Cinemino #04 - inverno/primavera 2006

Page 1

numero 4 inverno/primavera 2006

D. W. Griffith Discorso di accettazione del premio Oscar alla carriera per i suoi meriti artistici come regista e produttore, per il suo seminale e durevole contributo al progresso nell’arte cinematografica, 1936 We had many worries in those days, small worries. Now you people have your worries and they are big ones. They have grown with the business . . . and no matter what its problems, it‘s the greatest business in the world.

La cura del gorilla • Arrivederci amore, ciao • The Innocents • Walk the Line • Jarheads • Wallace & Gromit in The Curse of the Were-Rabbit • L’ultimo sciuscià • Le avventure di Cucciolino • Little Rita nel West • Le village de la joie • Così dolce, così perversa • Spasmo • Orgasmo • Paranoia • Un posto ideale per uccidere • Gola profonda • Quando c’era Silvio • In un altro Paese


SOMMARIO

EDITORIALE

04

Iniziamo l’editoriale di questo quarto numero dando il benvenuto a due nuovi collaboratori. Il primo è Mario Verger, regista di animazione romano di rara ecletticità, capace di spaziare nelle sue opere da Moana Pozzi a Berlusconi, da Pasolini a Milingo. Molti tra voi lo conosceranno in quanto il suo Berluscomic è passato più volte a Blob e le sue opere a «Fuori orario» su Raitre. L’articolo che ha scritto per noi traccia vita e carriera del regista di animazione Gibba, alias Francesco Maurizio Guido, a pochi mesi dalla sua celebrazione avvenuta alla scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. La seconda è Rosa Castra, romana anche lei, psichiatra con amore per il cinema. Da questo numero rileggerà alcuni classici del cinema in chiave psichiatrica partendo da uno tra i film che ama di più: il modernissimo (ancora oggi) The Innocents, in italiano Suspense, di Jack Clayton. Apriamo questo numero parlando di noir e del suo passaggio dagli scaffali delle librerie al grande schermo. Vi presentiamo due tra i più considerati scrittori noir, responsabili del rinascente genere, grazie a due film tratti da loro opere. Si tratta di Massimo Carlotto, autore di Arrivederci amore, ciao e di Sandrone Dazieri, autore di La cura del gorilla. Poi la seconda parte dell’articolo sul giallo all’italiana degli anni ’70. Ce ne sarà una terza in quanto i titoli da presentare sono molnumero 4 – inverno/primavera 2006 ti. A proposito della sezione dedicata al cinema di genere italiano, molti franchi 5.50 lettori ci hanno scritto segnalandoci come incompleta la lista di film riResponsabile portata nell’articolo sul poliziottesco (termine che, lo ricordiamo, non Roberto Rippa (roberto @thermos.org) usiamo assolutamente in senso dispregiativo come fanno altri) pubblicato nel secondo numero. È vero, la lista non è completa ma questo è Hanno scritto questo numero dovuto all’ingente quantità di film pubblicati nel frattempo in DVD. Rosa Castra, Donato Di Blasi, Roberto Rippa, Mario Verger Non preoccupatevi, aggiorneremo l’elenco a fine serie. È difficile stare sulle nuove uscite in sala, perché molte, le più Segreteria Luisa De Dominicis importanti, le abbiamo già presentate nel numero scorso negli articoli sui festival di Locarno e Venezia. Però ci piace molto l’idea di essere in Ideazione e realizzazione grafica Giorgio Chiappa (giorgio@iorio.ch) difficoltà perché troppo in anticipo. Se volete saperne di più su alcuni dei film attualmente in sala o di prossima uscita, rileggetevi il numero 3. Ideazione e realizzazione grafica sito internet In questo numero però, nella rubrica «Vietato fumare», vi presentiamo Donato Di Blasi (donato@thermos.org) Jarhead e Walk the Line. Grazie a Vi ricordiamo inoltre che è in libreria il primo numero speciaMonica Aletti le di «Cinemino». Si tratta di un numero monografico dedicato alla vita e alle opere di Albert Maysles, regista dei notissimi Salesman (1968), Per informazioni, offerte di collaborazione, Gimme Shelter (1970) e Grey Gardens (1975), considerato unanimacommenti, critiche, per abbonarsi o per iscriversi alla mailing list di cinemino scrivete a mente l’inventore del «reality cinema» americano. Lo speciale propone cinemino@thermos.org una lunga intervista al regista, che ripercorre con noi 50 anni del suo cinema parlando anche delle sue collaborazioni con Christo e JeanneCINEMINO è un progetto di Claude, Orson Welles, Jean-Luc Godard e i personaggi, noti e non, le Thèrmos Associazione Culturale Casella postale 4559, 6904 Lugano cui vite ha immortalato nelle sue opere. cinemino@thermos.org Vi rinnoviamo l’invito a collaborare con noi, a intervenire su www.thermos.org/cinemino ciò che vi piace o non piace su queste pagine. Vi ricordiamo che questa rivista vuole costituire uno spazio aperto e quindi trattatela come tale. Le fotografie utilizzate per questo numero sono state scaricate da Internet o sono immagini diNel caso voleste abbonarvi, seguite le istruzioni riportate nell’impresstribuite per la stampa. Chiunque potesse avvasum, abbiamo ancora problemi di distribuzione e l’abbonamento polersi del diritto d’autore è pregato di annunciarsi. trebbe essere la soluzione. Tutti i testi contenuti in CINEMINO sono coperti L’appuntamento con il quinto numero è per fine maggio. dal diritto d’autore e ne è vietata la riproduzione, anche parziale, se non autorizzata esplicitamente. A presto.

5 7 8 12 13 14 15 18 26 32 38 41

IL RITORNO DEL NOIR – Massimo Carlotto e Sandrone Dazieri dai libri al cinema LA CURA DEL GORILLA – Sandrone Dazieri e il suo doppio al cinema Sandrone Dazieri e il Gorilla Intervista con Sandrone Danzieri ARRIVEDERCI AMORE, CIAO – Massimo Carlotto al cinema IL FUGGIASCO – La vicenda di Massino Carlotto al cinema Massimo Carlotto e l’Alligatore Intervista con Massimo Carlotto GIBBA – 80 anni nella Cinecittà di Cartone di Mario Verger VIETATO FUMARE – Il cinema da non perdere in sala Jarhead • Syriana • Walk the Line • Wallace & Gromit in The Curse of the Were-Rabbit CINEMA E PSICHIATRIA di Rosa Castra Così dolce... così perverso – Il cinema giallo di Umberto Lenzi FESTACOLOR – Il cinema in casa In un altro paese • Quando c’era Silvio • Deep Throat

[in libreria]

Il Billy Wilder dimenticato Mariano Laurenti e Sergio Martino SCHEDE DETTAGLIATE SU Beyrouth Al Gharrbyya • Jour de fête • The Party • I Fratelli Dinamite • Predmestje • Milano calibro 9 • Confituur • Un mundo menos peor • Una de dos • Non si sevizia un paperino • Vera Drake • Le grand voyage • Tout un hiver sans feu • Melncholian kolme huonetta • Coffy • Foxy Brown

NUMERO 2 primavera/estate 2005, 68 pagine

NUMERO 1 ottobre 2004, 60 pagine VENEZIA CITTÀ APERTA Diario dalla sessantunesima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia I GENERI DEL CINEMA La Blaxploitation: le eroine di Jack Hill e Pamela Grier FESTACOLOR — IL CINEMA IN CASA Bubba Ho-Tep Il cinema di Brian De Palma

2

VIP, mio fratello superuomo Universal Monster Legacy Collection Ferdinando Di Leo in DVD UOMINI DI CARTA Il cinema da leggere SCHEDE DETTAGLIATE SU The Agronomist • La blessure • The Take • Nuit et brouillard • The Corporation • Capturing the Friedmans • Mondovino • Super Size Me • Millions • A Dirty Shame • The Station Agent • Inside Deep Throat • Strangers on a Train

NEO-NEO REALIS REALISMO Il cinema torna a raccontare la rrealtà

NUMERO 3 autunno 2005, 64 pagine

VIETATO FUMARE Il cinema da non perdere in sala

CINQUANTOTTO Resoconto del Festival Internazionale del Film di Locarno 2005 Schede dettagliate su 21 film dal festival

NOTHING THAT MEETS THE EYE Patricia Highsmith e il cinema PIÙ BELLO DI COSÌ SI MUORE Breve introduzione al cinema di genere italiano LA POLIZIA INCRIMINA, LA LEGGE ASSOLVE Il polizziottesco: cinema reazionario o nuovo western? FESTACOLOR — IL CINEMA IN CASA My Own Private Idaho Adua e le compagne Reazione a catena

LA VOLPE DALLA LINGUA DI CRISTALLO Breve storia del giallo all’italiana anni ‘70: dalle origini al declino 62 – Cronaca dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia Brokeback Mountain • All the Invisible Children • Corpse Bride • Elizabethtown • Tzameti • Attente • C.R.A.Z.Y. • Elio Petri, appunti su un autore • Giacomo l’idealista • Le petit lieutenant

3


IL RITORNO DEL NOIR

Massimo Carlotto e Sandrone Dazieri dai libri al cinema

IL GENERE NOIR

Claudio Bisio

Il genere noir nel cinema italiano si compone di pochi titoli, spesso di grande valore e quasi sempre di grande successo. Per notarli, però, occorre fare un salto all’indietro di una trentina d’anni, a opere che affondano le loro radici nella realtà sociale e politica del tempo come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto 1 di Elio Petri, in cui il commissario fascistoide interpretato da Gian Maria Volontè uccide la sua amante (Florinda Bolkan) lasciando deliberatamente dietro di sé una serie di tracce giusto per verificare quanto la sua fama di cittadino al di sopra di ogni sospetto lo renda inattaccabile, come Un uomo, una città 2, in cui Enrico Maria Salerno, poliziotto umano e irreprensibile, scoperchia un verminaio fatto di droga e prostituzione in cui sono coinvolte le alte sfere della città di Torino, come La polizia ringrazia di Steno 3, in cui Enrico Maria Salerno, indagando su una banda di giustizieri che lascia dietro di sé una scia di cadaveri, cozza contro un disegno eversivo della destra. Poi ci sono i titoli diretti da Fernando Di Leo come I ragazzi del massacro, il bellissimo Milano Calibro 9, La mala ordina, Il Boss 4, quelli diretti da Francesco Rosi 5, immersi nella storia dell’epoca, e i titoli considerati (spesso erroneamente) minori come Milano: il clan dei calabresi 6 di Giorgio Stegani. Giusto una manciata di titoli citati non tanto per fornire un elenco esauriente di opere quanto per metterne in evidenza la distanza temporale rispetto a noi. Ecco perché la quasi contemporanea uscita di due film noir in queste settimane comporta un evento, in un cinema che da troppo tempo si posa unicamente su stanchi e ripetitivi ritratti generazionali, commedie di infimo livello o, come accade di recente, in non necessari rifacimenti o seguiti di film di anni fa, sfruttando l’onda lunga del riscontro che il cinema di genere degli anni ’70 ha ottenuto alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia due anni fa. Dietro le due opere in uscita, La cura del Gorilla di Carlo A. Sigon e Arrivederci amore, ciao 7 di Michele Soavi, ci sono due solidi romanzi scritti rispettivamente da Sandrone Dazieri e Massimo Carlotto, due autori molto seguiti che si segnalano come fautori del nuovo corso della letteratura noir insieme a Carlo Lucarelli 8 e, talvolta, Niccolò Ammaniti. 4

da www.wikipedia.org

L’espressione film noir fu coniata dalla critica cinematografica francese alla fine della Seconda guerra mondiale quando oltralpe furono distribuiti i film statunitensi girati negli anni ‘40. I primi critici ad occuparsene furono, nel 1946, Nino Frank e Jean-Pierre Chartier, mentre il primo volume dedicato al genere è del 1955 e porta la firma di Raymond Borde e Etienne Chaumeton: Panorama du film noir américain, 1941–1953. Molti riconducono la nascita del genere cinematografico al film Lo sconosciuto del terzo piano (1940), ma il periodo d’oro va dal 1941 – anno de Il mistero del falco tratto dal romanzo «Il falcone maltese» di Dashiell Hammett – al 1958. Questi film erano considerati dalla critica d’oltreoceano produzioni di scarso valore anche nei casi in cui ottennero la nomination agli Oscar, come accadde, oltre che al già citato Il mistero del falco, a Vertigine (Laura) e a La fiamma del peccato (Double Indemnity), entrambi del 1944.

L’aggettivo noir fa riferimento alla cupezza di queste pellicole, sia per quel che riguarda il loro contenuto, sia per gli aspetti di carattere prettamente formale (forte uso del chiaroscuro, inquadrature distorte) che rimandano al cinema espressionista tedesco di Fritz Lang e di Friedrich Wilhelm Murnau. Per i contenuti invece il genere attinse a piene mani alle opere letterarie hard boiled del già citato Hammett, di Raymond Chandler, di Cornell Woolrich, di James M. Caine, di Mickey Spillane, solo per citare gli autori più noti. Negli Stati Uniti rientrano nel genere del film noir circa 250 titoli rigorosamente classificati dal 1940 al 1959. Negli anni ottanta e novanta il noir è tornato mischiandosi ad altri generi e il fantascientifico Blade Runner di Ridley Scott (del 1982, tratto dall’opera di Philip K. Dick) viene da alcuni considerato come manifesto del neo-noir o noir postmoderno.

LA CURA DEL GORILLA Sandrone Dazieri e il suo doppio al cinema La cura del Gorilla è il titolo del secondo capitolo della saga letteraria dedicata a un particolare investigatore nato dalla penna di Sandrone Dazieri. Il Gorilla è un investigatore sui generis che, pur non distaccandosi dai più noti del genere come Spillane e Marlowe, presenta però una particolarità che lo rende unico: ha un socio, dalle caratteristiche opposte alle sue. Tanto uno è mite e disilluso quanto l’altro è freddo, lucido e, quando se ne presenta la necessità, violento. La particolarità consiste nel fatto che il Gorilla e il suo socio sono la stessa persona, frutto di una schizofrenia certificata sin dalla prima età. I due opposti convivono piuttosto serenamente e conducono le indagini, comunicando tra loro attraverso note scritte, con rara efficacia proprio grazie alle loro peculiari caratteristiche. Questa particolarità, ben lungi dal costituire una trovata facile per vivacizzare le trame o facilitare la loro soluzione, si è fatta conoscere sin dal primo romanzo pubblicato Attenti al Gorilla e accompagna l’investigatore fino all’ultimo Il karma del Gorilla, in libreria da poche settimane. Non è l’unica particolarità del personaggio: infatti il nome del Gorilla è Sandrone Dazieri, lo stesso dell’autore, e con l’autore condivide anche il curriculum, che comprende un passato come attivista al Leoncavallo e di addetto alla sicurezza. Il ritorno del Gorilla uscito da poche settimane sugli schermi italiani, toglie e aggiunge rispetto al romanzo tanto da risultare un’altra cosa, il che non è un male vista la differenza dei linguaggi. In più ci sono la storia dell’arrivo in 5


Italia di un attore americano, famoso anni prima per una serie televisiva western, come testimone del lancio di un videogioco. È il grande Ernest Borgnine 9 a interpretarlo con la sua stessa voce (del resto il suo vero nome, Ermes Effron Borgnino, non nasconde le sue origini italiane) dispensando ironia sul ruolo e su sé stesso. La presenza di Borgnine è un tocco di classe in più in un film che di pregi ne ha diversi, primo tra tutti quello di distaccarsi dall’attuale produzione cinematografica media italiana, dall’estetica così simile alla produzione televisiva, basti vedere l’inizio del film con il duello tra il socio e Naso di cane o l’inseguimento a piedi nel deposito di auto. Del libro restano lo scheletro letterario (co-sceneggiatore del film è lo stesso Sandrone Dazieri), e tutti gli aspetti legati all’attualità (gli scandali legati alla Chiesa nella gestione dell’immigrazione, il razzismo crescente che arriva a sfiorare il nazismo, gli stessi immigrati con la loro spesso vana ricerca di condizioni di vita migliori). Felice la scelta degli attori comprimari, tutti volti legati al vecchio Derby di Milano 10 e quindi alle produzioni di Gabriele Salvatores (il film è prodotto dalla Colorado Film, casa fondata da Salvatores con Maurizio Totti e Diego Abatantuono) come Gigio Alberti, Bebo Storti nel ruolo del commissario, e Antonio Catania, meraviglioso nei panni del piccolo trafficone con parrucchino. Claudio Bisio è credibile nelle vesti del protagonista, si avvicina a come ci si aspetta sia il personaggio dopo averlo conosciuto sulla carta. E funziona benissimo anche il passaggio di consegne tra il Gorilla e il socio, cosa non facilissima da realizzare sullo schermo visto che si tratta comunque della stessa persona. Non va poi dimenticata la partecipazione della grande caratterista Gisella Sofio, vista in decine e decine di film nel corso degli ultimi 55 anni, nel ruolo della madre di Sandrone. Il «product placement», ossia la presenza di marchi pubblicizzati nel film, necessaria da sempre per aiutare la produzione finanziariamente, è qui risolta brillantemente con immagini spudorate di cartelloni pubblicitari o con lunghe dissertazioni sulla pasta (penne lisce contro penne rigate, queste ultime invenzione della lobby delle mense). Funziona anche perfettamente la descrizione della provincia, con i militanti leghisti a urlare che l’Italia va restituita agli italiani, con i suoi locali squallidi e tutti uguali. A fine film Sandrone si congeda da Vera raccontandole di essere in procinto di trasferirsi sul Lago Maggiore per un periodo di riposo, antefatto narrato in Gorilla Blues, facendo capire che nel caso il film dovesse incontrare il favore del pubblico, le avventure di Sandrone sul grande schermo continueranno. LA CURA DEL GORILLA Italia, 2005 Regia Carlo Sigon Soggetto e sceneggiatura Sandrone Dazieri Musiche originali Daniele Luppi Fotografia Federico Masiero Montaggio Claudio Cormio Interpreti principali Claudio Bisio, Stefania Rocca, Ernest Borgnine, Antonio Catania, Fabio Camilli, Bebo Storti, Gigio Alberti 6

Sandrone Dazieri e il Gorilla Attenti al Gorilla (Mondadori, Piccola biblioteca Oscar, 1999) Sandrone Dazieri è stato assunto per occuparsi del servizio di sicurezza a una festa, apparentemente un lavoro semplice, soldi facili senza fatica. Peccato che nel mezzo del ricevimento la figlia del padrone di casa fugga e venga ritrovata brutalmente uccisa. Mentre le autorità si affrettano a incarcerare un giovane barbone, Sandrone sarà l’unico a cercare la verità in una Milano molto poco ospitale nei confronti di tutti i «diversi». La cura del Gorilla (Einaudi, Stile libero, 2001) Il Gorilla è tornato, e sono guai. Nel corpo a corpo con un’Italia pienamente «globale» e post-tutto, in piena e riconosciuta follia, si fa strada l‘ultimo, smagliante tipo di Cavaliere di ventura, con molte macchie e tanta paura. Si ritrova, quasi senza volerlo, per pura cavalleria e pura cocciutaggine, a dare e prendere botte da orbi in una vorticosa girandola di albanesi trucidati, balordi omicidi, fantastici fantaeditori un po’ pellari minacciati di morte, maliarde dark ladies dell’Est, post-autonomi torinesi in piena azione e monsignori caritatevoli. Gorilla Blues (Mondadori, Strade blu, 2002) Sandrone prende la decisione di partire da Milano, lasciandosi dietro le spalle i lavori pericolosi e mal pagati, i debiti, la casa distrutta, la fidanzata che non vuole più saperne di lui e trascorrerà una sorta di vacanza in una graziosa quanto deprimente località sul Lago Maggiore. Dovrà occuparsi di sorvegliare un misero luna park di provincia, fingendo di tenere alla larga borsaioli e inesistenti molestatori di bambini. Purtroppo per lui e per gli altri, il suo arrivo nel paesino coincide con una serie di avvenimenti non troppo gradevoli. Il karma del Gorilla (Mondadori, Strade blu, 2005) Nella sua vita il Gorilla è stato molte cose: militante dei Centri Sociali, buttafuori da locale notturno, cacciatore di maniaci violenti. Anche ora che sbarca il lunario come addetto «free lance» alla sicurezza, non ha rinunciato alle brutte abitudini, e passa il tempo a sbronzarsi e a fare a pugni con focosi supporter della Guerra in Irak. A rendergli le cose più complicate, riappare Sammy, un suo vecchio amico divenuto l‘erede di un‘immensa fortuna. Minato nel fisico (e forse nella mente) da una malattia terribile, Sammy ha un incarico per lui: rintracciare la sua ex fidanzata, scomparsa molti anni prima, e probabilmente finita nei guai.

7


INTERVISTA CON SANDRONE DAZIERI di Roberto Rippa Sin dal primo romanzo, Attenti al Gorilla, il protagonista porta il tuo stesso nome. Ma quanto c’è nel personaggio del suo autore? Una cosa che si impara dalla psicanalisi è che tutti i personaggi che appaiono nei nostri sogni sono parte di noi. Questo vale anche per i romanzi. Ogni personaggio, ogni ambiente, è parte di chi lo scrive. Quindi, io e il Gorilla siamo la stessa persona, ma anche ogni passante, ogni comparsa è me, rappresenta uno dei miei aspetti. Quindi, la domanda non può avere una risposta precisa. Certo, parte della mia biografia è simile a quella del Gorilla, ma credo che alla fine non abbia alcuna importanza. I romanzi sono una metafora del reale, non una fotografia di esso. Quindi, io potrei anche non esistere affatto. Da La cura del Gorilla è stato tratto un film diretto da Carlo Sigon di cui sei sceneggiatore. Com’è stato lavorare alla trasposizione del tuo romanzo? E’ stato molto faticoso, ma anche interessante. Un film è un lavoro di gruppo, e devi rapportarti con persone che hanno letto il tuo libro e ne hanno idee molto precise, e che a volte vi vedono cose che tu non vi hai mai visto. Poi, se scrivi la sceneggiatura, come mi è capitato, ti tocca imparare una nuova grammatica, differente da quella dei romanzi. Le sceneggiature sono visive, i romanzi descrittivi. Una differenza fondamentale. È cambiato rispetto all’opera originale? E se si, si è trattata di un’esigenza cinematografica o di mutamenti dovuti all’evoluzione del personaggio avvenuta nei romanzi nel frattempo scritti e pubblicati? Un po’ tutto questo. Un romanzo in quanto tale è infilmabile, devi trasformare pensieri ed emozioni in immagini. La cura, poi, aveva troppe trame intrecciate, ed era necessario semplificarlo se non si voleva farne uno sceneggiato di venti

puntate. Poi, certamente, da quando ho scritto il romanzo a quando ho terminato la sceneggiatura, ci sono stati in mezzo altri due romanzi del Gorilla, in cui il personaggio è invecchiato e mutato. Alcuni di questi mutamenti si sono riflessi nella sceneggiatura. Ma è successo anche il contrario. Tornando a lavorare sulla figura di Vera, ho sentito l’esigenza e il desiderio di riprenderla. Per questo ritorna ne Il Karma del Gorilla, l’ultima avventura della serie. La critica si è spesso riferita al personaggio del Gorilla come a un no-global. Non pensi che no-global sia diventata un’etichetta utile per confondere sul fatto che non si parla più di un gruppo definito bensì di un sentire diffuso in ogni strato della popolazione? Sentire diffuso si può dire ma solo se ci riferiamo alla minoranza di ogni strato della popolazione. Se fosse la maggioranza, credo che le cose sarebbero andate diversamente. Per esempio, non saremmo in guerra con l’Irak. Per esempio, non ci sarebbe Berlusconi al governo. In Gorilla Blues si parla dei fatti accaduti al G8 di Genova e della morte di Carlo Giuliani, ferite ancora aperte. Anche di recente la polizia ha guadagnato le prime pagine dei giornali a causa del violento blitz notturno in Val di Susa. In Il karma del Gorilla si parla di «rendition», di ingerenze della C.I.A. nei nostri affari interni. Con la, debole, scusa del terrorismo siamo tutti a rischio di controllo. in un momento in cui democrazia e diritti civili sono messi a rischio, quale potrebbe essere secondo te la via d’uscita? Purtroppo, o per fortuna, non sono un guru. Credo che l’unica possibile via d’uscita sia quella di mantenere un pensiero critico sull’esistente e dire come la si pensa. Almeno, io faccio così. Una parte degli autori italiani di noir e gialli che riscuotono grande successo da qualche anno a questa parte (a parte te, Evangelisti, Battisti, Carlotto) provengono da esperienze – talvolta anche dure, estreme – legate alla contestazione, all‘antagonismo o all’impegno sociali. Secondo te, qual’è la ragione di questo successo? Mah... forse perché diciamo come la pensiamo. Ma in modi differenti. Per esempio Massimo Carlotto utilizza l’inchiesta sociale, per fotografare la realtà di quanto accade nel nostro paese e fa un lavoro splendido, che arriva dove molto spesso l’inchiesta giornalistica non riesce a giungere. Valerio e io, invece, preferiamo lavorare sull’immaginario puro, costruire una metafora della realtà. Tutti noi, comunque, cerchiamo di dare elementi che modifichino il modo di vedere il mondo di chi ci legge. Di porre dei dubbi laddove vengono proposte solo certezze.

SANDRONE DAZIERI Nato a Cremona nel 1964, si diploma alla scuola alberghiera di San Pellegrino Terme e lavora come cuoco per una decina d‘anni, in giro per l‘Italia. Studia Scienze Politiche a Milano, non si laurea, e, lasciati i fornelli, lavora come venditore di corsi di musica e come facchino, militando in contemporanea nel movimento dei centri sociali milanesi. Nel 1992 si avvicina all‘editoria come correttore di bozze nel service editoriale Telepress, di cui, cinque anni dopo, è nominato direttore della sede di Milano. Nel frattempo diventa giornalista pubblicista e collabora per cinque anni con il Manifesto come esperto di controculture e narrativa di genere. Nel 1999 pubblica il suo primo romanzo noir, Attenti al Gorilla, per il Giallo Mondadori e il rapporto con la casa

8

editrice si approfondisce sino alla nomina a responsabile prima dei Gialli Mondadori, poi di tutto il comparto dei libri per edicola. Scrive altri due romanzi per adulti, sempre noir (La cura del Gorilla, e Gorilla Blues), un romanzo per ragazzi (Disney Avventura, premio selezione Bancarellino), alcune sceneggiature per il cinema e il fumetto, numerosi racconti. Nel 2003, insieme con il regista Gabriele Salvatores e il produttore Maurizio Totti, fonda la casa editrice Colorado Noir, che si propone di trovare nuovi talenti per il cinema e la letteratura. E‘ stato per un anno il direttore dei Libri per Ragazzi Mondadori, incarico che ha lasciato nel settembre del 2005 per avere più tempo per scrivere.

Secondo me i tuoi romanzi sono più attinenti al genere noir, dove la personalità del protagonista e la descrizione della società in cui opera acquisiscono più spazio rispetto al giallo vero e proprio, spesso asservito a uno schema più rigido. Sei d’accordo su questa definizione dei due generi? Direi di sì. Come dico sempre, Il Codice Da Vinci è un giallo perfetto proprio perché, oltre ad avere un intreccio a prova di bomba, ha eliminato tutti gli elementi introspettivi, di approfondimento dei personaggi e della realtà, inutili alla trama, al grande gioco che costruisce. Un noir non può permettersi questo. In un noir ambiente e vita interiore dei personaggi contano quanto l’intreccio giallo. Talvolta di più. Ci sono grandi noir, si pensi a Manchette, dove l’intreccio giallo addirittura non esiste. La letteratura cosiddetta di genere, il noir, il giallo, la fantascienza, è quella forse più seguita anche se, purtroppo spesso considerata una letteratura minore. Cosa secondo te fa sì che sia così amata? Secondo te riesce a raccontare bene il suo tempo? Credo che in certi casi racconti bene il suo tempo, (anche se molto di quanto si pubblica sotto questa etichetta è mondezza pura), ma lo fa divertendo il lettore e appassionandolo. Questo la rende decisamente più fruibile di un saggio. 9


limitarci all’Europa) ha invece prodotto opere di altissimo valore. Ci sono eccezioni come Petri e il compianto Fernando Di Leo, penso al suo rapporto con i romanzi di Giorgio Scerbanenco. Secondo te, come mai il cinema noir in Italia ha prodotto così pochi, anche se molto buoni, risultati? A parte quanto scrivevo prima, il noir e il giallo hanno vissuto fino agli anni novanta la condizione di narrativa di serie c. Il regista che vi si approcciava, cercava di trasformarlo in qualcosa di diverso, in una commedia di costume, in una satira del presente, in un atto di denuncia. Non lo trattava per quello che era. Il poliziottesco degli anni settanta, in fondo, altro non era che la trasposizione al presente degli spaghetti western. Ti sei cimentato anche nella scrittura di un soggetto per il fumetto Ginko – prima di Diabolik, in cui si narra delle prime indagini del famoso antagonista del criminale creato dalle sorelle Giussani. La scrittura per il fumetto e per il cinema hanno punti in comune? Sono entrambi visivi, ma il fumetto ha a disposizione personaggi e scenari illimitati. Puoi riempire un cielo di astronavi, se ti va. Con il cinema, questo non è possibile. Inoltre, il fumetto richiede che i dialoghi siano pochi e scarni, nel cinema i dialoghi sono molto più importanti. Poi nel cinema ti rapporti con attori in carne e ossa, che recitano le battute. I personaggi di carta fanno esattamente quello che tu vuoi che facciano. Poi, certe cose che in un fumetto sembrano credibili e belle, al cinema non funzionano. Basti pensare alle tutine dei supereroi... Ho letto che la RAI stia realizzando dei film per la televisione tratti dai racconti contenuti in Crimini. Si hanno già notizie su chi realizzerà il film tratto dal tuo racconto L’ultima battuta? Non ancora. Rimango in attesa. Sei co-fondatore, insieme al produttore Maurizio Totti e al regista Gabriele Salvatores della casa editrice Colorado Noir e da una delle vostre pubblicazioni, Quo vadis, baby? di Grazia Verasani, Salvatores ha tratto il suo ultimo film. Tu che hai la possibilità di leggere anche romanzi scritti da scrittori alle prime armi, che impressione ti sei fatto? Che molti scrivono senza avere niente da dire. Molti dei dattiloscritti che leggo hanno trame tutto sommato decenti, tutto sommato sono scritti in buon italiano, ma non hanno una «voce», un punto di vista originale sul mondo, qualcosa da dire. Che è quello che cerco e credo sia quello che abbiamo dimostrato di scegliere nelle pubblicazioni della Colorado Noir. Da qualche anno a questa parte, da riviste specializzate prima e quindi dalla rivalutazione alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno, quando il fenomeno si è espanso, è in atto una rivalutazione del cinema di genere italiano, da tempo ucciso dalla televisione e dalle sue produzioni buoniste e tutte livellate verso il basso. Anche Alias ha trattato recentemente di questa voglia di tornare al genere. Al di là dell’operazione nostalgia, c’è secondo te la possibilità di riprendere una produzione italiana di genere oggi? Credo che stia già accadendo. Il problema è che l’immaginario del genere si è ormai formato sul prodotto statunitense da esportazione, con grandi mezzi ed esplosioni. Occorrono nuovi registi e nuovi sceneggiatori che non vogliano citare, non vogliano copiare «in piccolo», ma cerchino nuove strade. Il cinema giallo in Italia non ha una grande tradizione, malgrado l’ottimo seguito in mezzo mondo, e i celebrati gialli degli anni ’70 sono spesso un ricalco di altre opere. E nemmeno il noir, che in Francia (tanto per 10

Tra la pubblicazione di Attenti al Gorilla e La cura del Gorilla sono trascorsi due anni. Uno tra quest’ultimo e Gorilla Blues. Addirittura tre tra Gorilla Blues e Il Karma del Gorilla. Ci dai la speranza che l’attesa per il prossimo sarà minore? Lo spero anch’io... 18 gennaio 2006

1 1970, di Elio Petri, su sceneggiatura dello stesso Petri con Ugo Pirro. Premio Oscar come migliore film straniero e per i migliori soggetto originale e sceneggiatura nel 1971. 2 1974, di Romolo Guerrieri, alias Romolo Girolami. 3 1972, regia di Steno, alias Stefano Vanzina, e da lui sceneggiato con Lucio De Caro. Considerato il capostipite del genere cosiddetto «poliziottesco» di cui abbiamo parlato nel numero 2 di «Cinemino». 4 I ragazzi del massacro, 1969, vede il commissario Duca Lamberti indagare su una banda di giovani disadattati responsabili dello stupro e uccisione della loro insegnante. Milano Calibro 9, 1972, narra di Ugo Piazza (il rimpianto Ugo Moschin, bandito appena rilasciato da San Vittore, sospettato dal boss cittadino di avere rubato 300’000 dollari mentre un commissario di polizia non lo perde di vista un istante, nella speranza che lo porti all’arresto di un boss americano. La mala ordina, 1972, vede Luca Canali (Mario Adorf), piccolo boss milanese, contrapposto al boss locale che gli scarica addosso la responsabilità del furto di un ingente quantitativo di droga. Il Boss, 1973, raccontando una storia mafiosa tratta dall’omonimo libro di Peter McCurtin la trasforma in un ritratto della società e della storia dell’epoca. I primi tre titoli sono molto liberamente tratti dallo scrittore ucraino (di madre italiana) trapiantato a Milano Giorgio (in verità Vladimir) Scerbanenco. Della filmografia di Fernando Di Leo si è parlato lungamente nei numeri 1 e 2 di «Cinemino». 5 Cadaveri eccellenti, 1976. L’ispettore Rogas (Lino Ventura) investiga le strane uccioni di alcuni giudici della Corte suprema giungendo a coperchiare un complotto ordito dal partito comunista italiano. 6 Vergogonsamente pubblicato di recente in DVD da Surf Video nella sua collana Serie Z. 7 Il titolo è tratto da una strofa della canzone Insieme a te non ci sto più cantata da Caterina Caselli nel 1968 e già presente ne La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti. 8 Dall’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli, il regista Alex Infascelli ha tratto nel 2000 Almost Blue. 9 Ernest Borgnine ha ottenuto un premio Oscar nel 1956 come migliore attore per Marty (Marty, vita di un timido) di Delbert Mann. Nella sua carriera ha lavorato in poco meno di 200 film, tra cui The Dirty Dozen (Quella sporca dozzina, 1967, di Robert Aldrich), The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969, di Sam Peckinpah) e il bellissimo episodio diretto da Sean Penn nel film collettivo 11’09’’01 - September 11 (2002). 10 Storico cabaret di Milano, chiuso nel 1986. Vi furono scoperti, tra gli altri, Lino Toffolo, Felice Andreasi, Paolo Villaggio, Claudio Bisio, Antonio Catania, Giorgio Faletti, Enzo Iacchetti, Paolo Rossi.

11


ARRIVEDERCI AMORE, CIAO Massimo Carlotto al cinema

IL FUGGIASCO La vicenda di Massino Carlotto al cinema

Giorgio Pellegrini è un extra-parlamentare; un giorno la sua vita prende una piega inaspettata. Viene spiccato contro di lui un mandato di cattura per azione sovversiva e lui sceglie di fuggire. Nel suo correre via e scrollarsi di dosso la storia politica che lo ha imbrigliato, scopre il piacere che un uomo può provare nell’uccidere e nel tradire. Il primo degli omicidi vede come vittima un compagno di latitanza in un Paese del Centro-America. È il sintomo di una trasformazione: non più lotta per l’ideologia ma guerra vera, una guerra in cui è il tornaconto personale l’unico fine. Il film segna il ritorno di Michele Soavi (Deliria, prodotto nel 1987 da Joe D’Amato alias Aristide Massaccesi, La Chiesa, 1989, da un soggetto di Dario Argento – qui produttore insieme ai Cecchi Gori – La setta, 1991 – idem come per il precedente – e Dellamorte Dellamore, 1994, tratto da un racconto dell’autore di Dylan Dog Tiziano Sclavi) dopo tanta televisione (Ultimo 2 – la sfida, 1999, Il testimone, 2001, Uno Bianca, 2001, quest’ultimo in uscita in DVD negli Stati Uniti per l’etichetta No Shame). La sceneggiatura è firmata da nomi quali quelli di Heidrun Schleef (La stanza del figlio, 2001, Il caimano, 2006, di Nanni Moretti, Preferisco il rumore del mare, 1999, di Mimmo Calopresti) e di Franco Ferrini, autore delle sceneggiature di tutti gli ultimi film di Dario Argento. Il titolo del romanzo consiste in una strofa della canzone Insieme a te non ci sto più scritta da Paolo Conte e cantata da Caterina Caselli nel 1968.

Il film che narra dell’esilio di Massimo Carlotto a causa di una vicenda di malagiustizia parte dalla scoperta casuale di un omicidio da parte del protagonista e dalla decisione, spinta dal suo avvocato, di recarsi in questura per rendere testimonianza. In questura l’esperienza politica di Carlotto, militante di Lotta continua, è causa di pregiudizio, un pregiudizio tanto forte da portarlo in carcere con l’accusa dello stesso omicidio. È l’inizio di una vicenda lunga 17 anni fatta di processi, fughe, prove scagionanti che scompaiono dagli armadi dei tribunali, di revisioni processuali viziate, di un lungo esilio a Parigi («una prigione a cielo aperto», come la definisce un altro esiliato nel film) ma anche di incontri importanti. Una lunga latitanza che si conlcuderà nel 1993 con la grazia concessa dall’allora Presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il film di Andrea Manni, da lui stesso sceneggiato con Carlotto, rende in maniera molto efficace la vita in latitanza di Carlotto ma ancora meglio la vicenda di persecuzione giudiziaria, che nasconde molto evidentemente un disegno politico preciso, che, raccontata a parole, ha dell’incredibile. Nel cast, Daniele Liotti interpreta con bravura il ruolo del protagonista ma il personaggio di maggiore spicco risulta essere quello dell’avvocato Vignoni, impersonato dall’ex membro dei Giancattivi Alessandro Benvenuti. Completano il cast il bravissimo Roberto Citran, Francesca De Sapio (già vista in Jona che visse nella balena, 1993, di Roberto Faenza), nel ruoli dei genitori di Massimo, e il portoghese Joaquim de Almeida, nel ruolo del profugo cileno Lolo. IL FUGGIASCO Italia, 2003 Regia Andrea Manni Sceneggiatura Andrea Manni, Massimo Carlotto Musiche Theo Teardo Fotografia Massimo Pau Montaggio Alberto Lardani Interpreti principali Daniele Liotti, Alessandro Benvenuti, Roberto Citran, Joaquim de Almeida, Marco Giallini, Claudia Coli, Francesca De Sapio, Gabrielle Lazure, Luisa Ranieri, Fiorenza Tessari

ARRIVEDERCI AMORE, CIAO Italia, 2006 Regia Michele Soavi Soggetto Massimo Carlotto Sceneggiatura Michele Soavi, Franco Ferrini, Heidrun Schleef, Marco Colli, Gino Ventriglia Musiche Andrea Guerra Fotografia Gianni Mammolotti Montaggio Anna Napoli Interpreti principali Alessio Boni, Isabella Ferrari, Michele Placido, Carlo Cecchi, Alina Nedelea, Marjo Berasategui

MASSIMO CARLOTTO Nato a Padova nel 1956, risiede attualmente a Cagliari. Nel 1976, giovane universitario e militante di Lotta Continua, scopre casualmente a Padova il cadavere senza vita di Margherita Magello e viene accusato dell’omicidio dalla polizia. Dopo il processo d’appello e prima della sentenza fugge all’estero e si dà alla latitanza, trasferendosi poi in Messico e iscrivendosi all’Università. Nel 1985 viene denunciato e rimpatriato e comincia 12

così la serie di processi, rinvii, errori giudiziari, condanne sino alla grazia che il Presidente della Repubblica gli accorda nel 1993. Da allora Massimo Carlotto torna ad essere libero e diventa scrittore esordendo nel 1995 con il romanzo-reportage Il fuggiasco, ispirato alla sua esperienza processuale e di latitanza e dando il via con La verità dell’Alligatore alla sua fortunata serie di noir con protagonista appunto l’Alligatore. 13


Massimo Carlotto e l’Alligatore Massimo Carlotto non è solo l’autore di Nordest (scritto con Marco Videtta e grande successo editoriale dello scorso anno), di Arrivederci amore, ciao, di Niente, più niente al mondo (altro titolo che nasce da un verso di una canzone, in questo caso Il cielo in una stanza di Gino Paoli) e del bellissimo Le irregolari, che racconta della dittatura argentina, delle «desapariciones», della persecuzione degli ebrei argentini e della battaglia della madri di Plaza de Mayo, bensì anche l’autore di una serie di libri noir che hanno per protagonista Marco Buratti, detto «l’Alligatore», appassionato di blues che nelle sue indagini si avvale dell’aiuto di un criminale della vecchia guardia, Beniamino Rossini, e di «Max la memoria» ex militante abilissimo nelle ricerche al computer. Libri che sembrano già pronti per il cinema, per come sono scritti. Questi sono i romanzi legati all’Alligatore pubblicati sino ad ora da E/O. La verità dell’Alligatore (E/O, 1998, collana Tascabili) — L’Alligatore indaga, con il vecchio Beniamino Rossini, malavitoso vecchio stile con una sua morale, sull’omicidio di due donne, di cui è imputato un giovane tossico ma che in realtà potrebbe essere maturato nei corrotti ambienti di una certa borghesia di provincia. Il mistero di Mangiabarche (E/O, 1999, collana Tascabili) — L’Alligatore ha ricevuto un incarico assai delicato: tre avvocati cagliaritani che hanno scontato anni di carcere per l’omicidio (presunto) di un altro avvocato, tale Giampaolo Siddi, gli chiedono di mettersi sulle sue tracce. Siddi è effettivamente vivo e si gode i proventi dei suoi traffici illegali. Un romanzo che vede come protagonisti funzionari corrotti del SISDE, trafficanti di droga, avvocati senza morale e criminali francesi. Nessuna cortesia all’uscita (E/O, 1999, collana Dal mondo) — Un malavitoso si rivolge all’Alligatore perché interceda con il suo capo, che è intenzionato a farlo fuori. Aiutato come sempre da Rossini, il detective cerca di intervenire in favore del cliente ma si trova presto a dover fare i conti con una feroce sequela di omicidi e tradimenti che non risparmiano niente e nessuno. Il corriere colombiano (E/O, 2000, collana Tascabili) — L’Alligatore è in crisi. L’indagine affidatagli lo porta questa volta nel mondo della droga. Per coprire un’operazione speciale, i corpi scelti delle forze dell’ordine incastrano un innocente con l’accusa di spaccio di cocaina colombiana. Tirarlo fuori di galera non sarà facile, anche perché l’uomo ha comunque dei conti in sospeso con la polizia. Il maestro di nodi (E/O, 2002, collana Noir mediterraneo) — Il marito di una donna scomparsa, non osando confessare alla polizia il vergognoso segreto della loro partecipazione a un giro sadomaso, si rivolge all’Alligatore perché la ritrovi. Inizia una spaventosa discesa in un mondo di gente sola e ricattata dove predatori feroci si aggirano e colpiscono in modi efferati. Bibliografia di Massimo Carlotto (Romanzi) Arrivederci amore, ciao – Il corriere colombiano – Il fuggiasco – Le irregolari – Il maestro di nodi – Il mistero di Mangiabarche – Nessuna cortesia all’uscita – Niente, più niente al mondo – Nordest (con Marco Videtta) – L’oscura immensità della morte 14

INTERVISTA CON MASSIMO CARLOTTO di Roberto Rippa e Donato Di Blasi Per Il Fuggiasco alcuni critici hanno parlato di «autobiografia collettiva». Potremmo, forzando, pensare ad oggi ed ai movimenti, ad una lotta allargata dove il potere, almeno in Europa, non ci costringe a fuggire perché tanto il campo di battaglia non è più strettamente nazionale. Cosa, delle esperienze passate, pensi si debba o si possa riutilizzare? Nulla. Anche la consapevolezza degli errori è puramente generazionale. Oggi si tratta di immaginare il futuro e di renderlo saggiamente «eversivo» per incidere su due temi: alimentazione e fonti energetiche. In Nordest, tracci un ritratto impietoso del nord est e di una genia di industrialotti, avvocati ed accoliti pronti a tutto pur di soddisfare brame di potere e possesso. Come anche, per società malavitose più radicate, Nanni Balestrini in Sandokan e Osvaldo Capraro in Né padri né figli fanno un ritratto reale e al tempo stesso allucinato di due altre regioni d’Italia, sorta di romanzi-documento del costante disfacimento del Paese narrano di una società antropofaga. Dove stiamo andando? Verso l’irreversibilità della decadenza. Ma purtroppo non è così semplice. La complessità dei rapporti sociale e la velocità di riconversione economica determinata dalla globalizzazione rendono tutto maledettamente complicato nell’individuare soluzioni positive. Ne Le irregolari racconti del tuo viaggio a Buenos Aires per conoscere Estela Carlotto, una tua parente, passando da Santiago del Cile per rendere omaggio ad un amico morto mettendo la canzone «Fango» di Ricki Gianco a tutto volume davanti al Palazzo della Moneda. Come vedi la situazione argentina a trent’anni dal golpe (24 marzo 1976) e in generale cosa potremmo mutuare noi europei dalle ultime esperienze argentine e sudamericane? Il tempo delle dittature militari è finito. Non sono più convenienti per lo sviluppo del neoliberismo. Nonostante gli sforzi il passato è difficilmente punibile e riscrivibile dal punto di vista della verità. Ormai si è fatto tutto quello che si poteva, il tempo è impietoso. Per noi europei è stata un’occasione mancata per stabilire contatti e costruire percorsi comuni. In Niente, più niente al mondo, racconti di un disfacimento familiare, i personaggi sembrano non avere più un ruolo, una posizione dentro e fuori il nucleo familiare, siamo di fronte alla flessibilizzazione totale di ognuno, personaggi tutti «senza» qualcosa, lavoro, speranze, amore, desideri se non indotti. Credi siano questi i «modelli» di europeo/a oggi e quali sono le difficoltà nel raccontarli? La famiglia è diventata il fulcro delle contraddizioni sociali. La fine dello stato sociale ha reso ansiose le persone, privandole della certezza del futuro (pensioni, sanità, etc.) e creando una consapevolezza di un destino esistenziale piuttosto grigio. Ecco perché ci si ammazza in famiglia (L’Italia detiene il record europeo). 15


Il giallo offre certezze, la trama so conclude con una condanna o un’assoluzione. Questo accade talvolta anche nel noir ma in questi il tono generale è meno consolatorio, il noir si preoccupa anche di raccontare la società in cui si svolge, offre più spunti di riflessione, sei d’accordo? Sia il noir che il romanzo poliziesco dovrebbero usare una storia criminale come scusa per raccontare altro e cioè la realtà sociale in cui si svolgono gli avvenimenti. Il romanzo poliziesco dovrebbe terminare la sua esperienza consolatoria aderendo maggiormente alla realtà dei nostri tempi. Una parte degli autori italiani di noir che riscuotono grande successo da qualche anno a questa parte (a parte te, Evangelisti, Battisti, Dazieri) provengono da esperienze – talvolta anche dure, estreme – legate alla contestazione, all’antagonismo o all’impegno sociali. Secondo te, qual’è la ragione di questo successo? Per molti autori dedicarsi alla letteratura di genere ha significato trovare un modo per continuare in altre forme l’attività politica. Il successo del genere è dato dal suo essere letteratura della realtà e della crisi.

Non credo che vi siano particolari difficoltà a raccontare questa situazione, il vero problema è che non lo si fa abbastanza. Continua la tendenza consolatoria nelle varie forme di narrazione. Alla sceneggiatura di Arrivederci amore, ciao hanno lavorato nomi diversi tra loro come Marco Colli (Giocare d’azzardo di Cinzia Th. Torrini), Franco Ferrini (sceneggiatore, tra gli altri, di molti film di Dario Argento degli ultimi anni) e Heidrun Schleef (sceneggiatrice, tra gli altri, per Nanni Moretti e Mimmo Calopresti). Hai partecipato attivamente alla stesura? Come si è lavorato sulla sceneggiatura? Non ho lavorato alla sceneggiatura. So che ci sono state diverse versioni. Giorgio Pellegrini è il cattivo totale, non ha l’etica morale di Beniamino Rossini, compagno di avventure di Marco Buratti nei romanzi dedicati all’Alligatore, eppure si arriva a parteggiare per lui. Come mai questa scelta? Parteggiare per Pellegrini è una scelta molto personale. I lettori e oggi gli spettatori sono molto divisi su questo. Certo è che il male ha il suo fascino e Pellegrini è un personaggio affascinante nella sua amoralità. Hai anche lavorato come sceneggiatore, insieme al regista Andrea Manni, a Il fuggiasco, il film di cui parliamo in queste pagine che narra delle tue note traversie, uniche in Europa, di persecuzione giudiziaria. Cosa avete deciso di tenere e cosa di accantonare del racconto originale di 17 anni di vita per un film di un’ora e mezza? Abbiamo scelto di eliminare la dimensione autoironica del libro e di aggiungere altri episodi, per poter raccontare una storia che attraversasse un ambiente e un periodo storico ben definito.

16

Il cinema giallo in Italia non ha una grande tradizione, malgrado l’ottimo seguito in mezzo mondo, e i celebrati gialli degli anni ‘70 sono spesso un ricalco di altre opere. E nemmeno il noir, che in Francia (tanto per limitarci all’Europa) ha invece prodotto opere di altissimo valore. Ci sono eccezioni come Petri e il compianto Fernando Di Leo, penso al suo rapporto con i romanzi di Giorgio Scerbanenco. Secondo te, come mai il cinema noir in Italia ha prodotto così pochi, anche se molto buoni, risultati? Domina la cultura del Mulino Bianco, delle storie melense e consolatorie, tanto amate dai produttori. Ora però le cose stanno cambiando. O almeno speriamo... Da qualche anno a questa parte, da riviste specializzate prima e quindi dalla rivalutazione alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno, quando il fenomeno si è espanso, è in atto una rivalutazione del cinema di genere italiano, da tempo ucciso dalla televisione e dalle sue produzioni buoniste e tutte livellate verso il basso. Anche Alias ha trattato recentemente di questa voglia di tornare al genere. Al di là dell’operazione nostalgia, c’è secondo te la possibilità di riprendere una produzione italiana di genere oggi? Certo. Il folto pubblico che legge romanzi di genere attende con impazienza, ci sono schiere di autori, sceneggiatori e attori pronti a darsi da fare. il tasto registi è più delicato, forse è arrivato il momento di mostrare più coraggio. Da cosa parti quando inizi a scrivere un nuovo romanzo? Quali sono gli spunti che ti convincono a sviluppare un racconto? Sempre storie vere. Con un senso generale. Il maestro di nodi è un libro molto duro come l’ambiente che descrive. Da dove nasce questa storia, e come ti sei documentato? Nasce dall’indicazione di alcuni lettori torinesi a partire dalla scomparsa di alcune donne in Piemonte. Poi «l’indagine» si è sviluppata con un paio di hacker e attraverso falsi annunci su internet e giornali. I romanzi della serie dell’Alligatore sembrano pronti per il cinema, qualcuno si è mai interessato a questa possibilità? Sì, ora una casa di produzione inglese ha iniziato un percorso positivo che, spero, porti presto l’Alligatore sugli schermi. Ho letto che la RAI sta realizzando dei film per la televisione tratti dai racconti contenuti nella raccolta Crimini. Si hanno già notizie su chi realizzerà il film tratto dal tuo racconto Morte di un confidente? Ancora no. 17


GIBBA 80 anni nella Cinecittà di Cartone di Mario Verger

1 2 3 4 5 6

7 8

18

Gibba. Il nome già suona in modo goliardico e accattivante. Ma chi è questo artista della cinematografia a Passo Uno, entrato giovanissimo nella storia del cinema mondiale per un film d’animazione che realizzò ancora ventenne, tutt’oggi conservato al MoMA di New York? Nato ad Alassio, in Liguria, nel lontano 1924, all’anagrafe Francesco Maurizio Guido, nomi e cognome piuttosto generici, nonostante già ai tempi dei severi studi dai Padri Salesiani, durante le lezioni di latino e greco, facesse caricature ai professori celandosi dietro lo pseudonimo di «Gibba». Francesco Maurizio Guido in arte Gibba, infatti, ha mantenuto – per tutta la vita – due lati della personalità fra loro distinti, esattamente corrispondenti al significato del proprio nome e del suo pseudonimo; uno, relativo alle sue generalità anagrafiche: sobrio, serio, quasi anonimo; l’altro, più originale, inerente al suo nom de guerre: geniale, artistico e teatrale. Se si pensa alla sua comicità goliardica, dosata da uno sprazzo di malinconia simile a quella del conterraneo Gilberto Govi, unita ad un’originalità, a una mancanza di pregiudizi e ad un tocco di blasfemo cinismo, ci si può fare dunque un’idea immediata della personalità artistica di Gibba. Terminati gli studi classici, a 18 anni Francesco Guido partì per Roma accompagnato da un biglietto da visita con una missiva indirizzata al M° Alessandro Derevitsky 1, il quale stava curando un «balletto animato» con protagonista Pulcinella presso la Macco Film. Visti i buoni esiti della prova offerta a due famosi disegnatori dell’epoca, Carlo e Vittorio Cossio 2, il giovanissimo Gibba venne assunto come aiuto-animatore, apprendendo il mestiere assieme ai principali pionieri dell’animazione italiana, quali Luigi Giobbe 3, Luigi Liberio Pensuti 4 e sua figlia dodicenne Luciana, Antonio Attanasi 5 ed altri, oltre agli stessi C. e V. Cossio che coordinavano l’equipe impegnata nella realizzazione di short, ricordati come due «gemme» della cinematografia italiana a Passo Uno: Pulcinella nel bosco e Pulcinella e il temporale (1942). Gibba vi rimase per diversi mesi, fin quando un memorabile incendio avvenuto durante le riprese mise fine al loro «sogno», tanto da distruggere gran parte del materiale di celluloide ancora in lavorazione. Chiusa la Macco Film, il giovane ligure seppe dall’amico Niso Ramponi, in arte Kremos, che questi aveva da poco lavorato alla Incom, sita vicino Via Veneto (la via della Dolce Vita), ad una fiaba musicale diretta dal celebre illustratore del Corriere dei Piccoli Antonio Rubino. Gibba arrivò alla Incom quando Nel paese dei ranocchi era quasi terminato, ma l’anziano Rubino, viste anche le oriCompositore di musiche di film dell’epoca. gini liguri comuni, prese in simpatia il giovane Gibba apprezzandone Pionieri del cartone animato italiano e aule doti artistiche, tanto da metterlo alla guida di un cortometraggio la tori di fumetti cui regia era affidata allo stesso Kremos: La Trombetta d’oro. L’animaUmorista del Corriere dei Piccoli zione fu soddisfacente, al punto che anche il pioniere Ugo Amadoro, Autore di numerosi film didattici e scientifici animati per l’Istituto Luce allora dirigente del reparto Passo Uno della Incom, affidò al giovane di Pioniere del cartone animato italiano Alassio diversi grafici e animazioni per documentari animati didattici 8 settembre 1943, data dell’armistizio e di propaganda bellica destinati alle Riviste Luce, tra i quali sono stati chiesto dal Generale Badoglio al Generarinvenuti Giustizia è fatta e Conquiste nel Sud. le Eisenhower, comandante delle forze alleate in Italia. Ma il lavoro alla Incom cessò dopo l’8 settembre 6 e Gibba, Noto creatore di copertine del Travaso trovandosi nuovamente «a spasso», andò a trovare Kremos 7, nel Autore del lungometraggio La Rosa di frattempo passato alla Nettunia Film, il quale, tramite i capitali delBagdad presentato al Festival di Venezia la Contessa Politi, stava realizzando un divertente film patriottico e nel 1949.

filo-atlantico intitolato Hello Jeep! (1944). Alla sede Nettunia Gibba incontrò nuovamente il professor Giobbe, nonché il noto umorista del Travaso Federico Fellini, allora magrissimo, che si apprestava a schizzare, sceneggiandola, ogni sequenza che vedeva la piccola Jeep italiana lottare contro il potente carrarmato tedesco Hermann, aspettando patriottisticamente l’avvento dei liberatori. Gibba lavorò alle prime sequenze animate e ai lay-out, assieme a Kremos, Achille Panei, nonché a Fellini, il quale veniva ogni mattina alla Nettunia prima di recarsi a Cinecittà per le riprese di Roma Città Aperta; ma il destino volle che Giobbe si sparò un «colpo» di pistola con conseguenze drammatiche per la sua vita, tanto che il cartoon venne proseguito da Kremos e Fellini, mentre Gibba, per i magri salari relativi alla fine della guerra, preferì andare in provincia di Milano dove sorgeva una piccola Hollywood del cartone animato italiano. Dal Commendator AntonGino Domeneghini 8 non si trovò a suo agio: la vita a Bornato era a dir 19


poco di «clausura», soprattutto per un giovane artista poco più che ventenne. Tale esperienza si rivelò da un lato impossibile per il carattere aperto del giovane alassino, costretto a vivere in una celletta assieme agli altri collaboratori all’interno del complesso IMA Film (Idea – Metodo – Arte). Domeneghini gli affidò diverse animazioni de La Rosa di Bagdad (1949) riguardanti i tre Saggi, il pifferaio Amin e la principessa Zeila, ma il suo nome non comparirà nei credits del film in quanto, dopo qualche mese Gibba preferì lasciare la IMA poiché, nel frattempo, si era fatto vivo il suo ex compagno di liceo, il Conte Giannetto Beniscelli, il quale gli propose l’immediato ritorno ad Alassio per mettere in piedi uno studio di cartoni animati. Fu così che Gibba e Beniscelli, tennero a battesimo, assieme ai loro amici, concittadini e personalità del mondo ligure, una graziosa palazzina nel centro della città del muretto recante la vistosa insegna: «ALFA CIRCUS produzione disegni animati italiani». Gibba vi radunò diversi animatori come Carlo Cattaneo, Ninì Gromo, Mario Poma, Gino Zunino, Domenico Caratti e Fabrizio Angelozzi, ai quali insegnò i rudimenti in precedenza appresi alla Macco Film, tanto che ben presto ebbero le prime commissioni: per la ditta Cora di Torino, quella dell’aperitivo e dei concerti radiofonici, diedero buona prova imbastendo un piccolo soggetto pubblicitario giostrato su di un personaggio uscito durante l’ultimo inverno di guerra. Bello questo pinco pallino, mi sembra un pescatore, disse Antonio Rubino a Gibba quando il maestro sanremese lo venne a trovare nella mansarda della casa di Alassio nella quale si rifugiò con la famiglia a seguito dei bombardamenti. Da qui l’idea di adattare l’intuizione di Rubino al soggetto animato di Gibba, che venne intitolato Pallino pescatore (1946). Le celluloidi, vista l’epoca dell’immediato dopoguerra, non erano però più reperibili; Gibba e Beniscelli partirono per Genova, dove acquistarono un’enorme valigia colma di lastre radiografiche usate da cui togliere l’emulsione. Terminata la bobina di 100 metri, la pubblicità venne anche programmata al cinema Vittoria di Alassio, dove ricevettero unanimi consensi, raccogliendo l’interesse della ditta Brown. Dove aver avuto alcune direttive seguendo un’affiche nella quale comparivano dei gustosi nanetti, cerbiatti e scoiattoli, Gibba ideò un secondo short di carattere spettacolare a cui diede il titolo di Temporale d’estate (1946). Ma ora più che mai il pioniere ligure era intenzionato a produrre in proprio disegni animati. Gibba e Beniscelli passarono in esame diverse idee cercando di evitare i soliti clichés. Maturò così l’idea di un piccolo sciuscià costretto a vendere sigarette all’angolo della strada, confortati dal riferimento di quanto aveva fatto da poco Vittorio De Sica. A questo proposito Gibba dichiarò: Ci sembra sia giusto fare presa sui sentimenti e denunciare in qualche modo lo stato di abbandono e di indifferenza in cui versa certa popolazione giovanile d’oggi. Dopo aver acquistato a Genova una vecchia cinepresa d’occasione modello Tek a manovella, messa a punto con alcune modifiche dal fotografo Pilade Pastore, si presentò anche il problema dei colori. Visto che le tempere dei tubetti non davano grigi compatti, Gibba fabbricò da solo tutte le tonalità necessarie ottenendole da colori in polvere commistionati a colla di pesce. La lavorazione durò per ben un anno, e il film costò all’epoca ben 1 milione di vecchie lire. Terminata la lunga lavorazio20

ne, L’ultimo sciuscià (1946) divenne immediatamente un classico dell’animazione italiana ed il nome del giovanissimo Gibba, da allora, affiancato ai suoi anziani maestri: Luigi Giobbe, Carlo e Vittorio Cossio, Luigi Liberio Pensuti, AntonGino Domeneghini, Antonio Rubino 9. A nostro parere, bisogna riconoscere che Gibba, giovanissimo, seppe d’un colpo intuire le enormi capacità del cartoon classico abbinandole per la prima volta a temi d’attualità; come anche l’animazione, la sceneggiatura e la struttura generale del film, benché rievochino lo stile antico dei suoi maestri, è di certo, rispetto al loro, da considerarsi molto più moderno ed efficace. Trasferitosi definitivamente nella Capitale nel secondo dopoguerra, Gibba venne chiamato da Pietro Garinei e Sandro Giovannini per realizzare assieme a Kremos un quadro a disegni animati per la rivista di Renato Rascel, Attanasio cavallo vanesio (1952). Garinei e Giovannini pensarono ad una scena vera di Rascel a cavallo da far sfilare sul palcoscenico; cosa impensabile da affrontare al Teatro Sistina: fu così che gli ideatori della celebre rivista pensarono di realizzare Rascel a cavallo con la tecnica del cartone animato. Come per Ugo Tognazzi, col quale si incontrò al Café de Paris di Via Veneto per azzeccarne la caratterizzazione per i titoli del film di Mattoli, Tipi da spiaggia. Per Los Caballeros, di Xavier Cugat, Gibba realizzò un suggestivo inserto animato; come i due pubblicitari in animazione per l’Alka-Seltzer che videro Amadoro e Degan in qualità di producers di Gibba. Sempre nel dopoguerra, ritrovò l’amico della Macco Film Antonio Attanasi, un’altra straordinaria figura del cinema disegnato dei primordi, il quale iniziò in realtà a lavorare nel settore già dal lontano 1934. Attanasi nel frattempo aveva messo in piedi uno studio, l’Alfabeta Film, per realizzare il lungometraggio La montagna tonante (1952), composto di alcune parti dal vero miste a sequenze

21


9 10 11

22

animate, ma la trama era così strana che, con tutta la collaborazione di Gibba come aiuto regista, il film non riuscì a trovare una distribuzione. L’anno dopo, paradosso, venne imbastito nientemeno che un ipotetico seguito al mancato film precedente, nel lungometraggio Le avventure di Rompicollo (1953), realizzato alla Fax Film e firmato dal trio Raccuglia, Zucchi e Salvatori, anche se il vero ideatore e regista rimase Gibba coadiuvato dai vecchi animatori di Alassio dell’Alfa Circus e dallo staff dell’Alfabeta Film di Attanasi, con a fianco Kremos in qualità di capo animatore e il giovanissimo Sergio Minuti, apprezzatissimo autore di cartoon Rai degli Anni ’70. E qualche anno dopo Gibba tornò ad affiancare Attanasi nel film dal vero Pulcinella cetrulo d’Acerra (1961) interpretato da Carlo Croccolo e Pietro De Vico, per il quale realizzò assieme a Kremos la sequenza di Pulcinella nello spazio. Sempre in quegli anni, Gibba venne chiamato nuovamente dalla Incom per contribuire alla realizzazione della favola C’era una volta un soldatino (1958), prodotta dall’allora dirigente della sezione commerciale dott. Alberto Chimenz, firmato da Vittorio Cossio e sua moglie Luciana Pensuti, per muovere il personaggio del drago sputafuoco da assemblare ai personaggi in pupazzo animato realizzati in fil di ferro e rivestiti di panno Lenci, attraverso il sistema Cartoonplastic messo a punto dallo stesso Cossio. Nel frattempo, per il nostro artista di celluloide era venuto il momento di pensare anche ad altro oltre ai cartoni animati: il caso volle che si innamorò della capo reparto coloritura della Incom diretto da Osvaldo Piccardo 10, Elena Boccato, con la quale, dopo un lungo fidanzamento durato anni, convolò a nozze. Nel 1960 entrò in contatto alla Corona Cinematografica col prof. Ezio Gagliardo 11, ritenuto unanimemente un genio nel riconoCelebre illustratore del Corriere dei Piccoli. scere i veri talenti: in breve lo affiancò a suo fratello minore Elio col Pioniere del cartone animato italiano. proposito di mettere Gibba a capo di un reparto animazione, dal moUno dei più importanti produttori italiani mento che la «Gamma Cinematografica» ora divenuta Corona aveva di film d’animazione di quegli anni.

già prodotto con discreto successo diversi documentari a Passo Uno. Il primo film cui partecipò Gibba fu Centomila leghe nello spazio (1960), un mediometraggio a tecnica mista per la regia di Marcello Baldi interpretato dal giovane Roberto Chevalier. Qui il pioniere ligure fa dono di due nuove garbate creazioni gibbiane, la Maga Fantasia e Teorema Pitagorino. Nel 1961 ottenne una nuova affermazione stavolta nel campo del fumetto: il suo Cucciolino – definitomi più volte dallo stesso Gibba affettuosamente come il «nipotino» di Matteo – occupava con sempre maggior successo le colonne del Corrierino, tanto che il cartoonist ligure ne propose la versione animata al prof. Gagliardo. In due mesi, grazie ai validissimi collaboratori della Corona, quali Demetrio Laganà, Gianni Giacumatos, Stefano Aimo, Franco Zambelli, vennero girati due short ad animazione ridotta, di cui uno intitolato Le avventure di Cucciolino, unificati in un unico, grazioso cortometraggio intitolato Cucciolino cerca guai (1961), basato sulle peripezie del cucciolo dispettoso. C’è da dire – ed è triste constatarlo – che Cucciolino fu l’unico documentario Corona bocciato ai premi governativi forse perché, dalla commissione ministeriale, ritenuto troppo «ingenuo», al contrario di tutti gli altri film di Gibba realizzati per conto di Gagliardo, i quali ottennero decine di Premi di Qualità del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, nonché riconoscimenti nei più importanti Festival Internazionali. Gibba, pertanto, si accorse che l’animazione italiana stava cambiando, visto che si adeguava al consumismo e all’attualità, quella stessa attualità che lo aveva reso precursore – neanche un ventennio prima – del cinema d’animazione contemporaneo. Alla Corona, dopo aver realizzato numerosi documentari animati didattici e scientifici, un po’ alla maniera del suo maestro Pensuti, dall’America arrivarono Gene Deitch e Alfred Kouzel della King Features per commissionare allo studio Cartoni Animati della Corona diversi episodi della serie Popeye e una quindicina di Kresy Kat: il reparto andava a gonfie vele guidato da un veterano come Gibba a fianco di Elio Gagliardo. Gibba e Gagliardo, inoltre, realizzarono una dozzina di cortometraggi animati che fecero la fortuna della Casa di produzione Corona,

23


tra i quali, realizzati tra il 1961 e il 1966, ricordiamo: Menenio e i petrolieri, Anastasio pittore – che vinse tra gli altri anche il Premio MIFED – Gita in campagna, I due sfaticati, Le Papillon e L’appuntamento. In ultimo Gibba, apprese che la legge andata in vigore riconosceva all’autore il 10%, rivendicando alla Corona il fatto che gran parte delle sue opere erano state ingiustamente firmate da Elio Gagliardo. Licenziatosi dalla scuderia Gagliardo – vi rimarrà lontano in realtà solo per pochi anni – vedendosi fra l’altro accordare la ragione dal Pretore che intimò alla Corona di ristampare le copie col nome vero dell’autore, Gibba venne contattato da un altro caposcuola dell’animazione italiana, Pino Zac, il quale gli chiese un urgente collaborazione per portare a termine assieme a Giorgio Castrovillari un lungometraggio a tecnica mista realizzato sulla falsariga delle sue vignette umoristiche di Paese Sera per il film di Daniele D’Anza Gatto Filippo licenza di incidere (1966). Nel frattempo Attanasi lo coinvolse nuovamente come aiuto regista nel lungometraggio che non vide mai una prima cinematografica, L’isola del gabbiano Gregorio (1966), assieme a Kremos, Felice Guidi (fratello del pittore Virgilio), Glauco Coretti, Gianni Giacumatos, Carlo Bachini, Cesare Buffa. Dopo diversi Carosello realizzati con Herry Hess, che gli valsero la collaborazione al lungometraggio Tramby e le avventure di Bobby Trotter (1968), film incompiuto e utilizzato da Hess per una serie di short pubblicitari, Gibba realizzò diversi titoli per film dal vero, tra cui il più riuscito è Little Rita nel West (1968), nel quale troviamo una scatenata e gibbiana Rita Pavone che si trova a ballare all’entrata di un Saloon. Per il Ministero dei Lavori Pubblici, sul tema dell’educazione stradale ideò diversi short con protagonista la sua nuova creatura: Motorino (1969); mentre per il Ministero delle Poste fu la volta di Pasquale Caramellone, più conosciuto come Dario il rivoluzionario (1969); «intermezzi» i quali, tramite la distribuzione Sacis, alla fine degli Anni ’60 raccolsero sensibili riscontri tra il pubblico infantile della RAI TV. Qualche anno dopo, Gibba riallaccerà i rapporti con la Corona per realizzare, dietro produzione esecutiva di Alberto Chimenz, il lungometraggio Il racconto della giungla (1973), facendo del suo sciuscià il selvaggio Venerdì e di Robinson un navigatore «naufrago» della società; un personaggio con barba incolta, pantaloni a zampa d’elefante e chitarra, chiaramente un «figlio dei fiori» dell’epoca della contestazione, nel quale, ancora una volta, Gibba dimostrò il suo spirito critico ed ironico nei confronti della nostra società mettendone in risalto, in modo velato ma evidente, le sue «mode» che hanno segnato un’epoca. Sempre per la Corona realizzò Il merlo (1976) assieme a Giorgio Castrovillari, che lo aiutò anche ad animare la serie de I bottoni, intermezzo cinematografico in animazione di Rai 2, distribuito dalla Sacis; idea rielaborata nell’inno alla pace We Must Remember (1976) di Gibba e animato da Giorgio Castrovillari accompagnato dalla musica del vecchio maestro Gervasio. Ma è il successivo lungometraggio a segnare un’ulteriore tappa del Maestro ligure: la realizzazione de Il Nano e la Strega (1974), il mitico cult-movie osé dell’animazione italiana Anni ’70 di Gibba. Prodotto da Carlo Monti anche se la regia, anziché a Gibba, venne attribuita per via di «censura» a Gioacchino Libratti, il film racconta le avventure erotiche tra il Nano Pipolo e la Strega Merlina, segnando, da un lato un ritorno all’ispirazione del passato, dall’altro una ventata di brio e modernismo che si riscontrerà nei successivi spezzoni di animazione erotica gibbiana. Come in Faust Temptation, cartoon erotico riela24

borato nel successivo Bloody Peanuts (1976), inserto per il film ... E tanta paura di Paolo Cavara, nel quale il grande Gibba si scatenò in ogni tipo di eccesso fumettistico sado-maso, arrivando ad autorappresentarsi come un grosso nano deforme. E la straordinaria sequenza animata, con gli effetti curati da Castrovillari, realizzata un decennio dopo per il film Scandalosa Gilda (1986) di Gabriele Lavia del quale, nel Dizionario dei film italiani Stracult, Marco Giusti ha scritto: Qui Gibba firma il suo capolavoro, forse perché ha qualche soldo in più e l’argomento gli piace. Il cartoon con la Gilda e un cazzullo nanerottolo che cerca di entrarle dentro è assolutamente nuovo e geniale. Per SuperGulp!, il fortunato programma per ragazzi di Rai 2 ideato da Giancarlo Governi, Gibba realizzò cinque episodi dell’Uomo Mascherato che furono tra i migliori nella «ricostruzione» e tra i più apprezzati dal pubblico televisivo. Come anche le sigle RAI per programmi quali Serie Omicidio, Teatro di Eduardo, Schegge di Futuro, etc.; o anche la sigla ed episodi animati a découpage col personaggio Semplicino per il programma di Fernando Armati della TV dei Ragazzi di Rai 2 E’ semplice!. In seguito si occupò di due lungometraggi rimasti allo stato di progetto quali Jubilaeus Story, storia umoristico-didattico-seriosa degli Anni Santi, e Il mago di Oz (1985); mentre ispirandosi alle storie di Rudyard Kipling, in collaborazione con RaiUno agli inizi degli Anni ’90 portò a termine il lungometraggio Kim (1994). Proseguì sostenuto dalla Comunità Europea con il progetto di sviluppo e sostegno all’Africa equatoriale, firmando lay-out e regia della delicata fiaba africana originaria della Guinea, Le village de la joie (1996); e – dopo una permanenza a Roma di oltre mezzo secolo – prima di tornare definitivamente alla sua Alassio, il pioniere ligure ci offrì una sua rivisitazione di Claudia Koll e Nino Manfredi, curando la sigla animata della prima e seconda serie Linda e il Brigadiere (1997), la fortunata fiction televisiva Rai che ha coinciso col cambio della tecnologia dal tradizionale al computer che farà ricordare Gibba come il vero, unico, grande pioniere dell’animazione italiana.

MARIO VERGER Mario Verger, studioso di cinema d’animazione e docente di Teoria e metodo dei Mass Media, è stato il primo autore di film d’animazione ricevuto da Papa Wojtyla. Ha realizzato diversi cortometraggi e videoclip animati d’autore trasmessi da RaiTre e RaiDue, tra cui: Forever Ambra (1994), I Remember Moana (1994), Moanaland (1995), Tina (1996), Milingo (1998), Cacasenno (1999) Giulio Andreoitti (2000), Wojtyla (2001), Berluscomic (2004), Pasolini requiem (2005). Recentemente Enrico Ghezzi gli ha dedicato insieme ai film di Ermanno Olmi e Roberto Olmi una puntata di Fuori Orario nelle notti di RaiTre.

25


vietato fumare IL CINEMA DA NON PERDERE IN SALA Jarhead USA, 2005

La trama Nell’estate del 1990, il ventenne Anthony Swofford, Regia Sam Mendes soldato di terza generazione, Soggetto Anthony Swofford viene mandato nel deser(dal suo romanzo omonimo) to dell’Arabia Saudita per combattere la prima guerSceneggiatura William Broyles Jr ra del Golfo. I suoi ricordi Musiche originali di quel periodo e di quei Thomas Newman luoghi hanno dato vita, nel 2003, al vendutissimo libro Musiche non originali Jarhead, un libro scritto con Nirvana, Naughty Ny Nature, la passione, l’immediatezza, Public Enemy, Tom Waits, Kanye la sincerità e l’umorismo di West, Bobby McFerrin, T. Rex cui solo un testimone diFotografia Roger Deakins retto avrebbe potuto essere capace. La storia tratteggia Montaggio Walter Murch un’immagine della guerra Interpreti principali molto diversa da quella racJake Gyllenhaal, Peter Sarsgaard, contata dai giornali o dalla Jacob Vargas, Lukas Black, televisione: descrive pozzi Chris Cooper, Brian Geraghty, petroliferi che sputano fiamJamie Foxx me nella notte, soldati rissosi, eccitati e al tempo spesso Produzione Universal Pictures terrorizzati all’idea che dalla collina a fianco possa partire da un momento all’altro l’attacco nemico. Ragazzi che trascorrono la lunga attesa che qualcosa che accada giocando a pallone, leggendo

tre a casa propria, senza lavoro, senza un titolo di studio, senza qualcuno che scelga di condividere con te la sua vita, non sei assolutamente nessuno. E questo viene sintetizzato bene non solo dalle parole ma anche dall’immagine del reduce che, al ritorno dei soldati a casa, chiede di potersi sedere sul loro autobus che sfila in una piccola cittadina, pur di poter sentire ancora questo senso di appartenenza a qualcosa. Sam Mendes dirige un cast di grande bravura, con Jake Gyllenhaal protagonista, Lukas Black, Peter Sarsgaard, Chris Cooper e, una spanna sopra

le lettere che giungono da casa, festeggiando il Natale lontano da tutto e tutti. Unica compagna: la paura. Il film Jarhead, ossia «testa di giara», dura fuori, vuota dentro, questo è il soprannome attribuito al corpo dei marines. Il film mette in scena la spettacolarità della guerra, ma soprattutto la sua inutilità, le sue lunghe attese, i nervi che saltano, gli equilibri che si creano per distruggersi poco dopo, la ricerca di motivazione in una situazione che scambia la motivazione per la cieca obbedienza militare. Nel raccontare la storia narrata da Anthony Swofford nel suo libro autobiografico e sceneggiata da William Broyles (The Polar Express, Cast Away), Sam Mendes, il regista del celebrato American Beauty (1999), non ci risparmia nulla di quegli uomini, che sono lì non solo per una questione economica (fattore non secondario per un Paese come gli Stati Uniti, con uno tra i tassi di disoccupazione più alti al mondo) ma anche perché in guerra si è comunque qualcuno men-

Syriana USA, 2005 Regia Stephen Gaghan Soggetto Robert Baer, dal suo libro See No Evil: The True Story of a Ground Soldier in the CIA’s War on Terrorism Musiche originali Alexandre Desplat Fotografia Robert Elswit Montaggio Tim Squyres Interpreti principali Kayvan Novak, George Clooney, Amr Waked, Christopher Plummer, Chris Cooper, Jeffrey Wright, Robert Foxworth, Nicky Henson, Matt Damon, Amanda Peet

26

tutti, Jamie Foxx, che dimostra che l’Oscar attribuitogli per Ray nel 2004 era decisamente meritato. Sam Mendes, da par suo, che già aveva scavato efficacemente sotto la tranquilla patina della provincia statunitense in American Beauty, non rinuncia qui per un solo momento al suo sguardo disincantato e attento a ciò che succede tra le persone, a mettere in evidenza le relazioni. Il film è dichiaratamente debitore a Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, del 1987, che però era efficacissimo nel raccontare la guerra senza mostrarne nemmeno un secondo.

Il giovane principe Nasir, futuro regnante di un Paese del Golfo ricco di petrolio, cerca di modificare le relazioni commerciali che da lungo tempo sono state favorevoli agli Stati Uniti, cedendo i diritti di sfruttamento del gas a una compagnia cinese. Questa scelta danneggia gli interessi americani nel Paese in quanto mette fuori gioco la Connex, compagnia che fino ad allora aveva detenuto i diritti di sfruttamento. La Connex vede una via d’uscita dalla situazione nella fusione con la Killen, una piccola compagnia petrolifera che è reduce dall’ottenimento dei diritti di trivellazione nel Kazakistan. La fusione delle due compagnie coinvolge il Dipartimento della Giustizia e lo Sloan Whiting, potente studio legale di Washington, che devono verificarne la fattibilità. A Bob Barnes, agente della CIA in via di pensionamento, viene promessa una promozione dopo un’ultima missione il cui scopo è l’assassinio del principe Nasir. L’esito imprevisto di questa missione lo metterà nelle condizioni di riesaminare il ruolo che ricchi e poveri, sceicchi e lavoratori, ispettori governativi e spie internazionali svolgono inconsapevolmente all’interno di un complesso sistema mondiale. Il vero protagonista di Syriana è il petrolio e tutti i personaggi che ci girano intorno non possono che essere comprimari. Il film – che ha anche il merito di raccontare la vera politica, che non riguarda più da tempo sinistra, centro e destra, bensì chi possiede e chi no – prende l’avvio dalla concessione dei diritti di trivellazione alla Cina, e alla conseguente decisione di fusione tra due compagnie americane. Non è che l’inizio di una complessa vicenda che vede la partecipazione non marginale di servizi segreti, capi di stato, industria e la commissione federale americana per la giustizia. Di più non si può 27


WALK THE LINE USA, 2005 Regia James Mangold dire, per non rovinare la sorpresa che sorpresa non è per tutti coloro che si informano approfonditamente sulle guerre attualmente in corso, gran parte delle quali hanno come scopo occulto e finale il diritto di sfruttamento dei territori che hanno petrolio. Nessun personaggio del film ha la visione completa di ciò che accade e solo noi assistiamo da un punto privilegiato la vicenda in ogni suo aspetto. Per la sua complessità, lo svolgimento della storia non è facile da comprendere ma non se ne perde alcun momento, e questo è già un buon risultato. Descrivere il film non sarebbe facile e comunque non è necessario in quanto non ha il classico movimento lineare che porta da un problema a una soluzione bensì tratta di un unico grosso problema. E basta. Sceneggiato da Stephen Gaghan, già autore premiato con l’Oscar di Traffic (2000), cui Syriana assomiglia per la costruzione ad incastro, e prodotto da George Clooney e Steven Soderbergh (che di Traffic era stato regista), il film è sostenuto da dialoghi secchi e diretti e da interpretazioni di pregio (Matt Damon, un irriconoscibile George Clooney...). Il cartello alla fine ci avvisa che si tratta di una storia di fantasia ma noi sappiamo bene che si tratta del solito espediente atto a evitare ripercussioni legali giacché ciò cui abbiamo assistito di fantasioso non ha assolutamente nulla e che se proprio non fosse vero sarebbe comunque estremamente verosimile.

Soggetto Johnny Cash (non accreditato. Dalla sua autobiografia The Man in Black)

Nel 1955 un chitarrista mingherlino ma determinato, che si faceva chiamare J.R. Sceneggiatura Cash, entrò nei Sun Studios Gill Dennis e James Mangold di Memphis, che da lì a poco Musiche prodotte da sarebbero diventati celebri. T-Bone Burnett Si trattò di un momento che avrebbe avuto un forte imFotografia Phedon Papamichael patto sulla cultura americana. Montaggio Michael McCusker Con i suoi accordi rapidi e trascinanti, un’intensità eviInterpreti principali dente nel suo sguardo forte e Joaquin Phoenix, Reese una voce profonda e oscura Witherspoon, Ginnifer Goodwin, come la notte, Cash interpreRobert Patrick, Dallas Roberts, tava delle canzoni dolorose Dan John Miller che parlavano di malinconia e di sopravvivenza. Canzoni dure, fatte di vita reale e diverse da tutto quello che si era sentito prima di allora. Quel giorno segnò l’inizio della sua elettrizzante carriera. Fu un pioniere grazie al suo suono intensamente originale, che aprì una nuova strada per le future star del rock, country, punk, folk e rap e iniziò così un confuso viaggio di maturazione personale. Nel periodo più instabile della sua vita subì un’evoluzione, passando dalla popstar autodistruttiva che era allora al mitico Man in Black (dal titolo della sua prima autobiografia), che affrontava i suoi demoni, combattendo per un amore che lo avrebbe cambiato e imparando a camminare sulla sottile linea che divide la distruzione e la redenzione.

strare l’attaccamento di Cash a alcool e droghe e segue il percorso più tipico di questo genere cinematografico: infanzia difficile (con un fratello per la cui morte il padre lo considera responsabile tanto da affermare che Dio si è preso il figlio sbagliato) – aspirazione al successo – raggiungimento dello stesso - alcool e/o droga – redenzione. Certo, ogni volta il personaggio cambia e così la musica e ciò rende questo genere di film comunque sempre godibile. Il film traccia la prima parte della sua vita fino al raggiungimento del culmine del suo successo con l’album Johnny Cash at Folsom Prison del 1968, narrando con ritmo i punti salienti della sua vita ma lasciando in secondo piano ciò che guidava il cantante nella sua arte. Ne racconta invece gli anni più bui della sua esistenza a causa della dipendenza da alcool e droga fino all’incontro con June Carter, che diventerà sua moglie. Walk the Line offre momenti di grande intrattenimento ed è valorizzato dalle interpretazioni di Joaquin Phoenix e Reese Wither-

Il film Ray, l’anno scorso ha lasciato il segno e mostrato come le biografie filmate dei musicisti storici interessino al pubblico. Ecco arrivare quindi Walk the Line a celebrare la vita e le opere della leggenda del country (ma attribuirgli un unico genere è riduttivo) Johnny Cash. Il film, esattamente come lo era Ray, è impietoso nel mo28

29


spoon, entrambi premiati per le loro interpretazioni con il Golden Globe e entrambi candidati ai prossimi premi Oscar. Diversamente da Ray, dove la colonna sonora era composta dalle versioni originali di Ray Charles, che Jamie Foxx si limitava a mimare, qui la colonna sonora, prodotta da T-Bone Burnett, è interpretata da Phoenix e Witherspoon con grande perizia. Diretto da James Mangold

(già autore di Heavy, 1995, Cop Land, 1997, Girl, Interrupted (Ragazze interrotte, 1999), con una sceneggiatura dello stesso Mangold e di Gill Dennis basata sui libri di Cash Man in Black e Cash The Autobiography, il film ha richiesto sette anni di preparazione, con il pieno supporto di Johnny Cash e di June Carter Cash fino al momento della loro morte, avvenuta nel 2003.

JOHNNY CASH Johnny Cash è stata una tra le personalità più influenti della musica country americana grazie alla sua inconfondibile voce e la sua musica originale, che non era il country di Nashville ma neppure rock’n’roll bensì un country che si arricchiva con quest ultimo e con il folk. Nato in Arkansas, inizia a scrivere canzoni all’età di 12 anni traendo ispirazione dalla musica che ascoltava alla radio. Quando scoppia la guerra con la Corea, Cash si arruola e durante la sua permanenza nell’esercito compera la sua prima chitarra e impara a suonare. Rientrato negli Stati Uniti, a Memphis, si sposa e, con un trio, canta alla radio cercando di ottenere un’audizione presso la Sun Records. Ottenuta la possibilità di fare sentire le sue composizioni, Cash si presenta come un cantante di gospel e viene rifiutato. Una seconda audizione con brani più commerciali gli varrà un contratto e la pubblicazione dei primi dischi. La pubblicazione di Cry Cry Cry nel 1955 è un successo che scala le classifiche di vendita. Il secondo singolo pubblicato, il celebre Folsom Prison Blues entra nella top 5 e il successivo I Walk the Line sarà primo in classifica per ben sei settimane. Un esibizione collettiva dove tutti si presentano in abiti dai colori e dalle fogge chiassose, tipiche del country, mentre Cash si presenta in un completo rigoroso nero, gli vale il soprannome di «Man in Black», che diventerà poi il titolo della sua prima autobiografia. Nel 1958, deluso dalla Sun Records che non gli permette di incidere un disco gospel ma nemmeno intende aumentare la sua quota percentuale sulle vendite, 30

si trasferisce alla Columbia Records con la quale continua la serie di singoli di grande successo e con la quale riesce a pubblicare il tanto agognato disco, che avrà il titolo di Hymns by Johnny Cash. L’anno seguente inizia una fase di declino causata anche dalla massiccia assunzione di anfetamine, assunzione condizionata anche dalla difficoltà di tenere un ritmo che prevede circa 300 esibizioni dal vivo l’anno. Sarà June Carter, moglie del suo compagno di bevute Carl Smith, a co-firmare il singolo della riscossa, Ring of Fire. Mentre i problemi causati dalle sue dipendenze proseguono e sua moglie Vivian chiede il divorzio, Johnny Cash fa ritorno a Nashville dove ritrova la neo-divorziata June Carter, che sposerà nel 1968, dopo che lei lo avrà aiutato a liberarsi dei suoi problemi di dipendenza ma lo avrà anche convertito a un cristianesimo fondamentalista. Sempre nel 1968, pubblica Johnny Cash at Folsom Prison, registrato dal vivo nel carcere citato nel titolo. Il disco otterrà un tale successo da entrare persino nelle classifiche pop. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, Johnny Cash è all’apice del suo ritrovato successo: pubblica dischi di successo, lavora con Bob Dylan nel suo album Nashville Skyline e ha una sua trasmissione televisiva di successo alla ABC. Il suo successo imboccherà una fase di declino a metà degli anni ’70, che vedranno il suo progressivo distacco dalle classifiche di vendita pur continuando il suo successo nelle esibizioni dal vivo. Nel 1985 pubblica con il nome «The Highwaymen», band che comprende lui, Waylon Jennings, Willie Nelson, e Kris Kristofferson, un album anch’esso di non eccezionale successo. Sarà il secondo album della band a diventare un campione di vendite e a rilanciare la sua carriera. Nel 2003, il video della cover di Cash di Hurt dei Nine Inch Nails viene candidato agli MTV Awards. Sua moglie June morirà lo stesso anno in seguito a complicazioni post-operatorie per un intervento cardiaco. Johnny Cash morirà pochissimi mesi dopo, all’età di 71 anni, di diabete.

WALLACE & GROMIT IN THE CURSE OF THE WERE-RABBIT UK, 2005 Regia Steve Box, Nick Park Scritto da Nick Park, Bob Baker, Steve Box, Mark Burton

L’amante del formaggio Wallace e il suo fedele cane Gromit sono i protagonisti Musiche originali Julian Nott di una nuova avventura coFotografia Tristan Oliver, mica che segna la loro priDave Alex Riddett ma apparizione sul grande schermo. Si avvicina la Fiera Montaggio David McCormick, dell’ortaggio gigante e nel Gregory Perler quartiere tutti sono impeVoci Peter Sallis, Ralph Fiennes, gnati nel difendere i loro Helena Bonham Carter, Peter Kay, ortaggi da record dagli attacNicholas Smith, Liz Smith chi dei voraci conigli. Wallace & Gromit, con il loro equipaggiamento «umano», capace di inghiottire i conigli che poi terranno ospiti in casa loro e salvare le coltivazioni dei loro concittadini, sono gli eroi dei coltivatori. Una notte, però, un gigantesco coniglio dall’appetito direttamente proporzionale alla sua stazza inizia a devastare le coltivazioni. Chi si nasconde dietro questa trasformazione? Sedici anni fa, l’inglese Nick Park produce il cortometraggio animato A Grand Day Out with Wallace and Gromit (Una fantastica gita, 1989) come lavoro di laurea, frutto di ben 6 anni di lavoro, per la National Film and Television School di Beaconsfield. Al progetto collaborano Peter Lord e David Sproxton della Aardman Animations, casa di produzione spe-

cializzata in stop-motion, la tecnica che vede i modellini ripresi inquadratura dopo inquadratura. Nel 1991, il cortometraggio ha già ottenuto un BAFTA Award in Inghilterra e la candidatura all’Oscar. L’appuntamento con l’Oscar è solo rimandato: lo otterrà nel 1994 con Wallace & Gromit in The Wrong Trousers, cortometraggio che verrà seguito nel 1996 da Wallace & Gromit in A Close Shave, terzo premio Bafta e secondo Oscar per i cortometraggi con Wallace & Gromit e il terzo, se si conta quello ottenuto nel 1991 per Creature Comforts. Il film, che nasce dalla collaborazione tra la Aardman e la Dreamworks e ha richiesto ben 5 anni di lavoro da parte di una squadra capitanata da Steve Box, animatore dei cortometraggi precedenti, mostra come i due personaggi riescano a reggere ottimamente il passaggio al lungometraggio grazie a una storia divertente, piena di humour inglese e di citazioni di altri film. Se le opere precedenti erano debitrici, per la loro atmosfera, alle commedie degli Ealing Studios (la casa di produzione, inglese, più antica del mondo, famosa per le sue commedie degli anni ’30), questa sembra più vicina alle opere della famosa casa di produzione Hammer (anche questa inglese, famosissima per i suoi film dell’orrore degli anni ’50 e ‘60) ed è adatto sì ai bambini ma fonte di grande divertimento anche per gli adulti. Da non perdere, nella versione originale, le caratterizzazioni vocali offerte da Peter Sallis, Ralph Fiennes (l’odioso cacciatore Victor Quartermaine), Helena Bonham Carter (che offre per la seconda volta la sua voce a un personaggio creato in stop motion. Il primo è The Corpse Bride di Tim Burton, suo compagno nella vita) e della grande Liz Smith. 31


CINEMA E PSICHIATRIA

INTRODUZIONE Era una sera del 1977, non ricordo esattamente quale momento dell’anno fosse. Ricordo invece la senszione fisica attivata dalle immagini di quel film. Ho ancora vivida l’impressione del fruscio del vestito che si muove per i corridoi bui o il colpo di petto alla vista del volto riflesso sul vetro o la paura che emerge nel rincorrere un’immagine nera e pesante sui merli del castello. Avevo l’impressione di essere dentro quella casa, di partecipare fisicamente ed in prima persona ai fatti narrati nella pellicola. Da allora, quel ricordo, quelle impressioni mi accompagnano facendo di tanto in tanto capolino stimolate da stanze buie, castelli all’imbrunire... storie di... di fantasmi. Da allora, ben 28 anni fa, come una promessa, aspetto di poterlo rivedere e riassaporare. Vivo l’attesa 32

di Rosa Castra

con trepidazione gustandomela e coccolandomela. Mi piace parlarne, scriverne, raccontare... si raccontare di me e di questo film... e tutto quello che c’è stato in mezzo! Ora pare che sia nuovamente in distribuzione... quale migliore occasione per mettere in comune con voi questo scritto che lo riguarda. E’ una cosa nuova per parlare di qualcosa di «antico»... per parlarne in modo personale, fuori da etichette e condizionamenti... se non i miei personali. Questo è un inizio di collaborazione con gli amici di Cinemino. Non intendo dire come le cose siano ma, semplicemente come io le sento e vedo. Vi lascio alle righe che seguono e aspetto eventuali riferimenti per uno spazio di «inter-visione». Per chi lo stesse pensando, o lo pensasse dopo averlo ri-visto... potrà essere una delusione? Potrei dire che lo è sempre, tornare a qualcosa di desiderato a lungo... non potrebbe non esserlo...ma è la magia del rincorrere qualcosa di nostro per poi rilanciarlo più avanti... come se la nostra memoria e la fantasia giocassero tra loro, abbracciati ai desideri che furono, che sono e, soprattutto, che saranno. 33


THE INNOCENTS Titolo italiano Suspense Inghilterra 1961, bianco e nero, 105 min. Regia Jack Clayton Soggetto Henry James (da The Turn of the Screw – Il giro di vite) Sceneggiatura Truman Capote, Willliam Archibald Musiche Georges Auric Fotografia Freddie Francis Montaggio Jim Clark Interpreti Deborah Kerr, Martin Stephen, Pamela Franklin, Michael Redgrave, Peter Wyngarde, Meg Jenkins

TRAMA Miss Giddens (Deborah Kerr) viene assunta come istitutrice di due giovanissimi fanciulli in uno splendido, quanto isolato castello inglese. L’incarico le viene conferito da un’affascinante e schivo zio dei ragazzi che precisa di non voler essere disturbato. Dalla morte dei genitori, avvenuta in India, egli è divenuto tutore dei ragazzi. All’arrivo al castello, la colpisce la gradevolezza della luminosa facciata dell’edificio, le finestre aperte al sole, il prato, i meravigliosi fiori e il cielo dorato. Si confronta con la dolcezza, la delicatezza e la bellezza di Flora, tenera bimba sugli 8-9 anni, dai lunghi capelli castani e gli occhi grandi. L’incontro con Miles, l’altro suo accudito, si verificherà solo più tardi quando questi tornerà a casa dal collegio. Miss Giddens è rapita dall’ambiente, dai bimbi e dalla loro capacità di sedurla. I loro modi misti di ricercatezza e nobiltà associata a momenti di tenerezza tutta infantile sono un mix per lei impossibile da gestire. Qualcosa però le suona incomprensibile, qualcosa le sfugge. Perché Miles è stato rimandato a casa senza preavviso e con una lettera di accompagnamento del collegio che fa vago riferimento a comportamenti «indicibili» nei confronti dei compagni? Perché, pur nell’affetto che essa prova per loro, sente uno jato incolmabile che li distanzia e ne fa un mondo a parte? Perché si sente osservata in un modo cosi particolare da quegli occhi che pure, in altri momenti, appaiono così ingenui e indifesi? Nel parlare con la signora Grose, viene a sapere della persona che l’aveva preceduta e del fatto che lascio Bly per una breve vacanza ma non fece mai più ritorno... morì. I giorni passavano lieti, tutti presi dai suoi giovani accuditi quando, all’improvviso, un pomeriggio, mentre è assorta nei suoi pensieri e si sta chiedendo quanto avrebbe potuto essere incantevole incontrare qualcuno, qualcuno che venisse a colmare il vuoto affettivo che i suoi giovani amici potevano solamente sollecitare. Mentre riflette in tal senso le pare che la sua fantasia si faccia reale: un giovane uomo appare in alto, oltre il prato, dalla cima di una delle torri che si ergevano ai lati del castello. L’incontro scatena emozioni forti, prevale la meraviglia quando coglie che l’uomo non è la persona che inizialmente credeva fosse, è un volto ignoto, non somigliava a nessuno che conoscesse. Inoltre a quella apparizione il posto era divenuto inspiegabilmente desolato e freddo...tutto era silenzioso. L’uomo era fermo e la osservava dai merli del castello, quasi fosse un ritratto incorniciato. Si guardarono alcuni minuti... 34

Comincia così il viaggio di miss Giddens verso l’ignoto, il mistero di Bly e del profondo di noi stessi. Nel prosieguo vedremo la nostra eroina confrontarsi con immagini presenti ma impalpabili seppur invece così capaci di congelare l’anima e pietrificarci. Si confronterà ancora con l’uomo della torre e, ancora più raccapricciante, con una donna grigia e dolente che le appare sulla sponda del lago sulla cui riva si dilettava con Flora. Anche allora, all’improvviso si rende conto della presenza di uno spettatore sulla sponda opposta. Una donna in nero, triste e filiforme come la fiamma di una candela prossima allo spegnimento. Le presenze tornarono ancora e lei appare sempre più sgomenta nel comprendere di chi si tratta: sono Peter Quint il domestico personale del signore di Bly, morto anch’esso, e la precedente istitutrice, la signorina Jessel... non hanno mai abbandonato Bly. I racconti di chi è a Bly da più a lungo narrano di malvagità, perversioni, stranezze indicibili e inimmaginabili. Eccezionale è il terzo incontro con l’altra donna. Miss Giddens è sola in casa, il peso dell’esperienza la sta facendo meditare su una fuga; percorre le scale dove in più occasioni ha incontrato Quint, si dirige verso lo studio e aperta la porta si confronta con l’«immagine» nella chiara luce del pomeriggio: seduta al tavolo, piegata sotto il peso della sua malvagità, intenta a scrivere c’è lei, l’altra... il peso di tale attività è reso dal gesto delle mani poste a sostenere la testa, «scura come la notte nel suo abito nero, nella sua dannata bellezza e nel suo chiuso dolore... un attimo dopo nella stanza non restavano che la luce del sole e la certezza che dovevo rimanere». Miss Giddens, James lo fa intendere con forza senza mai nominare nulla in modo esplicito, è consapevole di qualcosa di orrendo che lega quelle due creature ai suoi piccoli protetti; ella sa che essi sono ancora presenti per ottenere qualcosa, anzi, qualcuno che possa continuare a permettergli l’uso del reale, i sensi, la

35


fisicità ormai perduta in pratiche innominabili. La battaglia è dura; la lotta prevede la necessità di far cogliere e riconoscere ai due piccoli fanciulli le «presenze» al fine di liberarli dal silenzio vischioso e collusivo con gli «altri». Dopo un maldestro tentativo di confrontarla violentemente con la signorina Jessel, Flora si ammala di una strana febbre e viene allontanata da Bly su indicazione di Miss Giddens. Rimasta sola con Miles, con il quale la relazione ha assunto toni intimi e ambigui, Miss Giddens ritorna sui motivi dell’allontanamento dal collegio: «ho detto certe cose» afferma Miles, «le ho dette a coloro che mi piacevano». A tentativo di arresto del lavoro avviato da Miss Giddens torna l’apparizione dietro i vetri del salotto «come a frenare la sua risposta». Miles chiede se fosse la signorina Jessel ed è allora il momento in cui Miss Giddens incalza e affonda l’intervento: Miles finalmente dirà quel nome maledetto e quindi si abbandonerà tra le braccia di lei dopo aver esalato l’ultimo respiro... «il suo piccolo cuore, liberato, aveva cessato di battere».

RILETTURA IN CHIAVE PSICHIATRICA Il piano proposto può essere letto sotto diversi punti di vista, ne sceglierò due a mio avviso più inerenti l’approfondimento psichiatrico. A prima vista non si rileva subito un contenuto francamente psichiatrico, credo che alcuni film siano addirittura ovvi nel loro riprodurre a volte macchiettisticamente la sofferenza mentale o nel guardarla con occhio benevolo quanto fondamentalmente distante e disinteressato. Il piano che mi interessa proporre per tale film si orienta su due crinali; uso il termine crinale volutamente, in quanto percorso non facile e, anche di fatto, non necessariamente condivisibile da tutti...ma mi ci proverò. Un primo livello praticabile è quello del «segreto» e dell’effetto patogeno e patoplastico dello stesso. Poco importa che sia reale o fantasmatico, sta di fatto che ravviva, come la legna la fiamma, le nostre fantasie fino a poterci, in casi estremi, allontanare dalla realtà verso un mondo interno, autistico e incomunicabile. Segreto è all’inizio quanto sa Miss Giddens che non viene detto a difesa dei pargoli; segreto è anche ciò che i pargoli sanno e vivono, segreta è anche, però, l’anima di Miss Giddens che in più occasioni vibra all’idea di quelle presenze e di ciò che possono fare... e non è una vibrazione di sola paura. È in tal senso che la pellicola può essere rivista come difficile spartiacque tra ciò che è e ciò che si vive personalmente, cose che non sempre collimano. Possiamo in tal senso porci il problema di cosa sia vero: le presenze di Miss Giddens sono reali fantasmi nella comune accezione del termine o, piuttosto, sono fantasmi mentali, contenuti ideici che prendono corpo e fattezze umane; ossessioni sessuali controllate con investimenti contro-fobici (governante, controllo, rettitudine, educazione) che irrompono sotto la spinta del recente incontro con lo zio dei piccoli e con l’arrivo in un ambiente che si presta al gioco di fantasia. L’assenza dell’oggetto d’amore sostiene la ricerca dell’oggetto d’amore, e in virtù del fatto che si realizza solo in contenuti mentali privatissimi ne comporta, inevitabilmente, il non raggiungimento. Come nel racconto The Friends of the Friends in cui i due amanti tentano invano di incontrarsi per anni e raggiungono lo scopo solo la notte in cui poi, la donna morirà; ella però resterà sempre accanto all’uomo impedendo qualsiasi altra realizzazione affettiva. 36

Nel racconto di James il soprannaturale è occasione per cogliere attributi del protagonista del racconto, l’apparizione si accorda in modo perfetto con lo stato d’animo, i sentimenti, il vissuto profondo di chi ne è testimone. Idee, timori, desideri inconfessati, paure, voglie, coscienze perplesse e stordite, si proiettano nell’esterno reale e assumono vita propria entrando in relazione con chi le ha prodotte come corpo estraneo, presenza reale altra, coprotagonista della vicenda umana. In tal senso il fantasma ha origine dentro di noi, è una nostra proiezione e come tale il peggiore incontro che la nostra quotidianità possa regalarci. Esso è metafora fredda, simbolo di un non detto gravoso e alienante che consente la non resa solo nell’esposizione consapevole ad esso, nel riconoscimento di ciò che ci appartiene, nel tema caro a Freud di porre «dove prima era l’inconscio.... il conscio» che è appunto vedere, poter vedere, riconoscere...infine riconoscersi. Essi si manifestano, così come i sintomi psichici, come domanda e risposta al tempo stesso, davanti a quelle situazioni emotive in cui la nostra capacità espressiva vacilla e fallisce lo scopo. È così che James riesce, ancora oggi, a farci avere paura del buio e, direi se mi è concesso, è così che, come terapeuti, investiamo nella nostra attività di «cercatori» di luce, di creatori di sponde su cui riposare le membra esauste dopo lotte intestine generate nell’impossibilità, tutta umana, di accettare che qualcosa di noi possa esserci non comprensibile. Il DVD di The Innocents è stato appena pubblicato in Italia da Dolmen con il titolo italiano Suspense. Lingue Inglese, Italiano Sottotitoli Italiano (non escludibili dalla versione inglese) Contenuti extra filmografie / galleria immagini pubblicitarie originali / galleria fotografica a colori

37


Così dolce... così perverso – Il cinema giallo di Umberto Lenzi

BREVE STORIA DEL GIALLO ALL’ITALIANA ANNI ‘70: DALLE ORIGINI AL DECLINO – seconda parte di Roberto Rippa Ci eravamo lasciati la scorsa puntata con i gialli diretti da Luciano Ercoli sottolineando come nella maggior parte dei gialli all’italiana i titoli fossero ammiccanti a promettere morbosità spesso non mantenute oppure fossero mutuati dai titoli dei film di Dario Argento. Ripartiamo ora da alcuni lavori di Umberto Lenzi, prolifico regista molto citato nell’articolo sui poliziotteschi, responsabile di alcuni tra i primi gialli del genere in Italia. Umberto Lenzi, grossetano di Massa Marittima, appassionato di cinema sin dagli anni dell’adolescenza, si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1956. È uno dei tanti registi molto attivi su più fronti: dall’avventuroso (Sandokan, la tigre di Mompracem, 1963, Sandok, il Maciste della giungla, 1964) allo spionistico (Superseven chiama Cairo, 1965, A 008, operazione Sterminio, 1965), dal western (Una pistola per cento bare, 1968) al cannibalico (Mangiati vivi, 1980, Cannibal Ferox, 1981) senza trascurare commedia bassa e apocalittico. Collabora con Dario Argento, allora ben lungi dal diventare il famoso regista che conosciamo, che lavora come sceneggiatore del suo Attentato ai tre grandi, film bellico – grande passione di Lenzi – del 1967. Al giallo approda nel 1969 con Orgasmo 1. Il film, che vede come protagonista l’americana Carroll Baker, già in Baby Doll di Elia Kazan (1956) e appena reduce da L’Harem di Marco Ferreri (1967) e da Il dolce corpo di Deborah (1968) di Romolo Guerrieri 2, nel ruolo di una vedova che si ritrova ad ospitare un giovane (Lou Castel) 3 e la di lui sorellina sporcacciona che la trascinano in un turbinio di sesso che, nel disegno del perfido Tino Carraro, dovrebbe farla impazzire. Ovviamente c’è di mezzo un’eredità ma l’apparentemente indifesa Carroll Baker ha a sua volta un piano preciso. Marco Giusti, nel suo Stracult 4, cita Lenzi che ricorda come il suo film fosse stato penalizzato proprio dal titolo in quanto, malgrado il successo di pubblico ottenuto, venne smontato dalle sale a causa del titolo a pasqua. L’anno seguente Lenzi si unisce allo sceneggiatore Ernesto Gastaldi (di cui abbiamo già parlato nello scorso numero per i gialli scritti con Sergio Martino) per Così dolce... così perversa che unisce la Baker a Jean-Louis Trintignant in una storia (il soggetto è del produttore Luciano Martino) che vede la protagonista insinuarsi nel rapporto tra Erica Blank 5 e Trintignant 6. Anche qui la ragione è un’eredità da conquistare, ognuno ha un suo piano preciso, nessuno è come sembra e la Baker è ancora più perfida che nel film precedente (nonché più nuda ancora per le copie estere, secondo un costume dell’epoca 7). Il film, a dispetto delle critiche negative, è un successo. Nel 1970 esce Paranoia, terzo film di Lenzi con Carroll Baker, con un cast che spazia da Anna Proclemer (ah, i tempi in cui gli attori di teatro si sostentavano con il cinema portando la loro arte in film non sempre all’altezza) a Jean Sorel e Marina Coffa. Anche qui la trama non di discosta troppo dai precedenti, con Sorel vittima prescelta di un complotto omicida ordito dalla coppia Baker-Proclemer e quindi assassino, con la Baker, della Proclemer. E proprio quando tutto appare chiaro, ecco che interviene un nuovo sconvolgimento della trama. Nel 1971 Lenzi cambia registro con Un posto ideale per uccidere, prodotto da Carlo Ponti, in cui una giovanissima Ornella Muti e Ray Lovelock sono due studenti danesi (!) ospitati da una ricca americana, Irene Papas (!!), che avendo appena ucciso il marito cerca di 38

Rossella Falk in Sette orchidee macchiate di sangue

scaricare la colpa sui due giovani 8. Umberto Lenzi dichiara di ripudiare il film in quanto completamente sbagliato, e non gli si può dare torto, con la sua ricca e seducente americana interpretata da un’attrice greca completamente fuori ruolo. In più lui voleva fare un film alla Easy Rider ma Ponti voleva un giallo e chiese di sostituire la droga, di cui i due ragazzi avrebbero dovuto fare uso, con un traffico di pornografia (!!!) in quanto il produttore non voleva che nella trama dei film da lui prodotti ci fossero elementi sconvenienti. Il film, va da sé, è un disastro, valido solo per motivi storici. L’anno seguente, il 1972, Lenzi si rifà dirigendo uno tra i suoi gialli più noti, Sette orchidee macchiate di rosso 9 in cui, su sceneggiatura sua e di Roberto Gianviti, alcune donne vengono trovate uccise in un albergo con una mezzaluna accanto al corpo. Non possiamo raccontare chi sia il responsabile degli omicidi per non rovinare la visione del film a chi volesse recuperarlo ma, contenendo una curiosità, lo citiamo in una nota 10. Un cast solido comprendente attori di teatro come Rossella Falk, Marina Malfatti e attori molto attivi all’epoca come Antonio Sabàto, Pier Paolo Capponi, Marisa Mell, completa un quadro felice. Secondo quanto dichiarato dall’attrice Gabriella Giorgelli in 99 donne 11, Nanni Moretti sarebbe un cultore della scena della sua morte, che avrebbe visto più volte. Umberto Lenzi non lo ama molto in quanto ritiene che avrebbe potuto essere molto migliore ma venne rovinato dalle continue ingerenze della produzione, ma è molto amato anche negli Stati Uniti, unico Paese dove fino ad ora è stato pubblicato in DVD. Qui il passaggio all’iconografia «argentiana», con i suoi omicidi graficamente più violenti, si è già compiuto. A sua volta si potrebbe pensare che il cinema di Argento sia debitore di quello di Guerrieri e Lenzi (e Bava) per i temi del trauma infantile o per quello della tara psichica come cause scatenanti di crimini. Ma, va detto, tutto ciò era già presente nel cinema di Hitchcock. Il regista abbandona per un attimo il giallo per dirigere Il Paese del sesso selvaggio (1972), primo film del filone cannibalico per lui, per poi farvi ritorno lo stesso anno con Il coltello di ghiaccio, in cui torna a dirigere Carroll Baker, responsabile della serie di omicidi con vittime alcune giovani donne. Nel 1974 dirige Spasmo, con Robert Hoffman e una spaurita Suzy Kendall 12 in cui il giovane Cristian (Hoffman) crede di essere perseguitato da 39


Spasmo

un assassino che lascia sulla sua scia una serie di morti. Lo segue nella sua fuga un’inconsapevole ragazza (la Kendall). Quando salterà fuori la verità, sarà troppo tardi per tutti. Spasmo si gioca con la presenza di manichini impiccati disseminati lungo tutto il film (un’idea di Lenzi) e riesce a tenere la tensione fino alla fine dimostrandosi meno scontato di quanto si potrebbe pensare leggendone la trama. Lenzi non lo ama molto e ne detesta addirittura il manifesto, che gli ricordava la pubblicità di un medicinale contro il mal di testa 13. Il tema psiconalatico, costante dei gialli del regista grossetano, è qui in primo piano. Vale la pena ricordare come il regista dissemini la sua cinematografia gialla con Umberto Lenzi, Joe Dante traumi infantili e tare psichiche ereditarie, elementi che giustificano i e Quentin Tarantino – spesso involontari – carnefici dei suoi film. Lenzi gira nel 1974 il suo ultimo giallo Gatti rossi in un labirinto di vetro in cui diverse donne vengono uccise e poi private di un occhio, cosa che rende molto facile l’identificazione dell’assassino. La trama ricorda quella che verrà utilizzata, opportunamente modificata, dieci anni dopo da Lucio Fulci per il suo Murderock (uccide a passo di danza). Lenzi non lo ama molto, il pubblico di più. Con questo film, il regista si stacca dal genere: la stagione del poliziottesco, che lo vedrà tra i più attivi e fulgidi fautori, è già iniziata 14. Nel prossimo numero: i gialli di Tessari, Fulci, Bava, le «Scream queen» e il declino del genere nonché le schede dei film citati in tutti i capitoli dell’articolo.

1 2 3 4 5

6 7

8 9 10 11 12 13 14

40

Il titolo del film avrebbe dovuto essere Paranoia, rifiutato dalla produzione che non voleva nel titolo una parola che richiamasse la parola noia. Il film è noto negli Stati Uniti proprio con il titolo pensato in origine. Il dolce corpo di Deborah (1968) diretto da Romolo Guerrieri, ossia Romolo Girolami, fu sceneggiato da Ernesto Gastaldi, anche autore del soggetto. Lou Castel, attore dal forte impegno politico, è stato molto attivo nel cinema d’autore italiano (Caro Michele, 1976, di Mario Monicelli, Nel nome del padre, 1972, di Marco Bellocchio, per citarne giusto due). È tuttora molto attivo in Francia. Prima edizione, novembre 1999, pagina 534. Sperling e Kupfer editore. Erica Blank, nome d’arte della veneta Enrica Bianchi, è stata protagonista di numerosissime pellicole negli anni ‘70. Dopo avere lavorato a lungo in teatro, anche con il marito Alberto Lionello di cui è vedova, ha lavorato molto per la televisione. Recentemente ha lavorato con Ferzan Ozpetek in Le fate ignoranti (2001) e Cuore sacro (2005). Il soggetto di Luciano Martino e la sceneggiatura di Ernesto Gastaldi sono fortemente debitori a Les diaboliques (1955) di Henri-Georges Clouzot. È lo stesso Lenzi a dichiararlo nel volume 2 della serie a lui dedicata da Nocturno Libri del 1996 (intervista a cura di Manlio Gomarasca), pagina 200: «Devi sapere che tutte le scene di Orgasmo le ho girate in doppia versione. La stessa inquadratura veniva fatta una volta con il lenzuolo e una volta senza». Qualche anno dopo, il costume di girare due versioni della stessa scena, una per il mercato italiano e una per l’estero, comprenderà anche scene pornografiche, dirette soprattutto al mercato francese. Il cast comprende anche Carla Mancini, attrice fantasma proveniente dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e presente, solo con il suo nome, in molti cast dell’epoca in quanto la presenza di persone provenienti del C.S.C. garantiva al film sgravi fiscali. Che non è una derivazione da Dario Argento, come molti ritengono, bensì si ispira a un racconto scritto da Cornell Woolrich, che nel 1942, con lo pseudonimo William Irish, scrisse il racconto da cui Hitchcock ha tratto The Rear Window (La finestra sul cortile, 1954). ATTENZIONE: la nota contiene elementi sulla soluzione della trama. L’assassino è un prete ma, trattandosi di un film italiano, ovviamente non cattolico bensì protestante. Di Manlio Gomarasca e Davide Pulici, Media Word Production, Milano, 1999, pagina 130. Attrice inglese già vista in L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento e in I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) di Sergio Martino. Marco Giusti, op. cit., pag. 723. Vedi Cinemino numero 2 (primavera–estate 2005)

IL CINEMA IN CASA

Ci sono paesi che hanno governi, che controllano emittenti televisive, che producono documentari, che alla fine non vengono trasmessi benché il tema sia di attualità, benché parli della storia del paese, benché racconti di uomini di stato che al paese hanno sacrificato la vita. Viene da chiedersi, innocentemente, a chi può dar fastidio, oggi in Italia, un documentario che tratta di mafia e di eroi italiani? Parliamo delll’esemplare caso, malauguratamente non IN UN ALTRO PAESE primo e non ultimo, di In un Italia, 2005 altro paese, documentario di Marco Turco presentato la In un altro paese viene pubblicato scorsa edizione del Festival in DVD il 7 marzo da Fandango del Film di Locarno nella (distr. Cecchi Gori) sezione Cineasti del presente. Il regista Marco Turco (1960) ha esordito nel cinema al fianco di Gianni Amelio lavorando sui set di Porte aperte (1990), Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). Cresciuto quindi al fianco di uno dei registi italiani più attenti all’attualità e che con sapienza è riuscito a mantenere viva quella via tutta particolare del cinema italiano che con Rosi, Petri e altri ancora, ha saputo raccontare il Paese sul vivo, nel presente, entrando con finezza e intelligenza nelle piaghe aperte senza facili moralismi o scontate prese di posizione. Il film-documentario ripercorre le lente ma «inevitabili» traiettorie parallele percorse da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, traiettorie che li

porteranno dalla procura di Palermo alla morte nei due attentati del 1992. Il racconto si basa sul libro dell’americano Alexander Stille, Excellent Cadavers, The Mafia and the Death of the First Italian Republic. Il regista, seguendo lo scrittore sui luoghi delle ricerche per la realizzazione del libro, incontra ex collaboratori dei due magistrati come pure la fotografa palermitana Letizia Battaglia, le cui immagini, realizzate in anni sulle scene di delitti di mafia nella capitale siciliana, ritmano le scene del film a ricordarci che storia attuale e passata si incontrano e confondo sullo sfondo dei rapporti che l’organizzazione mafiosa da sempre intesse con lo Stato. Donato Di Blasi

41


QUANDO C’ERA SILVIO Italia, 2006 Un film di Beppe Cremagnani e Enrico Deaglio In edicola unitamente al libro Berlusconeide dall’inizio di marzo allegato a «Diario» di marzo oppure nei negozi, distribuito da Flamingo Video.

Non sarà solo Nanni Moretti a uscire (nelle sale) poche settimane prima delle elezioni italiane con un film, dal titolo Il caimano su cui è mantenuto il più stretto riserbo Per informazioni: www.diario.it ma che si sa parlerà di Berlusconi. Uscirà infatti anche il documentario Quando c’era Silvio di Beppe Cremagnani e Enrico Deaglio, direttore di Diario. Il documentario racconta, al passato, dell’attuale Presidente del Consiglio, di colui che Beppe Grillo chiama «il portatore nano di democrazia», ossia di Silvio Berlusconi. Nel film, attraverso immagini spesso già dimenticate (o mai viste, considerato lo stato dell’informazione nella televisione italiana), si racconta tutto: Antonio Ingoria, pupillo di Paolo Borsellino, ricorda l’incontro tra Berlusconi e l’allora capo di cosa nostra Stefano Bontade, incontro organizzato dal braccio destro del Presidente

del consiglio (ha organizzato l’attuale campagna elettorale di Forza Italia) Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a 9 anni per concorso in associazione mafiosa nel 2004. Ma non è tutto, si parla anche del «kapò» dato al parlamentare tedesco Schulz, della claque organizzata da Berlusconi stesso per l’arrivo di Putin in Sardegna, del mafioso Vittorio Mangano, stalliere della scuderia del Presidente poi morto in carcere portando con sé i suoi segreti. E tanto altro. Documentazione scrupolosa e montaggio alla Blob (una scena in cui Dell’Utri dichiara che «la mafia non esiste, è un modo di essere, di pensare» e di «averla vista solo al cinema o sui libri» è seguita da una in cui Totò Riina dichiara: «Cosa Nostra? Non ho frequentato, non conosco, mai sentito parlare». Quando c’era Silvio si ripromette di raccontare una parte della storia d’Italia, una parte appartenente al passato. Roberto Rippa

Quando Silvio non aveva ancora paura dei comunisti

42

Ne abbiamo parlato nel secondo numero di Cinemino, in occasione dell’uscita di Inside Deep Throat, il documentario di Fenton Bailey e Randy Barbato legato alla sua genesi e realizzazione, e questa volta possiamo finalmente parlare anche dell’opera originale, visto che è stata di recente pubblicata da Dolmen Home Video nel DEEP THROAT formato più vicino a quelGola profonda, USA, 1972 lo originale (al tempo della sua uscita in Italia ne esisteRegia, soggetto, sceneggiatura vano più versioni, spesso riGerard Damiano (accreditato montate dal proiezionista). come Jerry Gerard) Parliamo di Gola profonda Musiche, montaggio (1972), il primo film pornoGerard Damiano grafico con, pur pretestuosa, storia divenuto non solo un Fotografia Harry Flecks grande successo ma anche un Interpresti principali vero e proprio fenomento di Linda Lovelace, Harry Reems, costume. Dolly Sharp, Bill Harrison È bene sgomberare subito il campo da ogni dubbio: Gola profonda è il più tipico dei film porno e questo lo si evince non solo dalle scene di sesso, ovvio, bensì dal fatto che se Linda Lovelace deve recarsi a un’orgia a casa della sua amica Helen, la vediamo uscire da casa e attraversare in tempo reale metà Fort Lauderdale (non in ora di punta, fortunatamente) per permettere al regista di raggiungere il giusto metraggio della pellicola. La storia è nota: Linda Lovelace (nel film il personaggio porta il nome della sua interprete a fingere un tono documentaristico. Del resto il film si apre con una citazione da Freud), malgrado i suoi tentativi (Dio solo sa quanti), ha problemi nel raggiungere l’orgasmo, cosa che la rende molto triste. Sarà un solerte dottore (il poi famoso Harry Reems, che in Italia giunse nel 1976 per girare Lettomania, commedia erotica con protagonista l’ex cantante sanremese Carmen Villani e Luna di miele in tre di Carlo Vanzina con Renato Pozzetto e Stefania Casini) a capire il suo problema: la poveretta ha il clitoride in fondo alla gola. La soluzione sarà ovvia e Linda, con la sua felicità faticosamente raggiunta, potrà andare a lavorare in una clinica del medico che l’ha curata. Girato nemmeno troppo male, il regista è il fantasioso ex parrucchiere Gerard Damiano (qui accreditato come Jerry Gerard), il film è

piuttosto esilarante (non involontariamente) e ha una colonna sonora fatta di pezzi famosi riarrangiati in chiave funky (notare per esempio l’irresistibile versione blaxploitation dell’Inno alla gioia dalla nona sinfonia di Beethoven, ora inno dell’Unione Europea, sui titoli di testa). La versione pubblicata da Dolmen dovrebbe avvicinarsi il più possibile a quella originale, cosa complicata da stabilire per un film prodotto con i soldi della mafia italo-americana e uscito in Italia in centomila versioni diverse. A completare l’opera, una lunga intervista all’ex pornodivo americano Eric Edwards, non presente nel film ma attivissimo all’epoca, che racconta il mondo del porno USA dei primi anni ‘70. Chi volesse integrare la visione di Gola profonda con il bel documentario Inside Deep Throat (in italiano Inside Gola profonda) edito in Italia da Cecchi Gori, sappia che il DVD italiano è afflitto da sottotitoli tradotti coi piedi. Un esempio per tutti: si parla della scelta di Linda Lovelace come protagonista per la sua capacità «to give head» – chi conosce l’inglese sa che è un’espressione che si riferisce al rapporto orale – e l’espressione diventa miracolosamente «per la sua capacità di muovere la testa», come se si trattasse di una ballerina classica... che tristezza! Roberto Rippa DVD regione 2 Editore Dolmen Home Video Lingue Inlgese, Italiano Sottotitoli Italiano per non udenti, italiano (non escludibili dalla versione inglese) Extra I giorni della gola profonda La storia di Gola profonda (solo testo) Il restauro Trailer Galleria fotografica 43


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.