NUMERO UNICO - ANNO 2023 PUBBLICAZIONE IN DISTRIBUZIONE GRATUITA - A.S.D. CICLISTICA FORTE DEI MARMI VERSILIA TURISMO | SPORT | TREKKING | GUSTO | TRADIZIONI
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Bellezza, Eleganza, Passione! “Bacci
Ph: Mario Zorrone
Numero Unico - A cura della A.S.D. Ciclistica Forte dei Marmi
Via Risorgimento, 1 - 55042 Forte dei Marmi (Lu) info@ciclisticafortedeimarmi.it - www.ciclisticafortedeimarmi.it
Responsabili di redazione: Francesca Bonin, Dino Venè
Progetto grafico e impaginazione: Gabriele Moriconi, Editografica - Pietrasanta
Stampa: Tipografia ABC - Firenze
La presente pubblicazione è distribuita gratuitamente.
Foto di copertina: Maurizio Stella
CUSTODI DELLA MONTAGNA un primo sentiero è stato tracciato di Mario Puppa
LE APUANE
Montagne selvagge a due passi dal mare di Ilaria Rosanie Emanuele Guazzi
CUSTODIRE LA MONTAGNA PER RITAGLIARSI UN FUTURO ECOSOSTENIBILE
di Marco Marando
LA RISCOPERTA DELLA BICICLETTA pedalare allunga la vita
di Marco Marando
SE NASCEVA FEMMINA SI INNESTAVA UNA “PULITORA”
di Giuseppe Bertellotti
DALLA FINESTRA DELLE SCUOLE ELEMENTARI AI MARI DEL MONDO, MA SEMPRE CON LA NOSTALGIA DEL PAESELLO
di Mario Leopoldo Figari
IL LUPO: UNA SPECIE SORPRENDENTE È TORNATA SULLE ALPI APUANE
di Paola Fazzi e Marco Lucchesi
SERAVEZZA E LA VERSILIA NEL 1840 NEI DISEGNI DELLA PITTRICE ELISA COUNIS di Andrea Tenerini
PER UNA MONTAGNA ACCESSIBILE Sulle ali dell’amicizia di Guglielmo Landi e Camilla Raffaetà
SOLSTIZIO D’ESTATE il festival di Pruno, Volegno e Cardoso dell’Associazione Raggi di Belen
L’OSTERIA LENCIO MEO l’estivo trait d’union degli anni ‘60 tra la montagna e la dolce vita in Versilia di Giuseppe Vezzoni
LA CHIESETTA DELLE BEFFE
Testo di Manola Pieruccioni - Foto di Alessandro Colle
IL CONVIVIUM
Versilia-Milano e ritorno Testo e foto di Claudia Tommasi
CICLI MAGGI
La corsa del piccolo velocipede Testo e foto di Max Dondini/Studiodellaluce
5 6 12 18 26 30 36 44 52 54 60 66 68 74
SOMMARIO VERSILIA
Ph: Mario Zorrone
CUSTODI DELLA MONTAGNA
Un primo sentiero è stato tracciato
La legge “Custodi della Montagna”, che abbiamo prima scritto e poi approvato in Consiglio regionale nel Febbraio 2022, rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di forte novità di questo mandato. Pensavamo a una forma di sostegno concreto e immediato alle aziende che decidevano di investire in aree che si stanno spopolando, nell’ottica di quella Toscana più forte e coesa che è al centro della nostra azione programmatica. Tante le aree interessate: dalle Apuane al Casentino, dalla Valtiberina alla Garfagnana all’Amiata, dall’Appennino pistoiese al Mugello, con il limite minimo dei 500 metri di altitudine.
Aun anno di distanza dall’approvazione della legge, possiamo ritenerci orgogliosi e soddisfatti degli esiti del bando, che assegna oltre 5 milioni di euro per sostenere l’avvio o la riorganizzazione di attività di piccole e medie imprese nei comuni montani. La legge prevede anche un contributo aggiuntivo, pari al 20%, nel caso in cui le imprese stipulino con il Comune un “patto” finalizzato alla tutela del territorio in ambito forestale, la cura del territorio in generale o attività sociali in favore della collettività.
Sono ben 81 le aziende della provincia di Lucca, con sede sopra i 500 metri di altitudine, che hanno ottenuto finanziamenti da 10 a 25 mila euro per un totale di oltre un milione di euro. Un risultato importante che colloca la nostra provincia al primo posto in Toscana, grazie anche all’attività di comunicazione del bando che ho portato avanti in prima persona assieme ai sindaci e alle associazioni del nostro territorio.
Dire che sono soddisfatto è poco. Un esito che speravo e che impegna la Regione a valutare la riproposizione di questa misura anche in futuro. E’ bene sottolineare che siamo consapevoli che non sarà certo sufficiente questa legge a risolvere tutti problemi, ma siamo convinti che possa rappresentare un passo in avanti e un segnale importante per questi territori. Intanto abbiamo messo in campo misure concrete per rivitalizzare l’economia e il tessuto sociale dei territori montani e delle aree interne, non attraverso sussidi bensì sostenendo il lavoro, le attività economiche, le attività sociali in favore delle comunità locali e la custodia del territorio, perché da molti anni, come è noto, perdura un
fenomeno di spopolamento delle aree montane: cittadini, soprattutto più giovani, si spostano verso grandi centri urbani. Per contrastare questo esodo e permettere a chi vuole di rimanere a vivere in questi territori, che hanno un grande valore anche in termini di difesa dell’ambiente e rappresentano una grande ricchezza per la Toscana, dobbiamo garantire l’adeguato accesso ai servizi ma soprattutto sostenere il lavoro, incentivando la creazione di nuove attività economiche
e commerciali. Come pure è necessario mettere in campo azioni per rivitalizzare il tessuto sociale e la cura del territorio.
La nostra montagna è un tesoro meraviglioso: è acqua e roccia, bosco e tradizione, pievi secolari e antichi castelli, borghi ed eccellenze gastronomiche, artigianato artistico e ospitalità. Ha un’anima antica e una vocazione moderna come luogo dove praticare sport, dove ritemprarsi dai ritmi sempre più serrati del vivere in città, è un luogo da abitare, da vivere e da difendere. Dobbiamo averne cura sotto il profilo ecologico, ambientale e sociale, ed è giusto valorizzarla e sostenerla anche in termini economici. E questa legge è una vera ambiziosa sperimentazione, una legge innovativa a livello na zionale, che vuole favorire tutti coloro che decideranno di scommettere sulle attività economiche, sulla custodia dei boschi, sulle attività sociali in favore delle comunità lo cali, su nuovi servizi gestiti in forma associata.
In questa legislatura abbiamo messo al centro temi dello sviluppo delle aree interne e montane, con l’istituzione di un’apposita commissione del Consiglio regionale, di cui faccio parte, che ha già avanzato diverse proposte sul lavoro e sui servizi, alcune a livello nazionale, altre a livello regionale e già recepite dalla giunta. Il nostro lavoro continua, tanti sono ancora i passi da fare per ridurre le diseguaglianze territoriali facendo sì che le aree interne e montane possano crescere allo stesso livello delle aree urbane e che tutti i cittadini abbiano le stesse possibilità indipendentemente dal luogo in cui vivono. Un primo sentiero, che lascia ben sperare, è stato tracciato.
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Ph: Maurizio Stella
di Mario Puppa
LE APUANE
MONTAGNE SELVAGGE A DUE PASSI DAL MARE
Quantevolte vi sarà capitato di chiedervi, mentre pianificate le vostre vacanze estive: “Mare o montagna”? Per gli indecisi, o per chi vorrebbe entrambe, la risposta è semplice. Le Alpi Apuane, nella Toscana nord-occidentale, sono un’affascinante catena montuosa che si affaccia sulla costa tirrenica, da Marina di Massa a Lido di Camaiore, con vette aguzze e bianche, colore derivato dal candido marmo al loro interno. Proprio per le sue montagne così aspre, assai diverse dal vicino Appennino, questo complesso orografico ha ricevuto l’appellativo di ‘Alpi’.
Le Apuane sono caratterizzate da alte vette (il Monte Pisanino è il più alto con i suoi 1947 m s.l.m.) e profonde valli (45 m s.l.m. nel punto più basso, nel fiume Frigido), grotte carsiche e doline, marmi e 250 geositi. La finestra tettonica al suo centro mostra formazioni geologiche varie e diversificate. Per quanto riguarda la mineralogia, le Alpi Apuane conservano circa 200 specie minerali, di cui 18 scoperte in questa regione montuosa.
La posizione geografica del massiccio, la sua esposizione e la diversa natura delle rocce determinano la presenza di ambienti quanto mai vari e contrastanti, che favoriscono la ricchezza floristica e faunistica del territorio. Le Apuane sono infatti una delle aree montuose più tipiche e originali della penisola italiana per la ricchezza degli ambienti e dei paesaggi che custodisce. Ne ha preso nota anche l’uomo che fin dall’antichità (e anche prima) si è stabilito in queste zone, lasciando qui tracce di notevole spessore e disseminando il territorio di importanti testimonianze storiche e culturali.
Il Parco Regionale delle Alpi Apuane
Dal 1985 le Alpi Apuane sono diventate un’area naturale protetta con l’istituzione dell’omonimo Parco Regionale. Il Parco, che dal 2015 è anche un Geoparco mondiale dell’UNESCO, mantiene il suo impegno nella conservazione e nella tutela del patrimonio naturale e culturale in stretto contatto con gli abitanti delle comunità locali situate nel suo territorio. Particolare attenzione viene data alle attività educative per giovani e adulti, nonché alla sensibilizzazione dei visitatori e degli abitanti del luogo sulle sfide e sulle ricche risorse turistiche.
In funzione di gestore di aree naturali protette, il Parco espleta il compito della pianificazione, dello studio e della valorizzazione del territorio. Nello specifico, l’Ente si prefigge obiettivi ambiziosi, affrontando tematiche attualissime e di ampio interesse. La difesa del suolo, tramite la preservazione della biodiversità e la stabilizzazione idrogeologica del territorio, è senza dubbio argomento di pianificazione e una delle principali finalità progettuali. L’approccio di coprogettazione si avvale del coinvolgimento diretto e attivo delle comunità locali e costituisce il metodo by default del Parco nel processo decisionale.
Una se pur veloce passeggiata all’interno dell’area protetta è sufficiente poi per percepire la grandissima variabilità di ambienti, responsabile dell’altissima biodiversità presente nel territorio. Basti pensare che nel solo comprensorio Apuano è presente quasi il 40% del totale delle specie vegetali ita-
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Testo di Ilaria Rosani e Emanuele Guazzi
[1]
liane, con un elevato numero di specie endemiche, cioè specie che vivono solo in queste montagne, in aree di distribuzione talvolta del tutto limitate. Anche il contingente faunistico ha le sue peculiarità, fra le quali spiccano il gracchio corallino, corvide simbolo del parco, l’aquila reale, presente con 3-4 coppie nidificanti, il muflone e il lupo, recentemente ricomparso sulle Apuane, dopo un’assenza di quasi cento anni.
Anche la promozione turistica del territorio Apuano è fra le attività del Parco. Lo sviluppo del turismo sostenibile, incentrato su attività ricreative diffuse e a basso impatto ambientale, è fortemente incentivato come strumento per la conoscenza e
diffusione delle particolarità e della ricchezza delle Apuane. Ad esempio, durante l’estate, le Guide del Parco organizzano escursioni e campi estivi per guidare i visitatori in sicurezza sulle vette, nelle valli e nei borghi di queste montagne. Il Parco ha aderito dal 2018 alla Carta Europea del Turismo Sostenibile (CETS) che rappresenta un metodo di governance partecipata con cui promuovere e strutturare le attività delle aree protette in ambito turistico. In questo modo, l’Ente Parco favorisce una stretta collaborazione tra soggetti interessati, tra cui gli operatori turistici locali, strutture ricettive e alberghiere, produttori locali e, ovviamente, le comunità locali.
Cosa sono i Geoparchi
Geoparchi mondiali dell’UNESCO sono aree geografiche singole, delimitate da un unico confine continuo, dove i siti e i paesaggi di valore geologico internazionale sono gestiti secondo un approccio integrato, riguardo la tutela, l’educazione e lo sviluppo sostenibile. Un Geoparco mondiale UNESCO valorizza il patrimonio geologico locale, in stretta connessione con quello naturale e culturale presente nella stessa area, al fine di accrescere la consapevolezza e la comprensione di alcuni fattori chiave oggigiorno affrontati a livello globale, quali l’uso sostenibile delle risorse della Terra, la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici e la riduzione dell’impatto dei disastri naturali. Proteg-
[1] Tramonto sulle Apuane
[2] Blocchi di marmo “Bardiglio” all’interno dell’area archeomineraria della Cappella (Seravezza)
[3] Una galleria delle miniere di argento vivo (ora inattive) a Levigliani
[4] L’arco di roccia del Monte Forato
gendo le risorse geologiche dell’area, si realizzano allo stesso tempo condizioni favorevoli alla nascita di imprese locali che puntano all’innovazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro e all’organizzazione di corsi di formazione di elevata qualità, così come si generano nuove fonti di reddito attraverso il geoturismo.
Il Parco Regionale delle Alpi Apuane fa parte della Rete Europea e Mondiale dei Geoparchi dal 2011 ed è un Geoparco mondiale UNESCO dal 2015. Affascinante complesso orografico, il Geoparco si caratterizza per le alte cime e le profonde valli, le grotte carsiche e le doline, i marmi e suoi geositi che testimoniano la sua eccezionale geodiversità. Esistono nove geopercorsi per scoprire le Apuane. Li trovate nei dépliant digitali al sito www.parcapuane.it o sui nostri dépliant dedicati.
Curiosità Apuane
Nelle prossime righe vi proponiamo qualche consiglio su cosa fare, anche in autonomia, sul versante marittimo delle Apuane. Sulla nostra pagina Facebook (Parco delle Alpi Apuane - Unesco Global Geopark), a partire da luglio, troverete invece il calendario delle escursioni organizzate dalle Guide Parco.
Nelle cave di Michelangelo
Nella piccola località di Fabbiano del comune di Seravezza si trova l’area archeomineraria della “Cappella”. Cava storica da cui, fino a buona parte del Novecento, si estraeva il marmo detto “Bardiglio” caratterizzato da un intenso colore grigio morato, con fasce spesso azzurro-chiare e ricorrenti sfumature bianche lineari.
La bellezza delle cave della Cappella è oggi esaltata anche dal panorama che si gode affacciandosi da
questo ripiano orografico, che spazia dalla pianura litoranea versiliese fino alla dorsale principale della catena delle Alpi Apuane: da Forte dei Marmi al Monte Altissimo.
Un breve ed agevole percorso di visita consente di osservare alcuni aspetti dell’attività estrattiva nel Monte della Cappella, come si è andata sviluppando nel corso del XIX-XX sec. Lungo la mulattiera di collegamento tra la pieve di S. Martino, Fabiano e il fondovalle di Riomagno e Seravezza, si trovano due imponenti bastioni di contenimento dei detriti di escavazione. La data del 1878, incisa su uno scheggione di pietra, indica probabilmente il periodo di costruzione di questi grandi muri a secco.
Il percorso passa attraverso due cave musealizzate in cui il visitatore potrà osservare le fratture naturali della roccia e i segni delle forzature e abbattimenti creati dall’uomo per estrarre il prezioso
Bardiglio. Un celebre “ospite” di queste cave è stato Michelangelo Buonarroti, che nel 1518 costruiva la strada carrabile nel fondovalle del Serra, da Seravezza fino alla base dei bacini di Trambiserra e della Cappella, favorendo così il successivo sviluppo estrattivo della zona. Dalla cava della Cappella ricavò i marmi per la facciata della chiesa di S. Lorenzo a Firenze, mai realizzata.
Maggiori informazioni sull’area archeomineraria sono disponibili al sito www.parcapuane.it o sui nostri dépliant dedicati.
Il Forato, monte leggendario Uno dei monti più iconici del Parco è indubbiamente il Monte Forato e il suo arco di roccia. Il geosito fa parte del gruppo montuoso delle Panie, di fama dantesca, nel settore centro-meridionale delle Alpi Apuane. Con una campata di 32 metri e
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[2]
[3] [4]
un’altezza di 26 metri, la cresta del Monte Forato è raggiungibile a piedi lungo percorsi escursionistici segnati (sentieri 6 e 110) in circa tre ore dal paese di Stazzema.
Il panorama dall'arco spazia dalla Versilia alla Garfagnana. Si tratta di un geosito particolarmente rappresentativo per la sua forma inconsueta causata dall'erosione delle piogge e delle correnti, ma anche dovuta all'azione del vento. Questi agenti atmosferici, a partire dalle fratture presenti nella roccia, hanno via via allargato fori nella parete rocciosa, formando così la struttura visibile oggi. Si ipotizza che l'arco possa rappresentare il resto di un condotto carsico profondo portato in superficie con il sollevamento dell'aerea apuana e poi demolito dall'erosione. In futuro, l'arco crollerà, ma altre "finestre" potrebbero aprirsi.
Alcuni racconti popolari trattano l’origine di questa singolarità morfologica. In Garfagnana è diffusa la leggenda che lo vuole formato dall’urto del diavolo in volo contro la montagna, dopo aver ricevuto un sonoro ceffone da S. Pellegrino eremita. In Versilia invece, l’arco diviene un miracoloso passaggio apertosi nella roccia, per consentire alla Sacra Famiglia di attraversare le Apuane e sfuggire così ai soldati di Erode, dopo la fuga in Egitto.
dettagli della leggenda e altre storie apuane sono disponibili sui nostri dépliant. Si consiglia di munirsi di attrezzatura adatta (scarponi da trekking, vestiti traspiranti). In estate si consiglia di portare con sé almeno due litri di acqua. Per chi volesse raggiungere l’arco del Forato con l’aiuto di una guida, potrà trovare l’elenco delle Guide Parco al sito www.apuaneturismo.it.
Lungo la Linea Gotica
La Linea Gotica è un’opera difensiva fortificata realizzata dell’esercito tedesco durante il secondo conflitto mondiale, e si estendeva dal versante tirrenico della provincia di Massa-Carrara attraverso l’Appennino fino al versante adriatico della provincia di Pesaro e Urbino. Teatro di barbari eccidi di civili e di intensi scontri tra i reparti nazifascisti e le truppe degli Alleati, la Linea Gotica è diventata oggi un cosiddetto “Sentiero di Pace” che promuove la bellezza delle montagne Apuane, ma soprattutto itinerari di conoscenza e di memoria di questi tragici eventi.
Il Parco, grazie anche al contributo di numerose associazioni e soggetti, ha sviluppato e predisposto una decina di sentieri che attraversano trincee e luoghi di avvenimenti storici cruenti, come l’ecci-
[5] Le doline della Carcaraia ben evidenziate dal manto nevoso
[6] Il muflone è uno degli animali presenti nell’area protetta con un cospicuo numero di esemplari
[7] Le cime delle Apuane offrono visioni suggestive anche in occasione di nuvole basse
dio di Sant’Anna di Stazzema. L’escursione ad anello che ripercorre luoghi della “Zona Bianca” di Stazzema (ossia località ritenuta sicura dai tedeschi per accogliere sfollati) racconta gli avvenimenti del 12 agosto 1944, giorno in cui 560 civili furono barbaramente uccisi dai soldati nazifascisti. La visita tocca diversi luoghi del paese, tra cui la piccola chiesa di Sant’Anna (dove furono trucidati 132 innocenti), il Monumento Ossario (una torre in pietra realizzata su progetto dell’architetto Tito Salvatori) e il Museo Storico della Resistenza, in cui il visitatore potrà notare l’evidente rapporto spaziale tra le esposizioni interne e il paesaggio circostante.
Maggiori informazioni sulla Linea Gotica sono presenti al sito www.parcapuane.it o sulle nostre brochure dedicate.
10 Le Apuane - Montagne selvagge a due passi dal mare fratelli IMBIANCATURA VERNICIATURA STUCCHI RESTAURI DECORAZIONI Via Barcaio 92/ E 55045 Pietrasanta (LU) Tel 0584 266084 Fax 0584 747692 fllimicheli@alice.it [5] [6]
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CUSTODIRE LA MONTAGNA, PER RITAGLIARSI UN FUTURO ECOSOSTENIBILE
Marco Marando
Le Apuane sono un territorio antropizzato da secoli, che nel tempo ha fatto registrare un calo inarrestabile della popolazione arrivando a contare oggi solo alcune famiglie. Caratteristiche pedologiche sfavorevoli, come la natura carsica dei suoli, che rendeva difficile l’approvvigionamento idrico, o come l’accentuata pendenza dei versanti, che lasciava in ombra le vallate più anguste per gran parte della giornata, hanno influito sulle scelte dell’uomo nell’aspro ambiente di montagna, soprattutto nel campo dell’agricoltura, da sempre ridotta ad un ruolo di marginalità e di sussistenza. Intuizioni grandiose come terrazzamenti, pagliai, le carbonaie, sono ammirevoli esempi di come l’uomo non si sia però mai tirato indietro, ma abbia sempre cercato di adattarsi ad un ambiente che lo penalizzava fortemente. Per quanto concerne l’organizzazione delle attività tutto seguiva un iter che derivava dall’esperienza millenaria maturata sul campo. La giornata iniziava all’alba e si concludeva inesorabilmente al tramonto, come sempre. In questo contesto sembra che nessuno avesse fretta, anche se poi ogni cosa veniva fatta nei tempi giusti; il contadino non ha bisogno dell’orologio, vive in sintonia con la natura: “Basta fare quello che c’è da fare e seguire il lento cammino delle ombre: così facevano nostri vecchi”. Lo racconta Massimo, pastore agricoltore dell’antico alpeggio di San Luigi (m 870), un pugno di case posto a ridosso del M. Palodina (m 1171), nella media Valle del Serchio.
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di
[1] Antichi terrazzamenti evidenziati da una nevicata alle pendici dei monti Procinto e Nona - Foto di Marco Marando
[2] San Rossore. Pacifico con l’asinella Nellina - Foto di Marco Marando
[3] Coltivazione di patate di montagna a Campo all’Orzo. Sullo sfondo la Pania della Croce - Foto di Angelo Lunardi
Fino alla seconda guerra mondiale gli approvvigionamenti di vettovaglie e di altre cose avvenivano ancora a spalla, utilizzando le mulattiere e i sentieri che mettevano in comunicazione le piccole borgate d’altura con centri di fondovalle; certe volte occorrevano parecchie ore di cammino e le Marginette (ovvero le piccole cappelle in muratura poste lungo il sentiero), offrivano un riparo sicuro. Per avere un miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie rimaste tenacemente ancorate alla terra dei propri avi, bisogna attendere gli anni Ottanta del secolo scorso, quando le strade e la luce elettrica raggiungono i nuclei abitati più disagiati: è un cambiamento epocale perché significa poter disporre dell’acqua calda in casa! Gli effetti della modernità che avanza sono ben visibili: l’automobile, la televisione e il computer diventano indispensabili anche quassù, benché nel loro insieme finiscano con l’inquinare il prezioso bagaglio delle certezze su cui si basava la fragile società contadina di altura. Quei forti legami trasversali, che nel tempo hanno realizzato ammirevoli forme di organizzazione sociale basate sull’atavica necessità del sostegno e della solidarietà tra famiglie, in questo nuovo contesto finiscono per vedere incrinata la loro ragione d’essere. L’invecchiamento della
popolazione e l’arrembante esodo dalle campagne, alla ricerca di una vita “migliore”, che aveva raggiunto l’apice nel dopoguerra, completano poi questo processo di demolizione, accentuando la discrasia fra il residuale mondo contadino e quello delle emergenti realtà urbane. Coloro che sono rimasti a presidiare il territorio, hanno sviluppato un rapporto speciale con la terra di origine.
...“IL RITORNO ALLA MONTAGNA PER RESTARE, PER COSTRUIRE
STILI DI
Anche Pacifico (Cardoso, comune di Stazzema), Pacì per gli amici, amava profondamente la località San Rossore, antico sito di alpeggio situato a m 839 di altitudine e in vista della Cima Nord del caratteristico M. Forato. Aveva conosciuto la località da bambino, quando suoi genitori salivano su per la transumanza. “Avevano una vacca e in estate salivano su per tagliare il fieno, che sarebbe poi servito per l’inverno: ora sono cresciuti molti alberi, ma allora c’erano tanti prati; quassù non rimaneva nessuno, una volta faceva freddo e ci nevicava anche. Le uniche presenze erano quelle degli uomini che salivano per tagliare il legname necessario per mettere a punto le carbonaie. Poi, crescendo, è pian piano scoccata la passione per l’agricoltura. Mia moglie saliva con figli in estate e ci rimaneva per tre mesi circa. Io invece salivo a sera, dopo otto ore di lavoro in cava e un paio di ore al terreno di casa: era un sacrificio che facevo volentieri perché stare all’aria aperta mi piaceva”. Fisico asciutto e gran lavoratore, più
CHE PONGANO AL RIPARO DALLA FRETTA"...
[3]
agricoltore che pastore, il Pacì aveva anche le idee molto chiare in tema di ecologia, tanto da ricorrere volentieri a soluzioni innovative: “Quando sono venuto in San Rossore nel 1978, non c’erano alternative, per ottenere la luce occorreva servirsi del generatore a benzina. Poi mi capitarono dei pannelli fotovoltaici usati, alimentati a batteria, e ad oggi sono più di trent’anni che li uso! Ma non è finita, mi sono procurato anche un’elica che mi rende 12 volt. Ecco, l’eolico è un settore poco sfruttato per ottenere energia pulita. Il colle che dalla Fania va fino all’Orzale sarebbe adattissimo per sfruttare le correnti ascensionali, con cui alimentare tutto il paese!”.
E’ proprio vero, tante cose si potrebbero fare se l’agricoltura recuperasse un po’ dell’importanza che merita, tanto più in un momento storico come quello che stiamo vivendo e nel quale si è fatto lar-
Marco Marando, autore dell’articolo, ha trattato e approfondito temi legati al territorio apuano (le tradizioni, i mestieri, gli incontri, la storia, il cammino, la sicurezza in montagna) in molti suoi libri. In particolare segnaliamo tre sue opere che ha di recente aggiornato e anche arricchito di nuovi contenuti: “Sui sentieri delle Alpi Apuane per riscoprire il cammino dell’uomo”, prima edizione 2006, riedizione 2017; “Raccontando le Apuane”, per ragazzi, prima edizione 2009, riedizione 2020; “Apuane in Trekking”, prima edizione 2010, riedizione 2022.
go tra i giovani, sia sulle Alpi che sugli Appennini, il desiderio di una vita più libera, nel rispetto della natura e dei suoi cicli; in due parole il concetto di qualità della vita si è ribaltato di nuovo, un controesodo in piena regola, ma questa volta con le credenziali giuste, perché dopo aver “saggiato il peggio”, si è in grado di ridisegnare la propria vita senza pentirsi della scelta fatta. Non è durata più di cinquant’anni, infatti, l’illusione di una vita migliore nelle piane costiere, dove si è velocemente affermato un nuovo modello di vita, non più indissolubilmente legato al ciclo delle stagioni. Mezzo secolo di storia vissuta inconsciamente col piede
sull’acceleratore, fra esigenze sempre più nuove e irrinunciabili, per non ritrovarsi tagliati fuori dal resto del mondo.
“Il ritorno alla montagna per restare, per costruire nuovi stili di vita che pongano al riparo dalla fretta – come asserisce l’antropologo Annibale Salsa nel suo volume “Il tramonto delle identità tradizionali - spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi”
- può diventare una prospettiva concreta e percorribile per le nuove generazioni”.
In effetti, questa inversione di tendenza sulle Apuane è già in atto, grazie ad alcuni giovani che hanno maturato nel tempo progetti di agricoltura
sostenibile, di raccolta e lavorazione delle castagne con produzione di farina, di riscoperta di semi dimenticati, come grani antichi, il frumento dei nostri avi che un tempo, con i suoi inconfondibili appezzamenti di terreno, costituiva l’emblema del paesaggio agricolo. Degna di grande interesse è anche la coltivazione di specie orticole autoctone, come il cavolo frascone, entrato a buon diritto nel repertorio regionale delle specie erbacee. Questo ortaggio, da sempre utilizzato per l’alimentazione del bestiame e marginalmente per quella umana, di recente ha trovato ampi consensi per la preparazione di zuppe e minestroni (“intruglia” o “incavo-
Custodire
ritagliarsi un futuro ecosostenibile 15 14 Marco Marando
la montagna, per
NUOVI
VITA
[2] APUANE IN… TREKKING Marco Marando Marco Marando APUANE IN… TREKKING NUOVA EDIZIONE AGGIORNATA AMPLIATA MARCO MARANDO perSuisentieridelleAlpiApuane riscoprireilcamminodell’uomo capitoli tema 43 Escursioni Edizione aggiornata un nuovo Capitolo… cammino continua…
[4] Un metato nella zona di Vallico di Sopra - Foto di Marco Marando
[5] Incisioni rupestri e pennati raccontano della presenza dell’uomo in un lontano passato - Foto di Francesco Felici
[6] Alpe di Puntato. Occorrono tanta fatica e passione per dissodare terreni - Foto di Marco Marando
[7] Ultimi pagliai nel Camaiorese in una foto del 2004 - Foto di Marco Marando
lata”) ed ha trovato un habitat congeniale alla sua diffusione in alcuni comuni dell’Alta Versilia. Da queste evidenze di lavoro in montagna sono nate le aziende BIOEROICHE, che cozzano giornalmente con difficoltà di varia natura, ma da superare se abbiamo a cuore l’unicità del territorio.
Un’ulteriore spinta potrà arrivare dal turismo rurale, molto importante nell’ambito familiare perché capace di integrare il reddito da lavoro strettamente agricolo: ne fanno parte gli agriturismi e le aziende agricole, attorno ai quali si muovono flussi turistici d’oltralpe, da sempre molto attratti dal binomio arte/natura. Queste strutture dovranno diventare sempre più un punto di riferimento attorno o vicino ai quali disegnare una rete di mulattiere e sentieri storici, non troppo impegnativi e adatti a tutti. Non si tratta unicamente di rigenerarsi nella natura, lontani dai rumorosi centri abitati di fondovalle, ma soprattutto di andare alla scoperta di un patrimonio culturale di inestimabile valore, costituito da marginette, metati, mulini, pievi, ponti in pietra, fino a spingersi nella storia più remota del territorio, dove su pietre e massi il
linguaggio misterioso e affascinante delle incisioni rupestri racconta di presenze umane e sacralità. Un progetto di idee e del fare che si sposa a meraviglia con gli intenti del Sentiero Alta Versilia (SAV), un diverso modo di fare turismo attraverso la valorizzazione del proprio territorio con tutte le sue peculiarità, storiche, culturali e alimentari.
Simone Battistini (Retignano, comune di Stazzema) è un giovane contadino che ha ereditato la passione per la ruralità dal nonno: “Anche se è difficile andare avanti, il bello sta nell’idea di produrre le cose da soli e di essere se stessi, giorno dopo giorno” La sua grande passione è andare a ricercare specie orticole dimenticate: “Ho sempre avuto grande interesse per le specie orticole, i semi e i frutti osannati dai vecchi del paese e delle zone limitrofe. Trovarli e provare a coltivarli è un modo per rispettarne la memoria, come il “Pastinocello”, di cui Francesco Felici (Cardoso, Stazzema) risulta coltivatore Custode; si tratta di una carota selvatica che si può trovare nei terreni a mezzacosta del circondario e che insieme alle castagne ha consentito agli abitanti di Sant’Anna di Stazzema di sopravvivere in tempo di guerra”.
Simone è il prototipo del contadino moderno non solo agricoltore, ma anche Guida Ambientale Escursionistica. “Eh sì – risponde ad una mia precisa domanda Simone - ho fatto il corso nel 2007 perché la nostra idea è che il contadino di oggi deve conoscere il territorio e la sua biodiversità: è un operatore a 360° che coltiva, vive ed esercita il ruolo di Educatore Ambientale” “Anche perché – interviene la sua compagna Laura Benedetti, anch’essa Guida Ambientale Escursionistica a partire dal 2005 – noi siamo anche Fattoria Didattica e quindi dobbiamo partire da una solida base di conoscenze e comunicazione. La Fattoria Didattica è nata con l’idea di mostrare un’alternativa di vita ai bambini che sono ogni giorno sottoposti a ritmi stressanti e per quali il contatto con la natura è sempre più lontano. La nostra non è una visita alla fattoria, ma un’esperienza in cui i bambini non solo guardano, ma “fanno”; per esempio laboratorio del pane, del formaggio, orto (semina, raccolta, a seconda del periodo), passeggiate con l’asino, cura degli animali della fattoria, costruzione di spaventapasseri, storie nel metato”. Un binomio perfetto, questo di Simone e Laura,
entrambi impegnati nella difesa del territorio e nel suo recupero culturale.
Tra giovani di cui stiamo parlando c’è anche chi è partito da zero, come il massese Rayan Ciaglia, che proveniva da varie esperienze lavorative, prima di accarezzare il sogno di ristrutturare un rudere a circa m 1000 di altitudine nella zona dell’antico alpeggio di Puntato, un piccolo gioiello incastonato tra i monti Corchia, Pania della Croce e Freddone. Con l’aiuto tecnico e pratico di un paio di persone, Libero e Dario (ma anche Ivo, per la grande competenza nella frutticoltura), oltre al sostegno della madre per la consistente parte economica, la storia è andata a buon fine. Dopo essere rientrato nel PSR, ovvero il Piano Sviluppo Rurale, Rayan ha ottenuto il finanziamento. “Questa iniezione di liquidità è arrivata proprio nel momento giusto, quando le finanze erano quasi esaurite: ho potuto così acquistare il moto coltivatore, le cisterne per raccogliere l’acqua, i pannelli fotovoltaici, un impianto mini eolico di 1,5 KW di potenza, lo spaccalegna, tutte cose che mi hanno consentito di porre in essere la sospirata Azienda Agricola Biologica Alpe di Punta-
to; un luogo che si presta benissimo per accogliere le mie passioni orticole e frutticole. E finiti lavori della casa, ho cominciato a dissodare terreni, a potare gli alberi, a mettere le arnie per le api, a piantare le patate e il cavolo frascone, oltre che creare un frutteto con antichi cultivar Quello che sta alla base del mio progetto è l’autosostentamento rigorosamente ecosostenibile, che è possibile ottenere quando si riesce a produrre qualcosa: una filosofia di vita che cerco di spiegare ai piccoli ospiti e ai numerosi escursionisti che vengono a trovarmi nel corso dell’anno”.
Rayan aveva nel cassetto anche un altro progetto, quello di coltivare il luppolo per produrre la birra.
Tramite il Birrificio La Staffetta di Calci, nella cui sede si fa didattica, si organizzano eventi, degustazione, corsi per imparare l’arte della birra, Rayan si è messo in contatto con un vivaista di Parma e in base alle caratteristiche pedologiche e climatiche dell’Alpe di Puntato ha acquistato quattro varietà di luppolo di provenienza statunitense: Cascade, Centennial, Chinook e Willamette, che si sono ambientate e hanno proliferato bene, offrendo un ottimo raccolto. Il Birrificio La Staffetta ha poi
utilizzato i frutti freschi (opportunamente messi sotto vuoto per l’invio al laboratorio artigianale) e l’acqua di Puntato per ottenere un prodotto speciale: birra bionda di alpeggio, con un retrogusto leggermente amarognolo e una gradazione alcolica leggera, 5.5 per la bottiglia da 50 cc: un altro sogno che si realizza nell’habitat unico e ricco di storia dell’Alpe di Puntato.
Pacifico ci ha lasciato due anni fa. Nel rileggere suoi pensieri mi pare di vederlo, con quell’aria scanzonata a San Rossore, mentre accarezza l’asinella Nellina, che gli teneva compagnia nelle giornate di solitudine. L’Azienda e i sogni di Pacì sono portati avanti dalla figlia Silvia e dal marito Massimo che se ne sono fatti carico con passione e orgoglio. Anche la moglie di Pacì, Siria, cerca di dare una mano, come ha fatto per tanti anni accanto al marito, colonna portante come lo sono da sempre le donne di montagna, tenaci e volitive come poche, capaci di districarsi fra le mille difficoltà della vita contadina, che non ammette pause.
Accanto ai contadini del passato, gente solida e capace di risolvere con intuizioni e piccole invenzioni giornaliere problemi che via via si presentavano, ci sono oggi i giovani e meno giovani che hanno capito il senso più profondo della vita: essi sono a tutti gli effetti dei presidi territoriali, meritevoli della massima considerazione. Eroi inconsapevoli, che il fato sembra avere scelto come ultimo baluardo di una cultura contadina frettolosamente dimenticata.
E’ di questo avviso anche l’antropologo Annibale Salsa che annota: “Dopo la scoperta delle montagne in chiave di esplorazione alpinistica, dopo la ricerca spasmodica dei primati tecnico-sportivi, dopo una visione tendente a fare delle terre alte un residuo “deserto verde”, credo sia giunto il momento per ripensare il ruolo dell’uomo quale presidio territoriale e quale promotore di un nuovo paesaggio culturale”.
AI
SONO OGNI GIORNO
A RITMI STRESSANTI E PER I QUALI IL CONTATTO CON LA NATURA È SEMPRE PIÙ LONTANO.”....
...“LA FATTORIA DIDATTICA È NATA CON L’IDEA DI MOSTRARE UN’ALTERNATIVA DI VITA
BAMBINI CHE
SOTTOPOSTI
Custodire la montagna, per ritagliarsi un futuro ecosostenibile 17
16 Marco Marando [4]
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LA RISCOPERTA DELLA BICICLETTA PEDALARE PER ALLUNGARSI LA VITA
L’uso della bicicletta in Italia, come mezzo preferito per spostarsi, ha seguito un iter che è quantomeno contraddittorio. Negli anni sessanta del secolo scorso, infatti, quando la nazione stava ridisegnando con rinnovata speranza il proprio destino, l’italiano medio ha frettolosamente messo da parte la bicicletta, l’unico mezzo che prima del boom economico poteva permettersi, per inforcare la vespa e poi le prime utilitarie, come la Cinquecento e la Seicento. Per anni la vendita delle auto ha conosciuto una crescita costante e progressiva, affiancata poi da motori e motorini, staccando enormemente la bicicletta, il mezzo ecologico per eccellenza. Nonostante l’enorme potenzialità paesaggistica del nostro paese, la salubrità dell’aria, l’estensione di vaste aree
pedalare per allungarsi la vita 19 18
di Marco Marando
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[1] L’atleta Emily Joy Newsom all’attacco nella zona delle Crete Senesi della corsa ciclistica “Strade Bianche” 2022 - Foto di Marco Marando
boscate e un tessuto culturale grandioso, la coscienza ambientale ha faticato ad affermarsi ed è solo in questi ultimi anni che è andata a buon fine quell’inversione di tendenza cominciata anni addietro con la comparsa dei primi agriturismi. Il mangiar bene e il mangiar sano, una prerogativa che non ha eguali nel resto del mondo, hanno pian piano fatto capire agli italiani come cibo e natura fossero in sintonia e che, in un contesto privilegiato come quello delle campagne, venisse spontaneo spostarsi in bicicletta, come da tempo fanno gli stranieri d’oltralpe, i veri apripista di questa nuova e salutare tendenza. Anche le marine si prestano a percorsi invitanti, corroborati dal profumo dei pini e del mare. Località come Forte dei Marmi, Pietrasanta, Viareggio, Castiglioncello, Marina di Cecina, Marina di Castagneto, fino a deviare sul Viale dei Cipressi che da San Guido conduce a Bolgheri, tanto per rimanere in Toscana, sono percorsi amati sia dai cicloamatori che dalle squadre di ciclismo durante la preparazione invernale.
E nel 2011, anche per effetto della crisi e del caro benzina, avviene il sospirato miracolo, il sorpasso della vendita delle biciclette su quella delle auto!
Certo, siamo ancora lontani dai numeri europei, ma la sfida è lanciata e a giovarsene è sicuramente la qualità della vita, soprattutto nelle città. Diversi studi scientifici hanno posto in evidenza numerosi benefici della pratica regolare dell’andare in bicicletta, che come il cammino, è un’attività
aerobica, e quindi avviene in presenza di ossigeno. A trarre vantaggio dalla sua pratica è innanzi tutto il sistema cardiocircolatorio, ma anche l’umore in quanto diminuiscono lo stress e il peso; un’attività svolta con regolarità porta anche a rafforzare la muscolatura e a migliorare la qualità del sonno.
La riscoperta della bicicletta passa anche attraverso l’affermazione di una nuova sensibilità orientata verso le problematiche ambientali; questo sembra emergere da alcune scelte in chiave di mobilità sostenibile e alternativa. Quando, nel 2018, con il voto unanime dei 193 membri del Consiglio, le Nazioni Unite hanno istituito la Giornata Mondiale della Bicicletta, si è inteso dare un segnale forte per promuovere sempre più l’uso della bicicletta, mezzo ecologico utile per la salute della persona e degli spazi attraversati, a cominciare dalle grosse città, dove il pro-
blema dell’inquinamento atmosferico appare di difficile soluzione in tempi relativamente brevi.
Un altro input è arrivato dal Governo Italiano nel 2020, durante la graduale riapertura alla vita e alla circolazione, dopo mesi di confinamento in casa a seguito della Pandemia; il bonus monopattino e il bonus bicicletta hanno stimolato la gioia del muoversi all’aria aperta, sia utilizzando veicoli a pedalata assisitita, sia quelli a pedalata muscolare. Sono però le città più industrializzate e urbanizzate a fare conti con le maggiori concentrazioni di gas serra, che oltre a rendere nociva l’aria, incidono fortemente sul surriscaldamento globale. La riqualificazione urbana passa inevitabilmente attraverso progetti innovativi e tecnologici d’avanguardia, che abbiano a cuore la salute dei cittadini. A Milano, per esempio, sta per essere varato un interessante progetto che dovrebbe essere completato nel 2030; si tratta della “MiMo”,
[2] Immersa in un paesaggio da sogno, la strada rurale che da Montaperti conduce a Siena è una suggestiva sfida sia per ciclisti professionisti che per i cicloamatori - Foto di Marco Marando
[3] Lo splendido Viale dei Cipressi di Bolgheri frequentato spesso sia da cicloamatori che da squadre di ciclismo in allenamento Foto di Marco Marando
una ciclabile di 15 Km che unirà Milano a Monza; parallela a questa verrà disegnata una via per il trasporto pubblico, il tutto ombreggiato da 5000 alberi e prati in fiore: è stato calcolato che si avrà una significativa riduzione delle emissioni di CO2 di ben 1000 tonnellate e un passaggio di 20000 auto in meno al giorno!
Il segno inequivocabile che qualcosa stia realmen-
te cambiando nelle politiche ambientali delle città sono le postazioni di bike sharing, ovvero della bicicletta condivisa a noleggio, uno strumento di mobilità sostenibile messa a disposizione delle amministrazioni che intendono aumentare l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici, riducendo il numero di quelli privati. Un vero boom che si è scatenato all’indomani della pandemia, portando velocemente l’Italia al quarto posto nel mondo per numero di sistemi di bike sharing, dopo Cina, Stati Uniti e Germania.
Un’altra realtà a parer mio forse più significativa è quella del bike friendly, ampiamente sperimentata soprattutto nelle città del Nord Europa, dove assai prima che in Italia è partita la campagna in favore dell’ecosostenibilità dei trasporti, in alternativa ai mezzi pubblici di superficie come tram e bus, e a quelli sotterranei (metropolitane). Si pensi che sia a Copenaghen che a Utrecht, le due città
europee più virtuose in questa speciale classifica, il 60% degli abitanti si sposta regolarmente in bicicletta con ogni tempo (vento, pioggia, freddo), sia per studio che per lavoro, il doppio di Bolzano che guida la classifica del comparto specifico del cicloturismo in Italia. In queste città del Nord l’uso della bicicletta, favorito anche da un’orografia favorevole, caratterizzata da pianure e pendenze modeste, è nettamente il mezzo più usato e più veloce, lungo le numerose piste ciclabili dedicate e dotate di infrastrutture al servizio del cittadino. Altre città sono sempre più orientate verso l’uso della bicicletta propria come Amsterdam, Eindhoven, Malmo, Oslo, Helsinki, Strasburgo, Bordeaux, Anversa, mentre Milano, pur avendo investito in questo settore più delle altre città italiane, segue ancora a debita distanza il “treno” delle città europee.
La città olandese di Utrecht vanta anche un al-
Pedalare per allungarsi la vita 21 20 La riscoperta della bicicletta
...ANCHE LE MARINE SI PRESTANO A PERCORSI INVITANTI, DAL PROFUMO DEI PINI E DEL MARE. LOCALITÀ COME LA VERSILIA, CASTIGLIONCELLO, MARINA DI CECINA, MARINA DI CASTAGNETO, FINO AL VIALE DEI CIPRESSI CHE DA SAN GUIDO CONDUCE A BOLGHERI...
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tro piccolo record, che la dice lunga sull’impegno delle amministrazioni del Nord Europa per agevolare la circolazione di cittadini e turisti in sella ad una bicicletta. In questa antica città è stato realizzato infatti il più grande parcheggio coperto di biciclette al mondo, con 12.500 stalli e aperto in totale sicurezza 24 h su 24.
Un altro tassello non meno importante e che ha attratto l’interesse delle amministrazioni nei primi anni Novanta è costituito dal recupero di vecchi tracciati ferroviari dismessi; ad oggi sono 950 in Italia i chilometri tornati a nuova vita sotto forma di green ways. Favoriti da una planimetria prevalentemente pianeggiante e con pendenze moderate, questi “nuovi” percorsi che in qualche caso si affacciano sul mare, offrono paesaggi mozzafiato, andando ad arricchire una viabilità alternativa e sostenibile, percorribile in bicicletta, ma anche a piedi e a cavallo. Un patrimonio di inestimabile valore che nella riqualificazione eredita anche opere massicce come ponti e gallerie, costruite per sopportare carichi ben più pesanti di quelli rappresentati dal passaggio delle biciclette.
Per incentivare l’uso di questo mezzo e strizzare l’occhiolino all’ambiente e alla propria salute sono state promosse in questi ultimi anni campagne quantomeno originali: è il caso di 20 sindaci del Trevigiano che hanno coinvolto le aziende del territorio ed i loro dipendenti per varare l’operazione bike to work. Tramite un’apposita app si
[4-5] Greve in Chianti 2016: manifesti internazionali di eventi analoghi all’Eroica - Foto di Marco Marando
[6] La “green way” di Arenzano - Foto di Marco Marando
conteggiano i chilometri percorsi da coloro che si recano in ufficio in bicicletta e che daranno diritto alla concessione di buoni pasto.
Bike sharing, bike friendly, piste ciclabili, green ways, bike to work, sono tanti modi e iniziative in favore della diffusione della bicicletta, un mezzo di trasporto ideale e sostenibile. In Italia non abbiamo una vera cultura delle due ruote, mancano le corsie preferenziali e le aree di sosta. Le città non
sono attrezzate e spesso si trasformano in pericolose trappole per i ciclisti più coraggiosi, che devono convivere con lo smog e avventurarsi in una sorta di rassegnata accettazione di un rischio da correre. Gli incidenti talvolta anche mortali, che hanno interessato nelle periferie delle città campioni del pedale come Michele Scarponi e Davide Rebellin, urtati da mezzi pesanti cui conducenti neppure si sono accorti dell’incidente, dovrebbe far riflettere e non bastano proclami e distanze di sicurezza urlate ad ogni tragedia annunciata; la circolazione ha precise regole di sicurezza che devono essere rispettate sia dai ciclisti che dalle auto, ma è indubbio che ridurre fattori di rischio sarebbe un obiettivo auspicabile per provare a ridisegnare le città del prossimo futuro. Spostandosi al di fuori delle città, l’Italia dispone di una rete quasi infinita di percorsi ciclabili con quali andare alla scoperta della storia e del paesaggio della penisola, che nel suo insieme rappresenta una delle mete preferite dai turisti di tutto il mondo. Alcune vie meriterebbero un’opera di restyling, altre sono state progettate di recente, come la recentissima Ciclabile del Garda 5 km costruiti a picco sul lago, assaggio di un più ampio percorso di 170 Km, con l’utilizzo di materiali
a basso impatto ambientale. Anche gli alberghi hanno cominciato a capire l’importanza di questa nuova realtà e prova ne è la presenza di molti Bike-Hotel, dotati di strutture e servizi per i clienti che vogliono cimentarsi in salutari pedalate, alla scoperta del territorio prescelto. Una variante di queste vie privilegiate sono le ciclostoriche, che rappresentano non solo un viaggio nel passato delle due ruote, ma anche un’occasione irripetibile di promozione del territorio. L’epopea del ciclismo antico è sublimata in queste rievocazioni popolari che si svolgono su strade di campagna, utilizzate ancora per spostamenti da podere a podere, dove la polvere e la fatica costituiscono un ingrediente inevitabile. La prima cicloturistica è stata l’Eroica nel 1997, a Greve in Chianti (Siena) e il suo successo ha stimolato la nascita di altri eventi simili che, solo in Italia, sono circa
150; si pedala con le biciclette d’acciaio e l’abbigliamento dell’epoca, ci si tuffa nell’atmosfera del passato, contenti di esserci, una soddisfazione da condividere con un numero sempre maggiore di altri “attori” appassionati. Dall’Eroica alle Strade Bianche, gara vera per titani del pedale con partenza e arrivo a Siena, il passo è stato abbastanza breve e nel 2007 si è svolta la prima edizione maschile, vinta da Aleksandr Kolobnev, mentre per il circuito femminile si deve attendere il 2015, anno in cui la corsa è stata vinta da Megan Garnier. Un mezzo di locomozione, la bicicletta, che ne ha fatta… di strada! Ce n’è davvero per tutti gusti. Lo sa bene anche chi il percorso lo disegna nella propria mente, si allena con coscienza finché non arriva il momento di soddisfare la propria voglia di avventura e di conoscenza. E’ quanto accaduto di recente all’amico Alessandro Piacentini, che
sognava di raggiungere Capo Nord in sella ad una bicicletta. E’ partito il 7 di Maggio 2022 da Livorno ed ha realizzato una specie di trekking su due ruote, fermandosi a dormire dove era consentito, magari sotto un rassicurante cielo stellato, servendosi della tendina che aveva portato con sé o trovando riparo nelle apposite e accoglienti strutture in legno messe a disposizione dei cicloturisti. E al risveglio quel caffè caldo che non ti aspetti, offerto dal camperista tedesco che era posizionato vicino a te. Qualche numero per riassumere quella che ai più può sembrare un’impresa e forse lo è per davvero: un viaggio di 4800 Km distribuiti in 50 tappe, in sella ad una robusta bicicletta del peso di 20 Kg, che con il bagaglio è diventata di ben 60 Kg! Tante le cose da raccontare, a cominciare dalla grande civiltà dei popoli d’oltralpe che ben conoscono il piacere di queste avventure che allungano la vita!
[7] Una tendina, una bicicletta e il sogno fortemente voluto che si realizza Foto di Alessandro Piacentini
[8] Alessandro Piacentini vicino al traguardo con la fida bicicletta che fra il mezzo e il bagaglio ha raggiunto il peso di 60 kg: una bella impresa!Foto di Alessandro Piacentini
[9] Le Strade Bianche 2020. Sul terz’ultimo tratto di sterrato (Colle Pinzuto), l’iberica Mavi Garcia cerca di sfuggire alle avversarie e alla polvere dell’insolita edizione estiva - Foto di Marco Marando
Marco Marando è autore di due libri dedicati al ciclismo, a sostegno delle giuste aspirazioni del movimento femminile. Il primo si sviluppa a metà strada tra l’inchiesta ed il racconto, e dà voce a dieci campionesse del presente (tra cui Marianne Vos, Elisa Longo Borghini, Katarzyna Niewiadoma) e del passato (tra cui Fabiana Luperini, Edita Pucinskaite); il secondo, scritto insieme all’amico Ambrogio Rizzi, si fregia della prefazione del Presidente dell’UCI, David Lappartient e accoglie al suo interno 35 interviste fra atlete e coach.
La bici rosa ed. 2016
Inseguendo un sogno, coautore Ambrogio Rizzi ed. 2018
Pedalare per allungarsi la vita 23 22 La riscoperta della bicicletta [4] [5]
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Ph: Mario Zorrone
SE NASCEVA FEMMINA SI INNESTAVA
UNA “PULITORA”
Seavessi avuto voglia di leggere e di studiare come avevo voglia di lavorare, chissà quante cose avrei imparato. Invece appena uscivo da scuola mangiavo in fretta e furia per poter raggiungere mio padre nel bosco.
A volte il tragitto da casa a dove si lavorava non era proprio cosi vicino, c’era da attraversare delle selve e camminare anche per delle mezz’ore e siccome le lezioni duravano anche nel pomeriggio, il tempo pieno di adesso per intenderci, capitava che d’inverno quando le giornate erano corte, corressi come il vento per arrivare nel punto dove stavano tagliando le piante, quando il sole tramontava e la giornata lavorativa stesse finendo, e allora al massimo mi caricavo in spalla un travicello e lo portavo in giù. Avevo 12 anni, però con quel legno in spalla mi sembrava di essere già un omo grande.
I miei compagni di classe non vedevano l’ora di andare in piazza a giocare a pallone, la mia passione invece era montare su quei castagni alti anche una trentina di metri.
Con il pennato e l’accetta infilati nella cintura dei calzoni, mi arrampicavo che sembravo un gatto.
Virgilio, mio padre, prima che salissi mi indicava quali rami tagliare e dove legare la fune e da terra controllava che rispettassi le istruzioni che mi aveva impartito. Capitava che in certe giornate si abbattessero anche 10 piante e tutte venivano lavorate sul posto.
Il bosco allora non era abbandonato come lo si vede ora, prima di tutto c’erano tanti sentieri, più larghi dove ci passavano i mezzi o più stretti dove ci passavano sole le persone, tutti erano tenuti puliti e se succedeva che con il maltempo qualcuno si sciupava veniva subito risistemato. Tutte le piane che non venivano coltivate con le viti o con l’orto, erano riservate alla coltivazione del castagno, sia per la produzione delle castagne che del legname. Tutta la comunità viveva di questa economia che ruotava intorno al castagno, chi vendeva le castagne e la sua farina, chi vendeva la legna da ardere, chi il carbone, chi per lavoro innestava le giovani piante e chi invece faceva il boscaiolo e commer-
cializzava il legname. Ogni pianta che veniva tagliata era sostituita con una nuova, si andava alla piana dei novelli, dove si potevano comperare le nuove piantine già innestate e in quel momento si decideva se la futura pianta dovesse essere destinata alla produzione di castagne come la Carpinese o la Negrigiola o da legname.
Qui nella nostra zona, che comprende Cardoso, Farnocchia, Pomezzana e Stazzema la qualità di castagno da legname più pregiata è la Pulitora, che, se ben governata, cresce dritta e da un’ottima qualità di legno.
Quasi tutti gli abitanti delle frazioni montane possedevano un pezzo di bosco che era per ogni famiglia un salvadanaio. Per questo veniva curato e gestito con parsimonia, patrimonio da dove attingere all’occorrenza ma soprattutto da mantenere efficiente e da tramandare alla futura generazione.
Chi piantava un castagno poteva nel caso mangiarne le castagne ma non di certo ricavarne soldi dalla sua vendita, se si considera che una pianta per essere tagliata deve avere almeno una quarantina d’anni.
Quando ero piccolo a Stazzema c’erano 7 boscaioli che rifornivano tutta la Versilia del pregiato legno di castagno delle nostre colline. Avere in casa un mobilio fatto di castagno era il simbolo di un benessere familiare di chi investiva in qualcosa che oltre che bello sarebbe stato anche durevole nel
tempo. L’edilizia locale faceva grande uso di travi portanti e travicelli in castagno e anche questo contribuiva a garantire lavoro e benessere alla popolazione del luogo.
Quando il proprietario del bosco voleva tirar su un pò di denaro, convocava il boscaiolo di sua fiducia e decidevano quante e quali piante tagliare. Un’occhiata esperta bastava per determinare quanto sarebbe stato il valore di ogni singola pianta, che derivava dalla quantità di materiale che se ne poteva ricavare per realizzare tavole e travi, il resto della pianta rimaneva a disposizione del proprietario come legna da ardere o materiale da cui estrarre del tannino usato come colorante nelle concerie di cuoio o nella preparazione di medicinali.
Virgì, mio padre, era uno dei più esperti boscaioli della zona, a lui si rivolgevano proprietari sicuri di ricevere una quotazione giusta dal tagliato.
A lui bastava un’occhiata per capire cosa avremmo potuto ricavare da una pianta, se era cipollata non ci poteva certo fare delle belle tavole e questo lui lo capiva dalla fattezza della pianta, dalla sua corteccia. E tutti questi saperi li ha tramandati anche
a me, mi ha insegnato anche a fare un lavoro fatto con scrupolo e rispettoso della selva, si perché tagliare una pianta di una trentina di metri e farla cadere a terra stando attenti a non danneggiare le altre circostanti non è una cosa facile. Una volta stavamo tagliando in un bosco di proprietà di un nostro parente e accidentalmente nel cadere una pianta rovinò su un giovane castagno spezzandolo in due. Non ci fu più concesso di lavorare oltre in quel luogo e per almeno vent’anni, c’eravamo giocati la fiducia del proprietario. La stagione in cui si potevano tagliare le piante, nella nostra zona, è quella compresa dalla fine di agosto ad aprile. Come ho già detto le piante abbattute venivano lavorate sul posto, le tavole tagliate venivano accatastate e lasciate lì a stagionare per essere trasportate al bisogno, mentre le travi e travicelli una volta squadrati venivano portati in magazzino se non direttamente al cliente.
Un giorno un impresario di Querceta ci commissionò una trave di 12 metri di lunghezza con 30 cm per lato, mio padre trovò la pianta adatta per realizzarlo nella selva della Freddaccia, per intenderci il bosco che dal monte (località di Stazzema) scende fino al Cardoso.
Era la seconda metà di maggio del 1966 quando decidemmo di procedere a tagliare la pianta e a squadrare la trave.
vuole esperienza per realizzare una trave da
Se nasceva femmina si innestava una “Pulitora” 27 26
di Giuseppe Bertellotti - Foto dal libro fotografico "Giuseppe Bertellotti boscaiolo in Stazzema"
Ci
[1] Virgilio al lavoro
[1]
[2] Giuseppe nel suo laboratorio ai Piccolli
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un tronco, Virgì girava e rigirava i tronchi fino trovare il verso in cui andava squadrato e io ho imparato da lui come si fa a segnarlo per il verso e a squadrarlo a mano con l’ascia. Ormai sono rimasto l’ultimo in grado di farlo tanto che qualche anno fa ci scrissero anche un libro con tanto di foto di me mentre realizzo una trave a mano partendo da un tronco.
Il 22 maggio del 1966, me lo ricordo perché quel giorno fù ripristinata l’ora legale, eravamo pronti per trasportare la trave realizzata giù al Cardoso, dove l’avrebbero coricata sul camion e portata a Querceta. Ma bisognava portarcela a Cardoso e nonostante non fosse la prima volta che scendevamo delle travi giù per il pendio, quella volta la trave era veramente grossa e pesante e non c’erano mezzi meccanici né teleferiche per aiutarci.
Cominciammo la discesa armati di pali e funi la mattina presto, verso le 11 avevamo già passato la miniera, ci mancava più di aggirare uno spuntone di roccia e saremmo arrivati al pianoro dove tutto sarebbe stato più facile quando, la trave scivolò e dopo un salto di 5/6 metri si fracassò nel letto del fiume sottostante. Anche se da dove eravamo non si riusciva a vedere come fosse finita, il rumore inconfondibile ci fece presagire quello che di lì a poco avremmo costatato, la trave si era spezzata in 3 parti e non era più utilizzabile.
Fummo costretti a scusarci con il cliente per il ritardo cui saremmo andati incontro per l’incidente avvenuto, a trovare un’altra pianta e a realizzare una nuova trave. Fortunatamente incidenti come questi si sono verificati raramente grazie soprattutto alla grande esperienza di mio padre.
Purtroppo verso la fine degli anni 50 una specie di cancro del castagno attaccò la nostra zona e quasi tutte le piante seccarono e furono tagliate. Anche le nuove piante innestate seccarono e da quel momento in poi nessuno più ha riprovato a rinnestarle, infatti quello che vediamo oggi altro non sono, eccetto alcune vecchie piante che sono
sopravvissute, che piante di castagno selvatico rinate dalle ciocche delle piante tagliate. Questo è un vero peccato perché se si ricominciasse a coltivare il bosco si potrebbe rilanciare l’economia del paese, certo servirebbe il permesso di riaprire le piste dove poter transitare con mezzi e magari lasciare prendere certe decisioni a chi il bosco lo conosce e non farle prendere a chi non è mai uscito da un ufficio.
Mi chiamo Giuseppe Bertellotti, ho passato l’ottantina e sono un boscaiolo, e non c’è giorno che la mì moglie, la Dina, non mi brontoli, ”ma dove vai? non lo vedi che piove e fa freddo, stattene a casa” ma io in casa dopo un po’ mi annoio e allora vado a Piccolli, mi metto a taglià delle tavole a squadrà un tronco o a fa due travicelli oppure piglio lo zaino e me ne vado a fa una passeggiata nel bosco, e mentre cammino ripenso a com’era e mi dispiace vedere come è ridotto ora.
A volte m’ imbatto in delle piante più vecchie di
me, piante che ci vogliono due uomini per abbracciarle e ripenso a quante volte con mio padre c’eravamo promessi di facci delle belle travi. Però sono contento che siano sempre in piedi, anche loro testimoni di quello che ormai non c’è più. L’unico vero rimpianto che ho è che quando smetterò la mia attività tutto questo sapere andrà perduto per sempre e un pò mi dispiace non aver potuto tramandare tutte quello che ho imparato e che mio padre ha insegnato a me. Il detto “ se nasce femmina si innesta una Pulitora” ha la sua origine nella saggezza popolare che vedeva pianificare tutte le azioni da intraprendere, volte a garantire una riserva di denaro per le evenienze future. Una volta la figlia da maritare doveva portare in dono la propria dote, genitori previdenti si preoccupavano di garantirne una adeguata innestando e curando quella pianta che giunta a maturazione al momento sarebbe stata venduta ricavandone una bella somma.
Una filosofia di vita che vive dei frutti del presente ma consapevole di dover salvaguardare al meglio il bene per le future generazioni.
Ci sono stati anni in cui il consumismo ha fatto dimenticare i pregi di un manufatto in legno pregiato come il castagno, la bellezza delle sue venature scure sul campo chiaro che lo rendono unico. La sua grande resistenza agli agenti atmosferici ha fatto si che per anni tutti gli infissi fossero in castagno, la sua resistenza all’attacco degli insetti ne ha fatto un materiale ideale per realizzare travature leggere e resistenti.
L’utilizzo di serramenti in alluminio o pvc, più economici, cosi come l’utilizzo delle travi lamellari in abete, il marketing della mobilia usa e getta di poco costo, questi i fattori che hanno relegato ad una nicchia di pochi estimatori l’utilizzo del nostro splendido e versatile materiale.
Questo fenomeno ha di fatto segnato la lenta ma inesorabile fine di quell’economia legata al castagno con il risultato della chiusura delle attività ad esso collegate, all’abbandono dei boschi e di conseguenza allo spopolamento dei borghi montani, senza contare il dissesto idrogeologico che l’incuria dei versanti ha e sta causando.
…. e io me ne sto nel piazzale di Piccolli, tra le mie cataste di tavole di castagno che in questi anni ho continuato a tagliare e a stagionare, sperando che questo triste periodo passi, ma soprattutto per continuare a fare quello che da tutta la vita amo e che ho sempre amato fare!
28 Se nasceva
Via Ragazzi del 99 n. 316 - 55047 Querceta di Seravezza (Lu) tel. 347 6528976 - simonedallemura@me.com
femmina si innestava una “Pulitora”
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[3] Lavorazione della trave con ascia
[4] Segnatura della trave
DALLA FINESTRA DELLE SCUOLE ELEMENTARI AI MARI DEL MONDO, MA SEMPRE CON LA NOSTALGIA DEL PAESELLO
Non sono nato a Forte dei Marmi. I miei genitori vi si sono trasferiti da La Spezia nel 1962, quando avevo 1 anno e vi ho abitato fino a 25 anni, ma considero il Forte “il mio paese”, visto che è stato il posto dove ho trascorso di sicuro gli anni più intensi della mia vita, gli anni dell’infanzia e della gioventù, quel periodo dell’ esistenza in cui un uomo crea la rete di relazioni che lo accompagnerà nella vita, quegli anni in cui si forma il carattere e si dà un importante indirizzo alla propria avventura umana. Oggi, nel 2023, si è un po’ perso il ricordo di quelle che sono state le origini del nostro paese. Probabilmente molti giovani fortemarmini e i turisti lo ignorano completamente, ma Forte dei Marmi
ha una tradizione di persone che hanno solcato mari, oltre che una passata tradizione di costruttori di navi. Certo, non navi come le si intendono oggi, ma le piccole navi di allora. Quelle navi di legno che, spinte solo dal vento o con l’aiuto talvolta di un piccolo motore, solcavano il Mediterraneo spingendosi a volte oltre Gibilterra e questo fino agli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale. Venivano chiamate: navicelli, tartane, barcobestia. Più di un cantiere sorgeva allora tra il pontile del Forte e la foce del Versilia, anche se per ovvi motivi la produzione non poteva essere confrontabile con quella delle vicine Viareggio e Marina di Carrara. Le persone che in quel periodo disegnavano e costruivano
queste imbarcazioni, adibite prevalentemente al trasporto del marmo, sabbia e di qualche rinfusa, si chiamavano “maestri d’ascia”. Una categoria vera e propria facente parte a tutti gli effetti della Gente di Mare, ovvero di quelle persone iscritte nelle matricole della Capitaneria di Porto. Ho fatto le scuole elementari in quella che è l’attuale sede del Comune, in piazza Dante. Per cinque anni nella stessa aula, al secondo piano, la penultima verso Massa, proprio in quella stanza dove ora c’è la sala Giunta Comunale. In quegli anni (1967-1972) gli alberi della pineta davanti alle finestre di quei muri erano molto più bassi di quanto non siano ora, pertanto dal banco potevo vedere sia il mare che il cantierino di Virgilio Ali-
boni. Virgì - come era chiamato in paese - alla costruzione e alle riparazioni di quelle imbarcazioni aveva partecipato davvero e all’epoca era definito l’ultimo maestro d’ascia del Forte. Sì, perché nel frattempo i piccoli cantieri sparsi sulla spiaggia erano stati chiusi con la definitiva consacrazione della spiaggia al turismo balneare. Ma Virgì aveva mantenuto presso la sua abitazione, nelle adiacenze del bagno Roma, una piccola falegnameria dove non costruiva più o riparava navi, ma costruiva patìni e qualche barca a vela, tutti molto ricercati. Arrivato alla bella età di 80 anni pensò di festeggiare l’avvenimento costruendo un 5,50 (tutto in legno ovviamente) per i suoi nipoti, i figlioli di Albè e della Marina. Credo che l’avere per
tutta la mattina davanti agli occhi di bambino il blu del mar Ligure e anche il cantierino di Virgì abbia instillato in me la voglia di viverlo a fondo quel mare.
C’è da dire che al Forte, oltre che ad una piccola tradizione cantieristica esisteva una tradizione di “marinai”. Dove con il termine “marinai” intendo tutte le persone dedite al lavoro sulle navi, senza distinzione di grado, dal mozzo al comandante insomma. Oltretutto alcuni proprietari di stabilimenti balneari fino agli anni 60 alternavano la conduzione dei bagni proprio con il lavoro sulle navi. Quelli erano anni in cui il turismo aveva una dimensione differente rispetto ad oggi e la proprietà di un piccolo stabilimento balneare
talvolta non bastava a garantire una vita agiata. Capitava quindi spesso che il bagnino, deposta l’attrezzatura da spiaggia, indossasse l’ incerata del marinaio. Poi c’erano i marinai di professione, quelli che navigavano tutto l’anno e hanno finito per navigare nell’arco di tutta la vita lavorativa Per alcune famiglie (Fontana, Foffa, Polacci, Bacci) il lavoro del mare era una tradizione che si trasmetteva da una generazione all’altra e qualche volta si trattava di famiglie che possedevano le navi dove imbarcavano padri, figli e parenti vari. Capitava così di trovare imbarcati contemporaneamente il padre nelle vesti di comandante/ armatore e il figlio come mozzo. Un modo per imparare il mestiere e tirare poi avanti le tradi-
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di Mario Leopoldo Figari
zioni di famiglia. Penso ad esempio alla famiglia di Aristide Foffa, con Aristide nella figura di comandante/armatore e il figlio Giuseppe mozzo di bordo. Quel Giuseppe Foffa che poi è diventato il comandante delle super petroliere della flotta dell’ENI e qualificato formatore di giovani ufficiali presso il primo centro addestramento per marittimi che è stato aperto in Italia nel bel mezzo della pianura Padana, quasi fosse uno scherzo. Il comandante Foffa, tuttora vivente, è ancora figura di riferimento per suoi più giovani colleghi che a dirla tutta cominciano ad essere attempati anche loro. Alcuni di questi marittimi giunti all’età della pensione frequentavano il distributore di benzina di mio padre e avevo modo ogni tanto da ragazzo di ascoltare i loro racconti. Li ricordo volentieri perché, anche se ormai scomparsi da tempo, sono persone che con le loro storie hanno senz’altro influito sulla decisione mia e di qualche mio coetaneo di scegliere la via del mare. Tutte persone quelle a cui il mare aveva dato una piega particolare per cui si riconoscevano benissimo nel tenere testa a tanti altri paesani in discussioni di vario genere. I fratelli Umberto
...MA FORTE DEI MARMI HA UNA
CERTA TRADIZIONE DI PERSONE CHE HANNO SOLCATO I MARI, OLTRE
CHE UNA PASSATA TRADIZIONE DI COSTRUTTORI DI NAVI...
[1] Foto scattata al largo di Cape Town dove si vedono benissima “la balena” e la “montagna piatta”, due caratteristiche alture dietro Cape Town
[2] Durante un passaggio alle Eolie, sullo sfondo il vulcano Stromboli
[3] Stavamo passando lo stretto di Messina e la fidanzata dell’allievo di coperta (messinese) era a terra per vederlo passare. Lui la saluta da bordo sventolando una bandiera.
[4] In navigazione con tempo buono subito dopo il tramonto
[5] Navigazione tranquilla
e Flavio Fontana, Mario Domenici, il Figliè detto il Papetto, Ettore Polacci detto “boia can” e suo fratello Franco, Diego Aliboni famoso per essere stato per diversi anni il comandante degli yacht dell’avvocato Agnelli, i fratelli Secondo e Cesare Bacci, con Secondo che ha attraversato per anni il Pacifico dall’Alaska al Giappone e viceversa a bordo delle prime navi metaniere. Ed è stato cosi che, con l’azzurro del mare visto dai banchi di scuola a brillarmi negli occhi, l’odore forte del compensato e della colla della falegnameria di Virgì a vagarmi nel naso, le chiacchiere dei vecchi lupi di mare a ronzarmi nelle orecchie nel giugno 1983 ho lasciato il Forte alla volta di Taranto per imbarcarmi su una carboniera come allievo ufficiale di coperta con destinazione Mo-
bile in Alabama. La vita del mare non è una passeggiata e dopo due mesi a bordo pensavo che al rientro in Italia sarei sbarcato per proseguire gli studi all’università. Invece non ho mai smesso di navigare e ho proseguito con quella vita particolare fino al 31 agosto del 2020. Nel 1990 sono diventato Capitano di Lungo Corso, nel 2007 mi hanno insignito del titolo ormai puramente onorifico di Capitano Superiore di Lungo Corso e nel 2017 mi è stata riconosciuta – con firma del Presidente della Repubblica- la Medaglia d’oro per la Lunga Navigazione.
Se qualcuno ha avuto modo di visitare qualche vecchio tinello delle case fortemarmine di una volta, in più di una di queste stanze avrà sicuramente notato, esposto in una cornice, il diploma
e la Medaglia d’oro di Lunga Navigazione. Ciò significa che in quella casa qualche nonno, padre o fratello ha solcato i mari del mondo per almeno 20 anni su navi con il tricolore sventolante a poppa. Dei miei 22 anni di navigazione effettiva spesi sulle navi conservo un discreto bagaglio di ricordi. Il primo approccio molto duro con una vita diversa, dove d’ improvviso non ti trovi più circondato dalla famiglia e dagli amici ma da uomini ben più anziani di te, carichi di lavoro e di nostalgia per la famiglia lontana. Le notti sulle alette a cercare di imparare a riconoscere le stelle e quelle a respirare il salmastro del mare in burrasca. Il primo imbarco su una petroliera che era più vecchia di me e di cui lascio immaginare le condizioni. L’imbarco da 1° Ufficiale su quella che
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allora era la più grossa nave passeggeri italiana. L’incanto della Via Lattea vista nelle notti senza luna e quello delle acque luminescenti per il plancton. Il passaggio in alcuni posti di cui avevo fantasticato da ragazzo leggendo storie di mare: Gibilterra, le Orcadi e Scapa Flow, il canale di Suez, la rada di Buccari, capo Matapan, Labuan dove a dispetto della famosa “perla” nessuno ha mai sentito parlare di Salgari e delle “Tigri della Malesia”. La promozione a comandante e il primo ingresso nel porto di La Spezia al comando di una bella
...C’È DA DIRE CHE AL FORTE, OLTRE CHE AD UNA PICCOLA TRADIZIONE CANTIERISTICA ESISTEVA UNA TRADIZIONE DI “MARINAI”. DOVE CON IL TERMINE “MARINAI” INTENDO TUTTE LE PERSONE DEDITE AL LAVORO SULLE NAVI, SENZA DISTINZIONE DI GRADO, DAL MOZZO AL COMANDANTE INSOMMA...
petroliera. L’ultimo singolo giorno di ogni singolo imbarco, quando sapevo che in breve tempo sarei arrivato a casa dopo 5, ma talvolta anche 7/8 mesi di assenza.
Mi rendo conto che il tempo ammorbidisce i ricordi per cui alla fine il bilancio delle reminiscenze marinare potrebbe quasi sembrare positivo, invece è stato infarcito anche di tanti episodi negativi ma con i quali non vi voglio tediare. Ci sarà pure un motivo se un vecchio detto recitava che “il pane del navigante ha sette croste”, come
quello degli emigrati.
Ma ve lo dico, il soggetto di questo breve scritto non è la mia vita professionale; il vero soggetto è il Forte. Il “paesello”, come mi piace chiamarlo rubando il termine a Guareschi che lo usava per definire Brescello nel suo “Mondo piccolo”. Il Forte come “Mondo piccolo”, anzi come Piccolo Mondo, abitato da figure ormai scomparse da anni come Virgì o vecchi marinai di cui vi ho parlato prima. Il Forte dei lunedì invernali, quando piove o soffia il libeccio, per le strade non gira nessuno
[6] Navicelli sulla spiaggia anno 1925 sullo sfondo in lontananza il pontile caricatore - (Archivio Fotografico Associazione Fortemarmini nel mondo)
[7] Virgilio Aliboni maestro d’ascia nato il 21 maggio 1901 (Archivio Fotografico Associazione Fortemarmini nel mondo)
[8] Cantiere dove costruivano navicelli inizio 1900 - (Archivio Fotografico Associazione Fortemarmini nel mondo)
[9] Un bel tramonto in mare aperto
[10] Solcando il largo
e se te hai voglia di mettere il naso fuori di casa ne diventi il padrone. Quel paese di cui per anni mentre giravo il mondo ho sentito una struggente nostalgia. Lo sognavo di notte e mi sembrava di respirarlo per davvero il profumo estivo dei tigli della via Provinciale. Tigli, che partendo da subito dopo la chiesa, formavano una galleria verde che arrivava fino all’incrocio con la via Vico. La vista sulla Pania e sul Corchia dalla finestra della mia cameretta mi mancava terribilmente e sicuramente l’avrei scambiata immediatamente con qualsiasi posto che scoprivo in quei primi anni di vita randagia negli oceani. Sensazioni ed emozioni che ho poi ritrovato in un libro di memorie di un fortemarmino che si chiamava Rodolfo Barberi. Stampato in poche copie nel 1961 il libro si chiama “L’emigrato” ed è stato ristampato nel 2008. Rodolfo decise di partire nel 1890 a 17 anni alla volta del Sud America, spinto da diverse motivazioni. Sono le motivazioni che hanno sempre spinto giovani e forse lo fanno anche oggi – sicuramente lo hanno fatto con me - a lasciare gli agi di casa e andare in
giro per il mondo. Le chiacchiere e i racconti di chi il Sud America o le navi le aveva già provate, la voglia di conoscere cose nuove e anche l’ambizione di non accontentarsi di quello che si ha. Ma per tutto il periodo trascorso lontano dal Forte, Rodolfo non fece che pensare al suo paese che all’epoca non era nemmeno comune bensì una frazione del Comune di Pietrasanta. Vi riporterò più avanti alcune righe del libro relative al ritorno a casa di Rodolfo. A quei tempi il ritorno a casa dal Sud America non era una cosa scontata e anche lui visse le sue peripezie tanto che ad un certo puntò disperò di poter rivedere la sua famiglia e il paese. Quando finalmente ce la fece a tornare a casa quasi impazzì di gioia nel godere di nuovo delle cose di tutti i giorni: le erbe dei campi di cui fece indigestione, il rosario recitato in famiglia con i genitori e fratelli, il mare con le Apuane a fargli da sfondo. E queste sono le
parole di Rodolfo:
“Quando andavo alla marina, pure mi godevo un mondo. Lo sguardo mio prima vagava in lontananza, laggiù fino in fondo al mare, poi si godeva tutto lo specchio d’acqua del nostro gran golfo da Montenero al Tino. Mi voltavo poi verso le Apuane e dicevo: eccole qua le mie rinomate montagne con la loro Pania, Corchia, Altissimo, Carchio, Tambura e Sagro: care montagne mie, avete tutte una propria caratteristica che, in me, sembrava la fisionomia di ognuna di voi. Io son qui e, respirando l’aria balsamica di questo mare , mirandovi, vi abbraccio tutte affettuosamente” E questo pensiero non è stato solo quello di Rodolfo, ma anche il mio e probabilmente quello di tutti quei vecchi fortemarmini che se ne andavano in giro per i sette mari del mondo a cercare l’avventura o più semplicemente per poter mantenere dignitosamente la famiglia.
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IL LUPO:
UNA SPECIE SORPRENDENTE È TORNATA SULLE ALPI APUANE
Il lupo nell’immaginario collettivo è sempre stato visto come un animale affascinante e misterioso, che incuriosisce ma al tempo stesso suscita un’atavica paura. Un antico detto, mai più azzeccato che in questo caso, ci ammonisce che “quello che non conosciamo spaventa”. Nonostante ciò sia vero e dimostrato, negli ultimi decenni l’attenzione da parte dell’uomo verso l’ambiente, insieme a un aumento della diffusione di molte specie faunistiche ha portato a una crescente voglia di interazione con gli animali selvatici, confondendo quindi concetti di “selvatico” e “domestico”.
Il lupo, originariamente presente in tutta Italia ad esclusione della Sardegna e delle isole minori, è arrivato quasi alla soglia dell’estinzione all’inizio degli anni 70. Circa un centinaio di individui erano rimasti sulla
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di Paola Fazzi e Marco Lucchesi
dorsale appenninica centrale e meridionale ed in alcune zone interne della penisola, sopravvivendo grazie alle discariche abusive e a risorse di origine antropica (come gli animali da reddito), in virtù della allora scarsa diffusione dei grandi erbivori selvatici, sue principali prede.
Per l’impatto che il lupo ha sempre avuto sulle attività umane (allevamento e caccia in primis), esso era considerato una specie “nociva” e veniva cacciato legalmente dai famosi “lupari”: esistevano delle “taglie” sugli esemplari di questa specie ed i lupari venivano pagati in maniera diversa a seconda del sesso e dell’età dell’animale ucciso. A partire dagli anni ’70, sotto la spinta delle indagini scientifiche del tempo, che denunciavano il pericolo di estinzione per la specie, e sotto l’impulso di alcune campagne per la sua conservazione portate avanti da associazioni ambientaliste, la percezione della società per questo animale mutò e tale nuova sensibilità venne colta dalla politica che dal 1971 al 1992, per mezzo di decreti, leggi nazionali e direttive europee (come
Decreti Natali e Marcora, due leggi nazionali sulla protezione della fauna e sull’attività venatoria ed infine la Direttiva “Habitat” dell’Unione Europea, con le leggi di recepimento a livello nazionale), sancirono lo status di “rigorosa protezione” per questa specie con il divieto di caccia per essa.
Insieme alla protezione legale, dagli anni ‘90, grazie alla Legge Quadro delle Aree protette, abbiamo assistito alla moltiplicazione dei parchi, in particolare di quelli nazionali, che hanno consolidato le basi per la ripresa demografica e distributiva della specie. In questo modo, la presenza di habitat favorevoli adesso tutelati, lo spopolamento della montagna e delle campagne e il contestuale aumento delle consistenze degli ungulati selvatici, hanno determinato un fenomeno di espansione di areale che ha fatto ritornare in maniera relativamente rapida il lupo ad occupare tutto la dorsale appenninica arrivando a colonizzare anche gran parte delle Alpi, e ciò senza il ricorso a nessuna operazione di reintroduzione, come invece in maniera sbagliata si sente spesso dire.
Nel territorio delle province di Lucca e Massa, la zona attualmente occupata dal Parco Regionale
delle Alpi Apuane, i documenti storici indicano come il lupo si fosse estinto localmente, con tutta probabilità, all’inizio del secolo scorso.
Nel vicino Appennino Tosco Emiliano, nella zona dell’Orecchiella a pochi chilometri dalla Alpi Apuane, nel 1989 fu accertata la prima riproduzione di una famiglia di lupi, nonostante ciò ci sono voluti altri 15 anni prima che la presenza della specie venisse attestata anche sul versante opposto della Garfagnana, quando nel 2005 un esemplare venne trovato investito nel comune di Minucciano e poi, nel 2008, vennero reperiti i primi escrementi geneticamente attribuibili al lupo
nel comune di Vagli di Sotto.
Da sottolineare come la presenza di grandi erbivori, sue potenziali prede, fosse stata sulla catena apuana estremamente limitata almeno fino alla fine degli anni ‘90, fatto che ci spiega come il fenomeno di ricolonizzazione da parte del lupo sia stato relativamente tardivo.
In seguito, il boom delle consistenze delle specie ungulate è stato evidente: nel Parco nel 20102012 erano stati stimati oltre 1500 mufloni, 1500 caprioli, 1000 cinghiali, oltre ai primi cervi in arrivo dall’Appennino ed a poche decine di daini. Grazie a questo importante cambiamento, nel
2014 i lupi sono tornati a ululare sotto la Pania della Croce, con la nascita dei primi cuccioli “apuani” dopo un secolo di assenza.
Anno dopo anno, come è normale vista l’ecologia della specie, branchi sono aumentati, fino a occupare ormai tutto il territorio del Parco. Ad oggi vengono stimati 6 branchi riproduttivi, e la possibilità di incontrare questi animali è concreta in tutto il territorio protetto e non solo, avendo accertato la presenza di individui anche nelle zone collinari sub-montane e addirittura in pianura, a pochissima distanza dal mare.
Il lupo è un animale estremamente adattabile,
non ha problemi legati alla quota o al clima e si può cibare di qualsiasi alimento possa trovare a disposizione: dai grandi animali, come cinghiali, caprioli e mufloni, che sono le prede principali, a specie secondarie di piccole dimensioni, anche uccelli o pesci se essi sono disponibili, fino a cibarsi di materiali vegetali, come frutta e bacche. Come all’inizio della sua espansione nella penisola, può mangiare nostri rifiuti e qualunque cosa ritenga commestibile, anche se di origine antropica. È per questo che dopo aver occupato le aree più interne, è adesso arrivato anche al mare, con avvistamenti anche nell’area protetta del lago di
Una specie sorprendente è tornata sulle Alpi Apuane 39 38 Il Lupo Ph: Raffaella Scotti
...IL LUPO RIMANE UN ANIMALE SCHIVO CHE NON GRADISCE LA VICINANZA DELL’UOMO, RITENENDOLO UN POTENZIALE PERICOLO,...
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[1] Passaggio della Luna nell’arco del Monte Forato - Foto di Marco Lucchesi
[2] Lupo appenninico - Foto di Paola Fazzi
[3] Lupo appenninico sulla neve - Foto di Paola Fazzi
Porta, a Montignoso (MS), o sulla spiaggia della Lecciona, a Viareggio, nel Parco Regionale di Migliarino San Rossore.
Questa notevole capacità di adattarsi a diverse situazioni da parte del lupo porta a grandi problematiche legate alla convivenza con esso: lupi sono davvero arrivati a breve distanza dalle aree urbane e occasionalmente le frequentano o vi passano nelle ore notturne e non solo. I paesi apuani sono, è vero, delle piccole isole all’interno di estese aree boscate, ma ugualmente può fare una certa impressione incontrare alcuni esemplari sulle strade intorno ad essi o di avvistarli intenti nei loro spostamenti.
Il lupo rimane un animale schivo che non gradisce la vicinanza dell’uomo, ritenendolo un potenziale pericolo, quindi in genere tende ad allontanarsi da noi in pochi istanti. Ma, soprattutto nel periodo invernale, quando i giovani dell’anno iniziano a muoversi e a frequentare aree più ampie, succede che si facciano vedere ed essendo inesperti e curiosi, possono anche mostrare distanze e tempistiche di fuga diverse rispetto agli individui adulti. In questi casi, ovvero se l’animale non se ne andasse, o si mostrasse quasi interessato alle persone, è necessario alzare la voce e fare rumore, ricordando di tenere sempre cani legati al guinzaglio durante le passeggiate. Sempre bene segnalare i comportamenti “confidenti” alle autorità locali, come i Guardiaparco nel Parco Regio-
nale o i Carabinieri Forestali.
In ogni caso è basilare mantenere una certa distanza nel caso di avvistamenti, senza cercare di avvicinarsi o di interagire con essi in nessuna maniera.
Per quanto riguarda la presenza occasionale del lupo nelle zone abitate, dovremmo fare in modo di non lasciare scarti alimentari, rifiuti, cibo incustodito dei nostri animali domestici o i nostri stessi cani e gatti non sorvegliati adeguatamente: niente di tutto ciò dovrebbe essere disponibile per un grande carnivoro generalista e opportu-
[4] Tramonto dal monte Matanna, con panorama verso la costa sul monte Gabberi e Lago di Massaciuccoli
- Foto di Paola Fazzi
[5] Uno dei primi cuccioli di lupo nel Parco Regionale delle Alpi Apuane, nel 2014
- Foto di Paola Fazzi
nista come il lupo.
In pratica bisogna evitare che considerino la presenza umana ed i nostri insediamenti come fonti di alimentazione.
Convivere pacificamente con un animale così eccezionale non solo è possibile, ma è anche un dovere per la nostra specie, protagonista suo malgrado di azioni decisamente impattanti nei riguardi degli ecosistemi e dei loro componenti animali e vegetali. Il lupo ci ricorda che non solo noi possiamo reputarci padroni di questo mondo, e dovremmo cominciare a considerare la sua vicinanza come un valore, invece che sentirla solo come un pericolo.
www.paolafazzi.com
http://www.parcapuane.toscana.it/bioparco/ lupo.html
https://www.youtube.com/@paolafazzi11
https://www.youtube.com/@parcoalpiapuane
40 Il Lupo - Una specie
sorprendente è tornata sulle Alpi Apuane
[4] [5] Gelateria La Chicca Via Piave, 15 Forte dei Marmi Telefono 0584 787054 VIA PIAVE, 36A - FORTE DEI MARMI - 0584 81285
Ph: Mario Zorrone
SERAVEZZA E LA VERSILIA NEL 1840
NEI DISEGNI DELLA PITTRICE
ELISA COUNIS
di Andrea Tenerini
L’artistaSalomon-Guillaume Counis è noto per essere stato tra il 1811 e il 1815 pittore di corte per Elisa, sorella di Napoleone e principessa di Lucca e Piombino. Nato a Ginevra nel 1785, fin da piccolo Counis viene indirizzato all’attività di smaltatore. Nel 1806 si sposta a Parigi e quattro anni dopo, grazie all’esecuzione di due piccoli smalti di notevole fattura fra cui il ritratto di Paolina Bonaparte denominato La Belle Grecque viene ingaggiato da Elisa, in quell’anno in Francia per il matrimonio del fratello.
Trasferitosi a Lucca, nell’aprile del 1812 sposa la francese Elisabeth Harmand che, il 16 novembre dello stesso anno, dà alla luce la figlia Elisa, soprannominata Lisina, cui fa da madrina la principessa stessa. Partito avventurosamente dall’Italia dopo la caduta di Bonaparte, il pittore si rifugia in Svizzera. Il declino della pittura a smalto e lo scarso dinamismo dell’ambiente artistico elvetico lo convincono, di lì a poco, a spostarsi nuovamente a Parigi. Presente in modo piuttosto regolare alle varie edizioni del Salon, nel 1830 Counis lascia definitivamente la Francia per stabilirsi a Firenze. A comunicare all’artista, stanco dell’ambiente parigino, che si erano create le condizioni per un suo ritorno in Toscana è colui che il pittore ritiene il migliore amico: Jean Baptiste Alexandre Henraux
Nato nel 1775 a Sedan nelle Ardenne e giunto in Italia come ufficiale delle truppe francesi guidate da Napoleone, all’inizio del XIX secolo Henraux viene nominato delegato del governo per l’acquisto del marmo carrarese. L’attività si accresce notevolmente dopo il 1808, quando la società commerciale aperta a Parigi con il fratello stipula
un accordo con la Banca Elisiana, avviata l’anno prima con lo scopo di rilanciare la lavorazione e il commercio dei marmi. È assai probabile che l’inizio della frequentazione tra Henraux e Counis abbia avuto luogo nella prima metà degli anni dieci del XIX secolo, periodo nel quale il primo si occupa dell’acquisto di marmi e il secondo ha il ruolo di pittore alla corte di Lucca.
Fallita la Banca Elisiana e caduto Napoleone l’incarico di acquistare i marmi apuani e di curarne l’invio in Francia è confermato dal nuovo governo. Nel 1821 Henraux si unisce in società con Marco Borrini nell’impresa di riapertura e sfrut-
[1] Elisa Counis, Autoritratto 1839, Firenze, Galleria degli Uffizi
[2] Elisa Counis, Vue de la Montagne detta de’ Bambini à Stazzema 1840, Collezione privata
[3] Elisa Counis, Alle Molina Eglise de Stazzema 1840, Collezione privata
tamento delle cave del Monte Altissimo a Seravezza. Pur interessandosi direttamente dell’estrazione e della spedizione del materiale, prima carrarese poi versiliese, Henraux conserva la propria residenza a Parigi fino al 1831, anno nel quale si trasferisce definitivamente a Seravezza. La confidenza e l’amicizia tra l’imprenditore e il pittore continuano anche durante il secondo soggiorno parigino di Counis, come prova il ritratto della moglie di Jean Baptiste realizzato nel 1818, conservato in una collezione privata d’oltralpe.
I quasi tre decenni trascorsi in Toscana prima di morire, Counis li vive in modo alquanto ritirato, dedicandosi prevalentemente all’educazione pittorica di Elisa e, dopo la scomparsa precoce di questa avvenuta a soli trentacinque anni nel 1847, occupandosi della nipotina rimasta orfana.
Salomon Guillaime Counis muore a Firenze il 10 gennaio 1859 all’età di settantatre anni e viene sepolto nel Cimitero degli Inglesi a fianco della figlia. L’anno successivo alla morte di questa il pittore aveva donato agli Uffizi alcune tra le sue opere più significative, compreso un Autoritratto realizzato nel 1839. Al momento dell’esecuzione di questo lavoro – il suo dipinto più noto – Elisa Counis aveva ventisette anni. Nel 1815, mentre il padre partiva da Firenze, era stata affidata per un breve periodo agli zii materni, per poi ricongiungersi ai genitori a Ginevra. Negli anni parigini e, ancor di più, dopo il ritorno in Toscana, il genitore l’aveva istruita nella musica e nella pittura. Se il numero dei lavori conosciuti di Salomon è assai limitato, quelli noti di Elisa risultano ancor meno. Le rare opere rimaste la mostrano fedele seguace del padre “nella niti-
dezza del tratto dei disegni, nella gamma (piuttosto scura e sorda) dei colori degli oli, nel garbato romanticismo degli acquerelli”. Su invito di Henraux, tra l’estate e l’autunno 1840, la famiglia Counis soggiorna nella casa seravezzina dell’amico, in quel momento assente, prima di spostarsi in una località nei pressi di Ginevra. Poco meno di una ventina di anni dopo il padre di Elisa rilega in un album un nutrito gruppo di disegni ed acquarelli suoi e della figlia che, corredato dallo stesso pittore di puntuali descrizioni e di una parte finale contenente una serie di testi autobiografici – denominati Fragments littéraires –, dona a Jean Bernard Sancholle Henraux, nipote di Jean Baptiste ed erede dell’azienda.
L’album conservato per più di un secolo in Francia, nel castello di proprietà della famiglia Sancholle-Henraux a Chanceaux sur Choisille, è stato recentemente smembrato e venduto a fogli singoli sul mercato antiquario. Assieme a ritratti, bozzetti e paesaggi d’invenzione, la raccolta comprendeva diverse vedute della Svizzera e della To-
scana, prese dal vero da Elisa Counis al termine del quarto decennio del secolo, una decina delle quali raffiguranti paesaggi della Versilia.
“Nell’agosto dell’anno 1840 – racconta Salomon Counis nei frammenti letterari - abbiamo vissuto, a Serravezza, nella graziosa casa di proprietà del nostro ottimo amico M.r. Sancholle Henraux: lui allora era assente e, molto gentilmente, aveva ri-
nunciato ai suoi diritti e privilegi. Il soggiorno di tre mesi che abbiamo trascorso lì è stato incantevole! Questa valle di Serravezza è così bella, così fresca con la sua piacevole ombra, così ricca della sua bella vegetazione che ci si crederebbe, sotto questo aspetto, nel cuore della Svizzera!”. Durante la permanenza la famiglia dell’artista compie lunghe escursioni nei luoghi più noti e pittoreschi della Versilia. Prima di rievocare, con toni meravigliati e romantici, le emozioni provate nel corso di una passeggiata a dorso di mulo verso le cave del Monte Altissimo, Counis ricorda alcuni di questi posti: “Amanti della bellezza come siamo, avevamo già visitato i luoghi più notevoli di questa incantevole valle: il Dente del Diavolo (Rupe di Corvaia), il Canale (La Canala) da dove la vista va fino al mare e da dove si vedono molto bene Livorno, il Golfo della Spezia e anche l’isola della Corsica. […] Abbiamo visitato il grazioso Ponte Rosina (Ruosina); abbiamo ammirato da lontano il Monte forato; siamo andati a Stazzema, villaggio situato in montagna, dove le donne sono così belle! E di là si vedono poco lontano tre blocchi di rocce che, per la loro forma e composizione, sembrano essere un gruppo scolpito da uno scultore; si distinguono abbastanza distintamente una madre con due bambini, cosa che nel paese li ha fatti ribattezzare i Bambini di Michelangelo. La tradizione racconta che questo grande artista abbia avuto in progetto di sfruttare questa disposizione della natura per realizzare un’opera finita. Sembra proprio che con qualche lavoro si possa realizzare un monumento degno del suo gigantesco e vasto genio! Andammo al Procinto, posto sulla vetta di una roccia. Questa roccia è isolata al piede, cosicché spingendo la
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Seravezza e la Versilia nel 1840 nei disegni della pittrice Elisa Counis 45 44
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testa fuori dalla parete la vista incombe perpendicolarmente su un precipizio, tanto da essere indotti a voler controllare la solidità del bordo prima di avventurarsi direttamente su di esso. In fondo al precipizio c’è una stretta valle chiamata le Mulina, diverse centinaia di piedi sotto la terrazza del Procinto”.
Delle dieci vedute versiliesi della raccolta oltre a tre panorami dello stazzemese - il Monte Forato, il Procinto e la chiesa di Santa Maria Annunziata vista da Le Mulina - disegnati verosimilmente durante le visite sopra ricordate, sei rappresentano viste di Seravezza e dei suoi dintorni e l’ultima la piazza di Pietrasanta. Il retro di ogni foglio è arricchito dall’indicazione, di mano di Salomon Counis, del soggetto della nuova composizione, accompagnata quasi sempre da brevi considerazioni di tipo geografico o di costume.
La chiarezza di un disegno piuttosto accurato, che affida principalmente alle linee la funzione di
definire contorni e tratteggiare le ombre, annullando o riducendo al minimo gli effetti atmosferici, rende tre delle vedute di Seravezza - quelle riguardanti il centro cittadino - particolarmente interessanti dal punto di vista iconografico, considerato che a distanza di neppure mezzo secolo, a
[10] Elisa Counis, Vue de la fontaine de Seravezza, 1840, Collezione privata
[11] Elisa Counis, Place de Pietra Santa 1840, Collezione privata
seguito della piena del 1885, l’area sarà completamente trasformata, con lo spostamento del corso del Vezza, la costruzione del nuovo Puntone e l’allargamento della piazza principale. Le significative attitudini grafiche della pittrice che, nel ridotto spazio della pagina di un taccuino, riesce felicemente a condensare gli aspetti peculiari del paesaggio ritratto, rendono altrettanto interessanti le altre opere seravezzine raffiguranti la fontana della Saltatoia e il Ponte di Palazzo il centro cittadino con il duomo e la veduta una casa contadina che, come rammenta Counis, si trovava in una situazione così esposta al vento che, pochi giorni dopo la realizzazione, la maggior parte degli alberi presenti nella composizione erano stati abbattuti da una forte raffica. Riguardo al disegno della piazza di Pietrasanta il pittore ricorda invece la mattina in cui lui e la figlia sono stati condotti in città di buonora dal Signor Minguet, un amico che si trovava in vacanza con loro. Sfortunatamente quel giorno c’era il mercato ed il luogo era pieno di persone. Per non sprecare il viaggio padre e figlia si sono messi a disegnare all’angolo della piazza, al riparo di una tenda. “Risolta questa prima difficoltà – scrive
[4] Elisa Counis, Monte Forato Seravezza 1840, Collezione privata
[5] Elisa Counis, Vue de Seravezza 1840, Collezione privata
[6] Elisa Counis, Vue de la place de Seravezza 1840, Collezione privata
[7] Elisa Counis, Vue de Seravezza – à Seravezza 1840, Collezione privata
[8] Elisa Counis, Maison de paysan prés de Seravezza 1840, Collezione privata
[9] Elisa Counis, à Seravezza 1840, Collezione privata
46 Seravezza e la Versilia nel 1840 nei disegni della pittrice Elisa Counis Seravezza e la Versilia nel 1840 nei disegni della pittrice Elisa Counis 47
[4] [7] [8] [10] [11] [9] [5] [6]
Counis - ne restava una seconda più difficile da risolvere: l’affluenza dei curiosi che si precipitarono verso di noi, impedendoci di vedere il soggetto che volevamo disegnare e facendoci perdere tempo. Non riuscivamo a far spostare i nostri tormentatori quando ecco arriva il nostro salvatore. Un sordo muto che si trovava lì si fa strada a forza di braccia spostando le persone che stavano davanti a noi. Gli facemmo una buona elemosina così altre anime gentili si misero a farci spazio e noi potemmo terminare il nostro lavoro”.
In quell’estate del 1840, da metà di luglio a metà settembre, soggiorna a Seravezza anche Massimo D’Azeglio intento a completare il suo secondo romanzo: Niccolò de' Lapi Non sappiamo se due artisti abbiano avuto occasione di incontrarsi - circostanza assai credibile - e di conversare sui temi d’interesse comune. Dei due mesi vissuti in Versilia da D’Azeglio restano alcune lettere inviate agli amici nelle quali il pittore, scrittore e patriota traccia suggestive descrizioni del paesaggio naturale e di quello topografico, ma anche valutazioni di tipo economico ed antropologico.
“Serravezza – scrive a Gaetano Cattaneo alla fine di agosto - è un borgo posto nel crocicchio di tre belle valli selvose, sassose ed acquose ed, a averne voglia, ci sarebbe da far de bei studi: ma questa
“ricordi” tracciati durante quei mesi che, tredici anni dopo, D’Azeglio utilizzerà durante una trasferta londinese per realizzare una piccola tela, oggi perduta, raffigurante il Monte forato a Serravezza che, in una lettera scritta alla moglie, ricorda di aver venduto ad un signore di Glasgow. Sicuramente tra “pittoreschi luoghi” vi è Forte dei Marmi, dove l’artista si reca il 22 luglio. Dei disegni realizzati quel giorno un paio sono oggi conservati alla Galleria d’Arte Moderna di Torino: uno, siglato Torre dei Marmi 22 luglio 1840, raffigura alcune barche sulla spiaggia e l’altro, senza titolo, il Fortino con le Apuane sullo sfondo
Caffetteria Il
Ristorante
mi manca, ed ho fatto poco e male”. La presenza dell’artista in Versilia è ricordata anche in una lettera inviata dal pittore pietrasantino Antonio Digerini all’amico lucchese Michele Ridolfi: “Abbiamo in Seravezza (di qui 3 miglia) il marchese Azeglio con sua moglie e figlia, e questa è qua per fare bagni di mare, mentre il Padre profitta di questi pittoreschi luoghi per farne de’ ricordi col pennello”. Sarà probabilmente uno dei
48 Seravezza e la Versilia nel 1840 nei disegni della pittrice Elisa Counis
[12] [13] [14]
[12] Massimo D’Azeglio, Torre dei Marmi 1840, Galleria d’Arte Moderna di Torino [13] Elisa Counis, Autoritratto s.d., Collezione privata
vendita e riparazione attrezzature per il verde Via Alpi Apuane, 2086 - Seravezza e Via Aurelia, 171 - Camaiore Tel. 0584 1531411 - Cell. 345 0896315 - www.agrimaxweb.it
[14] Massimo D’Azeglio, Il Fortino con le Apuane sullo sfondo 1840, Galleria d’Arte Moderna di Torino
dei Marmi
Tel. 0584 89318
Giardino via Stagio Stagi, 44 55042 Forte
(LU)
La Cucina del Giardino via Stagio Stagi, 66 55042 Forte dei Marmi (LU) Tel. 0584 81170
Ph: Mario Zorrone
PER UNA MONTAGNA ACCESSIBILE
sulle ali dell’amicizia
di Guglielmo Landi e Camilla Raffaetà
Èil
22 maggio 2022 quando Michele Corfini, un ragazzo laureato in scienze naturali, amante della natura e costretto in sedia a rotelle dalla nascita, raggiunge la sua prima vetta, il Monte Croce, in occasione della fioritura delle giunchiglie. L’emozione per lui e per il gruppo di amici che l’ha accompagnato, da lì in poi ribattezzato come “Sulle Ali dell’Amicizia” dal titolo dell’articolo di giornale pubblicato dopo l’escursione, è stata immensa. Altrettanto grande è stato lo sforzo fisico necessario per compiere l’impresa; Michele infatti riesce a vivere la montagna grazie alla Joëlette, una carrozzina da trekking a ruota unica spinta da 2 persone o più a seconda della difficoltà del percorso. Su sentieri talvolta impervi come quelli delle Alpi Apuane, infatti, sono necessarie diverse squadre di tiratori che si alternino durante le salite.
Mossi dall’entusiasmo per il raggiungimento di questa prima vetta, Michele e gli amici organizzano una raccolta fondi su un sito di crowdfunding per l’acquisto di una Joëlette con assistenza elettrica; l’obiettivo, che all’inizio sembrava tanto ambizioso quanto la scalata del Monte Croce, viene in realtà portato a termine con successo in meno di un mese grazie alla generosità di molti sostenitori. Così la e-Joëlette viene ricevuta in dono da “I Raggi di Belen”, associazione di volontariato di Pruno, Volegno e Cardoso, che da più di 10 anni è in possesso di quella manuale, e oggi entrambi modelli sono a disposizione di chiunque ne voglia usufruire. Non è tutto: con il contributo dei donatori sono stati acquistati anche accessori, pezzi di ricambio e dispositivi di sicurezza per i tour in montagna come caschetti.
L’evento inaugurale della e-Joëlette, tenutosi presso le Scuderie Granducali della Villa Medicea di Seravezza il 15 ottobre 2022, è stato l’atto conclusivo dell’iniziativa di raccolta fondi ma non mette fine
alle attività delle “Ali dell’Amicizia” che decide di organizzare un corso di formazione per portatori di Joëlette (elettrica e non), in collaborazione con “I Raggi di Belen” e tenuto dall’organizzazione di volontariato “Sentieri di felicità” di Lucca. Il fine è quello di sensibilizzare e preparare volenterosi accompagnatori a un uso corretto e sicuro di questo strumento, nonché diffondere sul territorio la conoscenza di questo mezzo e delle sue possibilità. Il corso si è svolto il primo fine settimana di aprile 2023 presso l’Opera Pia Mazzucchi di Pruno e il C.R.O. di Volegno ed è stato un momento di sensibilizzazione e condivisione per tutti i partecipanti che, vicendevolmente, si sono alternati nei vari ruoli di portatori e trasportati apprendendo l’importanza dello spirito di squadra e della fiducia reciproca per compiere insieme questo tipo di attività.
...L’EMOZIONE PER LUI E PER IL GRUPPO DI AMICI CHE L’HA ACCOMPAGNATO, DA LÌ IN POI RIBATTEZZATO COME “SULLE ALI DELL’AMICIZIA” DAL
TITOLO DELL’ARTICOLO DI GIORNALE PUBBLICATO
DOPO L’ESCURSIONE, È STATA IMMENSA...
Il sogno di Michele è quello di arrivare sulla Pania della Croce e a tal fine il gruppo si sta già preparando per studiare il percorso, avvalendosi del supporto di guide alpine esperte che li assistono nel tragitto, grazie a sponsor che sostengono la causa. Un altro passo necessario, a cui il gruppo sta lavorando, è la mappatura dei sentieri che consentono il passaggio della Joëlette e, sempre nel rispetto della natura, la loro eventuale messa in sicurezza, per rendere la montagna più accessibile.
Come dice l’alpinista Nicolas Helmbacher, “La montagna ci offre la cornice … tocca a noi inven-
tare la storia che va con essa!” e i ragazzi delle “Ali dell’Amicizia” vogliono scrivere una storia di inclusione, opportunità e rispetto per la montagna.
Per una montagna accessibile 53 52
[1] [2] [3]
[1] Gruppo corso di formazione per portatori di ausili da trekking - foto di Massimiliano Patalani
[2] Michele davanti al monte Sumbra - foto di Guglielmo Landi
[3] Vetta monte Croce - Foto di Aissam Fazrhoun
SOLSTIZIO D'ESTATE
IL FESTIVAL DI PRUNO, VOLEGNO E CARDOSO
A cura dell'Associazione I Raggi di Bélen
Giunto alla sua 24esima edizione, il Festival de “Il Solstizio d’Estate” rappresenta uno degli appuntamenti estivi più importanti della Provincia di Lucca e non solo; dieci giorni di conferenze, concerti, laboratori ed eventi legati al fenomeno naturale della “doppia alba”: al mattino, intorno alle 7:15, è possibile ammirare raggi del sole passare attraverso il grande foro del Monte Forato. Il Festival coinvolge tre paesi del Comune di Stazzema, Pruno, Volegno e Cardoso, ed è organizzato dall’Associazione “I Raggi di Bélen” nata per rilanciare e valorizzare questo territorio sconvolto dall’alluvione del 1996. Il calendario prevede eventi dal 16 al 25 giugno, saranno presenti iniziative sia per più piccoli con spettacoli e laboratori tenuti, fra gli altri, dall’Associazione di Promozione Sociale RecuperARTI di Pietrasanta, sia per gli adulti con conferenze, concerti e presentazioni di libri. Per citare solo alcuni dei partecipanti: Maurizio Pallante, saggista italiano da sempre impegnato su temi a carattere ambientalista e fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, il Prof. Mauro Agnoletti del Dipartimento di Gestione dei Sistemi Agricoli Alimentari e Forestali dell’Università di Firenze, il filosofo ruralista Massimo Angelini, il Prof. Steve Shore, astrofisico con all’attivo molte pubblicazioni, il quale attualmente insegna al Dipartimento di Fi-
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[1]
...DURANTE IL PERIODO
INVERNALE SI PUÒ AMMIRARE UN ALTRO MERAVIGLIOSO SPETTACOLO DELLA NATURA, SPECULARE ALLA “DOPPIA ALBA” DEL SOLSTIZIO D’ESTATE...
[1] la ”doppia alba” del Monte Forato, foto di Raffaello Barsanti
[2] I raggi della luna passano nel foro del Monte Forato, foto di Fabio Longaron
[3] Il paese di Pruno con la Pania alle spalle, foto di Andrea Guidi
[4] la tradizionale “focata” di San Giovanni, foto di Andrea Guidi
sica dell’Università di Pisa, nonché il Prof. Guido Risaliti che insegna astrofisica all’Università di Firenze ed è uno dei ricercatori dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri che, come avviene da molti anni, ci spiegherà un nuovo evento astronomico. Per gli amanti della musica il Festival offre molte occasioni per ascoltare diversi generi, dal soul e blues al jazz, dalla musica classica alla musica
popolare con incursioni nell’elettronica e nella techno, alcuni dei nomi: da Milano un doppio duo, Max de Bernardi & Veronica Sbergia che ci accompagneranno in un viaggio indimenticabile attraverso la storia della musica del sud degli Stati Uniti durante gli anni ’20 e ’30, e Anita Camarella & Davide Facchini che ci travolgeranno con il loro swing italiano e americano degli anni ’30 e ’40; Luca Pieruccioni e Orietta Luporini suoneranno a quattro mani la Dante Simphonie di Liszt; come ogni anno la Fondazione Festival Pucciniano ci offrirà un assaggio di varie opere sulla suggestiva Piazza della Chiesa di Volegno; Daniele Dubbini presenterà il suo progetto “La Musica delle Piante” suonando letteralmente con una pianta a cui collega dei sensori in grado di catturarne bioimpulsi e trasformarli in audio impulsi con i quali interagisce suonando il Bansuri (flauto indiano) e l’HandPan (percussione melodica); Maurizio Bottazzi presenterà Nüva in cui i suoni
della natura delle Alpi Apuane danno origine e si mescolano a percorsi di musica elettronica. Imperdibile la serata della tradizionale Focata di San Giovanni il venerdì 23: i Pedrasamba, banda di percussioni afro-brasiliane, ci accompagneranno in giro per il paese di Pruno fino alla Piazza degli Antichi Lavatoi dove, alla luce del fuoco di San Giovanni, il dj-set di Nada Y ci farà ballare con sonorità elettro-ethno-techno-minimal. Durante giorni del Festival ci saranno inoltre un mercatino dell’artigianato e varie offerte enogastronomiche. In calendario anche eventi collaterali al festival come “Melodie e Sentieri”, in programma per l’11 giugno, un trekking musicale promosso dalla Filarmonica S. Cecilia di Farnocchia, e serate di osservazione di pianeti e costellazioni presso l’Osservatorio Astronomico “Alpi Apuane” a Stazzema gestito dal G.A.V. (Gruppo Astronomico di Viareggio) che da anni collabora con la nostra Associazione. Ma i paesi di Pruno, Volegno e Car-
doso offrono molte attrattive anche al di fuori del periodo del Festival. Durante il periodo invernale si può ammirare un altro meraviglioso spettacolo della Natura, speculare alla “doppia alba” del Solstizio d’Estate: il suggestivo passaggio dei raggi della luna attraverso il grande foro del monte Forato. Per gli amanti dell’archeologia è possibile effettuare percorsi nella stupenda natura delle Alpi Apuane alla ricerca delle incisioni rupestri: infatti questa terra in antichità era abitata dal popolo dei Liguri-Apuani e troviamo la testimonianza del loro passaggio nelle pietre incise con i loro tipici segni di cui queste montagne sono ricche, l’incisione più celebre è forse il “pennato”, arnese utile sia per il lavoro che per la difesa e che ancora oggi viene usato nel lavoro agricolo e forestale. Dai nostri paesi partono inoltre molti sentieri per raggiungere alcune delle montagne più belle delle Alpi Apuane: il monte Forato, il Procinto, il monte Croce, il Corchia e la Pania della Croce che rag-
giunge i 1.858 m s.l.m.; dal paese di Pruno è possibile fare anche una semplice passeggiata, adatta alle famiglie con bambini piccoli, fino alla cascata dell’Acquapendente; sono presenti nella zona varie ferrate e falesie per arrampicare, la più vicina dista solo 10 minuti da Pruno, la Torre di Bélen. Per le persone con mobilità ridotta la nostra Associazione mette a disposizione delle carrozzelle da fuoristrada, fra cui una joëlette elettrica, con l’ausilio di portatori. Sono inoltre presenti anche delle guide ambientali (camminando con Silvia e Micaela) che organizzano sia gite giornaliere che campi estivi per bambini e ragazzi. Molto interessante è scoprire l’antica filiera dell’ “Albero del Pane”: durante periodi di carestia e negli anni delle grandi guerre del ‘900 le castagne costituivano il sostentamento principale della popolazione, ancora oggi nelle selve di Cardoso, Volegno e Pruno si raccolgono e poi si essiccano nel metato, dopodiché le castagne vengono portate
al Mulino del Frate, macinate e trasformate nella preziosa farina con cui preparare il castagnaccio, ciacci con la ricotta o la polenta dolce. Ogni anno il Festival Solstizio d’Estate propone un tema inerente ai grandi temi della Natura e della convivenza pacifica con essa, della sostenibilità, del lavoro in montagna, della comunità… Quest’anno sarà all’insegna della bellezza come via per la felicità: al di là delle brutture del mondo, delle varie crisi internazionali, della crisi climatica, politica, etc, perché non provare a scoprire anche la bellezza che è nelle nostre vite? Siamo circondati dalla Natura e dalla sua bellezza, è forse anche per questo che abbiamo deciso di vivere nei nostri paesi fra le montagne? La relazione con la Natura che in passato era, più di oggi, una relazione di necessità alimentare, è sicuramente una relazione spirituale che si traduce concretamente in una maggior qualità della vita e che ha riscontri sociali ed economici positivi nelle nostre comunità. Per avere più informazioni sulle attività dell’Associazione e sul Festival visitate il sito www.iraggidibelen.it, oppure le pagine instagram e facebook sempre digitando il nome dell’Associazione.
1997 -2023 ventiquattresima edizione
BELLEZZA
Una via per la felicità
dal 16 al 25 giugno 2023 Cardoso, Pruno e Volegno di Stazzema
Il Festival di Pruno, Volegno e Cardoso 57 56 Solstizio d’estate
[2] [3] [4]
Ph: Mario Zorrone
L’OSTERIA LENCIO MEO
L’ESTIVO TRAIT D’UNION DEGLI ANNI ‘60
TRA LA MONTAGNA E LA DOLCE VITA IN VERSILIA
UN PICCOLO SPACCATO DI 60 ANNI FA
di Giuseppe Vezzoni
Pochi
oggi si ricordano del Lencio Meo, la storica osteria che fu aperta negli anni ‘60 del secolo scorso a Mulina di Stazzema e dove, durante l’estate del 1964, allora quindicenne, feci l’esperienza di cameriere. Fui vestito di tutto punto in un negozio d’abbigliamento e di scarpe lungo la Passeggiata di Viareggio: calzoni neri, camicia bianca, fiocchetto e giacchetta neri. La seconda giacca, quella verde bottiglia con i bottoni dorati, la indossavo il sabato sera, di solito il giorno delle serate delle grandi occasioni, quelle maggiormente partecipate dai personaggi importanti che arrivavano intorno alle ventidue, quando a Mulina per molti abitanti era l’ora di prepararsi per andare a dormire, e che avevano prenotato la cena nella saletta più richiesta, quella della casetta dello Zio Tom o della camelia, la più appartata e la più suggestiva per l’atmosfera d’intimità che offriva agli amori estivi, presumibilmente quelli vissuti al chiaro della luna per le notti di fuoco
della bella vita che in estate si spostava da Via Veneto in Versilia. Mi sono restate in mente anche le belle scarpe di pelle lucida nera con quelle suola di cuoio così lisce che quando le calzai provai la medesima instabilità dello stare in piedi che avvertivo passando sulle sgorate ghiacciate presso le pozze della Torre, tanto che dovetti addomesticarle per non scivolare strusciandole con forza sugli spezzoni traballanti di macigno che coprivano allora ponte degli Orti e che spandevano il rumore col camminarci sopra fino alla marginetta di Carbonaia, sotto la casa della Lucrezia. Fu la signora Maria, la sorella maggiore delle altre due proprietarie, la Lella e la Laura, a portarmi sulla mitica R4, quella con la leva del cambio sulla plancia, sul lungomare di Viareggio, appunto la Passeggiata, che come ragazzo de’ monti ancora non conoscevo, mentre, a causa del grippe e delle pestifere placche in gola, avevo invece visto anni prima la parte della città dove c’era l’ospeda-
le Tabarracci, che ricordo d’esserci arrivato verso sera con la Fiat 1100 nera di Datino Milani, che faceva anche il tassista oltre a essere proprietario dell’Albergo Milani (La Pania) a Pontestazemese, per poi essere ricoverato, dopo la visita fattami dal dott. Pasquinucci. nel reparto chiamato “Isolamento”.
Al tempo della mia esperienza come cameriere del Lencio Meo, avevo davanti un’estate per riparare all’insufficienza su due materie, latino e francese, e conseguire a settembre il diploma di Terza Media a Seravezza, dare l’addio agli studi, anche a causa della situazione economica famigliare che mi condizionava psicologicamente, e avviarmi nel mondo del lavoro presso la piccola officina meccanica di Guglielmi Nilo, nel cuore di Querceta, quando ancora i “grattacieli” non c’erano. In Piazza Pellegrini si poteva giocare al pallone durante la pausa pranzo così come nei campi degli uliveti intorno, ancora liberi dalle
case e occupati di tanto in tanto da un gregge di un pastore di Vaiana, il quale mandava via dal calpestare l’erba fresca i tanti apprendisti che sfogavano la loro voglia di giocare la giornaliera partitella di pallone lunga una ventina di minuti invece di sfruttare la pausa di mezzogiorno per riposarsi. L’Osteria del Lencio Meo s’inquadra in questo scampolo temporale degli anni sessanta. È un tuffo nella seconda metà del ‘900, nel mo mento in cui l’Italia stava conoscendo il boom economico. Una situazione di euforia sociale che incentivò a vivere la vita con godimento e fiducia nel futuro, a sperimentare sentimenti che si li berarono dalle briglie di un passato che sotto la pressione dall’emancipazione femminile perdeva in solidità per il continuo smantellamento che subiva l’arroccamento formale di una società non più in linea con il sentire di uomini e donne che non volevano più stare nelle rispettive gabbie ma volevano essere protagonisti del cambiamento. Il ‘68, che covava sotto la cenere della società, scoppierà con le rivendicazioni dei diritti e dei salari l’anno dopo della fine dell’esperienza gastronomica estiva dell’osteria Lencio Meo.
LA CASA DI SANTE FABBRI FRA STORIA DI VITA E DI MEMORIA
Locanda, posta per cavalli, bottega di alimentari, aula pluriclasse della scuola elementare di Mulina, osteria del Lencio Meo.
L’immobile in cui si espletò l’attività gastronomica dell’osteria Lencio Meo è una grande casa posta sulla provinciale per Stazzema, all’inizio della borgata di Carbonaia, in sinistra idrografica del torrente Mulina e in destra idrografica del Canal di Robbio (Delle Rave). Stando a quanto farebbero presumere le modalità murarie che si riscontrano, l’immobile dovrebbe essere stato costruito
in due fasi, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900. La prima fase d’ edificazione denota maggiore cura e maggiori possibilità economiche per gli archi a mattone sopra le porte e le finestre, che diventano soprassogli nel secondo piano e nelle soffitte. In passato la grande casa fu sede di una locanda, munita anche di posta per cavalli, in cui pernottavano finanzieri addetti al controllo della commercializzazione della polvere da sparo e per uso industriale che si fabbricava a Mulina di Stazzema. Da un documento incorniciato rinvenuto nella casa si presume, stando ai nomi di venti mulinesi costituenti e da due ratificanti, che verosimilmente nacque la Società il Moscerino nella seconda decade del XX secolo. Non si sa se in maniera faceta o legalmente riconosciuta. Poiché il vino attira i moscerini, con la società forse si volle significare ai posteri i bevitori abitudinari che al tempo frequentavano l’osteria di Sante Fabbri, anche lui tra venti costituenti. Successi-
[1] Fronte Menù Osteria Lencio Meo - Retro Menù Osteria Lencio Meo
[2] Sante Fabbri
[3] La sala nella casetta dello Zio Tom o della camelia, la più ambita sala dell'Osteria Lencio Meo
[4] Giosuè Luisi con una cliente al taglione della presa dei Tappi o del Pocai, località vicina alle vasche del vivaio delle trote del Lencio Meo
[5] Busta, disegno, carta intestata Osteria Lencio Meo e cartina stradale di localizzazione
vamente trovarono spazio nella casa una bottega di alimentari e un’aula pluriclasse della scuola elementare della frazione, che restò allocata nell’immobile fino agli anni ‘50 del secolo passato. L’edificio è stato di proprietà della famiglia di Sante Fabbri, vulgo Santi. Una famiglia allora benestante, proprietaria di terreni e di una casa con vigna nel Venaio, di una piccola cava in cui si scavava il bardiglio, di boschi e di manufatti, fra quali anche un mulino. Nella grande casa si raccolgono anche le vicende di vita che nel 1920, dopo essersi sposati, portarono il mulinese Giosuè Luisi e la moglie Gioconda Fabbri, figlia del Santi a trasferirsi a Carrara per motivi di lavoro. Ritornarono a Mulina nel 1941. Infatti, dopo aver maturato l’esperienza lavorativa preso la Ditta marmifera dei Figaia, Giosuè Luisi su incarico della “Marmorea” di Fritz Weizmann &Co, ditta che teneva stretti rapporti commerciali con i Figaia di Carrara, fu mandato a supervisionare l’istallazione di una segheria di marmo a Vienna e di formare le maestranze. In seguito, nel 1926, accettò la seconda proposta, sempre fattagli dalla “Marmorea”, per aprire una nuova segheria a Praga e per stabilirsi con tutta la famiglia nella capitale della Cecoslovacchia. La famiglia Luisi rientrerà in Ita-
L’osteria Lencio Meo 61 60
[1] [2]
[4] [5]
lia a causa dello scoppio del secondo conflitto mondiale. Già prima di queste esperienze emigratorie, nel 1913, appena quindicenne, Giosuè Luisi andò assieme a degli emigranti di Farnocchia a fare il garzone in Scozia, in una gelateria aperta da italiani a Glasgow. Rientrò in patria nel 1916 a seguito della Grande Guerra. Chiamato alle armi, parteciperà alle battaglie sul Grappa e sull’Adamello inquadrato nel corpo degli Arditi. La casa di Sante Fabbri fu anche luogo in cui, nell’ottobre del 1944, prima di essere traslati a Pisa, furono riuniti i resti combusti dei famigliari di don Fiore Menguzzo che erano stati uccisi e bruciati dai nazifascisti il 12 agosto 1944 nella canonica di Mulina di Stazzema. Giosuè Luisi fu il mulinese che aiutò Ameglio Menguzzo, fratello di don Fiore, nell’opera pietosa di raccogliere fra le macerie della canonica i resti dei cinque famigliari trucidati e ciò che restava del corpo del fratello prete, arso nell’arella lungo la mulattiera per Farnocchia. Il 15 novembre 1999 alla memoria di don Fiore Menguzzo è sta conferita la Medaglia d’Oro al Merito Civile.
OSTERIA DEL LENCIO MEO
Un trait-union degli anni ‘60 tra la Versilia del mare e quella della montagna.
L’osteria del Lencio Meo può essere annoverata fra gli eventi salienti della storia turistica e gastronomica che fiorirono in Versilia negli anni ‘60. Fu decisamente un trait-union tra la Versilia del mare e quella della montagna, un’esperienza antesignana della locuzione “ Mare-Monti”, un binomio che nel decennio successivo iniziò a proliferare nelle allocuzioni politiche ma che
ancora attende la concreta attuazione. L’apertura dell’osteria Lencio Meo dette grande rinomanza alla frazione di Mulina di Stazzema. Essa divenne presto conosciutissima, molto apprezzata per la cucina da parte di una clientela molto abbiente che poteva permettersi nel 1964 di spendere mediamente 4.500/5.000 lire a coperto per una cena. Nel parcheggio sostavano Ferrari, Maserati, Lamborghini, Porche, Triumph, le macchine sportive più belle e più costose che negli anni sessanta percorrevano le strade della Versilia e che suscitavano tanta ammirazione. Sogni inarrivabili, poiché per tanti italiani restava ancora difficile sognare di possedere la Cinquecento Fiat. Auto stupende e stupefacenti che di colpo potevano essere ammirate da vicino e con facilità al parcheggio del Lencio Meo, soprattutto il sabato sera. Fra i molti episodi di quelle lontane estati magiche al Lencio Meo, si ricordano le numerose presenze all’ora di pranzo della principessa Paola Russo di Calabria, allora già principessa di Liegi, oggi regina del Belgio. Giungeva con la Cinquecento celestina all’osteria per pranzare coi suoi figli e la donna di compagnia. A volte era raggiunta dal marito Alberto, principe di Liegi, divenuto nel 1993 poi re del Belgio. Dopo il pranzo era solita recarsi presso un metato lì vicino, lungo il sentiero che dal Ponticello porta a Logo Milani e alla cave di bardiglio del Colle della Fontana. Prima di rientrare a Forte dei Marmi, si godeva un momento di fresco fra castagni e nell'armonia del discreto borbottio dell'acqua che scorre tra sassi e il rigoglio delle felci del Canal di Robbio. Una volta la Lella, la sorella mezzana che serviva in sala e a cui non difettava il pepe sulla lingua, battibeccò con la bella e giovane donna, della quale ignorava il titolo, a
causa di un'attesa oltremodo lunga del pranzo. Al Lencio Meo si cucinava come in famiglia, con tutta la cura possibile che ci metteva la Gioconda. Previdentemente sul retro del menù dell'osteria era stato scritto: “Ogni piatto per essere perfetto esige un suo preciso tempo di preparazione”. Subito sotto una vignetta esplicativa con disegnati un cliente addormentato al tavolino, un cameriere con il piatto ordinato di fronte al cuoco: -Sei troppo lento nel cucinare, vecchio mio! - Ecco un altro cliente morto di fame! è la replica del cuoco nell'osservare il cliente che dorme.
Fra i tanti aneddoti di quelle lontane estati gastronomiche al Lencio Meo, vale la pena di men-
[6] Lella Luisi al banco dell'American Bar Lencio Meo
[7] Casa di Sante Fabbri: Ingresso American Bar Lencio Meo
[8] Sala grande dell'Osteria Lencio Meo. Locale che fino al 1959 era stato utilizzato come aula pluriclasse della scuola elementare di Mulina di Stazzema
[9] Lista delle vivande e bevande con relativi prezzi dell'Osteria Lencio Meo, anno 1961
zionarne alcuni. Quello riguardante un pilota collaudatore della Ferrari, che una sera fece provare il brivido ad alcune persone del posto, fra le quali l’immancabile Lella, facendole salire a turno sulla “rossa” per un giretto fino a Pontestazzemese e far provare loro l’ebbrezza indimenticabile del caratteristico rombo di una Ferrari che scuoteva dal sonno la notte nella gola del Rondone. Un altro episodio ebbe come protagonista il trombettista Nini Rosso, il quale, sotto i due alti pioppi che allora c’erano nel piccolo spazio confinate con il canale di Robbio, suonò il “Silenzio” fuori ordinanza, quel Silenzio che aveva registrato su un 45 giri che si rivelò uno straordinario successo discografico. Dal 17 maggio 1961, anno dell’inaugurazione ufficiale, al 31 settembre 1967, anno della chiusura, furono anni fulgidi per il Lencio Meo e le sere estive mulinesi. Il locale aveva dato un tocco di signorilità e rinomanza al borgo. Purtroppo, a seguito dell’avanzare dell’età della Gioconda, la cuoca nonché la madre delle tre sorelle proprietarie, la rinomata osteria di Mulina dovette interrompere la prestigiosa esperienza di cucina tradizionale che aveva portato il 26 giugno 1961 a sperimentarla anche il famoso gastronomo Luigi Veronelli, al tempo direttore de Il Gastronomo, che sul libro delle presenze lasciò scritto: Bene! Ma oltre all’aggravio degli anni sulle forze della Gioconda, insostituibile cuoca del Lencio Meo (da giovane sposa aveva lavorato anche come cameriera in un club esclusivo di Carrrara frequentato da uomini della cultura e dell’imprenditoria dei primi anni 20 di quel secolo), a incidere dolorosamente sulla scelta di porre fine all’esperienza dell’osteria fu anche una piena del torrente Mulina che nel 1966 - mi pare di ricordare - tracimò
il fango nelle vasche dell’allevamento di trote che era stato aperto insieme all’osteria e che lo curava Giosuè, marito della Gioconda. L’uomo provvedeva a tener pulita l’acqua delle vasche, a integrare il mangiare delle trote e a introdurre man mano gli avannotti nella vasca grande allorquando la dimensione raggiunta avrebbe impedito che si trasformassero in prede per le trote più grandi. La melma di piena chiuse le branche delle trote e fece di esse una vera strage. Morirono anche quelle giganti, della lunghezza di oltre 50 cm, che in una specifica vasca erano diventate l’attrazione dell’allevamento del Lencio Meo. Il vivaio era dislocato a duecento metri a monte dell’osteria, lungo il tratto di fiume che va dal Mulino del Fabbri al Mulino Puliti, segmento del torrente Mulina che fino al 19 giugno 1996 era contrassegnato da una venusta opera di presa, detta appunto presa del Santi (Fabbri) e andata distrutta con l’alluvione. La presa captava l’acqua dal torrente per la movimentazione del vecchio mulino, poi per il maglio ad acqua di una piccola fucina e infine per irrorare le vasche dell’allevamento delle trote. Sul portale d’ingresso dell’antico mulino, oggi un rudere, è scolpita la data 1535. La moria delle
amate trote creò un terribilmente abbattimento in Giosuè, il quale vide quel giorno vanificati anni di dedizione amorosa a un allevamento ittico che era divenuto il suo impegno quotidiano ma anche un richiamo turistico. Oggi si definirebbe un’opportunità per gustare la trota a chilometro zero. Infatti erano tanti i clienti del Lencio Meo che si recavano alle vasche vivaio a pescare con il retino le trote che poco dopo avrebbero mangiato al tavolo dell’osteria. La chiusura del Lencio Meo l’associo anche a questa desolante distesa di trote morte lungo il riccetto che porta ai Tappi e all’inconsolabile sguardo di Giosuè: quello di un uomo incredulo e pietrificato per la distruzione avvenuta durante una notte di diluvio. Quel giorno tremava più del solito e non riusciva a farsene una ragione. Guardava in silenzio la fine di un’ attività che era stata di successo e che aveva spinto l’ Ingenere Emilio Pocai a emularla lungo il canale di Robbio, in località Covone, dando vita a un vivaio di trote più grande e ad un allevamento di galletti nostrani e di galline faraone.
IL LENCIO MEO
Il nome, il menù, i locali e il personale, gli ospiti.
L’Osteria prende in nome dal pastore Lencio Meo, protagonista di una vecchia leggenda versiliese che narra la storia di un amore sbocciato tra un pastore e l’ultimogenita del mugnaio della valle del Mulina, padre di quattro maschi. La bellissima ragazza dai capelli d’oro, inconsapevole del destino crudele che gravava fin dalla nascita su di lei ma conosciuto dal padre e dai quattro fratelli, quello che le avrebbe consentito di vivere solo se non si fosse sposata, pena di sparire per sempre dopo sette giorni dal matrimonio. Era stato il padre a chiedere allo Spirito dei Monti la nascita di
L’osteria Lencio Meo 63 62 Un piccolo spaccato di 60 anni fa
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una figlia dopo quattro maschi e a vincolarla, se fosse stato esaudito, che non l’avrebbe concessa in sposa a nessuno. Purtroppo l’amore non ha freni. Meno che mai quello che incendiò subito Lencio Meo e la fanciulla fin dal primo giorno che si videro. Il mugnaio e quattro figli respinsero con grande sgarbo il pastore, fecero scappare gli agnelli donati, gettarono nel fiume le forme di formaggio che Lencio Meo aveva portato per ottenere il consenso a sposare la figlia. La ragazza, non vedendo più Lencio Meo, scappò dal mulino e andò a cercarlo nel bosco dove l’aveva incontrato la prima volta. Si ritrovarono e sboccio’ un amore che divampò nei loro cuori più dell’incendio che aveva distrutto i boschi intorno al monte Matanna. Il padre e i quattro fratelli si misero in cerca della ragazza. Finalmente la trovarono il settimo giorno, ma lei fuggì via. Fu inseguita fin dentro una grotta abitata dallo Spirito Cattivo. La vegetazione non riuscì a trattenere la ragazza nonostante suoi lunghi capelli si fossero impigliati fra i rami. Subito dopo la montagna tremò e la grotta franò lasciando all’esterno il padre e i quattro figli. Quando Lencio Meo riportò il gregge nel punto in cui aveva iniziato a vivere la stupenda storia d’amore con la fanciulla dai capell’ d’oro, non trovandola, disperato si mise a cercarla. Attirato dalle ciocche gialle di capelli restate su dei rami, si fece spazio fra i sassi crollati ed entrò anche lui nella grotta da cui non uscirà mai più nessuno. La grotta prese il nome di Lencio Meo e in primavera la fioritura delle ginestre, in ricordo dei capelli biondi della fanciulla, ne nasconde l’imboccatura. Nell’ultima guerra la grotta è stata un rifugio sicuro dove sfollare e per mettersi in salvo dai rastrellamenti e dalle rappresaglie.
Il menù del Lencio Meo nel 1961 riportava questi costi: Coperto £.100; Antipasto £ 300; Consummè £150; Tordelli £. 350; Trota alla “Lencio Meo” £.800, Trota lessa con maionese £.800. Trota fritta £. 800. Pollo “raspante 1/4 alla brace £.700; Pollo fritto £.700; Pollo alla salvia £.700; Pollo a cacciucco con polenta £700; Fritto di campagna £200; Insalata £.150; Frutta di stagione e Dolce di casa £.200. Vino bianco di Manarola (Cinque Terre) e Chianti San Montana (letteralmente dal menù) a £. 600 la bottiglia. Per gli spumanti italiani il costo era di £ 2000. Lo champagne costava £ 4.500. Il servizio era maggiorato del 10%.
Un ospite di Roma nel settembre 1961 ha lasciato scritto sul libro delle presenze: Buon posto, ottimo cacciucco di pollo con polenta, buone trote. Spero che sia conosciuto da poche persone, altrimenti si guasterà. Al Lencio Meo si poteva pranzare e cenare ma anche consumare importanti merende che prevedevano oltre all’ottimo pane acquistato al forno del Tessa a Seravezza, ai salumi di Barsantone o del Robè del macello, alle giardiniere sottolio o sottaceto e alle olive marinate, anche la possibilità di gustare la trota fritta o alla “Lencio Meo”, la cui ricetta è andata perduta.
L’osteria era provvista a piano terra di un American Bar molto grande e poi, al di là del vano centrale da cui iniziano le sei rampe delle scale che portano ai due piani della casa e alle soffitte, di una spaziosa cucina in cui troneggiava un’ enorme cucina economica e un piano fornelli a carbone cui fumi erano contenuti in una ampia cappa e dirottati lungo una canna fumaria che raggiungeva il tetto. Era il regno della Gioconda e di alcune donne del paese che aiutavano in cucina. Addetto all’ american bar c’era un barmam
[10] L'American Bar Lencio Meo
[11] Documento della costituzione della Società il Moscerino
[12] Firme e disegni lasciati dagli ospiti sul Libro delle presenze dell'Osteria Lencio Meo
[13] Firme degli ospiti poste sul Libro delle presenze dell'Osteria Lencio Meo, fra le quali quella del trombettista Nini Rosso
[14] Pagina del Libro delle presenze inerente all'inaugurazione ufficiale dell'Osteria Lencio Meo.
professionista di Torino che aveva lavorato alla Capannina di Franceschi e che, a seguito di problemi fisici, aveva preso in gestione il bar del Lencio Meo. Il servizio per la confezione dei cocktail e degli aperitivi era di una qualità che non aveva uguali nello Stazzemese. Andare a consumare qualcosa al bar del Lencio Meo dava uno smalto particolare, come entrare in un locale della marina. Ai residenti di Mulina erano praticati prezzi più favorevoli, ma niente gioco a carte né bocolate come avveniva all’appalto dala Nonzia. Si consumava da veri signori e si discorreva con garbo. Anche il Lorè non s’azzardava andare oltre al proverbiale tavà, tavà (bene,bene) che ripeteva ad ogni quartino di quel bianco delle Cinque Terre che andava giù come fosse giulebbe. Al primo piano c’erano tre sale da pranzo e una cucina che serviva per la porzionatura, per la preparazione degli antipasti e per lavare i bicchieri. Ad affiancare la Lella nel servire ai tavoli veniva cercato stagionalmente un giovane residente nello Stazzemese che avesse voglia di fare l’esperienza di cameriere. La Lella serviva gli ospiti indossando un vestitino a fiorellini risaltato una scollatura che riscuoteva successo, tanto che alcuni apprezzamenti sono stati scritti sul libro delle presenze: Con Lencio Meo, la trota il pollo e
Lella, fan vita e bella!
Il conto invece lo redigeva la Maria, la sorella più grande, sulla carta gialla che al tempo era utilizzata per incartare il pane. La sorella più piccola, la Laura, di professione infermiera all’ospedale di Pontedera, durante il tempo libero era addetta a stirare il tovagliato dell’osteria, le camicie bianche e i pantaloni con la piega perfetta dell’inappuntabile barman piemontese.
La fama dell’osteria del Lencio Meo si sparse subito nella Versilia del turismo balneare e dei ritrovi da ballo versiliesi. Così ben presto divenne metà dei personaggi protagonisti della bella vita in Versilia, di componenti di famiglie importanti, di prelati, di onorevoli, di giornalisti, scrittori, pittori e scul-
tori. Insomma di una genia di artisti fra cui anche stranieri, fra i quali va ricordata in maniera particolare la presenza, peraltro documentata sul libro delle presenze che ha firmato insieme a sua moglie
Charlotte Reihlen, l’acquarellista tedesco Oskar Elsässer, noto anche per la vivacità dei suoi disegni con matita, gesso, penna e gesso rosso che caratterizzava con una leggera stilizzazione. Elsässer è un artista molto conosciuto in Germania, dove ha esposto le sue opere a Karlsruhe, Gelsenkirchen, Stoccarda e Heilbronn. A seguito di una mia indagine, peraltro suffragata anche da una cartolina su cui è riportato un disegno stilizzato dei lavatoi della Torre di Carbonaia con tanto di firma, suppongo che Elsässer sia stato l’autore dei disegni sti-
lizzati che compaiono sul Menù del Lenco Meo e sui piatti e su altre suppellettili dell’osteria, fra cui la scritta a caratteri gotici presente sull’insegna originale di lamiera, in parte è stata recuperata dalla passione certosina di mia moglie Rossella. Fra i nomi conosciuti che hanno frequentato il Lencio Meo e hanno posto le loro firme sul libro delle presenze, oltre ai personaggi già citati, ci sono quelli di Arturo Dazzi, di Manlio Cancogni, di Marcello Tommasi, di Maria Beatrice di Savoia, di Nicola Pietrangeli, mentre per altri personaggi la firma potrebbe essere fasulla, poiché a fine cena c’era una gran voglia di scherzare. Nonostante Nicola Pietrangeli abbia scritto a conferma della goliardia che scoppiava a fine cena, “L’unico vero. L’altri tutti falsi”, quella firma Maria Meneghini Callas tutta attaccata che appare in un’altra pagina del libro delle presenze, se fasulla, è fatta maledettamente bene se confrontata con le firme vere della “Divina”.
Il cibo saporito e l’ottimo vino facevano un effetto effervescente su quella bella vita che la sera lasciava la rutilante e calda marina della Versilia per venire a godersi il fresco e la cucina del Lencio Meo. Nella storia della ristorazione della Versilia del mare e della montagna l’osteria del Lencio Meo fu un tentativo riuscito, una dimostrazione concreta su come le attività della montagna possono avvalersi della vantaggiosa reciprocità di crescita prodotta da un turismo disancorato e libero, ossia a tutto tondo, come quello “maremonti”. Un turismo che solo la Versilia può offrire ai suoi ospiti in maniera così straordinariamente ricca e varia di bellezze e di comunità. Una diversità di ambienti e di modi di vivere, ma tutti correlati a un unicum territoriale da preservare e da valorizzare: la Versilia. Oltre mezzo secolo fa l’Osteria del Lencio Meo ne dette una straordinaria dimostrazione.
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LA CHIESETTA DELLE BEFFE
Èuna
giornata splendida! Dalla chiesetta del Pasquilio il panorama abbraccia tutta la Versilia in un bagliore celeste, come il mare, là in fondo. Ho deciso di ripercorrere oggi il sentiero della mia infanzia quando nonna Carlina mi raccontava le gesta dei partigiani ricalcando passo passo il loro andare e venire dalla valle, nel loro travaglio di lotta e speranza. Dietro di me quella costruzione sacra, piccola, raccolta, eppure così maestosa in questo luogo che è rimasto cristallizzato nei decenni, “La piccola Cattedrale delle Apuane”! Nonna Carlina amava ripetere che quella era stata la beffa più sottile e furba che i partigiani avevano rifilato al nemico, un tiro mancino che aveva permesso ai coraggiosi combattenti di continuare la lotta, supportando la loro missione e nel contempo regalare al paese un gioiellino incastonato nella montagna. Chi avrebbe potuto opporsi alla costruzione di una chiesetta votiva dedicata alla Madonna?
La prima pietra fu posata proprio il 1° Aprile 1944, e molti esponenti della resistenza erano mischiati alla folla, protetti loro malgrado dagli squadroni mandati lì proprio per evitare che i ribelli sabotassero la cerimonia. In effetti, nei mesi a venire, ci sarebbe voluto molto coraggio e sfrontatezza per far passare sotto il naso del nemico, nascosti dentro le carriole, insieme alla calce e ai mattoni, i viveri indispensabili, le missive ardite, le armi mortali. Per il periodo della costruzione, completata però solo nel 1951, i tedeschi furono gli inconsapevoli complici dei loro stessi avversari.
L’orgoglio si trasformava in tristezza, quando, continuando nel nostro cammino dei ricordi verso il Monte Folgorito, Nonna Carlina leggeva sulle lapidi nei pressi della croce, nomi di Paolini e Tonacci, costretti dai loro aguzzini, a scavarsi la fossa, al bordo della quale li avrebbero fucilati di lì a poco. Ripeteva che tanti, troppi giovani erano morti per una guerra barbara, così come lo sono
tutte le guerre, e si raccomandava a me, che avevo meno potere del suo gatto, che tutto ciò non si ripetesse.
Proprio sul culmine del Folgorito le trincee ancora visibili, testimoniavano una strenue resistenza e la possibilità di avvistare il nemico financo alle falde Pisane. Mentre la nonna continuava a raccontare, io mi perdevo nell’immagine di questi uomini guerrieri a dispetto della loro indole, adoperare mitragliatrici e obici, moderne catapulte capaci di una precisione assai maggiore di quella dei cannoni. Infreddoliti ma vigili come la lepre che esce dalla tana, pronti a dare e ricevere una fine straziante, in nome di una vita che si poteva chiamare tale solo nella speranza della libertà.
Nonna Carlina non c’è più, e quella promessa strappata, vaga oggi vanamente nel cielo terso di questo angolo meraviglioso che è Montignoso. E’ il nostro paese, difettoso e perfetto. E’ ancora il tuo paese nonna.
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Testo di Manola Pieruccioni - Foto di Alessandro Colle
IL CONVIVIUM Versilia-Milano e ritorno
Per raccontare la storia del B&B Convivium e quella del suo proprietario è necessario riavvolgere il nastro della storia fino agli anni settanta, quando un giovane ragazzo di poco più di diciassette anni decide di lasciare il suo paese, Stazzema, per raggiungere la grande città più a Nord, Milano. Gli anni 70 sono stati purtroppo caratterizzati dal fenomeno di emigrazione di tanti ragazzi che ha portato allo spopolamento dei borghi montani a favore delle città dove risultava più facile trovare lavoro. Così inizia il viaggio di Claudio. E pensare che quando partì, i suoi occhi,
che fino a qualche giorno prima erano abituati al verde rigoglioso delle Apuane e ai poggi di castagni e vigneti, si trovarono di fronte la grandezza della metropoli, con i suoi palazzi verticali, le strade trafficate e rumori costanti di tram e automobili che sfrecciavano in stradoni immensi. Tuttavia Claudio ebbe poco tempo per realizzare quella che a breve sarebbe diventata la sua nuova vita. Era il 1972 e lui iniziò a lavorare come cameriere in un ristorante in zona Marghera, che ben presto divenne la sua nuova casa. Con pochi soldi in tasca riuscì a trovare una stanza in affitto a pochi metri di distanza dal ristorante; così la sera, quando rincasava dopo una lunga giornata di lavoro, si sdraiava nel sacco a pelo non prima di aver arrotolato le sue prime mance, sapendo che da lì a qualche ora sarebbe iniziata una nuova giornata di lavoro. In realtà per Claudio questo lavoro non è mai stato un peso, lui ha sempre accolto i clienti con la sua solarità genuina senza mai aver bisogno di fingere. Nonostante le giornate si succedevano una dopo l’altra senza sosta e sempre tra le mura del ristorante, non ha mai perso la voglia di sorridere e far sorridere non solo clienti che serviva ma anche gli stessi colleghi che gli stavano intorno, facendo diventare così il luogo di lavoro un ambiente piacevole e sempre luminoso.
... NON APPENA SI ENTRA
NEL B&B SI VIENE AVVOLTI
DAL PROFUMO INEBRIANTE DI DOLCI APPENA SFORNATI, PROVENIENTE DAL PIANO DI SOTTO, DOVE CLAUDIO
PASSA INTERE MATTINATE A PREPARARE DELIZIE CHE
PROPONE AI SUOI OSPITI PER COLAZIONE...
tunità di diventare socio del ristorante Topkapi, poi divenuto nel 2008 ristorante Convivium, nel cuore di Brera, il quartiere storico di Milano. Chi passava da li non poteva fare a meno di notare parcheggiata di fronte al locale la sua mitica e immancabile compagna di viaggio, la fiammante Harley Davidson, ma solo chi varcava le porte a vetri del Convivium veniva accolto dalla voce carica di energia e dalla sua vigorosa stretta di mano.
Dopo anni di gavetta tra tavoli del ristorante Mozzo di Via Marghera, nel 1985 ebbe l’oppor-
Il Convivium era il crocevia di clienti variegati, c’erano gli avventori del sabato sera, la clientela storica che decideva di passare la domenica in fami-
glia a pranzo, c’erano i calciatori con le loro diete particolari o manager di società che sceglievano il locale per discutere di affari nella breve pausa pranzo, o ancora rinomati stilisti che cenavano al Convivium dopo la serata della fashion week In ogni caso per Claudio ogni cliente era importante e meritava la sua attenzione. Aveva la capaci-
tà di catalizzare gli sguardi dei clienti, ma senza invadere i loro spazi, con eleganza e discrezione sapeva quando scherzare o quando essere seri. La sua voce calorosa e profonda che dalle sue parti è conosciuta come “grottaiola” (cioè dell’Alpe della Grotta, ora rifugio CAI Forte dei Marmi) è infatti rimasta intatta. Le sue origini stazzemesi le ha sempre raccontate con orgoglio a tutti i clienti che al tavolo si intrattenevano a parlare con lui.
Sua madre è nata e cresciuta all’Alpe della Grotta e il piccolo Claudio, già all’età di dodici anni era solito correre su e giù per le mulattiere per raggiungere il paese o ancora più sotto il Pontestaz-
zemese per comprare all’ alimentari quello che sua zia Germana aveva annotato su un foglietto di carta, per poi ritornare di corsa su fino alla Grotta. Le sue gambe conoscono bene le salite e le discese di quei monti che circondano la vallata di Stazzema e che Claudio ha sempre percorso senza fatica, con la naturalezza che solo un giovane possiede. Questa tenacia e resistenza se l'è portata anche al ristorante, continuando nel corso degli anni a percorrere le sale del locale senza stancarsi mai, fino al 2019, anno in cui decise di chiudere un capitolo importante della sua vita e iniziare una nuova avventura proprio nel suo pa-
68 Il Convivium 69
Testo e foto di Claudia Tommasi
[1] [2]
[1] Claudio durante una serara ti lavoro
[2] B&B Convivium a Stazzema
ese di origine, si perché anche se gli anni milanesi, se pur carichi di fatica e sacrifici, sono stati gli anni in cui ha realizzato i sui sogni di ragazzo con una forte indole intraprendente, dove ha conosciuto l’amore e costruito la sua splendida famiglia, lui non ha mai dimenticato la sua Stazzema. Già qualche anno prima infatti, nel 2015, a seguito del terremoto che colpì anche la zona dell’entroterra versiliese, Claudio si ritrovò a fare i conti con danni provocati dalle scosse sulla casa ereditata dai suoi genitori. Così, con sua moglie Marisa e le sue due figlie decise di dare una nuova linfa a quelle vecchie mura. Grazie ai risparmi di una vita e alla voglia di ritornare a vivere in quei luoghi cosi dolcemente custoditi nella sua memoria
[3] Famiglia
[4] Claudio con Lorella Cuccarini
[5] Claudio con Claudia Gerini
[6] Claudio con Gianni Infantino (presidente della FIFA)
[7] Claudio con Adriano Galliani
[8] Claudio con Eros Ramazzotti
decise di ristrutturare l’immobile ormai ridotto ad un rudere e trasformarlo in un Bed&Breakfast.
All’epoca quell’idea sembrava un’impresa titanica, quasi una follia pensare di aprire una struttura in un paese senza più attività ricettive, si perché negli anni lo spopolamento del borgo aveva di fatto visto la chiusura di tutte le attività presenti.
In tutta Stazzema non restava una sola bottega aperta, lo storico albergo aveva ormai chiuso da anni e la stessa sorte era toccata anche all’ultimo e storico bar gestito da Piè.
Tutto questo, però, non frenò la volontà di Claudio e della sua famiglia, che hanno sempre creduto nelle potenzialità di Stazzema e della bellezza racchiusa in questo borgo antichissimo ai piedi
del monte Procinto. Claudio sapeva bene che il paese poteva offrire tanto ai turisti che si avventuravano sulle Alpi Apuane in cerca di paesaggi unici e di grande effetto. Perché la Versilia è famosa per le sue coste ricche di stabilimenti balneari, tra Forte dei Marmi e il Lido di Camaiore, ma altrettanto sconosciuta nella parte dell’entroterra, costituita da quelle montagne che si vedono dal mare, così alte, aguzze e frastagliate e che nascondono bellezze e panorami mozzafiato che raramente si ritrovano in altre parti della penisola. Claudio questo lo ha sempre saputo e oggi, dopo quattro anni di attività nel suo piccolo paese di origine, può dire di essere riuscito nella sua mission: aver accolto turisti provenienti da tutte le parti del mondo. Sono tante infatti le persone che stanno iniziando ad apprezzare le bellezze paesaggistiche che regalano le Alpi Apuane e primo fra tutti il paese di Stazzema, meta prediletta degli escursionisti per raggiungere le vette delle montagne meridionali.
Non appena si entra nel B&B si viene avvolti dal profumo inebriante di dolci appena sfornati, proveniente dal piano di sotto, dove Claudio passa intere mattinate a preparare delizie che propone ai suoi ospiti per colazione. Perché se prima era il ristorante la sua casa adesso è la cucina del B&B il suo nuovo regno dove sperimenta nuove ricette con l’aiuto di sua figlia Claudia Lo scopo di Clau-
[9] Scorcio panoramico sulle apuane dal B&B Convivium
[10] Muro della vecchia casa danneggiato dal terremoto
[11] Claudio che prepara dolci nel B&B Convivium
[12] Sala colazioni del B&B
[13] Vecchia foto di Claudio e socio Nicola nel ristorante Topkapi negli anni ‘90 (prima di diventare Convivium)
[14] Camera da letto con vista sulle Apuane
[15] Claudio con la moglie alla reception
dio è di sorprendere il cliente facendogli assaggiare dolci fatti con prodotti che il territorio offre, il più possibile a km zero: dalla buonissima farina di castagne biologica con cui prepara tradizionali necci (simil crespelle con farina di castagne) o il castagnaccio, ai muffin con confetture di frutti selvatici apuani o ancora il miele di castagno che su queste montagne acquista un aroma del tutto particolare.
La scelta di dare al B&B lo stesso nome del ristorante di Milano ha un significato ben preciso: Il suo passato milanese, fatto di sacrifici ma al
contempo di grandi soddisfazioni, Claudio non lo ha voluto certo dimenticare, perché il Convivium ha rappresentato e continua tutt’oggi a rappresentare parte integrante del suo essere, come un qualcosa che non può prescindere dalla sua persona.
La sua scelta di ritornare nel paese di origine per aprire una nuova attività è inoltre la dimostrazione che scegliere di restare, nel suo caso ritornare,
non è necessariamente una lotta di resistenza tra l’uomo e la natura dove la vita di paese diventa qualcosa di impraticabile, ma oggi più che mai decidere di spostarsi a vivere in zone rurali, come Stazzema, può essere una scelta di vita, oltre che possibile e più sostenibile, anche una scelta che può regalare grandi soddisfazioni non solo per la migliore qualità di vita che offre ma anche in ambito lavorativo.
Versilia-Milano e ritorno 71 70 Il Convivium
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Ph: Mario Zorrone
CICLI MAGGI La corsa del piccolo velocipede
Testo e foto di Max Dondini/Studiodellaluce
Cicli Maggi è oggi un’ istituzione nel mondo della bicicletta. Nel negozio di Forte dei Marmi si possono trovare modelli di tutti i tipi e per tutte le tasche, dal top di gamma alle biciclette da passeggio, bici da strada, mountain bike, per bambini, nonchè tutti tipi di accessori ed una vasta scelta di abbigliamento, oltre all’assistenza fornita dai competenti meccanici.
Claudio, Rossella e Nicolò, insieme al loro professionale staff, guidano quest’azienda con competenza e calorosa accoglienza, facendo diventare clienti amici e viceversa. Questo probabilmente è il segreto della lungimiranza e del successo che oggi vanta Cicli Maggi, attività che esiste da oltre un secolo. Per fare una metafora immaginiamo una biciclet-
ta, anzi per essere più esatti un velocipede, che viaggia ininterrottamente per le strade del mondo da ben centodiciassette anni.
Tutto cominciò nel lontano 1906 a Camaiore, con il primo “vagito” del neonato velocipede dorato, tutt’ora simbolo dei Cicli Maggi, che si udì flebile in una stalla, assenti il bue e l’asinello, gli fecero da contorno ruote e pezzi di biciclette tra il profumo della gomma e del mastice. L’attività inizialmente stentò a decollare ma il piccolo velocipede fu tenace e crebbe fra l’aria della montagna mischiata al salmastro del mare, accudito dal fondatore Priamo Maggi detto Bronzino per il colore della pelle dato dagli elementi naturali. Passarono gli anni e con spirito d’iniziativa e notevole coraggio, due dei sette figli di Bronzino, Ilio e Beppino, aprirono una loro attività, sempre nel settore bici, a Forte dei Marmi. Così il piccolo velocipede si spo-
stò simbolicamente e crebbe, fra tante forature, rattoppi e mastice casereccio fatto con vecchi copertoni bolliti dentro bidoni metallici adagiati pericolosamente sul fuoco. Beppino Maggi, al ritorno dalla guerra, facendo di necessità virtù, aprì una propria attività nella zona di Roma Imperiale, sostenuto dalla moglie Beppina, arrivata avventurosamente da Camaiore con un carro pieno di biciclette. Il nuovo negozio, se così vogliamo chiamarlo, visto che si trattava di un piccolo garage che fungeva anche da abitazione, fu una scommessa che nonostante gli immani sforzi di Beppina e Beppino, genitori del nuovo arriva-
to Claudio, si rivelò quasi persa. Ma il velocipede ormai cresciuto non mollò e continuò la sua coraggiosa corsa verso il futuro.
La famiglia Maggi composta da Beppino, Beppina e Claudio, onorando il simbolo del velocipede, con impegno e tenacia riuscirono a far fiorire l’attività. Arrivati agli anni ottanta il negozio decollò definitivamente alla guida di Claudio e della moglie Rossella e la sua fama crebbe sempre più grazie anche all’inserimento nella gestione del figlio Nicolò.
Il piccolo velocipede dorato brilla tutt’ora sull’insegna al negozio Cicli Maggi come nella “Walk of Fame”, pronto a ripartire verso nuove avventure.
74 Cicli Maggi La corsa del piccolo velocipedei 75
...TUTTO COMINCIÒ NEL LONTANO 1906 A CAMAIORE, CON IL PRIMO “VAGITO”
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