibile e piangeva spesso nella sua camera; questo succedeva molto frequentemente soprattutto dopo i litigi con i suoi fratelli. L’ultimo, Ben, il più piccolo e anche il più basso, aveva qualche problema psicologico, lui aveva gli occhi vispi e piccoli invece i suoi capelli lisci e marroni, avendo qualche problema psicologico quando era molto felice saltava molto energicamente da far vibrare il pavimento, anche avendo questi 65


problemi lui era molto più sveglio di quello che sembrava. pur essendo essendo abbastanza giovane le sue mani erano nodose e rugose. Tutti e tre vissero nella villa di famiglia. Sia Ben che Tom chiedevano sempre dei prestiti, al fratello perché ricco, cosi da riempirsi di debiti. Infatti Adam volle escogitare un piano per togliersi dai piedi i due fratelli. Si chiudeva perciò, più del solito per rimuginare la sua strategia nel suo studio. Egli ebbe uno studio tutto suo, il gusto dei mobili sicuramente era molto raffinato e dei quadri inquietanti e antichi furono appesi nel muro. Il suo piano fu di collaborare con suo fratello minore Ben così da far sentire tradito suo fratello Tom e spingerlo al suicidio. Per lui questa era l’unico mezzo per far pagare ai propri fratelli quanto commesso negli anni passati. Adam iniziò la prima fase del suo piano, ma non ci furono buoni risultati. Egli sperò nel suicidio di suo fratello Ben, dopo aver saputo del suo “tradimento”, cioè la collaborazione con l’altro fratello. Non essendo riuscito nel suo intento, passò al piano successivo che fu quello di avvelenare Tom. Dopo un po' di settimane Ben denunciò Adam alla polizia, ritenendolo il colpevole di tutto questo. Ma prima che Ben potesse deporre al processo, fu ucciso. Doveva sembrare un incidente. Stava tranquillamente attraversando una strada, alquanto buia e resa misteriosa dalla nebbia che l'avvolgeva, quando ad un tratto sentì un rumore di cavalli al galoppo. Era una carrozza, che lo travolse. I poliziotti accertarono, tuttavia, che si era trattato di un omicidio volontario, in quanto sul terreno innevato vi erano tracce delle ruote e degli zoccoli che andavano avanti e indietro, come se si fosse voluto esser certi di aver ucciso l'uomo calpestato. Adam fu ritenuto il mandante e, riconosciuto alienato, venne rinchiuso

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in un manicomio criminale, dove si impiccò trascorsi pochi mesi. Solo dopo diversi anni venne scoperta la verità su questi fratelli, il vero traditore, e le vere vittime. Tutto iniziò dalle voci che giravano in città “Hai sentito di quei poveri fratelli? Secondo me erano tutti e tre pazzi”. Oppure “I soldi rovinano tutte le famiglie, un esempio ne sono quei tre poveretti che si uccisero a vicenda”. Insomma, oramai era diventata quasi una leggenda, conosciuta da tutti. C’era chi pensava che fosse stato il maggiore a rovinare tutto, chi sosteneva che fu quello di mezzo a mettere le mani avanti in un tempo remoto, ma nessuno credeva che il colpevole potesse essere il minore, Tom. Infatti, in città tutti, appena si parlava di quest’ultimo e di un possibile colpevole nello stesso discorso si esclamava “Quello con problemi mentali, malefico? Ma non capiva niente, è indiscutibilmente innocente!” Ma la gente ha troppi pregiudizi, dalla vita ci si può aspettare di tutto, è imprevedibile! Fu il custode del cimitero, John, a scoprire la verità. Infatti, era troppo spinto dalla curiosità di vedere quelle tombe, di vedere come erano ridotte, così le andò a visitare. Camminò a lungo, infatti queste erano state costruite in una parte del cimitero un po’ nascosta e ritirata. Durante il tragitto incontrò diverse persone che gli chiedevano dove stesse andando. Ma un incontro che lo colpì, che lo lasciò stupito, fu quello con una signora un po’ strana. Non si volle presentare, ma appena lo vide, gli passò accanto e gli sussurrò: - State andando a visitare quelle tombe, vero? - Sì, perché me lo chiedete? - rispose. - Solo curiosità… - ribatté un po’ imbarazzata - Ma vi volevo solo avvertire: non prendete sottogamba la situazione, 67


dopo aver scoperto la verità, potreste impazzire. Forse è meglio se voi non ci andate. È pericoloso, in città si raccontano troppe frottole, girano bugie, la verità non è quella che sembra. aggiunse. - Ma sarò attento, non serve che voi mi avvertiate, lavoro in questo cimitero da trent’anni circa. Sono semplicemente delle tombe, niente di che. - disse - Ma io vi ho avvertito, fate come volete, ma quando poi mi direte che avevo ragione sarà troppo tardi. Ogni sfumatura del nostro carattere ci rende particolari, ma la stranezza viene spesso scambiata come problema psicologico, anche se questo ci rende migliori, più astuti, un passo avanti a tutti. Ascoltatemi, voi mi ritenete pazza ma non è così. Penserete di chiamare dei dottori per portarmi in un manicomio, ma non lo farete. Sosterrete una cosa, ma non è vera… - aggiunse con l’aria misteriosa. - Aspettate, spiegatevi meglio, per favore! - urlò l’uomo, ma la signora era già andata via. Il custode camminò a lungo, pensando alle parole di quella strana anziana, ma non riuscì a dedurne nessun indizio, infatti lui non conosceva molto questi tre fratelli, ma l’unica cosa a cui pensava era l'avvertimento di questa di non andarvi, ma oramai era troppo tardi, era già arrivato. Appena giunse lì, si disse fra sé e sé: - Vado, o non vado? E se la signora avesse ragione, sto rischiando grosso. Va be', non sarà niente… Però sono ormai vecchio, non so, mi potrebbe capitare un accidenti… Ma ad un certo punto si fermò, incredulo, sospirò e cadde quasi a terra. Poi alzò il busto e si poggiò a terra con le ginocchia. Con la testa china e le mani sulla terra sussurrò: Testardo son stato, ora le conseguenze le pago io. - e se lo ripeté fino a svenire e cadere a terra.

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Infatti, il povero John aveva proprio assistito ad una scena terribile: appena arrivò alla sua destinazione, lo sguardo gli cadde sulla terza tomba, ed in quel momento fu percosso da un brivido, e iniziò a sentirsi male, svenne e sentì la presenza di un ladro, ma non di un ladro comune, ma di un ladro di anime. Infatti in quel momento non si sentiva più il corpo, oramai la sua anima lo era diventato, e se anche questa gli fosse stata portata via? Lui voleva solo vivere libero, dimenticare tutto quello che stava vivendo in quegli istanti, e non essere lo schiavo di un animo cattivo, come la presenza che riusciva a percepire. Cercò di chiedere aiuto , ma la voce non gli usciva, si sentiva un nodo alla gola, forse erano la sua paura, il suo orrore e tante altre emozioni che in quel momento avrebbe preferito non provare. Piangeva soltanto. Il suo volto comunicava terrore, nonostante non riuscisse a urlare. Le lacrime che scendevano sulle sue guance parlavano, ed esprimevano tutto il suo rimorso. Non faceva altro che pensare: - Che sciocco che sono stato a non ascoltare quell’anziana, perché sono stato tanto testardo? Se l’avessi ascoltata sarebbe cambiato qualcosa? Non riusciva a pensare ad altro il povero John. Ma proprio un istante più tardi, al contrario di ciò che sperava, si alzò e scappò via, urlando e piangendo. - Oh povero John! Forse è impazzito. - pensavano tutti quelli che lo vedevano; c’era anche chi pensava che avesse appena contratto la rabbia da un cane. Ma non avrebbero pensato ciò se avessero saputo che quest’ultimo aveva appena visto una tomba vuota, con la buca profonda e la bara ancora aperta. Ma era anche vero che lì non vi si recava più nessuno da diversi anni. La cosa terrificante era che ormai in città girava un mezzo morto, o meglio, un uomo che era stato un’ ora in una bara e che aveva assistito al suo 69


funerale, che non era affatto durato poco. Sulla lapide di questo spiccava a caratteri molto grossi “THOMAS WHITE”, che era il nome del fratello minore, Tom. Il fatto era proprio agghiacciante, perché il vero colpevole di quella faccenda era proprio quest’ultimo, nonostante i suoi “problemi psicologici” che non erano affatto tali. Infatti, lui aveva semplicemente finto di essere morto, perché conosceva la sostanza che Adam gli diede. Inoltre aveva scoperto il suo piano, così, per farlo fallire, mise in scena questa finzione, e tutto andò proprio come aveva pianificato. Forse tutto ciò era per impadronirsi di tutta l’eredità dei genitori, o solo per mostrare che era stato troppo sottovalutato, ma poi pensò che liberarsi di entrambi i fratelli sarebbe stata la via più veloce per raggiungere tutti i suoi obiettivi. Per molti anni questo fatto fu esposto con diffidenza, perché nessuno credeva che un uomo potesse mai uscire da una tomba, ma non era così. Infatti, Tom, ebbe semplicemente una brillante idea, perché uscire da una tomba, quando si è molto allenati è più semplice di quanto possa sembrare. Quindi, lui si allenava già da diversi mesi per diventare più forte, e andava da psicologi per imparare a gestire l’ansia in situazioni estreme. Ma ormai quel che era stato fatto, era sulla bocca di tutti, e quando arrivavano i giornali a casa sua, Tom se ne stava seduto alla grande scrivania di famiglia, mentre li leggeva ridacchiando.” Quei poveri illusi che pensavano che ero morto...che bello sentirsi sempre un passo avanti, ma in questo caso si tratta di un centinaio di passi avanti! Era ovvio, tutti quelli in città, che fino a qualche anno prima pensavano che avevo problemi mentali, e che ero meno scaltro e furbo, ora cosa staranno pensando?!” Così passava le sue giornate, pensando a quanto fosse intelligente e a quanto le persone avessero torto, fino a quando non si spense all’interno di una stanza segreta. Sapeva di essere 70

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sul punto di morte, così, qualche giorno prima lasciò una lettera di rivelazione su cui era scritto: ORA TERMINA LA MIA VITA, NON SO QUANDO MI RITROVERETE, O RITROVERETE QUESTA LETTERA. VOGLIO SOLO CHE VOI VI RICORDIATE CHI SARÀ S E M P R E U N PA S S O AVA N T I A V O I . N O N V I LIBERERETE MAI DI ME, PERCHÉ IN QUESTA CASA VIVRÀ SEMPRE IL MIO SPIRITO, E PERSEGUITERÀ COLORO CHE COMPRERANNO LA MIA VILLA . CORDIALI SALUTI THOMAS WHITE Questa lettera venne trovata dagli agenti immobiliari che si occupavano della vendita della casa di chi scrisse questa lettera. Coloro che la comprarono furono sempre perseguitati dalla sfortuna, come afferma quel testo, e tutto si concludeva con una lapide in più al cimitero. Di una persona ci si può liberare molto facilmente, come ha provato Tom, ma di uno spirito no. Entra e non esce più. Non sono gli esseri umani a regnare sugli spiriti, ma questi a regnare su di noi, e non ci si può fare più nulla.

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Giulia Ferrante - Diksha Munohur - Biancamaria Scammacca - Gaetano Zizza

Rivelazioni


C'era un ragazzino di nome Nicola che viveva in una città, Braj, non molto popolosa però grande, situata nell'isola di Ulugo, lontana da tutti e tutto. Nicola era alto di statura e snello, aveva i capelli e gli occhi neri come il carbone. Era molto vivace e aveva tanti amici, infatti era popolare tra gli abitanti e tra i suoi amici annoverava persino qualche vip. Aveva un fratello maggiore, anche se si parlavano poco fra loro, poiché era sempre fuori per lavoro. I suoi genitori erano gentili si chiamavano Barbara e Carlo, aiutavano tante persone. Non erano molto giovani, ma si tenevano in forma. Nicola aveva tre migliori amici; il primo si chiamava Francesco ed era simile a lui sia di carattere sia di aspetto fisico, il secondo, Riccardo, era molto timido, il più alto di tutti e tre, con gli occhi color nocciola e i capelli color biondo ramato e infine Andrea, il più protettivo, era abbastanza alto e un po' muscoloso, aveva gli occhi color grigio scuro e i capelli castani. Gli piaceva uscire con loro, soprattutto di sera. All'inizio gironzolavano nei dintorni, ma dopo un po' si spinsero molto oltre. Una sera delle vacanze di Natale Nicola chiamò Riccardo e gli chiese di andare in periferia a fare un giro. Lui accettò e 74

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invitò anche Francesco e Andrea. Era molto lontano quindi andarono in bici. Quando uscirono iniziarono a parlare su quando tornare, entusiasti della loro libertà. Nicola propose: - Torniamo indietro undici? - Siete proprio sicuri? I mei non ne saranno proprio felici. aggiunse Andrea. - Ma dai, non essere il solito guastafeste. È la nostra serata! concluse Francesco. Durante il tragitto videro una cantina, decisero di entrarci. Francesco propose: - Potremmo fare qui il nostro covo! Gli amici accettarono e iniziarono a prepararlo, ma dopo poco Andrea disse: - Qui c'è puzza andiamo via. E gli altri accettarono. Questo allora li portò a prendere una strada diversa, una strada da cui non passava nessuno. Era buia e piena di rottami, Nicola cercò di fare strada spostando tutto. Intanto gli amici per distrarsi chiacchieravano. Non potendo pedalare portarono le bici a piedi quindi ci misero di più. Nicola quindi posò lo sguardo su un'officina alla fine della strada. Emanava una luce spettrale e misteriosa e al posto delle porte aveva solide grate. Dopo un po' si sentì un grido angosciante, seguito da un rantolo, che fece rabbrividire Nicola. Spaventato chiese: - Avete sentito!?!? Andrea disse: - Cosa? Francesco aggiunse: - Io non ho sentito nulla, ma forse è meglio se rientriamo. Nicola allora concluse dicendo: - Niente, mi sarò sbagliato. ma non riuscì a pensare ad altro durante tutto il tragitto. Erano passate molte settimane dall’accaduto e lui ancora si sentiva molto turbato. Dopo giorni e giorni, Nicola si accorse, guardando il telegiornale, che non avvenivano più nascite.

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- Siamo vicini ai paesi a crescita zero, c’è stato un calo di nascite in quest’ultimo mese e la situazione inizia ad essere allarmante. - diceva il giornalista. Il ragazzo fece anche caso al comportamento delle persone: sembravano ignorarlo e avevano degli atteggiamenti piuttosto strani. Lui salutava con un semplice ciao e gli altri non si degnavano nemmeno di guardarlo. Incuriosito dal perché di questi avvenimenti, chiamò i suoi amici per fare una ‘riunione’ a casa sua. Arrivati, Nicola aprì il discorso dicendo: - Avete sentito cosa sta succedendo? Secondo me è tutto collegato a quell'urlo sentito l’altra volta… dobbiamo tornare lì e capire cosa è successo quella notte. Prima i compagni di avventure negarono tutto anche con una certa arroganza: - È impossibile, non ha senso quello che stai dicendo! Noi non abbiamo sentito nessun rumore l'altra volta. Poi, però, Nicola con gli occhi stralunati e con un tono della voce quasi isterico urlò: - Voi mi volete nascondere qualcosa. - No, non è vero. - fu la loro risposta corale. - E allora venite con me subito! - rincarò Nicola. Ci furono ancora dei timidi no oppure secondo me non è vero, ma riuscì a convincerli. Lui, però, capì che sotto c’era qualcosa di strano. Quando giunsero davanti all'officina, Nicola raccolse il poco coraggio rimastogli e si affacciò dalle grate. Uno spettacolo angoscioso lo pietrificò: lungo le pareti vi erano perfette riproduzioni dei suoi amici, dei suoi parenti e sue, un macchinario a fianco ormai spento iniettava in loro un liquido nerastro, mentre a terra riverso giaceva un cadavere di un anziano signore. Accanto a lui vi era un trapano di precisione e altri strumenti tecnologiche che non sapeva neppure cosa fossero. 76

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Disse agli altri che sembravano indifferenti: - Avete visto?! ma gli altri non rispondevano, sembrava non potessero parlare Ragazzi?! - chiese nuovamente, ma nessuno rispondeva Conoscete quest’uomo?! – ma tutti rimasero in silenzio – Chi è questo signore?! Gli altri però continuarono a ignorarlo come se non stesse parlando o non fosse successo nulla. Erano in piedi incantati, guardavano un punto fisso davanti a loro, sembrava non si muovessero completamente, ma in realtà respiravano e battevano le palpebre. Nicola chiese di nuovo: - Ragazzi, CHE STA SUCCEDENDO!? A questo punto Nicola li strattonò ma gli altri sembravano statue, infatti non si mossero. Dopo vari tentativi di farli cadere a terra Nicola ci riuscì però mantennero la stessa posizione come se avesse buttato giù dei manichini. Prese il telefono di Riccardo e chiamò prima sua madre poi suo padre e poi il pronto soccorso, ma nessuno rispose, come se nessuno esistesse, più nessuno. A quel punto Nicola ebbe un'intuizione. Prese una lamiera e si ferì: ne venne fuori lo stesso liquido nero che aveva scorto poco prima. Finalmente realizzò: quell'uomo morto era il creatore di tutti loro, il gestore dell’azienda che creava robot con sembianza umane, gli abitanti di quell'isola, i suoi amici… lui stesso. Quindi tutto ciò che aveva vissuto era finto, non contava nulla ciò che aveva fatto. E ora che i robot si stavano spegnendo non doveva che aspettare la propria fine, completamente solo in tutto il mondo.

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Ringraziamenti Ringrazio i ragazzi per non essersi arresi, per aver creduto nelle loro capacità ed essersi affidati alla mia guida con fiducia. So bene che divertirsi, come succede a me, attraverso la scrittura non sia facile per tutti, quindi grazie anche per aver giocato con me alle mie regole. Tuttavia, sono altrettanto sicura che l’epos sia invece proprio dello spirito umano dall’alba dei tempi al punto da far riconciliare nazioni, famiglie e noi con noi stessi. Ringrazio quindi anche la natura di averci dotati di questa grande consolazione.

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Postfazione

È sempre più difficile scrivere una postfazione diversa dalle altre quattro perché uguale è la collana, il mio metodo e i generi letterari trattati, eppure i piccoli scrittori, la loro vivacità intellettuale e la loro capacità immaginativa costituiscono rinnovati e gustosi ingredienti anno dopo anno. Questo è stato più che mai un percorso scolastico irto di ostacoli con distanziamenti, mascherine, isolamenti in casa, malattie e lutti. Non è più l'ingenuo andrà tutto bene a sostenerci, ma le conquiste della scienza e la nostra conquistata saggezza. Dunque, non posso che guardare con maggiore soddisfazione a questo difficile traguardo che ci ha visti, insegnanti e ragazzi, pronti a nuove avventure senza arrenderci e guardando al futuro con speranza. La scrittura collettiva si è rivelata lo strumento più efficace per far avvicinare i ragazzi alla scrittura con la gioia di collaborare insieme, sacrificando il proprio individualismo per il bene superiore della squadra e per l'ottenimento di un risultato di cui andare tutti insieme orgogliosi. Senza soluzione di continuità rispetto al nostro programma di letture, ho scelto i temi del racconto giallo e del noir. In particolare, la seconda, che ha letto ed analizzato Dieci piccoli indiani di A. Christie, è stata invitata ad occuparsi di crimini e misfatti da far risolvere ad abili investigatori, dando origine a scrivo in giallo ovvero alla prima parte di questa antologia. La seconda parte è, invece, dedicata ai più giovani, che si sono confrontati con il classico e conosciutissimo Lo strano caso del dottor Jekyll e signor Hyde di Stevenson. Gioco forza mettere in scena delle storie low horror (per dormire bene la notte ;)) di scrivo in nero. 79


Detto ciò, le fasi di elaborazione sono state quelle di ogni edizione con qualche piccola variante necessaria alle nuove restrizioni imposteci dalla pandemia. Ovvero, per prima cosa ho lanciato un concorso di idee, sui temi e le tecniche stabilite. A seguire i partecipanti hanno elaborato insieme una sceneggiatura dettagliata, suddivisa in tanti episodi quanti erano gli scrittori, e le descrizioni delle ambientazioni e dei personaggi comuni. Si è sfruttato per l'occasione il supporto delle tecnologie e degli ambienti virtuali. Infatti, i più grandetti si sono riuniti su meet in modo autonomo, mentre ai più piccoli ho aperto io stessa delle "stanze" dove discutere e dialogare sotto la mia supervisione. Quindi, un moderatore per gruppo mi ha fornito o in cartaceo o su classroom il lavoro, frutto del loro brainstorming. E sono stati davvero autonomi, trovando anche un’occasione ludica di incontro, sebbene in video conferenza. Quindi, ho assegnato a ciascuno un episodio da redigere per una lunghezza media di una facciata A4, con scelta narratologica della terza persona onnisciente al passato remoto. I ragazzi sono stati guidati nell'autocorrezione formale o di incoerenze contenutistiche. Non ultima hanno affrontato anche l'ardua prova della ricerca di un titolo: evocativo, ma non rivelatore. Infine, i loro lavori limati sono stati corredati anche di copertine, da loro stessi progettate e realizzate. Io sono molto soddisfatta di quanto hanno ottenuto e certa che lo siano anche loro. Ancor più del libro da tenere nella loro biblioteca, abbiamo creato un'esperienza, un'avventura dello spirito che resterà viva nel ricordo di ciascuno. È il nostro abbraccio collettivo anche quando dobbiamo limitarci a quelli virtuali.

Cinzia Di Mauro

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