Racconti dal mondo - Scrivere le migrazioni

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Antonella Dolci

Pasta e fagioli all’ambasciata

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re, lo stomaco che si stringe, il sudore. La paura come qualcosa di materiale, un’aria greve, mefitica, un vento che torce le facce, china le schiene e rimescola i ragionamenti e le idee, per cui non si sa più se quello che si pensa, che si pianifica, che si crede, è frutto di riflessione o di paura. Nei giorni che seguirono, e in quella ricerca di un posto per dormire, ne vedemmo diverse manifestazioni. Aprivano la porta facce prima amiche, ora stranamente inespressive. Vidi passare, sul viale che bordava il Pedagogico, il prof. Sanchez, dirigente dell’Istituto di Lingue Romanze. Fermai la macchina per salutarlo e gli chiesi: «Come sta, professore?». Impallidì, si guardò intorno (il viale era vuoto) e poi mi disse a voce altissima, mentre gli occhi gli sfarfallavano intorno: «Come vuole che stia? Sto benissimo, naturalmente, sto benissimo». O pochi giorni dopo, in visita a casa di una cognata che era stata malata. Apparve, lasciando acceso il motore della macchina, un vecchio amico che le aveva prestato, durante la convalescenza, un piccolo televisore. «Non ti serve più? Lo posso riprendere? Ciao, ciao...» e scomparve. Commentammo, allibite e divertite allo stesso tempo, la sua fretta che non gli aveva lasciato neppure il tempo di chiedere notizie dei suoi più vecchi amici. Ma non furono tutti così: ricordo la casa del nostro amico L., regista, che non solo fu felicissimo di vedermi, chiese di tutti e raccontò di tutti, scambiando con me informazioni su ambasciate accessibili, ma mi comunicò immediatamente, trionfante, che, appena aveva sentito del golpe, era corso all’Istituto filmico, riuscendo così a salvare tutto il materiale del film sulla storia del movimento operaio cileno, che poi realizzò nel suo esilio in Germania. Per non parlare dell’amica italiana del consolato, alla quale telefonai dopo qualche esitazione perché non volevo comprometterla e che mi rispose esultante, aveva cercato di raggiungerci nel Cajón ma non aveva potuto superare i controlli, e ci accolse a casa sua senza preoccuparsi delle possibili denuncie dei vicini e dei danni che questo poteva arrecare alla sua carriera. Dopo due giorni parve la soluzione migliore che El Gordo cercasse rifugio all’Ambasciata d’Italia. La nostra amica avrebbe trovato modo di farlo entrare. Quanto a me, sarei rimasta fuori, dormendo in case sicure, sarei tornata al lavoro all’Istituto Italiano di Cultura e avremmo studiato che possibilità c’erano di rimanere in Cile. Ci demmo appuntamento ogni sera alle sette al cancello del giardino dell’ambasciata per scambiarci informazioni... Intanto era iniziato il “ritorno alla normalità”. Invece delle liste di ricercati si sentivano ogni giorno alla radio appelli a rimettere in marcia il paese.


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