COLLANA LE MUSE
Non dicere ille secrita a bboce
© Cartman Edizioni 2016 Cartman Edizioni corso Massimo D’Azeglio, 102 – 10126 Torino (Italia) tel. +39.0118905849 www.cartmanedizioni.it – redazione@cartmanedizioni.it ISBN 13: 9788889671634 Realizzazione grafica di copertina: Dorina Xhaxho Editing: Deborah Lugli, Gian Paolo Caprettini In copertina: Ave Appiano, Onda forma, 2016 (dettaglio) Finito di stampare nel mese di novembre 2016 da Grafica Pollino
Alberto Decostanzi
L’INCANTEVOLE PAURA Pupi Avati e il cinema horror italiano
CARTMAN
Desidero ringraziare vivamente per il fondamentale sostegno, sia in termini lavorativi, sia in termini affettivi: la mia famiglia, la famiglia Sposito, il professor Silvio Alovisio, Steve Della Casa e il mio amico Alessio Vacchi. Grazie di cuore a tutti voi. Un ringraziamento speciale a Giulia Sposito per la sua preziosa vicinanza.
Indice Prefazione di Silvio Alovisio Introduzione Note sulla carriera ANNI SETTANTA L’apoteosi del genere, la costruzione di una ‘fola’ Tra la classicità del genere gotico e la violenza della rivoluzione nel thriller: gli esordi L’esordio ufficiale: il ‘pudore delle emozioni’ e l’autonomia nel genere Sbeffeggiando il thrilling: l’efficacia di una risata macabra La ‘fola’ diventa un film: la poesia esoterica contrapposta alla violenza visiva Tra coerenza e innovazione ANNI OTTANTA L’inizio della fine, la fedeltà al racconto nero La ‘pornografia del gore’ e la fantasia emiliana: i morti viventi di “Zeder” Tra sobrietà e commercializzazione dell’orrore: confronto con “Incubo sulla città contaminata” e “Le notti del terrore” La concretezza del terrore e lo ‘splatter nichilista’: confronto tra “Paura nella città dei morti viventi” e “...e tu vivrai nel terrore – L’aldilà” L’indipendenza avatiana tra esordienti e maestri del terrore “Zeder”, ovvero il riassunto della fedeltà alla ‘fola’
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ANNI NOVANTA Il declino de(l)genere, il ritorno alle radici La forza della ‘classicità’, il tramonto di un’epoca: “L’arcano incantatore” Tra orrori cibernetici e patti diabolici: confronto con “M.D.C. − Maschera di cera” Nuove vie nel genere: confronto con “Dellamorte Dellamore” Due maestri alle soglie del Duemila La poetica di Pupi Avati: il ‘canto del cigno’ dell’horror italiano
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Conclusione Postfazione di Steve Della Casa Bibliografia Filmografia parziale
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Prefazione di Silvio Alovisio
Non di rado la critica italiana ha tentato di sintetizzare – non soltanto con intenzioni benevole ma spesso anche ‘liquidatorie’ – Pupi Avati e il suo cinema tutt’altro che semplice e prevedibile con lapidarie e improbabili formule critiche (“della sostenibile leggerezza del film d’autore”, “il grande incantatore”, “il Truffaut dell’Italietta”, “un talento esile ma vero”, “un cantastorie per immagini”, “il gran raccontatore di piccole storie”, ecc.). Nessuna di queste definizioni, tuttavia, riesce a cogliere la problematica imprendibilità e la feconda incollocabilità della filmografia avatiana meglio di questa dichiarazione rilasciata dal regista emiliano nel 2014, nel corso di una lunga e illuminante intervista raccolta da Elisa Belotti: “Io credo che molte persone non mi considerino un regista cinematografico, mi considerano un’anomalia, ma questa è la definizione che preferisco: io voglio essere un’anomalia”. Con un orgoglio pacato ma tutt’altro che ‘buonista’ (così come non sono buonisti i suoi film, malgrado i facili equivoci alimentati da certe fortunate ma superficiali esegesi), Avati rivendica, anche a costo di pagarne la conseguente solitudine, il suo coerente ‘disallineamento’ rispetto agli stereotipi che incasellano le prismatiche identità del regista nel canone critico-storiografico del cinema italiano contemporaneo. Nessuno di questi stereotipi, in effetti, riesce a ingabbiarlo: Avati non è un sapiente artigiano, non è un autore ombelicale, non è un regista di genere, non è un bizzarro cineasta naif, non è un laccato calligrafico, non è un raffinato intellettuale, non è un poeta contadino, non è un cronista cinico del presente, non è un elegiaco e consolatorio estimatore del passato… Oppure Avati è un po’ di tutto questo, ma il risultato finale, pazientemente costruito nei decenni, gradualmente affinato sul piano tecnico e affabulatorio, e poi sempre ridiscusso in quasi mezzo secolo di cinema e televi-
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sione (dalla grottesca e surreale controcultura di “Balsamus” alla fiction minimalista apparentemente tradizionale di “Le nozze di Laura”) non equivale alla somma dei singoli addendi ma produce, appunto, qualcosa di anomalo, e quindi di straordinariamente prezioso per il nostro cinema. Ha più che ragione, quindi, un critico acuto come Giona A. Nazzaro, quando scrive che il cinema avatiano “viene da un altro mondo. Un mondo del cinema italiano che non esiste più. E dunque proprio per questo Pupi Avati è un regista sul quale ricominciare a riprendere a ragionare criticamente”. Nazzaro, nel reclamare un’attenzione finalmente sistematica e meditata verso il cinema di Avati, constata implicitamente l’assenza di studi approfonditi sul tema, e in effetti non gli si può dare torto. Da un lato, a dire il vero, si deve riconoscere che nell’ultimo decennio la bibliografia su Avati è andata arricchendosi in modo vertiginoso, non soltanto per i validi contributi miscellanei spesso legati a convegni, mostre o retrospettive (si vedano in particolare i libri curati da Piera Raimondi, Andrea Maioli e Adriano Pintaldi, nonché gli atti dei convegni di Ravenna, nel 2004, e di Assisi, nel 2008) ma anche grazie alla voce diretta dello stesso Avati, ben presente nei libri curati da Simone Isola e dal team Adamovit, Bartolini e Servini, e soprattutto esclusiva protagonista nelle due recenti autobiografie del regista (“Sotto le stelle di un film”, del 2008, e “La grande invenzione”, del 2014). Dall’altro lato, però, manca ancora, a distanza di oltre vent’anni dal prezioso ma necessariamente sintetico “Castorino” di Antonello Sarno, uno studio organico e approfondito sull’intero corpus cine-televisivo avatiano, così come restano ancora non poche zone grigie (o terreni k?) da esplorare. Una di queste zone risiede sicuramente nel rapporto di Avati con i generi, specchio anamorfico di quella imprendibilità di cui si scriveva poc’anzi. È persino banale ricordare qui come Avati abbia frequentato i generi più diversi, dalla commedia grottesca al family drama, dal film in costume all’horror, dal thriller al melodramma. In nessun caso, però, il regista emiliano ha aderito in modo plateale o inerte ai canoni dei diversi generi,
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così come, inversamente, in nessun caso li ha vampirizzati in nome di un autoritario e irrispettoso egotismo autoriale. In tutti i casi, semmai, Avati ha costruito – per ritornare alle sue dichiarazioni citate in apertura – un’anomalia, edificando una sorta di ‘genere Avati’, al tempo stesso (e qui sta forse il suo segreto) autoctono e tradizionale. Ma attenzione: un film ‘all’Avati’, anche nei casi meno ispirati (peraltro in minoranza nella sua imponente – e anche sotto questo aspetto anomala – filmografia), non è mai un calco ridondante dei precedenti, persino quando si muove all’interno dello stesso genere. Come ci ricorda Simone Starace, ogni volta che Avati ritorna a un genere, egli “minaccia […] di sorprendere tutti e restare, nonostante tutto, se stesso” (ed è sufficiente, come fa molto bene Decostanzi in questo volume, confrontare “La casa delle finestre che ridono” con il successivo “Tutti defunti tranne i morti”, per rendersene subito conto). Lo studio di Decostanzi si distende con sicurezza proprio sopra questo invitante ma un po’ insidioso terreno. Il cinema di genere italiano, in parte coincidente con quel cinema popolare ripensato storicamente in modo esemplare da Giacomo Manzoli nel recente “Da Ercole a Fantozzi”, è da tempo oggetto di ampia rivalutazione. I primi a riconsiderarlo furono alcuni suoi tenaci e competenti fan, animatori di coraggiose e lodevoli imprese editoriali come Nocturno o Amarcord. Solo in questi ultimi anni, poi, anche la comunità scientifica accademica si è gradualmente interessata alla riscoperta di questo grande continente in parte ancora sommerso. Il lavoro di Decostanzi, frutto di una rigorosa ricerca universitaria ma anche di una passione vorace (e contagiosa…) per il cinema di genere italiano, si colloca a metà strada tra questi due poli di attenzione, legati ovviamente a due diversi approcci metodologici. Il cosiddetto ‘gotico padano’ di Avati è stato in più occasioni materia di riflessione, eppure, almeno sino ad oggi, mi pare che sia rimasta ancora in buona parte inesplorata quella strada che nel 2004 Roy Menarini, in occasione del già ricordato convegno ravennate, aveva indicato come un
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possibile ma fondamentale indirizzo di studio dell’horror avatiano, ossia il rapporto di quest’ultimo con il cinema di genere italiano e internazionale. Il lavoro di Decostanzi si propone di colmare questa lacuna, riuscendovi pienamente: i film fantastici e orrorifici di Avati sono sottoposti ad analitiche comparazioni con le produzioni di genere coeve, attraverso indagini serrate e complesse (penso in particolare, ma non solo, all’ampia parte dedicata a “Zeder”). Il risultato è a mio avviso doppiamente felice: dalla pertinenza e dalla profondità dei confronti (indizio di una metodologia comparativa ancora troppo poco frequentata dagli storici del cinema) emergono infatti non solo le peculiarità degli anomali horror di Avati (a partire dal loro originale contributo a quella “topografia dell’orrore nazionale” identificata di recente da Simone Venturini come aspetto fondante dell’horror italiano degli anni Settanta e Ottanta) ma anche la sorprendente complessità stilistica e culturale, l’eterogenea vitalità del nostro cinema dell’orrore. In definitiva, quindi, L’incantevole paura non è solo un libro su Avati, e non è solo un libro sul cinema di genere italiano. Forse è entrambe le cose. Sicuramente è qualcosa di più. Buona lettura.
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Postfazione di Steve Della Casa
Pupi Avati è uno dei più grandi narratori dell’Italia contemporanea. Lo è quando dirige film, lo è quando scrive, lo è quando parla in pubblico, lo è quando conversa con gli amici. Come ben sappiamo, queste sono situazioni molto differenti tra loro, ed è difficile trovare nelle persone un’uniformità di comportamento. Pupi Avati possiede i tempi narrativi come nessun altro, credo saprebbe rendere interessante anche una discussione sulle guide telefoniche. Per me che immeritatamente conduco da tanti anni un programma radiofonico, Pupi Avati è un’ancora di salvezza: se temo che una trasmissione possa risultare noiosa (per argomento o per ospite che è stato previsto), uno dei correttivi migliori è prevedere un intervento magari telefonico di Pupi; viceversa, sapere che si farà una puntata intera di Hollywood Party con e su Pupi Avati significa arrivare tranquilli e rilassati al momento della messa in onda, perché è certo che quella trasmissione funzionerà dal primo all’ultimo minuto. Per me che (come direbbe Francesco De Gregori, un altro che adora il cinema di Pupi) amo “la risata forte e l’amicizia a cena”, frequentare Pupi significa sapere che quella serata sarà leggera, profonda, divertente. Posso garantire, conoscendo abbastanza bene il mondo del cinema italiano, che non è poco, e soprattutto che non è comune. Non è che si vada d’accordo proprio su tutto, in verità. Forse la cosa che divide di più il sottoscritto e Pupi è il giudizio sui suoi film: quali sono i più riusciti? Io di soliti gli cito alcuni dei primi, poi “Regalo di Natale”, poi “Il figlio più piccolo” (che per me è spettacolare) e la voce diventa emozionata quando parlo degli horror padani, “La casa delle finestre che ridono” e “Zeder”. Sui primi titoli lui sorride e non dice niente, così come per “Regalo di Natale” e “Il figlio più piccolo”. Sugli horror si mette a ridere, e dopo un po’ di anni che lo conosco mi sono fatto un’idea del
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perché. Sono due film che gli piacciono, e molto. Però secondo me ha paura che siano considerati quasi in contrapposizione con gli altri film. Come se uno dicesse: tu sei bravo a fare i film di genere, mentre quelli più autoriali ci piacciono meno. In realtà non è così, e chi non si accorge che tra “Una gita scolastica” e “La casa delle finestre che ridono” c’è una perfetta continuità o è cieco o vuole esserlo. Gli horror padani di Pupi sono invece la riprova che chi sa narrare lo sa fare in qualsiasi genere. Ultimamente mi è capitato di vedere una sequenza tagliata di “Toby Dammit” di Fellini. Il film è la storia di un attore western che viene a Roma per girare un film, si trova immerso in un incubo e si scoprirà poi che è morto. La sequenza tagliata mostra un duello western che lui ha girato. Fellini l’ha tagliata perché gli sembrava ridondante e forse lo era, visto che dura qualche minuto. Ma per quanto mi riguarda è una sequenza perfetta, uno dei migliori duelli girati in un periodo in cui di western in Italia se ne giravano cinquanta all’anno. Ecco, gli horror di Pupi sono un esempio di come Pupi sappia narrare in modo serrato e divertente anche quando teoricamente dovrebbe essere costretto all’interno della gabbia del genere. In “La casa delle finestre che ridono” Gianni Cavina è un autista alcoolizzato che sa molte cose e fa una brutta fine. È un personaggio che si vede mille volte negli horror, ma è anche un personaggio che potrebbe fare capolino in tanti altri film di Pupi. Sa fare horror con maestria restando sempre lui: era quello che confusamente ho cercato di dire. Come forse si capisce, adoro Pupi Avati: il suo cinema, ma anche lui stesso. Mio figlio che è piuttosto giovane mi ha detto una volta che “La casa dalle finestre che ridono” potrebbe essere una parentesi narrativa dentro “Una gita scolastica”. Sembra paradossale, ma è così. Mio figlio si occupa di studi danteschi, ed è particolarmente attento alla costruzione narrativa e alle letture multiple. Che possa diventare anche lui un avatiano di ferro?
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