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Dal capitolo 3: La fata …per molti giorni avevano visto soltanto mare, finché la nave aveva finalmente raggiunto un porto. Gi era con la madre, la sorella e altri passeggeri sul ponte, e guardava giù sul molo, che gli sembrava vertiginosamente profondo. Laggiù c’erano alcuni uomini mezzi nudi, dalla pelle stranamente scura, e vicino a loro altri uomini dalla carnagione chiara, come lui, ma vestiti da belle uniformi. I poliziotti tenevano in mano dei grossi bastoni. Vicino a lui c’erano alcune ceste di pane e di frutta che il cuoco, per ordine del comandante della nave, aveva fatto portare sul ponte. Per Gi era come un gioco, e forse lo era anche per gli altri passeggeri: gettavano pezzi di pane o mele giù sul molo, e gli uomini mezzi nudi si gettavano per terra a raccoglierli. Era come una gara, tanto divertente quanto incomprensibi-


le. Lui era povero, ma non si era mai precipitato a quel modo su un pezzo di pane. Poi la madre gli spiegò che quei poveretti morivano di fame, e allora sentì pietà. Tuttavia quei sentimenti si mescolavano all’ebbrezza per ciò che a lui, bambino, sembrava pur sempre un gioco, anche se ora aveva acquisito un valore diverso. Infine dalla nave cominciò a piovere qualcosa che, rimbalzando sul molo, emetteva un suono diverso. Erano monete, e la scena cambiò improvvisamente. La scura pelle degli indigeni si mescolò alle splendide divise dei soldati, i quali misero in funzione i manganelli. Il gioco era finito, e un’immagine gli rimase per sempre impressa nella mente. Un poliziotto faceva roteare il bastone, come un giocoliere del circo, mentre si avvicinava velocemente a un indigeno chino a raccogliere qualcosa da terra; gli


dava poi un calcio facendolo finire a terra a mangiar la polvere, raccoglieva la moneta, la poneva tra i denti come per masticarla, la guardava attentamente e se la metteva in tasca riprendendo con aria soddisfatta il buffo gioco del bastone… Dal capitolo 6: Caile …eppure il progresso aveva prodotto un certo grado di prosperità mai visto prima, persino in quell’angolo remoto, e questo aveva causato un cambiamento nel modo di vita e nell’atteggiamento della gente. Guardando la contrada giù in basso, Gi ora pensò a come soleva sentir cantare dalle case e dai campi vicini, e come tutto ciò fosse scomparso col passare degli anni. Era come se gli uomini fossero più felici quando la vita era più dura. Forse adesso avevano ti-


more di mostrare le proprie emozioni o, se lo avessero fatto, avrebbero cantato la loro infelicità , l’origine della quale non riuscivano a comprendere. Erano piÚ ricchi, ma era come se il progresso avesse preso la direzione sbagliata: i disagi sembravano risiedere nelle loro menti. Come gli altri membri del mondo animale, gli uomini non erano fatti per vivere in gabbia una vita sedentaria. Scorgeva similarità tra certi uccelli tenuti in gabbie coperte da un panno nero per alcune settimane prima della stagione della caccia, e gli esseri umani contemporanei che vivevano in ambienti chiusi, lontano dal loro habitat naturale: come gli uomini, gli uccelli smettevano di cantare, perchÊ credevano fosse notte, e attendevano, attendevano invano le luci del primo mattino che non arrivavano mai. Ma quando il panno nero


scompariva e le gabbie mimetizzate erano appese agli alberi dei monti, gli uccelli cantavano la loro felicità con sforzo raddoppiato, attraendo i loro amici volatili a portata di tiro dei cacciatori. Chissà se anche gli uomini, tolti i panni neri della vita moderna, avrebbero iniziato di nuovo a cantare… Dal capitolo 9: Caterina …e mentre la guerra altrove creava distruzione e morte, nella contrada Caile generava la vita. Due soldati di passaggio, diretti al fronte, avevano dimenticato per un po’ gli orrori della guerra, e ora due donne cullavano i loro figli senza padre, segnate a dito. La gente pensava che avessero perduto la loro dignità, così che i padri dovevano reagire ripudiando le figlie ‘peccaminose’ per salvare il proprio onore.


Ma non tutti gli uomini seguivano il gregge. L’amore del padre per la figlia Giuliana, una delle due ragazze madri, aveva sconfitto il suo egoismo. Non solo aveva preso in casa la figlia e il bambino, ma camminava a testa alta e rispondeva ironicamente ai sorrisi dei maligni affermando con orgoglio: “Signori, mia figlia almeno ha dimostrato di non essere sterile”. Michele invece, il padre dell’altra ragazza, erede incorruttibile delle vecchie tradizioni, cacciò di casa la figlia assieme al frutto del suo ‘errore’. Lucia dormiva col neonato nei fienili della contrada, ed essendo i suoi seni privi di latte, s’inoltrava furtivamente nella stalla del padre durante la notte e mungeva la capra per sfamare il bambino. E Michele si lamentava con aria sorpresa: “Non capisco perché la capra non produca più il latte. Dovrò venderla”.


Un giorno Lucia calzò gli zoccoli di legno, prese il bambino in braccio e salì i lunghi pendii sino all’anfiteatro roccioso dove, vicino a un passo alpino, era ancora dislocato un campo militare. Cercò il padre del bambino e lo trovò. Fissò negli occhi il soldato dallo sguardo imbarazzato, gli posò nelle mani uno strano fagottino e disse con tono deciso: “Questo è anche figlio tuo. Tienilo tu ora, che io sono stanca”. Poi se ne andò e si nascose tra le rocce. Stette là seduta per un’ora, un’eternità fatta di pensieri che nuotavano nel mare della disperazione. Infine si accese in lei uno schermo, e subito apparvero le immagini di un bambino piangente. Si rendeva conto adesso che non aveva mai pensato di abbandonare il figlio, che il suo gesto era stato provocato da un impulso irresistibile di trovare sfogo alle sue pene. Tornò a riprendersi il fi-


glio, ritornò ai fienili della sua contrada e a mungere furtivamente la capra… Dal capitolo 10: La zucca …così, com’era accaduto ad altre generazioni sotto regimi autoritari passati, i bambini di questa generazione erano sistematicamente indottrinati dal regime attuale. Marciavano e cantavano al ritmo di canzoni patriottiche imposte dal fascismo. Caterina ed Eugenio dovettero assistere al passaggio del Duce, giù al centro del paese, e fargli il saluto romano. A scuola i preparativi per il grande evento erano in pieno svolgimento, e gli scolari sostenevano un addestramento meticoloso, in modo che tutto fosse perfetto. Ma un giorno accadde un fatto strano. A quei tempi non era inconsueto per gli alunni ripetere diverse volte la


stessa classe, perché erano spesso chiamati ad aiutare i genitori nelle attività agricole stagionali e non potevano frequentare le lezioni con la necessaria regolarità. Così un giorno Luigi, che per età e costituzione fisica era già grande come il maestro, durante un’esercitazione anziché gridare ‘Viva il Duce!’ gridò ‘Muso da can!’ A quel punto, sommerso dalle risate della scolaresca, per evitare complicazioni il maestro ruppe le righe. Poi, per distendere un po’ gli animi e far dimenticare l’accaduto, organizzò un gioco, una specie di caccia al tesoro: nascose un uovo fresco sotto il cappello che aveva in testa, e gli alunni dovevano ora trovarlo. E Luigi, il ‘sovversivo’, che aveva nel frattempo sbirciato, finse per un po’ di cercare qua e là, girando più volte attorno all’insegnante; poi improvvisamente gridò: “Ecco l’uovo!” e


diede una gran manata al cappello dall’alto al basso, schiacciando l’uovo sulla testa dello sfortunato maestro… …con i secchi colmi d’acqua, Maria Rosa stava ora ritornando verso il centro della contrada, lungo il sentiero appena percorso. Aveva ancora le grida che le risuonavano nelle orecchie, quando vide il giovane Remo seduto su un muretto. Con lui c’era il figlio di Maria Rosa, Eugenio, con il quale sembrava stesse confabulando. Per assecondare le supposte trame dei due, che stavano già nascondendo qualcosa alla sua vista, guardò da un’altra parte, passò oltre, e si diresse verso casa. Eugenio era allora quasi quattordicenne, era già grande per la sua età e, a differenza dei fratelli Enrico ed Emilio, assomigliava di più al padre. Era coetaneo e amico di Remo. Ma non era l’età


a favorire la loro amicizia, bensì un ideale comune: sconfiggere ad ogni costo la monotonia. Avevano recentemente deciso di prendere un’enorme zucca dal campo di Adelmo, che da qualche tempo aveva attratto la loro attenzione. Eugenio era inizialmente riluttante, perché aveva ancora nella mente le conseguenze dell’ultima avventura. Aveva ereditato dal padre l’abilità e la passione per la lavorazione del legno. Aveva scorto un albero con un tronco bello dritto, e ogni volta che lo guardava, immaginava un paio di sci e si vedeva volare giù per i ripidi pendii nevosi della vallata a piena velocità. Ma c’era un problema: l’albero era situato nel posto sbagliato, in un bosco che non apparteneva alla sua famiglia. Poteva chiedere al proprietario… E se avesse detto di no? Decise quindi di procedere e di affrontare le conseguenze più tardi. E


mentre gli sci stavano prendendo forma sotto le sue mani esperte d’artigiano provetto, giunsero le domande indiscrete della madre. Maria Rosa non usava mai punizioni fisiche con i figli, e con loro non alzava mai la voce; c’era così tanto rispetto per lei, che un suo sguardo o un tono di voce di disapprovazione erano come un forte schiaffo in faccia. Accadde quando la madre scoprì cosa aveva fatto, e fu un’esperienza umiliante che si ripromise di non ripetere mai più. Maria Rosa lo aveva poi accompagnato dal proprietario per scusarsi, e questi aveva detto che non era assolutamente nulla, e le aveva fatto promettere che non lo avrebbe punito. Tuttavia ora, dopo un primo momento di esitazione, Eugenio aveva deciso di unirsi all’amico nella nuova impresa, anche perché non si trattava di tagliare


un albero, che impiega parecchi anni per crescere. Appena raggiunto Remo quel giorno, gli aveva chiesto: “Che cosa stai facendo?”. Remo aveva già svuotato l’enorme zucca, e ad ogni intaglio del coltello era cresciuta in lui una brillante idea, completa nelle più piccole sfumature ora che il lavoro era quasi giunto a compimento. Stava adesso praticando alla zucca dei fori che dovevano sembrare gli occhi, il naso e la bocca. Si rivolse a Eugenio con la calma dell’artigiano che, intento a modellare un’opera immortale, risponde con sufficienza e senza interesse a un inopportuno visitatore della sua bottega. “Cos’è questa?” chiese con fare indifferente, indicando i fori della zucca. “Stai facendo una maschera”, rispose Eugenio.


“Che cos’è, carnevale?” riprese Remo con tono contegnoso. “Non vedi che i fori formano una croce? Adesso ci mettiamo dentro una candela…”. “Ah”, lo interruppe Eugenio sorridendo, “hai intenzione di portare la zucca in camera tua, la sera accenderai la candela e reciterai il rosario”. Ma Remo non perse la calma. Mentre gli occhi fissavano l’amico, la mente vagava e vedeva immagini di proporzioni epiche. Infine riprese a dire con rinnovato entusiasmo: “Ascolta, ora applichiamo alla bocca dei bei denti di legno. Poi…”. Fu proprio Adelmo a dare l’allarme quella sera, gridando: “C’è una luce, una luce lassù! Guardate!” e con l’indice teso indicava alla vecchia Serafina un punto in alto, lontano nel bosco.


Era già buio pesto quando l’intera popolazione della contrada s’era riunita vicino alla fontana, da dove guardava perplessa la luce misteriosa. Qualcuno traeva già le sue conclusioni personali, dicendo che era certamente una stregoneria, oppure il diavolo in persona, ma nessuno pensava a un incendio, poiché la piccola luce era rimasta tale già da un pezzo, agitandosi appena al leggero vento d’estate, come il luccichio di una grossa stella. Appena ebbe osservato per un po’ lo strano lume, Maria Rosa volse lo sguardo verso Eugenio, intuendo l’arcano negli occhi del figlio che brillavano eccitati, come la luce lassù nel bosco, e mal si intonavano alla serietà forzata del volto. Nel frattempo anche nelle contrade vicine era stato dato l’allarme, e da queste proveniva un sordo vociferare rotto


da distinte, acute grida e dall’abbaiare dei cani. Le contrade si consultavano a vicenda tramite il rappresentante dalle qualità vocali migliori, così che, come il tamburo delle tribù negre d’Africa o il fumo di quelle indiane d’America, i messaggi erano trasmessi in tutta la zona confinante con la contrada Caile. “Lo vedete anche voi il lume lassù? Cosa dite che sia?” si udiva gridare da una contrada. “Non si sa, si dovrebbe andare a vedere!” rispondevano da un’altra. Infine la comunità della contrada Caile decise di sacrificarsi, prese coraggiosamente l’iniziativa e si formò subito una specie di processione spontanea guidata da Gino, un uomo gigantesco e forzuto che teneva un enorme coltello da macellaio nella mano destra. Attorno a lui altri quattro o cinque uomini robusti, e dietro a questo gruppo alcune vec-


chiette con la corona del rosario nelle mani; poi il resto della contrada formato da uomini e donne di tutte le età e dai bambini. Gli animali domestici avevano sentito che qualcosa d’insolito stava accadendo e partecipavano all’evento con grande agitazione. Le vacche muggivano nelle stalle, le pecore e le capre belavano negli ovili, il gallo cantava con sforzo raddoppiato, mentre le galline, percependo l’imminente approccio di un feroce nemico ben conosciuto, erano prese dal panico e chiocciavano e correvano attorno cercando di nascondersi dalle volpi, le quali stavano approfittando dell’inaspettata opportunità per assalire i pollai indifesi, poiché anche i cani si erano uniti alla processione come strumento supplementare contro il misterioso, luccicante alieno.


Le vecchiette recitavano il rosario, mentre anche negli uomini apparentemente impavidi, man mano che il corteo si avvicinava al misterioso lume, cresceva uno strano, incomprensibile tremore. Una vecchietta continuava a dire: “Vedrete se non è una stregoneria. Quando saremo vicini, il lume se ne andrà di scatto più in alto nel bosco”. Nel frattempo, Remo ed Eugenio non riuscivano più a trattenere le risate e cercavano ogni pretesto, raccontandosi delle storielle divertenti, per sfogarsi un poco. Del gruppo dei consapevoli faceva parte anche Caterina, che era stata informata dello scherzo e aveva mantenuto orgogliosamente il segreto. Ma ora in lei, che pur sapeva, cresceva ugualmente una strana angoscia, dettata dall’atmosfera di dramma e di mistero che aleggiava nel corteo.


Salito il ripido, impervio sentiero serpeggiante per il terreno erboso e boschivo, il corteo si fermò a circa cinquanta metri dal lume, restringendosi come una fisarmonica verso il forzuto Gino, il quale esclamò incredulo: “Per Dio, è una croce!”. Remo stava scoppiando dalle risate; con una mano si copriva la bocca, dalla quale non si capiva se uscissero gemiti, singhiozzi, o uno strano, rauco tossicchiare. Quasi tutti si fecero il segno della croce, e nei loro sguardi parlava lo sgomento. Seguendo l’istinto, recitarono una preghiera, ma senza prestare attenzione alle parole sante: fissavano continuamente la croce infuocata. Le vecchiette continuarono a recitare il rosario, ma in tono più elevato, con maggior rapidità e con voci rotte dal terrore.


Il corteo non si mosse più di lì, mentre soltanto Gino, assieme ad alcuni coraggiosi seguaci, si avventurò oltre e, ancora credente nelle possibilità terrene, teneva l’enorme coltello alzato a mezz’aria, pronto a vibrare il colpo cruciale contro lo sconosciuto nemico. L’intrepido gruppo si fermò a pochi passi dal lume. Il braccio di Gino si abbassò violentemente a peso morto, portandosi nella naturale posizione lungo il fianco, e il coltello gli scivolò dalla mano, apertasi con moto involontario, e cadde a terra. “Per Dio, è una zucca!” gridò un po’ sollevato, ancora un po’ sbigottito, e già leggermente furente. A quel punto, Remo rotolò per il pendio dalle risate, e la pancia gli doleva tanto, mentre Eugenio e Caterina cercavano di cogliere le reazioni nei volti del variopinto corteo.


Le vecchiette continuarono a sgranare la corona, ma ora più pacatamente, ringraziando il Signore ad ogni pausa, mentre dalle contrade vicine si udirono le solite acute voci imploranti: “Non abbiamo capito bene: cosa avete trovato?”. “Una zucca, una zucca!” rispose il coro univoco del corteo, composto da bassi, baritoni, tenori, contralti, mezzosoprani, soprani, voci bianche… Il più stravolto fu lo sguardo di Adelmo, il proprietario dell’enorme zucca, il quale si trovava nel gruppo dei seguaci di Gino. I suoi occhi non esprimevano sorriso, sollievo o rabbia, mentre ritornava sui suoi passi verso Remo ed Eugenio, mostravano soltanto un indiavolato furore. Quando Adelmo raggiunse il resto della processione, Remo ed Eugenio stavano già correndo giù per i pendii e


avevano quasi raggiunto la contrada Caile, prendendo tutte le scorciatoie che solo i giovani conoscevano. Correvano così forte e leggeri che gli sembrò che i corpi si staccassero dal suolo. Il corteo si sciolse e la gente tornò a casa in piccoli gruppi. Alcuni assunsero un tono sufficiente, affermando con aria disinvolta, ma con la voce ancora leggermente tremante, che lo sapevano sin dall’inizio, o che lo avevano immaginato, ma che erano stati al gioco per divertimento. Teresina colse invece l’occasione per picchiare nuovamente Marisa. Disse alla figlia che lei era certamente complice di quella pagliacciata, e che doveva vergognarsi d’aver nuovamente ingannato la madre stanca che manteneva la famiglia con il doppio turno di lavoro, che aveva ora percorso inutilmente per colpa sua quei ripidi e faticosi pendii.


Placati gli animi, ne risero tutti senza ritegno. La storia della zucca fu raccontata ripetutamente negli anni, particolarmente nelle stalle durante le lunghe, gelide serate invernali, e arricchita di tanto in tanto con particolari dimenticati. Remo ed Eugenio si dileguarono per un po’, ma stavano già progettando un’altra impresa… Dal capitolo 12: La Mamma dei partigiani …la solidarietà ai giovani dispersi sui monti si sommò alla lotta al nazifascismo e a una rabbia antica, silenziosa, tramandata nei secoli, generata dai soprusi dei potenti sulla gente che languiva nella miseria endemica e aveva sempre chinato il capo; era una voglia di riscatto della dignità umana. Molti non avrebbero saputo esprimere le grandi


idee, quello che sapevano non era scritto nei libri, lo avevano da sempre impresso dentro; la loro filosofia era la vita, s’intendevano senza giri di parole, erano gli intellettuali del silenzio. I vecchi, le donne, i bambini, collaborarono in modi diversi, recapitando messaggi, avvisando dell’arrivo delle pattuglie tedesche e fasciste, e in altre azioni non meno importanti di quelle dei partigiani, i quali senza questo sostegno non avrebbe potuto sopravvivere… …la presenza nazifascista nella zona era rilevante. La posizione della conca, ben nascosta da un recinto naturale di barriere montuose, le prime catene dell’arco alpino dopo la Linea Gotica degli Appennini, e la disponibilità immediata della struttura alberghiera del paese termale, ne facevano un luogo ideale. Inoltre, la zona geografica della quale la


conca faceva parte costituiva un crocevia importante di reti stradali e ferroviarie dell’asse sud-nord che collegavano l’Italia alla Germania e che potevano garantire i rifornimenti e, se necessario, una ritirata veloce. Per questo, vicino al centro del paese, nella struttura delle Fonti Centrali, fu in seguito stabilito il quartier generale delle forze armate tedesche in Italia, comandato dal Feldmaresciallo Generale Albert Kesselring, dal quale coordinava la guerra contro l’avanzata delle forze alleate da sud: l’area, quindi, brulicava di nazisti e fascisti che dovevano garantire la sicurezza di quel luogo strategico. Appena sopra, poco lontano dal comando tedesco, c’era la casa di Maria Rosa, un rifugio sicuro e punto di riferimento per la Resistenza. Le formazioni partigiane continuarono a crescere, per diventare battaglioni, brigate e divi-


sioni. Il Gruppo Garemi (che diventò poi divisione), la Brigata Stella e il Battaglione Romeo scelsero la casa di Maria Rosa come sede per i loro comandi – facevano parte delle formazioni Garibaldi, i cui membri erano conosciuti come Garibaldini; la Garemi operava in una vasta zona, cruciale per la guerra, dal Lago di Garda al Brenta… …in breve tempo Caile si trasformò in protagonista storico e centro culturale. La contrada e i boschi circostanti furono frequentati da partigiani e Alleati dalle origini più svariate. Si udiva un miscuglio di dialetti, lingue, accenti; si notava un amalgama sociale, confronto di esperienze e di condizioni di vita. Si era costituito un microcosmo che sfidava l’immaginazione. In un’epoca dai mezzi di trasporto limitati e dalle possibilità di viaggiare riservate a pochi ricchi, il mondo, quello vero, nascosto ai luoghi


turistici frequentati dagli uomini facoltosi, era venuto a far visita. Caile visse un arricchimento umano autentico determinato dal destino e dalla volontà di aprirsi agli altri. Eppure la contrada pareva un luogo misterioso, incantato, esistente soltanto nella fantasia. Esisteva come entità fisica e amministrativa, ma talvolta i burocrati si dimenticavano che c’era, così che non appariva sempre nei documenti d’identità: ad alcuni abitanti erano erroneamente assegnate residenze di altre contrade della zona. In un certo modo, questa elusiva e remota esistenza rendeva il luogo ricettivo alle novità; allo stesso tempo, la gente del luogo poteva donare all’universo che la stava invadendo la sua saggia filosofia di vita semplice conservata nel tempo, che assegnava maggior valore alle cose umane che a quelle materiali. Era uno scambio in-


consueto, ma la simbiosi tra gli uomini che venivano da fuori e gli abitanti fu istantanea, favorita dalle necessità immediate condivise. I partigiani provenienti da piccoli centri trovarono un ambiente famigliare; gli altri, dalle grandi città, riscoprirono l’armonia dell’uomo con la natura… …il destino aveva messo assieme una combinazione strana di elementi disparati. La casa della Mamma ospitava una collezione assortita di caratteri: credenti, atei, agnostici, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani… medici, proprietari, contadini, operai, letterati, analfabeti… Ma in quel momento storico ognuno era conosciuto per la sua indole naturale, piuttosto che per le sue origini. Le personalità individuali rimasero, ma erano attribuite a ognuno senza pregiudizi. La causa comune, la località remota, i problemi pratici quotidiani, tipici


della vita di guerriglia, tali come essere in grado di mangiare, dormire, trovar rifugio e combattere, facilitarono l’emergenza del lato umano della gente: i problemi erano comuni e dovevano essere risolti qui, ora, insieme. Era una scuola di vita, dove s’imparavano cose che non erano ancora state scritte… Dal capitolo 13: La fune …quella sera Lenia aveva ricevuto da Tarzan una foto e una poesia, e lei aveva composto una canzone che parlava dell’arrivo nemico nella contrada Caile, e della conseguente fuga dei suoi amici partigiani. Non poteva essere stata più profetica. Nelle prime ore della notte il gruppo lasciò la casa e tutti se ne andarono a dormire. Pino e Dante si sistemarono in un fienile che la Mamma aveva preso in


affitto, situato vicino al centro della contrada: una scala a pioli conduceva nel ripostiglio del fieno al primo piano, mentre di sotto la Mamma aveva sistemato un pollaio. Gli altri venti partigiani presero il sentiero che passava accanto alla seconda fontana, attraversava una stretta valle e un grande bosco, per sfociare, a quindici minuti di cammino, davanti a un vecchio fienile in disuso. Là dentro si coricarono: sette al pian terreno, tredici al piano superiore. Pino era stato insolitamente negligente: aveva lasciato la giacca, con documenti importanti nelle tasche, appesa a una sedia, e lo zaino pieno di bombe a mano sotto la tavola. Stava spuntando l’alba, appena qualche ora dopo, quando Dante scese dal fienile per andare alla fontana d’ingresso della contrada a bere un sorso d’acqua. La quiete di quell’ora mattuti-


na, sposata all’aria fresca della notte appena scemata, era un invito alla contemplazione. L’anfiteatro roccioso si vestiva di rosso per annunciare il nuovo giorno al mondo sottostante ancora immerso nell’ombra, mentre le stelle superstiti sussurravano il loro arrivederci con ultimi timidi luccichii. Il silenzio era quasi assoluto, appena rotto dai primi cinguettii degli uccelli dalla vicina foresta. Il senso di novità e di anticipazione, la luce tenue, quasi irreale, il profumo proveniente dai fienili e dai prati, tutto emanava una dolce, impercettibile, quasi mistica atmosfera. Dante stava appoggiando le labbra al filo d’acqua che sgorgava dal becco della fontana, quando scorse i primi fascisti che salivano dal pendio sottostante, ed erano già a ridosso delle prime case. Volò verso il fienile, salì la scala, due pioli alla volta, e


scosse Pino, che era ancora addormentato. “Ci sono i fascisti, scappiamo!” disse piegandosi in avanti, come per sussurrargli in un orecchio, e saltò a terra evitando la tardigrada scala, ma scontrandosi malamente col terreno sassoso e prendendosi una storta al piede… …Pino soffriva ancora le conseguenze della ferita alla spalla. Dovette scendere la scala a pioli, così che da un angolo di una casa vicina spuntò nel frattempo un giovane fascista, solo, armato e più spaventato di lui. Istintivamente Pino gli puntò contro il dito indice, come fosse la canna di una pistola, e gridò: “Dove vai?”… …l’ufficiale uscì nuovamente. Anche Lenia uscì, per recarsi alla stalla a mungere le vacche, e fu seguita da un fascista galante che le offrì il suo aiuto.


“Oh… signorina”, disse con enfasi, “sa mungere le mucche… posso aiutarla?”. “Tenga alzata la coda della vacca”, rispose seccamente Lenia. Era probabilmente nato e cresciuto in città, inconsapevole anche degli aspetti più elementari della vita contadina, perché eseguì immediatamente le istruzioni alla lettera, ma usando una foglia secca che raccolse da terra, per non sporcarsi la mano. Stava lì ritto, con aria compiaciuta e deferente, con il braccio sospeso a mezz’aria tenendo la coda alzata per la punta, mentre da sotto usciva e cadeva una sostanza color cioccolata che gli fece arricciare il naso e girar la testa verso l’ingresso della stalla con un’espressione di disgusto. Non mollò la presa però, e aveva ancora un’aria strana di contegno, quando apparve sulla soglia un collega.


“Ma che diavolo stai facendo? Sei uscito di senno?” chiese sbalordito. “Sto aiutando la signorina”, rispose l’altro sicuro, ancora ignaro. Il nuovo entrato guardò Lenia che sorrideva divertita, e poi disse: “Ma non vedi che ti sta prendendo in giro”… …nella tarda mattinata una staffetta giunse alla casa della Mamma recando un messaggio. Proveniva da un informatore e faceva sapere che i sette partigiani, accompagnati da una piccola scorta, sarebbero stati trasferiti nel pomeriggio alla città capoluogo di provincia. Nel poco tempo disponibile riuscirono a radunarsi soltanto in nove, e decisero di tentare la liberazione dei compagni. Studiarono un piano d’azione: si sarebbero appostati qualche chilometro a valle del paese, lungo la strada provinciale, vicino a una frazione dove l’auto-


mezzo avrebbe dovuto per forza rallentare. Del gruppo facevano parte, tra gli altri: Dante, comandante del Battaglione Stella, Disma, figlio della Mamma, Tarzan, il torinese dal berretto rosso, e Munaro, un uomo enorme e muscoloso… …i nove si appostarono dunque lungo la strada provinciale, in attesa del veicolo militare. Nel momento cruciale un partigiano sparò una raffica di mitra davanti all’automezzo, che si bloccò davanti a una taverna. L’autista e la scorta vi entrarono velocemente, trascinandosi dietro i prigionieri. Presi di sorpresa, spinti dal timore e dalla fretta, i fascisti non fecero in tempo a valutare l’entità della formazione partigiana. Nel frattempo giunse il treno diretto al paese, e questo fu un inconveniente imprevisto. Non potevano permettere che qualcuno arrivasse al centro e desse


l’allarme. Tarzan sparò in aria una raffica di mitra piazzandosi in mezzo ai binari… …il mattino seguente Lenia non andò a lavorare, e nemmeno le amiche Bruna e Karemis; era troppo rischioso, preferirono attendere le eventuali reazioni dei fascisti. Non accadde nulla, così Lenia tornò alla routine giornaliera del lavoro in fabbrica. Ma non fu ancora soddisfatta. Il secondo giorno dopo la liberazione dei sette partigiani, si recò in paese ed entrò decisa nella casa del fascio per riprendersi la fune. Stava tranquillamente salendo le scale quando, a metà strada, incrociò una figura conosciuta: era il comandante che aveva guidato l’azione della cattura e che lei aveva tanto bistrattato due giorni prima. “Ecco”, pensò, “mi sta bene. Ho voluto sfidare la fortuna”; ed ebbe paura.


“Buongiorno signorina”, disse l’ufficiale con fare mellifluo. “Sarà contenta che i suoi amici partigiani siano riusciti a fuggire.”… Dal capitolo 14: I buchi …le tre ragazze, Lenia, Bruna e Karemis, continuarono a spostarsi da un luogo all’altro, finché un giorno giunsero da Paolo, il padre di un loro amico partigiano. Entrarono in contrada lungo il sentiero che la tagliava verticalmente in due parti. Era una continua prova d’equilibrio, poiché il sentiero nevoso, riformato dalle impronte di alcuni passaggi, si presentava così stretto che a ogni passo il tacco del piede che avanzava doveva poggiare vicino alla punta di quello di sostegno. A ogni sbandamento le ragazze dovevano reagire prontamente per non perdere l’equili-


brio e cadere o sprofondare nell’abbondante manto nevoso. Avevano fatto pochi passi in contrada, quando videro due soldati tedeschi fermi davanti alla casa di Paolo. Si gettarono a capofitto in un portico. Lenia inciampò in qualcosa, cadde dentro una carriola e, come le amiche, rimase immobile, cercando di sopportare il dolore al ginocchio prodotto dall’impatto con un manico dell’attrezzo, nel quale giaceva ora con le gambe all’aria. Il dolore era mitigato dalla mente, completamente occupata a evitare la cattura. Come dicevano da quelle parti: ‘Male scaccia male’. Subito dopo udirono i passi di qualcuno scricchiolare sulla neve pressata del sentiero. Il rumore, inizialmente grave, appena percettibile, si faceva sempre più acuto, mentre i cuori delle ragazze battevano forte, aumentando il ritmo


con l’approssimarsi dei passi. Nello sforzo d’evitare ogni movimento, inconsciamente trattenevano il respiro e si sentivano in debito d’ossigeno. Infine videro passare i due soldati tedeschi, immersi in una concitata e incomprensibile discussione nella loro lingua. Dopo alcuni minuti uscirono guardinghe dal portico e ripresero il cammino. Quando Paolo le vide si mise le mani nei capelli e sussurrò, guardandosi attorno come se fosse circondato da spie: “Ragazze… ragazze, i tedeschi se ne sono appena andati”. “Li abbiamo visti”, disse una di loro, “ma vogliamo dormire nel buco del fienile questa notte”. “Non se ne parla nemmeno”, rispose Paolo, “quei due tedeschi hanno requisito le mie camere per stabilire un presidio. Verranno su in molti questa sera, e dormiranno qui questa notte”.


Era tardi, faceva freddo e non sapevano dove andare. Così le ragazze insistettero tanto che Paolo s’impietosì e accettò di ospitarle, ma soltanto per quella notte. Il buco era ricavato nella catasta del fieno, e da questo ben mimetizzato. Paolo le accompagnò al rifugio, che aveva l’ingresso sul retro della casa, e prima di lasciarle fece loro alcune raccomandazioni. “Qui sotto c’è il portico della stalla”, disse, “questa notte i tedeschi monteranno sicuramente di guardia, proprio lì davanti; non dovete fare il minimo rumore”. Avrebbero potuto russare, tossire, sbadigliare, agitarsi, parlare nel sonno. Così decisero di fare i turni di guardia, in modo da bloccare le compagne rumorose, se fosse stato necessario. Le ragazze udirono tutta la notte i passi delle sentinelle tedesche che entravano


e uscivano dal portico sottostante, pestando i piedi per riscaldarsi e per liberare gli scarponi dalla neve. L’inverno era stato rigido, i rifugi erano pochi e sparsi, cosÏ da richiedere lunghi percorsi per raggiungerli. Il piÚ delle volte erano semplici buchi sotterranei senza sorgenti di calore, e dovevano dormire per terra. Eppure non s’erano mai ammalate, non avevano nemmeno preso un raffreddore. Ma il divieto talvolta produce desideri irresistibili. CosÏ quella notte avevano voglia di tossire, di starnutire, sentivano un incredibile desiderio di muoversi, avevano un prurito tremendo in tutto il corpo. Fu una notte agitata e insonne. Il mattino seguente erano stanche, come se non si fossero mai coricate. Almeno avevano avuto un tetto sopra la testa e avevano passato la notte al caldo, prodotto dal


calore dei loro corpi, protetto dallo strato isolante del fieno. Eugenio, il figlio minore di Paolo, non poteva resistere all’attrazione di tre belle ragazze che dormivano a pochi passi dalla sua camera. Nel suo letto caldo e confortevole continuò a girarsi e rigirarsi da un fianco all’altro e, per ragioni piuttosto diverse, passò anche lui una notte agitata e insonne. Si alzò di buon mattino, preparò la colazione per tre e la portò alle ragazze, di nascosto dal padre, che gli aveva proibito di recarsi lassù per paura che i soldati tedeschi lo scoprissero. Ma, mentre stava per uscire dal buco con le scodelle vuote nelle mani, vide il padre salire con il vaso da notte e un’altra colazione. Eugenio si ritrasse, si nascose dietro le ragazze e bisbigliò che stessero zitte. Ora dalla soglia del buco apparve la mano di Paolo con il vaso da notte: “Tenete ra-


gazze”, disse, “fate i vostri bisogni e poi ripassatemi il vaso; ho anche la colazione calda qui”. Eugenio fece cenno alle ragazze di accomodarsi, e girò la testa per permettere un po’ di riserbo. Le ragazze si accomodarono, poi fecero di nuovo colazione. Paolo rientrò in casa, evitando le sentinelle che si allontanavano dal portico a intervalli regolari. Si recò a vuotare il vaso, portò i recipienti vuoti della colazione in cucina e li lavò, prima che i soldati tedeschi si svegliassero. Anche Eugenio rientrò. Oltre ad evitare le sentinelle tedesche, dovette muoversi furtivamente per evitare il padre e mettersi a letto per fingere il risveglio. Verso mezzogiorno il servizio di sentinella fu momentaneamente sospeso, e tutti i soldati tedeschi stavano pranzando in cucina. Quello era il momento


buono. Paolo finse di recarsi nella stalla, ma salì invece dalle ragazze. “Presto”, disse, “i tedeschi sono tutti in casa. Fate attenzione però, perché qualcuno potrebbe sempre uscire”. Decisero di andarsene una alla volta, a intervalli sufficientemente lunghi per evitare, nel peggiore dei casi, la cattura di tutto il gruppo: si sarebbero riunite fuori della contrada. Karemis non voleva essere la prima, così Bruna prese l’iniziativa: sgattaiolò fuori, percorse il sentiero principale, un po’ allargato da numerosi passaggi, e girò poi a sinistra, quasi alla fine della contrada, prendendo un viottolo laterale che conduceva a un campo di viti. Ora Karemis fu presa dal panico: non voleva rimanere ultima, ma se fosse uscita dopo Bruna sarebbe stata nuovamente la prima, e anche di questo aveva paura. Lenia cercò di calmarla. Infine


non c’era più tempo da perdere e decise di andare, sperando che l’amica, costretta dall’inevitabile bisogno di fuggire, si facesse coraggio da sola. Ma Karemis non attese l’intervallo concordato, seguì invece l’amica da vicino. Lenia s’era avvolta alla vita una coperta prestatale da una famiglia durante il suo pellegrinaggio di fuggiasca, e sopra si era infilata il paltò. Sembrava una donna incinta, perché la coperta aveva formato una grossa pancia sul corpo minuto. Le due ragazze voltarono l’angolo del fienile e presero il sentiero che avevano percorso la sera prima. Passarono dinanzi al portico calpestato dalle sentinelle durante la notte, poi davanti al portico della famosa carriola e, mentre stavano già ringraziando il Signore per la buona sorte, due soldati tedeschi apparvero all’orizzonte; l’elmetto calato sugli occhi, camminavano verso di loro.


I due provenivano dal centro del paese, diretti al presidio, ed erano ormai a una ventina di metri. La preoccupazione di Lenia era accresciuta dal timore che Karemis, angosciata com’era, potesse tradirsi. “Calma”, disse Lenia, “facciamo finta di niente”. Delle due, Karemis sembrava la figlia, perché con quella coperta sformante sotto il paltò Lenia invecchiava parecchio, e perché l’amica le aveva afferrato la manica e si era stretta a lei appoggiandosi e camminando a braccetto. I due soldati fissarono Lenia, poi la sua pancia voluminosa, sorrisero, uscirono nella neve fresca per farle strada e fecero infine un inchino teatrale seguito da alcune parole che dovevano costituire una frase di cortesia, della quale si capiva soltanto la parte finale: “Piano… piano…”. Questo invito era pronuncia-


to con tono sarcastico di premura, ed era coadiuvato da ampi gesti cerimoniosi delle mani, mentre il sorriso falsamente compassionevole continuava a dimorare nei loro volti. Poi, una volta passate le ragazze, ripresero a camminare verso il presidio, confabulando e ridendo apertamente, abbandonando ogni educato ritegno. Intanto Bruna, ferma in piedi nel luogo dell’appuntamento, cominciava a preoccuparsi: non sapeva se doveva fuggire o attendere ancora un po’. Era trascorso troppo tempo, l’intervallo stabilito era passato da un pezzo, soprattutto a causa dell’incertezza di Karemis nel buco, ma anche per la lentezza del cammino delle ragazze, che dovevano mostrare ai soldati tedeschi una parvenza di normalità . Bruna stava temendo il peggio.


Quando infine vide le amiche comparire all’inizio del viottolo, fu sorpresa dal loro comportamento. Lenia e Karemis camminavano ricurve tenendosi il ventre con una mano: sembrava vomitassero. Il male al ventre era reale, ma dovuto a causa benigna: era un binomio eccellente di gioia e dolore, erano risate a crepapelle.


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