Internos novembre 2013 (n° 36)

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ore 12:30

Castello di Leguigno - Casina

Pranzo di chiusura dell’anno escursionistico

anno XVI - numero II (pubb. n° 36)

novembre 2013

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Domenica 17 novembre 2013

Per prenotazioni è possibile rivolgersi a:

Elio Pelli 340.7273977 Guido Chierici 393.9982799

Supplemento a “Paese Nostro” - Periodico bimestrale dell’Amministrazione comunale di Cavriago Direttore responsabile Giuseppe Guidetti - AUT. TRIB. REGGIO EMILIA N. 288 DEL 16/10/1970

Periodico di cultura e curiosità sull’ambiente montano della Sottosezione CAI “Cani Sciolti” di Cavriago ( E)

Cani

Sciolti

2.0

Da oggi faccio strada io Simone Farini

Oriana Torelli

“E gli anni passano, i bimbi crescono, le mamme imbiancano...”

E’

questa la melodia con cui sono stati cullati tanti fondatori e frequentatori dei Cani Sciolti all’inizio della loro avventura. Oggi sono d’argento gli anni dei Cani Sciolti come i capelli di molti che continuano a ritrovarsi, a frequentare la sede e le montagne ed ad incuriosirsi su tutto ciò che ruota attorno al mondo della montagna. Nel corso di questo anno escursionistico ormai agli sgoccioli si sono avvertiti positivi segnali di rinnovamento, sono entrate energie nuove che fanno sperare in un proficuo passaggio del testimone. continua a pag. 2 >

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C to nel tes i t i r e s in Web a i siti e visit sti propo

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Il brigante Amorotto Elio Pelli

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Esco di casa e vado... Federico Farini

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Qui Cani Sciolti - Notizie dalla Sottosezione

Internos Il “Gran Pino” di Cavriago Pubblicazione n° 36 Novembre 2013 Dalla carta al Web: leggendo il QR Code a fianco con un dispositivo mobile connesso ad Internet, si può sfogliare Internos online

Redazione a cura di Oriana Torelli tel. 0522.363814 torelli.oriana@gmail.com Internos è nato nel 1998 da un’idea di Paolo Bedogni Sottosezione CAI “Cani Sciolti” via Roma, 14 - Cavriago (RE) www.caicavriago.altervista.org

> segue dalla prima pagina Nel secondo week-end di luglio Aida e Lalla hanno accompagnato un gruppo in Val d’Uina, facendosi apprezzare per la puntualità dell’organizzazione, per la scelta della struttura di appoggio, per la padronanza dimostrata nella conduzione dell’escursione. A settembre Federico e Simone ci hanno accompagnati in Brenta, sul Sentiero delle Bocchette Centrali. Seri, precisi, bravissimi. Federico ha gestito con il necessario sanguefreddo ed in modo corretto un’emergenza; Simone è stato pazientemente a fianco degli ultimi, quando una pioggia insidiosa ha reso meno sicuro il sentiero ed i tempi di percorrenza si sono allungati. I maliziosi farebbero notare come la presenza di autorevoli esponenti del CAI abbia influito sulla condotta dei capigita. Noi non lo siamo e i fatti ci daranno ragione. Il martedì in sede, c’è un gran via vai di gente: tra una torta, una fetta di salame e un trancio di pizza (innaffiato da buon vino), si socializzano scatti fotografici e si rivivono le emozioni delle giornate insieme. C’è speranza. Come direbbe il nostro Toni: «La tradizione continua!».

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el “Gran Pino” di Cavriago ho già scritto nel 2001 su “Internos”: torno sull’argomento a seguito di una conversazione con la Guardia Ecologica Volontaria (e socio CAI di Scandiano) Carlo Tognazzi. Da lui ho saputo del censimento decennale degli alberi monumentali curato dagli stessi Volontari: il nostro Pino è stato “affidato” a lui ed alla collega Carmen Torsiello. Innanzitutto, una precisazione “anagrafica”: i cavriaghesi lo chiamano affettuosamente (ma erroneamente) “Gran Pino”; in realtà, si tratta (come riportato dall’apposita targhetta) di un esemplare di ”Cedrus Atlantica”, albero di prima grandezza, originario della catena dell’Atlante (Marocco).

Dotato di foglie lunghe 2 centimetri, appiattite e arcuate di colore verdeglauco, presenta strobili ovoidi di 5-6 centimetri e spesso ombelicati. Introdotto in Italia per la prima volta nel 1842, lo troviamo spesso come ornamento in giardini di ville di fine Ottocento. Il mio rilievo del 2001 a 1,3 metri da terra, dava una circonferenza del fusto di 5,11 metri; misurazioni più accurate (dati GEV) registrano oggi una misura di 5,38 metri, un’altezza superiore ai 24 metri e, soprattutto, una buona condizione di salute. Auguriamo quindi al nostro Pino ancora tanti anni di buon respiro! Paolo Bedogni

Tre generazioni di Cani Sciolti insieme, alle prese con la m

Da oggi la strada la fa Sim

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n sabato di agosto sono andato con il CAI di Cavriago a sistemare i sentieri per il Monte Ravino ed il Vallestrina. Il viaggio è stato bello, perché io e Mario Soncini abbiamo parlato di argomenti per me interessanti: corsa, ciclismo e montagna. Arrivati a Civago, ci siamo distribuiti il materiale: pali, frecce e la trivella, che ho portato io. Poco dopo la partenza, abbiamo affrontato una salita faticosa alla fine della quale siamo tutti “scoppiati”. Ripreso il fiato ed arrivati sul Ravino, abbiamo piantato il primo palo con qualche difficoltà, ma un’idea di Paolo Bedogni ha risolto tutto. Dopo un’altra ora di cammino siamo giunti in cima al Monte Vallestrina, dove io volevo arrivare per primo, ma non ci sono riuscito. La discesa verso il Rifugio Battisti è stata molto tranquilla, anche se Soncio ad ogni palo ci ha fatto sostituire una freccia.

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Al Rifugio ci siamo riposati ed abbiamo mangiato. Sul sentiero del ritorno mi sono molto divertito, perché il Bedo ha proposto di fare la gara per arrivare alla macchina; così abbiamo impiegato pochissimo tempo. E’ stata una bellissima esperienza anche se ero il più piccolo, il più coccolato, ma anche il più allenato. Con i Cani Sciolti c’è sempre da imparare. (ndr, il Bedo le gare le propone sempre e solo in discesa...) Simone Farini


I “Mille”

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Contessa leggendaria Paolo Bedogni - Fausto Bertani

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e copiose nevicate dell’ultima primavera hanno reso quasi fiabesco il paesaggio del nostro Appennino: le faticose marce sulla neve sono state così alleggerite dalle nostre suggestioni fantastiche, mentre da loro avvolti ci muovevamo in scenari immaginifici.

foto Claudio Castagnetti

manutenzione dei sentieri

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La neve era ancora fresca al Rifugio Zamboni, quando abbiamo deciso di rivolgere la nostra attenzione alla Contessa, montagna famosa soprattutto per le sue leggende. Si narra di un castello distrutto che sorgeva sulla sua cima, immagine forse suggerita dall’aspetto simile a rovine degli strati di arenaria spaccati da migliaia di rigidi inverni. Il castello era abitato da una contessa guerriera e crudele, ai cui dissidi con il Papa doveva essere messa fine dall’intercessione di un frate. Questi, al ritorno dalla missione a Roma, trovò però solo rovine fumanti: i feroci briganti che infestavano la zona avevano sterminato i castellani e distrutto il maniero con la polvere esplosiva, furiosi per non avervi trovato un misterioso tesoro. Una leggenda che, nata in età matildica (secolo XI), ha più tardi incorporato elementi di folclore e di cronaca, come i rimandi alle vicende del bandito Amorotto (secolo XVI), lasciando ai posteri speranze donchisciottesche di ritrovare il tesoro. Fermandoci sulla Provinciale dopo il ponte della Governara, con tutto il massiccio del Cusna di fronte, ecco spuntare le due cime minori, ben evidenti sul limitare del bosco: Contessa e Mongiardonda. La prima cima si erge fra i sentieri storici del CAI 617 e 619, che conducono entrambi al Cusna: quindi, imboccato il 617, superiamo la passerella sul Rio Grande e arriviamo al pilone della linea ad alta tensione.

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foto Paolo Picciati (it.wikipedia.org) Dopo circa cento metri a sinistra, in prossimità di un faggio secolare, abbandoniamo il sentiero CAI e percorriamo una traccia ben segnata dal passaggio degli animali autoctoni. Molto panoramica, la via rimane in cresta fra il vallone della Borra a sinistra e la valle del Rio Bibbi a destra; bisogna sempre seguire il crinale e dirigersi poi verso le tre cime formate da brecciolino di arenaria. Dalla vetta le possibilità sono molteplici: si può semplicemente scendere sul sentiero 617 e ritornare con percorso ad anello; oppure proseguire in cresta e raggiungere il punto di congiunzione dei sentieri 617 e 619, con la possibilità di ascendere al Cusna da un percorso più diretto. Altra divagazione porta a visitare la Valle dei Bibbi, un luogo fantastico, isolato, nascosto e molto interessante per appassionati di botanica e raccoglitori di funghi. Lanciato un sasso nella peschiera, ecco formarsi i cerchi nell’acqua: così anche noi auspichiamo che questi spunti narrativi (l’Amorotto, la Valle dei Bibbi, la Contessa) suscitino la voglia di raccontare, soprattutto nei giovani e non sempre e solo in noi pensionati (che se anche ci definiamo “diversamente giovani”, abbiamo pur sempre la mente vecchia...). (ndr, il sasso ha generato un vero maremoto nelle pagine seguenti...)


Montagna e storia/1

Il brigante Amorotto detto “Bretta” Elio Pelli

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hi pensava che i simpatici personaggi “Bretta” e “Brega Buiuda” fossero solo il frutto della mente fantasiosa di Paolo Bedogni si dovrà ricredere. Bretta è esistito veramente, anzi sono esistiti due Bretta, uno a Parma e uno a Reggio. Di Brega Buiuda invece non si trovano tracce: forse era il soprannome del fratello di Bretta, ma non è passato alla storia...

Famigerato per audacia e crudeltà, era però apprezzato dai montanari cui non torse mai un capello; anzi, se poteva li aiutava, assicurandosi in questo modo la possibilità di un rifugio sicuro ovunque si nascondesse. Tranne una volta, quando un suo sgherro tentò di tradirlo. Il fatto andò così. Nelle sue varie alleanze e tradimenti immediati, l’Amorotto si era inimicato Bartolomeo da Valestra, amico di Girolamo Bebbi. Questi decise di vendicarsi di uno sgarbo e organizzò una trappola per uccidere Domenico: convinse uno dei suoi uomini a tradirlo, facendosi da lui indicare dove l’Amorotto andava a dormire; poi, con una decina di armati, circondò la casa e le appiccò il fuoco. Il nostro “Bretta” preferiva dormire da solo e in case isolate, con un occhio ed un orecchio sempre vigili: non si fidava troppo, visti i tanti nemici che aveva. La notte dell’agguato, sentiti rumori sospetti, sgattaiolò fuori casa nascondendosi nel bosco e si salvò.

Ci occuperemo qui del Bretta reggiano, meglio conosciuto come Amorotto, il cui vero nome era Domenico de’ Bretti (da cui “Bretta”). Figlio di un oste di Carpineti detto ”al Morot” (soprannome che lo stesso Domenico adottò), aveva due fratelli Alessandro e Vitale: il primo divenne notaio, mentre Vitale si diede come Domenico al brigantaggio. Il giovane “Bretta”, cresciuto tra i tavolacci dell’osteria di suo padre fra ubriachi e gente di malaffare, aveva la vita segnata, anche se - caso raro a quei tempi - sapeva leggere e scrivere ed era colto, affabile e gentile. Ma così com’era generoso con gli amici, era altrettanto spietato e crudele con i nemici: infatti il suo primo omicidio lo commise ancora adolescente, accoltellando un uomo nella piazza del mercato a Carpineti. Domenico dovette quindi fuggire nei boschi: in pochi anni divenne un sicario al soldo dei vari signorotti che non volevano sporcarsi le mani per eliminare chi dava loro fastidio, macchiandosi di innumerevoli altri delitti. Si stancò presto, però, di questa vita: pensò allora di mettersi in proprio. Per diventare più autorevole e temuto, radunò sotto il suo comando una banda di tagliagole tra i più feroci in circolazione e prese a battere le contrade di montagna derubando mercanti e viandanti che avevano la disavventura di incontrarlo.

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Ma la cosa non finì lì: il giorno dopo radunò i suoi uomini, raccontando dello scampato pericolo. Dichiarò di sospettare che tra loro ci fosse un traditore e tentò di scovarlo fissandoli dritto negli occhi uno a uno. Individuato in uno di loro uno sguardo sfuggente, lo apostrofò: «Sei tu la spia, me lo ha fatto sapere il Bebbi. Confessa e ti salverò la vita!». Aveva fatto centro, era proprio lui. Vistosi perduto, lo spione confessò in lacrime. L’Amorotto decise allora di usare la spia rea confessa per vendicarsi dei suoi assalitori: la inviò quindi da Girolamo Bebbi con lo scopo di attirarlo in un tranello presso un casolare di Carpineti.

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Le prebende per l’Amorotto furono poi confermate da Papa Leone X ed al nostro “Bretta” non parve vero di poter continuare le sue scorrerie con la benedizione papale: gli ordini erano di derubare e saccheggiare i possedimenti ghibellini ed estensi; tuttavia, l’Amorotto amava indulgere nelle sue malefatte e queste “deviazioni” lo portarono a scontrarsi con il governatore del Papa a Reggio, il celebre Guicciardini. Questi gli diede una caccia spietata, cercando di fare terra bruciata intorno a lui, ma la protezione del Papa fu più forte e “Bretta” rimase un intoccabile.

Civago, la Torre dell’Amorotto (foto Carlo Baja Guarienti)

Le cose cambiarono alla morte di Papa Leone X (1521): il successore, Papa Adriano VI, pur eletto come neutrale tra i cardinali filofrancesi e filoimperiali in quanto precettore di Carlo V, era ben visto anche dalla fazione ghibellina; il Guicciardini, finalmente con le mani libere, si affrettò a mettere una taglia di 200 ducati d’oro sulla testa dell’Amorotto e la cancellazione di tutti i reati a chi l’avesse ucciso. Qualche residua protezione cardinalizia e soprattutto l’aura di terrore che circondava il brigante, unita alla gratitudine dei montanari, gli permisero di spadroneggiare ancora per l’Appennino, in barba alle truppe papali. Reggio finì poi sotto il comando militare di Alberto Pio da Carpi, che pensò bene di affidare il controllo della montagna proprio all’Amorotto. Domenico non perse tempo a regolare i conti con i propri nemici: prima incendiò Albinea uccidendo il Bongiovanni; poi si volse contro Cato da Castagneto, capo della fazione estense della montagna, uccidendo anche lui e tutta la famiglia nel castello di Fanano. Sfuggita di mano alla signoria cittadina, la faida montanara scoppiò ed inondò di sangue le valli: si giunse, il 5 luglio 1523, alla battaglia di Riva nel Frignano: si scontrarono le soldataglie di Virgilio, zio di Cato, con le bande dell’Amorotto e la lotta fu feroce. Virgilio fu ucciso dal genero di Domenico.

Gli uomini di Bebbi, nuovamente pronti all’agguato, furono però circondati da sessanta briganti fedeli a Domenico che incendiò la casa: Bebbi e i suoi uomini, costretti a uscire, furono trafitti dalle spade. Il traditore pensò di averla fatta franca, ma l’Amorotto lo prese per il bavero e infilzandolo con un pugnale disse: «Tu non devi sopravvivere a costoro che hai tradito!». Uno dei rifugi preferiti era la Rocca del Predario, ora chiamata Torre dell’Amorotto. Quel che rimane, dopo il terremoto del 1920, è visibile poco prima di Civago. Questa rocca faceva parte del Castello delle Scalelle, fondato nel 1250 circa dalla famiglia dei Dallo, forse sui ruderi di un avamposto longobardo o bizantino. Un aneddoto racconta che un giorno due guardie sorpresero l’Amorotto solo nella Torre: vistosi spacciato, finse di chiamare rinforzi, facendo capire di non essere solo; le guardie, temendo di essere circondate, se la dettero a gambe levate tra le risate di Domenico... Secondo una leggenda montanara, l’Amorotto nascose un tesoro nei pressi della Torre: ma solo chi fosse riuscito a menare una mucca per la coda fino alla Rocca avrebbe trovato il tesoro... Come a dire che solo i citrulli potevano credere a una simile panzana.

L’Amorotto perse 150 uomini della sua banda e fu egli stesso ferito gravemente alla gola dal prete Giovanni, zio di Virgilio. Mentre cercava di arrivare al Castello di Carpineti, Domenico si imbatté in due dei suoi più acerrimi nemici, Tebaldo Sessi ed Antonio Pacchioni. Non ebbe scampo: uno lo trafisse con la lancia e l’altro gli tagliò testa e mano, portando poi questi trofei a Spilamberto mentre la gente cantava: “Allegramente su! / Più alcun non piagna / Ch’egli è potato il Morro e la Castagna” (indicando con “Morro” l’Amorotto e con “Castagna” Virgilio da Castagneto).

L’Amorotto, per coprire le proprie malefatte, si buttò anche in politica, offrendo i propri servigi alla fazione guelfa e persino allo stesso Papa Giulio II, il quale lo ripagò con alcuni privilegi: la riscossione delle gabelle ed il Castello delle Carpinete. Il “Papa guerriero”, in continua lotta con gli Estensi, dopo la scomunica del 1510, gradiva mettere una spina nel fianco al Duca di Modena e Reggio Alfonso I d’Este proprio nelle sue terre.

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Amorotto/”Bretta” è ancora oggi un personaggio ben presente nella cultura popolare: “A n’ha fàt pes che Brèta!” è una locuzione con cui si indica infatti un criminale particolarmente efferato ed incallito. Note bibliografiche: Andrea Balletti, Storia di Reggio nell’Emilia (1925) Alessandro Gaspari, La torre dell’Amorotto

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Montagna e storia/2 - Sul Sentiero dei Fiori

Guerra bianca in Adamello Piero Sassi

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Bambini-soldato nelle file austriache

ra i cultori della montagna, è noto che l’imponente gruppo dell’Adamello è stato teatro dei più alti combattimenti in quota nel corso della guerra contro l’Austria-Ungheria. Una battaglia ininterrotta per oltre tre anni, condotta in estate ed in inverno in un ambiente estremo (con picchi di temperatura compresi fra i -25° e i +30°: facile intuire quanto ne conseguiva in termini di disagi e sofferenze), senza peraltro portare significativi cambiamenti nell’andamento strategico della guerra.

Su tutti i fronti di media e alta montagna i cani sono stati usati in larga misura per trainare slittoni carichi di materiali di ogni tipo per le truppe avanzate.

Questo non impediva che gli scontri ravvicinati fossero feroci, spesso fino al reciproco annientamento: non si sparava più perché non c’era più nessuno, tranne pochi superstiti che si accordavano per il recupero dei rispettivi morti e feriti prima dell’arrivo dei nuovi rincalzi. Si tratta di episodi tutt’altro che infrequenti fra i nostri Alpini e i Kaiserjäger tirolesi, affiancati da altre truppe etniche del variegato Impero austro-ungarico: gruppi isolati, a stretto contatto con il nemico, soldati lontani dalle gerarchie che andassero oltre il tenente o il capitano di compagnia. Così, in situazioni particolarmente disperate, al rigorismo militare si sostituiva un ragionato buonsenso teso ad evitare inutili spargimenti di sangue.

Gli animali arrivavano in quota ghiacciaio con la teleferica e venivano poi condotti ai canili

Anche i muli giungevano in teleferica fino alle quote di ghiacciaio o di valico attrezzato. Poi i muli scesi dalla teleferica venivano condotti alle stalle sul ghiacciaio.

Gran parte dell’Adamello era disseminato di baraccamenti grandi e piccoli. Tutti i principali colli, valichi, dossi e cime erano costantemente presidiati, anche durante gli inverni decisamente rigidi di queste zone, quando la neve copriva i pali delle piccole teleferiche di servizio ai rifornimenti: grandissime erano quindi le difficoltà dei genieri e degli addetti alla logistica a mantenere efficienti ed assistiti i reparti in prima linea. Le opere di difesa predisposte dagli Jäger nei primi giorni di guerra resero tutto il settore assolutamente imprendibile (pur con alterne vicende) fino al crollo militare nel 1918. Gli austriaci trassero vantaggio anche dalla miopia dei nostri strateghi: le cronache del tempo e i rapporti stilati evidenziano lo stupore e la totale incredulità degli alti comandi imperiali di fronte a strategie avulse da ogni logica.

Da qui servivano per gli approvvigionamenti e rifornimenti in prima linea

La storiografia concorda sulla grande importanza di questi territori, relativamente all’importante arteria di comunicazione con Tonale e Stelvio, per gli scambi socio-economici fra Camuni, Triumplini e Stoeni delle Giudicarie. Da qui nei secoli transitarono i Romani, Carlo Magno, il Barbarossa, gli Asburgo e Napoleone. Dal secolare dominio di Venezia, si passò all’Austria, financo alla Baviera (con la sollevazione dei sudtirolesi di Andreas Hofer), un breve periodo sotto il Regno napoleonico d’Italia, poi dal 1814 ancora agli Asburgo fino alla Grande Guerra.

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Baracche italiane arroccate in prima linea sulla cresta del Castellaccio (Trento) Tipico esempio di postazione avanzata con le baracche e i camminamenti letteralmente incollati alla parete

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A piedi da Barco al “tetto” del nostro Appennino

Esco di casa e vado sul Cusna! testo e foto di Federico Farini

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uando mi hanno chiesto di raccontare la mia “pirlata”, come la definisco, ho detto che non avevo scalato l’Everest. Risposta: «La tua idea è più originale, ormai sull’Everest ci vanno tutti...».

La paura di non farcela si è subito trasformata in una grande carica che mi ha fatto arrivare a Trinità alle prime luci del giorno. Con un’alba stupenda mi sono diretto verso Gombio, in una vallata sconosciuta ai più, ma bellissima.

Il pensiero di uscire di casa da Barco per andare a piedi sul Cusna, la cima più alta e rappresentativa del nostro Appennino, da qualche anno mi girava per la testa, ma ogni volta non mi sentivo pronto.

Sempre di corsa ho raggiunto Felina, poi una lunga (e tanto sospirata) discesa fino a Gatta. Da lì solo salita, salita e salita.

Quest’anno mi sono buttato. Partito da Barco alle 3 di mattina in direzione Ciano, ho notato che correre di notte con i paesi addormentati ha un fascino particolare. Passati paesi con nomi poco familiari come Carniana, Meruzzo, Razzolo, Minozzo, Montefelecchio e scoperti posti meravigliosi, dopo 50 chilometri sono finalmente arrivato a Valbucciana: lì mi aspettava mio fratello, proprio all’inizio del “nostro” sentiero 623, che mi avrebbe portato al “traguardo” scavalcando i monti gemelli Prampa e Cisa.

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Con la croce del Cusna nel mirino, ho fatto l’ultima salita quasi di corsa. In cima un urlo liberatorio mi ha fatto dimenticare tutte le salite che ho corso per allenarmi. Con l’immancabile bottiglia di vino (come da manuale dei Cani Sciolti) ho brindato alla mia “pirlata”. Gli sforzi si sono poi conclusi a metà pomeriggio al Rifugio Battisti, dopo 75 chilometri e circa 3.200 metri di dislivello positivo, dove una meravigliosa cena medioevale mi ha fatto riprendere le 4mila calorie perse. Un piccolo effetto collaterale questa “passeggiata” l’ha provocato: ogni volta che dico “Esco di casa”, qualcuno mi ricorda di non andare troppo lontano...


Sottosez ione CAI “Cani Sc iolti” - C con il pa avriago trocinio del Com une di Cavria

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SILVIO “G N MONDIN ARO” ELLI ì d e t r a M bre 3 dice:0m0 ore 21

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